Recensione dello spettacolo IL GRANDE INGANNO – LA CENA DI VERMEER – di Maria Letizia Compatangelo – regia di Felice Della Corte

TEATRO MARCONI, dal 7 al 17 Marzo 2024

Che cos’è il talento ?

Che cosa significa non tradire il proprio talento ?

Un’appassionata risposta emerge dal fertile testo di Maria Letizia Compatangelo (Premio SIAE 2014 – sezione commedia; Premio Vallecorsi 2014; Vincitore della selezione EURODRAM 2016) messo in scena per la regia di Felice Della Corte.

L’autrice Maria Letizia Compatangelo

Infatti se è vero che Han van Meegeren (1889 -1947) è noto come uno dei più abili falsari d’arte del Novecento, merito della drammaturgia e della regia di questo spettacolo è quello di fare luce sulle circostanze che spinsero Han van Meegeren non tanto ad essere un falsario quanto piuttosto a non tradire il proprio talento di artista.

Il regista Felice Della Corte

La soluzione scenica scelta ricorda lo spazio teatrale “plastico“ inaugurato da uno scenografo contemporaneo al periodo storico in cui si svolge la vicenda: Adolphe Fraçois Appia (1862-1928). Uno spazio scenico essenziale, costruito intorno alla tridimensionalità dell’attore che sceglie di rinunciare ai dettagli naturalistici, per articolarsi in moduli che distinguono la scena su più livelli.

Il sipario si apre sui giorni che Han van Meegeren è costretto a vivere in carcere essendo stato accusato di collaborazionismo: vende infatti al generale nazista Hermann Göring “il falso” Vermeer Cristo e l’Adultera. Per questo dipinto il vicecancelliere del Terzo Reich cede al pittore ben centotrentasette quadri.

Han van Meegeren è interpretato con profonda credibilità da Mario Scaletta, che in un’interessante specularità tra arte e vita oltre ad essere attore e regista è restato fedele, proprio come il personaggio che interpreta, al suo istinto pittorico. E’ infatti tra i 100 artisti di Via Margutta a Roma e realizza mostre in tutta Italia, con notevole successo di pubblico e di critica. 

Felice della Corte (Joop Miller) e Mario Scaletta (Han van Meegeren)

In carcere avviene un incontro epifanico: quello tra Han van Meegeren e il capitano Joop Piller (è Felice Della Corte a renderne tutta l’acuta sensibilità).

Tra i due, al di là di una formalità dovuta alle circostanze, si accende una particolare empatia spirituale.  Entrambi hanno un rapporto speciale con la bellezza, di cui l’arte si fa tramite. Il loro è un sentire di “far parte di un racconto” iniziato da qualcun altro, di cui i quadri rappresentano “la selezione di una scena, di un singolo istante della rappresentazione”.

Sarà proprio Piller ad accorgersi del disperato slancio vitale che da sempre colora di sapore l’esistenza di Han. Un giovane di talento che – osteggiato inflessibilmente dal padre e quindi non riconosciuto nel suo sentire – scopre di dare il meglio di sé  esprimendosi creativamente non con un proprio stile ma “proseguendo il sentire” del suo pittore culto: Jan Vermeer (1632-1675). Quello che apparentemente può essere visto come un “baro” in verità è un “gioco” necessario esistenzialmente ad Han e prezioso artisticamente per l’umanità.

Mario Scaletta (Han van Meegeren) e Caterina Gramaglia (Louise, la giornalista)

Perché ciò che conta è non tradire il proprio desiderio, il proprio talento. Non arrendersi, non tradire l’eccitazione per la sublime indeterminatezza della tela bianca ma seguire le forme che il proprio sentire può assumere. E così, cercare continuamente come in “un tormento – confida Han a Piller – finché non è diventato un ritmo interno”.

Perché “la verità di un artista non è la sua identità… a meno che non esista più di una verità”.

Perché se la libertà dell’essere umano è regolata dal “limite”, quella dell’artista è spesso “eccedenza”. 

Tiziana Sensi (Joanna, la moglie di Han) e Mario Scaletta (Han van Meegeren)

A suggellare la bellezza dello spettacolo, di questo “racconto nel racconto”, si inseriscono le splendide “scene” relative alle visite in carcere della moglie di Han, Joanna (interpretata con raffinata complicità da Tiziana Sensi); l’entusiasmo composto di Louise (un’efficace Caterina Gramaglia), la giornalista che sceglie di farsi portavoce dell’autentico e generoso talento di Han e l’arringa del Presidente della Commissione Alleata Belle Arti (un appassionato Paolo Gasparini). 


Uno spettacolo intrigante.

Prezioso per i tanti spunti di riflessione che offre: in particolare il tema del del talento e delle forme che il suo sentire può assumere.

Caterina Gramaglia, Tiziana Sensi, Paolo Gasparini, Felice Della Corte e Mario Scaletta


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo L’IMPARATA di Roberto Iannucci – regia di Felice Della Corte

TEATRO MARCONI, dal 17 al 22 Ottobre 2023 –

Che cosa può succedere quando l’esterno, in questo caso il contesto sociale della criminalità organizzata, condiziona così prepotentemente le più intime dinamiche familiari? 

Cosa può succedere quando aderire al contesto sociale fa smarrire ad una madre il suo valore più profondo: quello di trasferire ad un figlio l’amore per la vita nonostante tutto ?

Quanto incide la crisi dell’etica pubblica nella crisi della famiglia?

