Recensione di WAITING IN THE DARK – regia Francesco d’Alfonso

Drammaturgia

di Francesco d’Alfonso

liberamente tratta da “Assassinio nella cattedrale” di T.S. Eliot


Traduzione inedita

di Iolanda Pescia


TEATRO PALLADIUM

18 Dicembre 2025

Su iniziativa dell’Ufficio per la Pastorale Universitaria della diocesi di Roma, Giovedì 18 Dicembre u.s. al Teatro Palladium è andata in scena “Waiting in the dark”, una drammaturgia di Francesco d’Alfonso, liberamente tratta da “Assassinio nella cattedrale” di T. S. Eliot, nella traduzione inedita di Iolanda Plescia, docente alla Sapienza.

Francesco d’Alfonso

L’evento ha devoluto l’incasso al Polo Universitario Penitenziario – Università Roma Tre, diretto dal Prof. Giancarlo Monina, ordinario di Storia contemporanea all’Università Roma Tre e delegato del rettore per la formazione universitaria negli istituti penitenziari. “Non si tratta solo di reperire risorse – ha dichiarato – ma anche di portare all’attenzione il tema della dignità dei carcerati”. 

Nel Lazio ci sono infatti 300 universitari detenuti negli istituti penitenziari presenti sul territorio, che si applicano nello studio per affrontare il periodo della prigionia con dignità. “Lo studio rinforza l’uomo interiore, colui che resta solido mentre tutto intorno a lui viene meno” – ha ricordato don Gabriele Vecchione, cappellano della Sapienza e vicedirettore dell’Ufficio diocesano per la pastorale universitaria, promotore del progetto.

(ph. Cristian Gennari)

La finalità di questo evento teatrale si dà come una manifestazione della speranza e cade non solo nel tempo del Giubileo dei Detenuti – ricorrenza che chiude circolarmente l’inizio del Giubileo della Speranza avvenuto con l’apertura della porta del Carcere di Rebibbia, quale prima Porta Santa, dopo quella di San Pietro, aperta da Papa Francesco – ma cade anche nel tempo dell’Avvento. Un tempo che simbolicamente si fa attesa spirituale e preparazione alla venuta di Cristo. Un periodo liturgico trasformativo, che unisce il ricordo della sua prima venuta (il Natale) all’anticipazione della sua seconda venuta, che si rinnova ogni anno. 

“Waiting in the dark”: dall’oscurità alla luce.

Un titolo dal profondo valore simbolico: ci parla di un periodo di sospensione, che ci spinge all’introspezione e alla ricerca di una personale consapevolezza. Trasformando la paura dell’ignoto (l’oscurità) in una opportunità di crescita, di resilienza e di speranza (la luce). Dove il buio diventa spazio fertile per la nascita di nuove possibilità, purché si impari a sostarvi con amorevolezza.

E’ una condizione esistenziale che tutti ci accomuna e che T.S. Eliot ha visualizzato magnificamente, nel suo poema destinato al teatro “Assassinio nella cattedrale”, focalizzandola in un momento particolare della vita di Thomas Becket.

Per interrogarsi sulla drammaticità di un tempo esistenziale vuoto, in cui siamo messi in trazione. Come – ma non solo – è avvenuto nel frangente storico/esistenziale del Novecento, attraversato dalla Prima guerra mondiale e poi in attesa – in una pace che non è “il bacio di pace” – dentro un tempo che porterà al Secondo conflitto mondiale. 

Immersa come in una landa del nostro animo, si apre allora la messa in scena di Francesco d’Alfonso. Dove lo spettatore è progressivamente condotto – come per osmosi – a scendere in una dimensione interiore: trascendente nella sua immanenza. 

Non è infatti solo una rituale cerimonia d’attesa, dove si celebra un’assenza. E’ la visualizzazione di un presentimento: una condizione che si fa ponte tra inconscio e futuro e che parla di una verità intuitiva più profonda del ragionamento logico. Con un’aura di mistero, di angoscia unita a speranza.

E’ una condizione esistenziale ad andare in scena: dove la forza rappresentativa riesce a restituire epidermicamente anche ciò che non può essere detto. Quel quid che non passa per la parola. 

(ph. Cristian Gennari)

Non a caso lo spazio scenico, immerso nella luminosa oscurità di un luogo sacro, è abitato da una scala: simbolo del collegamento tra dimensioni diverse. Dove l’ascesa coincide con la discesa: perché  il tempo che distrugge è il tempo che conserva (da Quattro quartetti” di T.S. Eliot).

(ph. Cristian Gennari)

Questa fluida dualità – tema portante della drammaturgia – inizia ad essere veicolata attraverso la scelta di inserire la narrazione musicale di un violino, contrappuntandola all’insistere di un ticchettio, che come goccia erode e si fa spazio nella mente e nel cuore dello spettatore.

Una fluida dualità che continua a darsi nel contrappunto tra il sentire del Coro – qui rappresentato da una Irene Ciani dolorosamente sensuale, morbidamente tagliente, magneticamente arrendevole, che con i colori morfologici della sua voce restituisce i cicli della vita, della natura e dell’animo umano – e l’invocazione ossessiva della mancanza dell’Arcivescovo di Canterbury Thomas Becket da parte del Sacerdote (in scena un efficacissimo Matteo Santinelli).

Sette anni e l’estate è trascorsa, 5 anni, da che ci lasciò l’Arcivescovo*

(ph. Cristian Gennari)

Un fluido contrasto dentro il quale il testo di Eliot fin dal principio ci invita a stare: da quando il Coro si scopre attraversato da “un restare” e insieme da un “essere trascinato da una sicurezza, che trascina i piedi”. Causa di un vago presagio che gli occhi “sono costretti a testimoniare”.

Per noi, le povere donne, non c’è l’azione

ma solo l’