Questo emozionante testo di Roberto Iannone narra infatti del dramma che si consuma all’interno di una famiglia che ha aderito all’etica camorrista. 

Felice Della Corte

La regia di Felice Della Corte ne esalta i chiaroscuri narrativi attraverso un interessante espressivismo linguistico-corporeo. Evidente è infatti il lavoro degli attori sulla parola e sul gesto: sulla loro voluta dilatazione o al contrario sulla loro estrema frammentazione compulsiva (deformazioni sottolineate anche dagli inserti musicali).

Da questo particolare connubio scaturisce un linguaggio espressivo che, al di là della suggestione propria del dialetto napoletano, si manifesta, proprio per il suo essere ricchissimo di suoni di origine onomatopeica, come una lingua quasi primitiva. Un po’ quella che Jaques Lacan chiamava “la lalangue”: una sorta di lallazione prelingistica matrice di tutte le altre lingue, che eccede dai codici di ogni linguaggio ma è in grado di descriverne i sentimenti.

Una lingua che si mescola al corpo e che da questo ne è tradotta. Perché non nasce come qualcosa che semplicemente “esce dal corpo” ma che si unisce ad esso nell’espressività. E che spesso attinge anche al mondo animale. È la stessa drammaturgia che invita a sottolinearlo. Un’umanità, quella in scena, quasi orwelliana dove la genuinità dei “maiali” è avvelenata da quella degli “scorfani”.

La drammaturgia narra, infatti, di un commesso viaggiatore di biancheria per la casa ( il “maiale”, un convincente Antonello Pascale ) che a sua insaputa si ritrova esso stesso ad essere “terreno” dell’espressione del potere che una madre e un figlio, subdoli rivali, si stanno contendendo.

In questo particolare frangente è la madre (una Teresa Del Vecchio dall’incantevole ambiguità) a concedere al commesso viaggiatore il permesso di frequentare la casa e quindi di entrare nei confini del quartiere, territorio di famiglia. La madre cioè continua, come quando il figlio era in prigione, a prendere lei stessa le decisioni da capo clan familiare.

Teresa del Vecchio

Vincenzo (un appassionato e appassionante Antonio Grosso) infatti è appena tornato a casa dopo aver scontato solo tre anni di reclusione anziché dieci, come prescritto. La madre, ma anche la moglie di Vincenzo ( un’accurata Marika De Chiara ), sospetta che il figlio “abbia cantato”: vergogna delle vergogne in ambito mafioso. E nell’attesa di averne le prove, prosegue nella gestione familiare del potere, marcando lei stessa il territorio e proteggendolo dall’infamia del disonore. Quando il figlio Vincenzo se ne accorge è ormai troppo tardi e non gli resta altro, per riconoscersi un’identità, se non esprimere il proprio potere “di nascosto”: sequestrando il commesso nel sotterraneo di casa. Ma il suo ruolo da carnefice è una guerra di nervi che non ha vere intenzioni criminali.

Antonio Grosso – Ritratti – 2014

Lo spettacolo prende avvio proprio da questo momento della storia, per proseguire in un intreccio avvincente che esplora il continuo mutare dei personaggi da vittime a carnefici. E gli attori in scena sanno restituirne la profonda densità.

Un mondo in apparenza molto solido ma in realtà fragilissimo quello proposto dall’ “organizzazione” che i camorristi napoletani definivano “Società della Umirtà”, alludendo alla difesa del “loro onore”: che consisteva nell’omertà (Umirtà). Codice malavitoso del silenzio e dell’obbligo a non parlare con la polizia degli affari interni all’organizzazione.

Ma non si può permette che per “onore” si intenda una ligia appartenenza ad una regola di oppressione. Non si può considerare l’onore come una losca affidabilità tenuta alta da chi ha le mani in pasta. L’onore deve essere il colore sensibile della morale, della solidarietà. Perché una società autenticamente solida è una società solidale.

Marika De Chiara, Antonio Grosso, Teresa Del Vecchio e Antonello Pascale

Per questo è importante che anche il Teatro partecipi alla costruzione di questa solidità solidale liberando le parole chiave della nostra umanità dall’inquinamento provocato in esse dal pervertimento del loro significato originario.

Questo spettacolo ne è un esempio.

Così come notare che in platea fossero presenti direttori artistici di altri teatri romani. Perché il Teatro, al di là di una sana competizione, resta un ambiente dove può esistere autentica condivisione.

Solidale.

Più vera del vero

TEATRO MARCONI, dal 29 dicembre 2022 all’8 Gennaio 2023 –

Che cosa è “normale” ? E siamo davvero sicuri che quello che desideriamo sia ciò che “ci sembra normale” ? Questo “il solletico” che l’adattamento di Felice della Corte, curatore della regia di questo spettacolo (oltre ad essere in scena nel ruolo di Giulio) sceglie di procurarci. E per farlo si affida alla complicità di Max Gazzè e del suo brano “Ti sembra normale”, colonna sonora dello spettacolo.

Felice Della Corte, regista dello spettacolo “Più vera del vero”

In una triangolazione che ricorda quella del “Cyrano de Bergerac” di Edmond Rostand , Franco, uomo annoiatamente sposato, regala al suo amico Giulio, single alla perenne ricerca di una donna “vera”,  un catalogo di modelli androidi RCA 222. Perfette riproduzioni di donne: dalla pelle calda;  “addomesticabili”  (attraverso l’immissione telematica delle specifiche comportamentali desiderate) e “adattabili” all’ambiente umano nel quale vengono inserite. Una soluzione perfetta, sembrerebbe. Straordinaria, anche se non troppo lontana dai risultati che la robotica potrebbe raggiungere.

Valentina Corti e Felice Della Corte in una scena dello spettacolo “Più vera del vero”

Ma al di là delle possibili future soluzioni tecnologiche, che cosa cerca un essere umano? Giulio è un uomo che, combattuto nella confusione tra “il darsi e il prendersi” tipico di ogni relazione, si travaglia sul “vero” significato dell’amore. Ma cosa significa “vero” ? Forse, normale? Forse, perfetto? E se invece significasse essere meravigliosamente fragili e quindi anche imprevedibili ? Se significasse essere disposti a tralignare dall’abituale ménage vitale? Fuori da ogni confortevole programmazione?

Valentina Corti e Felice Della Corte in una scena dello spettacolo “Più vera del vero”

Di quante attenzioni, dalle sfumature ordinarie e straordinarie, abbiamo bisogno? E cosa siamo disposti a fare per assaporarle? Questo l’apice emotivo che con commossa levità riesce a raggiungere questo spettacolo, curato da Felice Della Corte, partendo dal testo (nominato per il Premio Molière del 2002) di Martial Courcier .

Il testo originale di Martial Courcier che ha ispirato lo spettacolo “Più vera del vero”

Una commedia brillante, ironica e sensibile che riesce a toccare le corde più profonde dell’animo di chi vive lontano dalla sterile superficialità. Perché, come canta Max Gazzè, essere “vera” non significa conoscere tutto dell’altra: sono i “freni che sollevano i perché”  a rendere enigmatica ma tremendamente affascinante una relazione. 

Max Gazzè

Gli attori in scena sanno muoversi con naturalezza ed efficacia attraverso i contraddittori percorsi mentali ed emotivi che attraversano la nostra fragile umanità. E riescono a consegnarci, con il sorriso, un messaggio speciale per iniziare il Nuovo Anno.

Valentina Corti, la Cloè androide dello spettacolo “Più vera del vero”

Valentina Corti, attrice di talento che il pubblico ha potuto apprezzare in film e serie tv di successo, qui si cimenta in una difficile prova di gestione del corpo che convince. E ci trasferisce tutta la complessità del gestire la compresenza meccanica (ma anche umana) nel far dialogare presunzioni ed emozioni.

I due uomini che l’affiancano (Felice Della Corte nel ruolo di Giulio e Riccardo Graziosi nel ruolo di Franco) danno un’interessante prova dei labili confini che arginano la complicità maschile e dei diversi modi in cui può declinarsi la drammatica bellezza delle relazioni di coppia.

Lo spettacolo sarà in scena questa sera, accompagnato da un generoso brindisi di saluto al Nuovo Anno e poi ancora fino all’ 8 Gennaio 2023.

Recensione dello spettacolo USCITA D’EMERGENZA di Manlio Santanelli – regia di Claudio Boccaccini –

MARCONI TEATRO FESTIVAL, 30-31 Luglio 2022 –

Tra lampi sciabolanti, fumi ipnotici e compulsive “intermittenze del cuore” si apre in un crescendo parossistico l’ultima delle “tempeste” alla quale sono sopravvissuti gli esiliati Cirillo e Pacebbene. Rito psichico oltre che atmosferico nel quale i due si ritrovano a condividere un anfratto in muratura, in attesa di vedersi riconoscere “il posto” che loro spetterebbe. Sopravvivono giorno dopo giorno, a piccoli passi, rischiarati solo dai loro ieri.

Pacebbene e Cirillo

Ciascuno dei due vorrebbe essere “trovato” dall’altro ma nessuno dei due si accorge che, a qualche livello, ciò sta avvenendo. E quasi come per contrappasso alla furiosa lentezza che li abita, i due comunicano attraverso una lingua tutta loro, a tratti “irraggiungibile” per il pubblico. Spiazzamento che il sagace regista Claudio Boccaccini sceglie di insinuare nello spettatore (alla maniera di Artaud) affinché l’attenzione si indirizzi sulla verbalità, invece eloquentissima, dei gesti, delle posture e delle espressioni dei due attori.

Claudio Boccaccini

Disperatamente e inconsapevolmente, Cirillo e Pacebbene, i due sfrattati da tutto, “trovano” casa ciascuno nell’altro proprio perché sono loro “la casa”: quell’ “edificio senza fondamenta”, qual è la vita stessa. Il loro rifugio si è dissolto e continuerà a dissolversi “come la scena priva di sostanza, senza lasciare traccia”. Perché sono “della materia di cui son fatti i sogni”. E la loro vita, così come la nostra, “è circondata da un sonno”.

Le cui oscillazioni, non solo bradisismiche, sono come le braccia di chi sta cercando di risvegliarci da un sonno che è arrivato il momento di terminare. Per ricominciare: ogni giorno, tutti i giorni. Claudio Boccaccini, con il suo particolare lavoro di regia, riesce ad evidenziare dal testo di Manlio Santanelli tutto il carattere shakesperiano in esso contenuto. E ne fa un inno al Teatro che, in maniera unica, sa portare lo spettatore dentro la vita, “un’ombra che cammina”, servendosi di due attori, “pieni di frastuono e di foga” che, a loro modo, strisciano sul tempo “fino all’ultima sillaba”.

Per quasi tutto lo spettacolo i due si punzecchiano, si minacciano, si spiano, si nascondono mascherandosi, solo per insinuarsi morbosamente, a vicenda, quel dubbio che finisce per renderli simbioticamente inseparabili: “ma tu, mi puoi perdere? puoi davvero stare senza di me?”. Perché restare soli significherebbe allenarsi a morire. Meglio allora sacrificarsi e godere del sacrificio, inconsapevoli che le cose che non accadono hanno effetti reali come quelle che accadono. Abitati come siamo da una forza che ci supera.

Registicamente geniale “la scena della farina”, che mescola e impasta la sacralità di una cerimonia eucaristica, all’alchemicità di un rituale magico. Tra esalazioni di farina e colpi di matterello, Pacebbene inserisce nel suo crogiuolo di farina ciò che non riesce ad unire in altro modo. Separando e poi riunendo gli elementi: quasi un erede del Prospero de “La tempesta” di W. Shakespeare.

Gli attori (che sembrano usciti dal quadro di Pieter Bruegel il Vecchio “Lotta tra Carnevale e Quaresima”) danno prova di una grande padronanza della scena. Il pubblico, riconoscendo loro fiducia, si lascia trasportare ripetutamente “dalle oscillazioni” che virano dal riso alla riflessione, erompendo a fine spettacolo in un fragoroso applauso. Felice Della Corte, un poeticamente trascendente Cirillo e Roberto D’Alessandro, un divinamente immanente Pacebbene sanno scavare nell’intimità di piccole manie quotidiano-esistenziali e in rituali disperati, senza mai dimenticare l’indicazione registica di rendere anche la vena comica del testo. 

Pieter Bruegel il Vecchio, “Lotta tra Carnevale e Quaresima” (particolare)

Nel fedele rispetto dell’intenzione, dell’autore Manlio Santanelli, di veicolare il senso del “tragico” con la forza spiazzante dell’ironia e del paradosso.

Manlio Santanelli


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo VITE A SCADENZA – da Elias Canetti – regia di Claudio Boccaccini –

TEATRO MARCONI, 15 Giugno 2022 –

“Audace è chi riesce a fare qualcosa del proprio buio”. Senza lasciarsene schiacciare.

Dopo la morte del padre, avvenuta quando aveva solo sette anni, Elias Canetti (premio Nobel per la Letteratura nel 1981) dedica tutta la sua vita a “fare qualcosa del proprio buio”: il trauma della morte. Imprevista. Inattesa e che nel suo essere inimmaginabile, ci coglie impreparati. Indifesi. E ci angoscia. In questo testo Canetti prova a immaginare, invece, un’ipotetica società “diversa”, dove lo stato di impotenza umana di fronte alla morte viene rovesciato grazie ad un espediente: si nasce sapendo già la data della propria morte. La propria data “di scadenza”. Ma sarà davvero preferibile?

Claudio Boccaccini, regista di questo adattamento, all’età di sette anni, scopre, come racconta nell’emozionante monologo “La foto del carabiniere”, cosa significa vivere la morte. Nascere dalla morte. Intorno ai sette anni, infatti, viene a conoscenza del fatto che la sua nascita è stata possibile anche perché qualcuno (il vicebrigadiere dell’Arma dei Carabinieri Salvo D’acquisto) sentì l’urgenza di fare qualcosa del “buio altrui”, quello dei ventidue civili ingiustamente rastrellati per essere condannati a morte dalle truppe naziste, nel corso della Seconda guerra Mondiale. Tra i ventidue civili, Tarquinio, il padre di Boccaccini. Il ventitreenne Salvo D’Acquisto scelse allora di “tramontare”, di anticipare la “scadenza” della propria vita, di stabilire lui (forse) una “scadenza”, offrendosi alla morte. Forte della consapevolezza di lasciare un prezioso testimone, regalando inebriante vita non solo ai suoi amici ma anche ai loro figli. In atto e in potenza: già nati o ancora solo desiderati. 

Sarà forse per un simile destino di prossimità alla morte che, in questo adattamento del testo di Canetti e nella resa registica dell’intero spettacolo, Claudio Boccaccini rivela una speciale sensibilità nel lavorare sul binomio vita-morte e sull’angoscia ad esso collegata.

Un orologio senza lancette abita il fondale, quasi stampato su uno stropicciato lenzuolo di raso nero che ricopre un letto (per eccellenza luogo di nascita-vita-morte) posizionato verticalmente. In alcuni momenti chiave dello spettacolo, le lancette mancanti del quadrante dell’orologio vengono rese, con geniale naturalezza, da posizioni assunte dai personaggi. Apparenti “padroni” di questo tempo distopico. Loro stessi “lancette” del nuovo tempo.

Ma nonostante ciò, anche da questa umanità “semplificata” emergono insoddisfazioni e nuove paure, rese da un disegno luci spietatamente avvincente e da un’espressività struggentemente ambigua degli interpreti, in bilico tra l’orgoglio di vivere nel momento di “massimo progresso” della storia e l’inspiegabile fascino per l’inquietante, ma vibrante, vita di chi li aveva preceduti.

Nello specifico, il disegno luci sa rendere l’insinuarsi della luce che si fa strada all’interno delle crepe che attraversano l’angoscia. E al contempo sa come rendere l’emergere delle ombre da un’apparente quiete rassicurante: sintomo dell’insistenza della vita, che non si accontenta di “programmi”, “di scadenze” e che scopre di volersi nutrire ancora di caos vitale.

La densa espressività degli interpreti, poi, sa non escludere lampi di vertiginosa audacia dentro quella paura, che solo apparentemente cerca la quiete. Un’espressività che riesce ad esprimersi anche nonostante le maschere, che in alcuni momenti dello spettacolo gli interpreti indossano e che danno vita ad efficaci giochi di specchi.

Perché gli uomini, forse, sono fatti per continui inizi, per nuovi orizzonti tutti da scoprire. E proprio per questo, ricchi di fertile eccitazione. Perché nella vita si muore non una volta ma continuamente. E altrettanto continuamente si nasce. E forse la spinta per continuare ad iniziare ci viene proprio dal sapere che prossima ed imprevista arriverà una nuova morte. 

Lo spettacolo si avvale dell’efficace contributo del tecnico delle luci e del suono Andrea Goracci.

La musica originale del coro, che accompagna lo splendido epilogo dello spettacolo, è di Alessio Pinto. 

Recensione dello spettacolo SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE di Luigi Pirandello – regia di Claudio Boccaccini –

TEATRO GHIONE, Dal 17 al 20 Marzo 2022 –

Che cosa desiderano davvero i “Sei personaggi”? L’eternità “garantita” dalla parola scritta, che incide e lascia impressi i segni di una presenza. Vogliono un autore che sappia trasformare l’unicità della loro storia in “scrittura”.

Ma per riuscirci occorre saper credere nei paradossi di un teatro che è metafora di se stesso e si autoanalizza. Non abbiamo qui attori che recitano una parte, ma Personaggi “incarnati”, “spiranti e semoventi” (come li definisce Pirandello nella Prefazione), che si presentano in un teatro, dove si sta provando la commedia “Il giuoco delle parti”, sempre di Pirandello.

“Sono” Personaggi partoriti e poi abbandonati da un autore che rinuncia a scrivere il loro dramma. Orfani della mente dell’autore, i Personaggi s’incarnano e ossessionano il Capocomico e la sua Compagnia, perché ascoltino la loro storia e la recitino così com’è: vita direttamente balzata sul palcoscenico, senza la mediazione di un testo scritto. La vita è già teatro.

Gli Attori protestano, si rifiutano di recitare parti non scritte ma i Personaggi impongono alla Compagnia di assistere direttamente agli eventi che verranno riproposti nella loro verità carnale, con le emozioni di quel momento ora vissuto dai Protagonisti. Gli Attori diventano cosi spettatori e gli spettatori della platea sono costretti ad assistere allo smontaggio analitico della forma teatrale.

La regia di Claudio Boccaccini sa restituire quelle atmosfere paradossali di un teatro che si autoanalizza. Lo si percepisce dalla valorizzazione dedicata a determinate parti del testo, colte nella loro polivalenza;

nella direzione degli interpreti (incluso se stesso, che da alcune edizioni interpreta con elegante arguzia il ruolo del Capocomico); nel lavoro sulla voce e sul corpo fatto su e con gli interpreti, così necessario in un testo come questo dove, più che in altri, anche il corpo è il luogo di un teatro. Dove qualcosa parla: dice l’anima.

A questo proposito è risultata particolarmente efficace la scelta (propria di questa edizione) di mettere in scena “scalza” la Figliastra, esaltandone così ancor di più la vibrante felinità (resa con molta efficacia da Francesca Innocenti). Di particolare intensità i personaggi della Madre (una Silvia Brogi che sa rendere le varie sfumature dell’essenza del dolore),

del Padre (un Felice Della Corte che sa tratteggiare le diverse pieghe del rimorso)

e quella del Figlio (un Gioele Rotini efficace maschera dello sdegno).

Tutti gli interpreti danno prova di specifica incisività e al tempo stesso risuonano ben accordati fra loro

ma la restituzione più intensa Boccaccini l’affida alla sua interprete preferita: la Luce, che sa rendere magicamente l’inquietudine tipica del teatro dell’inconscio, del rimosso, del fantastico come caos psichico.

Il fondale che ri-partorisce incarnando “quel che è” dei Sei personaggi è reso con una perizia tale da suggerire sempre nuovi giochi di panneggio a dei semplici teli di leggerissimo nylon, dai quali quasi rotolano, come onde concrete e insieme evanescenti, le sagome-fantasmi dei Sei personaggi. Sembra un mare dal quale, con la violenza selvaggia di onde cariche di elettricità, riescono ad emergere le creature della Fantasia.

Gli Attori, testimoni di questa epifania, iniziano a fare esperienza dell'”aperto”, del “senza margini”, del senza regole. E, colti da immenso disagio, ridono nervosamente, tentando di sminuire l’effetto provocato su di loro dall’angoscia e insieme dal’ebbrezza della libertà. Ma il Capocomico comprende che quella è l’occasione di dare la parola allo “straniero”, gettando così le basi ad una “integrazione”. Perché questi selvaggi personaggi non sono potenze minacciose da cui difendersi: sono luogo di energia inesauribile.

Va infine sottolineata l’opportuna resa iconografica del disegno luci che enfatizza la contrapposizione della “realtà” degli Attori da quella dei Personaggi.

Claudio Boccaccini rende la prima, immergendo gli Attori in una calda e rassicurante luce, come in certi quadri di Jack Vettriano; mentre per rendere la seconda

sceglie di tuffare i Personaggi in una luce brumosa che si carica di energia di tempesta ed esplode in bagliori, come in un quadro del Caravaggio.


Recensione di Sonia Remoli

Uscita d’emergenza

TEATRO MARCONI, Dal 10 al 13 Marzo 2022 –

Uno spettacolo sulle affinità geodinamiche tra un territorio e un modo di stare al mondo. Il lento abbassarsi e alzarsi del suolo accompagnato da scosse, trova il suo corrispettivo umano nel bradisismo emotivo di due stralunati individui. Ad una lentezza del fenomeno (percepita come tale solo nel tempo degli umani) viene applicato, con il guizzo registico caratteristico di Claudio Boccaccini, un ritmo recitativo geologicamente rapido ed incalzante. In alcuni casi, vertiginoso. Complici anche la scelta e l’efficace utilizzo degli effetti scenografici e musicali.

Due strani tipi si ritrovano a condividere lo stesso spazio vitale. Vengono da mondi molto diversi fra loro: quello della sacralità religiosa della chiesa e quello della sacra laicità del teatro. Pacebbene, è un ex sacrestano bigotto e quindi perseguitato da fantasie sessuali inaccettate. Cirillo, è un orgoglioso “souffleur” , un suggeritore teatrale, che saltuariamente ancora lavora e che non perde occasione per profanare le stantie citazioni sacre, ancora (apparentemente) così rassicuranti per Pacebbene.

Soli e abbandonati da tutti, si trovano a condividere quel che resiste di un “appartamento” e di uno stare al mondo di oscillante precarietà. In una condizione inaccettatamente incontrollabile, cosa ci può essere di più prezioso di un sacrestano (cioè di qualcuno che sceglie di fare il custode delle cose sacre) e di un “souffleur’, cioè qualcuno che costantemente è a nostro servizio per soffiarci nuova linfa e quindi suggerirci ciò che per natura tendiamo a dimenticare?

Inconsapevoli di essere loro stessi “gli splendori” di un’esistenza buia, si riducono a vivere rintanati nel loro buco di cemento. Consapevoli di venirne ricoperti ma con un desiderio incontenibile di voler essere trovati e (finalmente) scoperti, come sotto le macerie di Pompei.

Oscillando nell’attesa che questo accada, o all’opposto che una (improbabile) chiamata annunci loro la nuova “terra promessa”, non si accorgono di essere loro stessi le “colonne” che, non solo scenograficamente, vibrano ma resistono alle scosse della Terra e della Vita. Proprio perché in qualche modo capaci di assorbire e trasformare queste scosse in una lotta di abbracci, disperatamente solidali. Loro, collante per un’esistenza destinata a “crepare”.

Uno spettacolo in cui, grazie ad una lettura del testo particolarmente accurata, il regista Boccaccini attraverso il suo adattamento traduce e rintraccia la maniera di rendere al meglio anche il sottotitolo dell’interessante opera di Manlio Santanelli: “Beati i senza tetto perché vedranno il cielo”, originale parafrasi della sesta beatitudine evangelica. Perché al “tetto” delle ipocrite sicurezze solo alcuni hanno il coraggio di rinunciare. Uomini toccati dal cielo e da cui il cielo si è lasciato toccare. Questa, forse, è la vera umanità: quella beatitudine che ci è concesso cercare e forse trovare.

Efficace l’interpretazione dei due attori: un coinvolgente “flâneur” in pantofole Felice Della Corte nei panni di “Cirillo” e un polimorfico Roberto D’Alessandro nei panni di “Pacebbene”.

Per maggiori informazioni sullo spettacolo

Sottobanco

ROMA, TEATRO MARCONI – 30 e 31 Dicembre 2021 /6, 7, 8, 9 Gennaio 2022

OSTIA, TEATRO NINO MANFREDI, Dal 18 al 30 Gennaio 2022

ROMA, TEATRO ROMA, Dal 5 al 13 Febbraio 2022 –

Impazientemente, una giovane donna attende l’apertura di una porta (sipario).  Ci si rivela uno spazio scenico abitato da una commistione di elementi, accomunati dalla potenziale capacità di educare a valorizzare il disequilibrio, come momento indispensabile al raggiungimento di un equilibrio. Da perdere e ritrovare continuamente.

Tra tutti gli elementi scenici,  a catturare l’attenzione è il fondale, attrezzato con un “continuum” di spalliere ginniche, che un estroso uso della luce, fa sembrare altro. Ad esempio, anche una tenda veneziana: aperta da spiragli di luce e di ombre, che lasciano presagire una malinconica ed inquietante freddezza emotiva, tipica di chi finge di vivere curandosi di avere sempre le spalle coperte. Atteggiamento che si conclamerà nel secondo atto, con il consumato giudizio universale degli scrutini.


Dal soffitto scendono degli anelli ginnici, mentre a terra, in proscenio, troneggia, libera anche di essere insolitamente calciata, una palla da basket.  Un nero pallone da calcio,  invece, resta fissamente intrappolato in alto, tra le assi di una delle spalliere. Quasi a simboleggiare atteggiamenti intrepidi, in un caso, e  mortalmente protettivi, nell’altro. Questo spazio scenico, dedicato all’educazione fisica, viene contaminato da cattedre, sedie e schedari: luoghi comuni di un’educazione della mente e dello spirito.

La giovane donna che, una volta entrata, continua ad agitarsi turbata e disorientata,  intuiamo essere una prof: la prof. Baccalauro. Un misto di ordinata e sapiente scompostezza, come lo stesso cognome suggerisce. Così come i suoi piedi: una donna che fatica ad avanzare e tiene un piede orientato verso il futuro e l’altro a chiudere parzialmente questa apertura. Ma, nonostante tutto, va e comunque si apre ad affrontare la lotta insita in ogni dialogo (forse non a caso indossa delle Converse). E nei momenti più critici, infila in bocca una matita come si farebbe con un coltello: tra i denti. Denti che però usa anche per sabotarsi le unghie, preziosi artigli con i quali lottare. Indossa un piccolo scaldacuore bianco, che subito toglie: quasi delle ali, di cui non riesce a tollerare l’insostenibile leggerezza.

A raggiungerla è il cheguevariano prof di Lettere Cozzolino, che entra in scena con il suo elmo bianco ed un mantello verde. Armatura che, una volta entrato apparentemente depone, pronto a combattere  ammuffiti pregiudizi e a valorizzare nuove e ariose modalità di espressione. Magari anche un po’ sbagliate ma proprio per questo creative. Come quella di Cardini, un alunno che affronta la sua trasformazione adolescenziale nei panni di una mosca. E domandandosi chi, in paradiso, lucida l’aureola ai santi. O come quella di Katia Sbilenchi che, spaventata dai dubbi della crescita, cerca sostegno nelle braccia sbagliate. O come Germani Ursula che, come una barbara,  ama sfidare il pericolo ad alta velocita’.

A mano a mano lo spazio si popolerà di professori, che non faranno che ammonire i due, impavidamente maldestri colleghi, a fare attenzione, ad usare prudenza, a non esporsi troppo. Per non perdere quell’equilibrio che solo un arido rispetto delle regole sembra regalare. Aridità che pensano di colmare bevendo succhi di frutta, comodamente confezionati ma troppo caldi.  Dai quali però continuano a dipendere, nell’illusione di “raccogliere punti fedeltà”. Perché è preferibile schierarsi in nome di falsi legami che accomunano, piuttosto che essere additati per il provocatorio coraggio di togliersi le proprie scarpe per entrare in quelle di un altro. 

Uno spettacolo che, solleticando continue risate, invita a mettersi in gioco. Il miglior augurio per chiudere un anno e aprirsi al futuro. Perché uno spettacolo deve saper entrare come un liquido nelle fessure e prendere la forma di ciò che manca. Facendoci ridere e piangere; pensare e sognare. 

Recensione dello spettacolo SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE di Luigi Pirandello – regia di Claudio Boccaccini –

TEATRO VITTORIA, dal 26 al 31 ottobre 2021 –

Lo spettacolo narra il mito di Fantasia, dea cospiratrice, che dona vita ad una storia senza un copione che contenga i suoi personaggi. Questi, peccando di “hybris”, cioè di vitale e quindi divina esuberanza, finiscono per irrompere nello spettacolo in allestimento dei figli di Immaginazione, dea un pò parassita. Non c’è tra le due narrazioni un confine; o se c’è è di natura porosa, osmotica. Perché un confine è anche il luogo dove ci si incontra.

Come ci viene suggerito già dall’inizio: un regista e il suo assistente “comunicano” anche se separati dal confine del sipario. Questo tema si ripete e insieme si arricchisce per tutto lo spettacolo, quasi come in un sistema organizzato per cerchi concentrici. Lo si ritrova nel confine che stabilisce quando passare dalle prove sedute (a tavolino) a quelle in piedi. E, ancora, nell’invito a far sentire il senso del guscio nello sbattere l’uovo.

Solo la dea Fantasia possiede il dono della creazione; solo lei plasma le percezioni che riceviamo, le emozioni che patiamo e le restituisce in forme coerenti. Per questo i suoi personaggi sono così vibranti, così vivi ! Ma nonostante ciò il regista decide di esortare i suoi attori, figli della dea Immaginazione, ad una “concertazione”, cioè ad un accordo o ad una sfida con i sei personaggi, figli della dea Fantasia. Il fine però è una cooperazione. Il regista promuove cioè, ancora una volta, un passaggio osmotico.

Lo stesso che fatica a crearsi tra i figli legittimi e quelli illegittimi. E ancora tra l’essere donna e l’essere madre di Amalia. Tra l’essere uomo e l’essere donna di Madama Pace. Tra una sartoria e una casa d’appuntamenti. Tra il “falla tua” e il “non è più nostra”. Tra l’illusione e la realtà. Tra il credere d’intendersi e il non intendersi mai. Tra il racconto e la drammaturgia. Fino alla fine. E quindi senza una fine.

Il sipario si apre su una sala prove di un teatro nudo: senza le abituali e così rassicuranti quinte. I muri perimetrali sono a vista, senza veli, esposti a possibili incontri e a reciproci contagi osmotici. Le corde provenienti dalla graticcia e che sostengono gli elementi scenici sospesi, sono lì, disponibili ad essere sciolte. Anche il fondale è diverso: non chiude nettamente lo spazio scenico. E’ della natura di una membrana, disponibile ad essere sfondata e attraversata.

Questo particolare spazio scenico inizia ad essere abitato da alcuni Attori che arrivano alle prove troppo sicuri e quindi aridi, annoiati, privi della sacra apertura a rendersi disponibili ad essere “posseduti” dal personaggio da interpretare. Sono figli di Immaginazione: combinano e ricombinano situazioni tecniche già conosciute, senza generare nulla di nuovo. Sono affatto inclini alla propositività e al rischio di un’osmosi; piuttosto si mostrano fermamente risoluti nell’arroccarsi in posizioni di sterile difesa.

Soprattutto quando il fondale verrà attraversato dall’invasione barbarica dei sei personaggi, figli di Fantasia. Neri, non solo perché visitati da una serie di lutti (desiderosi d’interpretare in una maniera sempre nuova) ma perché disponibili ad ospitare tutte le ombre che illuminano la vita. Lo leggiamo dalle loro posture, così plasmate e segnate dalle vicissitudini. Anche le più tenere. Su tutte la postura, la voce e soprattutto la risata della figliastra. Talmente scevra da sovrastrutture da incarnare la natura istintuale di una fiera. Che non resiste più alla forza di gravità. E si piega o s’inginocchia in un perenne attacco.

Una “spostata”, come l’etichetta subito il regista. Spostato è il suo sguardo: sempre immerso in un altrove irraggiungibile e che spesso crolla a terra. Mai indifeso. Eppure pudico. Si sente, anche se non lo possiamo leggere nei suoi occhi. Che se li incroci, ti possono pietrificare, come quelli di una Medusa. Ma anche lei ha subito questa pietrificazione dagli occhi di chi non l’ha “riconosciuta”. Per questo ora, come Perseo, sa che deve guardare altrove per resistere. E si aiuta ad orientarsi con le braccia, che diventano i suoi occhi. Anche il suo incedere è precario, come quello di un’equilibrista che tenta di camminare su una fune, per saggiare il proprio equilibrio. Un equilibrio che include numerose cadute verso quel basso che tanto l’attira. Come “La ragazza sulla ponte”, avrebbe bisogno di un lanciatore di coltelli che le faccia”sentire” i suoi speciali confini.

E che dire di quel suo fratellastro, così prossemicamente distante ma anche lui così tentato di cadere giù dal palco, di saltare fuori dalla quarta parete. Quasi come in un trompe l’oeil di Pere Borrel del Caso. E poi la matrigna: l’unica che si dà un nome. Anche lei ha una sua natura da fiera, che a differenza della figliastra si sforza di arginare in un dolore composto, che però non sfugge a involontarie torsioni cariche di pathos. Per poi esplodere in tutta la sua materna ferocia, nell’attimo in cui annusa puzza d’incesto. Trauma che rivive assumendo le sembianze posturali di una croce, contenente e contenuto. Dove a urlare è il silenzio. Come in un quadro di Munch.

E infine il padre: una diversa declinazione del vissuto di Mattia Pascal. Che qui dimostra di aver appreso il potere di attrazione degli oggetti: uno su tutti il cappello. Quello per evocare Madama Pace e quello di paglia, ornato da una ghirlanda di rose, per sedurre la sua giovane amante.

Una qualche “concertazione” alla fine viene raggiunta tra i figli delle due diverse Dee: gli Attori finiscono per disarmarsi, riuscendo ad assorbire le ombre dei Personaggi. Lo vediamo dai loro corpi, che perdono ognuno il caratteristico à plomb e si rendono malleabili ad essere piegati dalle emozioni. In particolare la prima attrice, che trasforma l’ossessivo accavallamento delle gambe in un “basic instinct” sguaiato. Di spalle, non per continuare a ricordare a tutti che lei non può perdere tempo ma perché finalmente inserita e catturata osmoticamente nel personaggio. E nel tempo.


Recensione di Sonia Remoli

Il fu Mattia Pascal

TEATRO MARCONI, 11 Agosto 2021 –

Un Dante e un Virgilio aprono la scena: quest’ultimo, nelle vesti di un bibliotecario, guida il suo “fu collega” nel ripercorrere la discesa, partendo dall’epilogo, nei gironi della sua vita.

Maledetto il colpo di scena di Copernico, così come quelli di cui sono pieni tutti i libri ! E quella cicatrice sulla mano di Romilda: così imbarazzante eppure così perversamente magnetica ! I libri e l’amore confondono il cervello, sono capaci di farti ribaltare antiche convinzioni e ti fanno detestare quel dolce immobilismo con il quale ci si anestetizza per vivere. Ma allora: cosa serve per essere riconosciuti? Per non deteriorarsi fino a diventare vermi?

Un evidente strabismo non è stato sufficiente. Ma neppure sottrarsi alla vista di quel sociale così vicino! Se è vero che un uomo non è fatto per morire ma per dare vita a nuovi inizi, non è vero però che “un (falso) morto non ha debiti ed è quindi libero”. Neanche osare di darsi un nuovo nome, cosa che di solito si riceve senza poterla scegliere, è valso a dare una nuova chance all’affermazione della propria “riconoscibilità”. Per questo motivo, un uomo nuovo, ma inventato, è comunque destinato all’isolamento.

Anche se sceglie una città come Roma, per ricominciare. Anche se qui incontra l’Amore, così verde, così pieno di speranze, così ritroso eppure così disponibile. E finalmente attento. Ma sarà la sensibile e vibrante maestra di pianoforte Silvia a “riconoscerlo” davvero: dai suoi gesti inconsapevoli, dalla sua aura negativa. “Forse però se si lasciasse crescere dei baffi, chissà!”. “No, no, le donne sono troppo complicate!”.

Ma gli uomini non sono mica più limpidi: vogliamo parlare di quel Terenzio, quell’opportunista Gerard Depardieu degli intrighi? O del forbito e tenebroso Alfonso, padre di Adriana, che preferisce la letteratura alla scienza, l’esoterismo del lanternino al lanternone della religione e si trova a suo agio spaziando per tragedie greche?

Il “fu” tornerà a casa come Ulisse ma seppure ad aspettarlo non ci sarà la sua Penelope, scoprirà, per un’inconsapevole eterogenesi dei fini, che Nessuno è pur sempre Qualcuno.

Uno spettacolo che sa solleticare lo spettatore fino a pungerlo, procurandogli una sana e lacerante riflessione. Complice l’arte dell’eleganza del regista Boccaccini.

Per approfondire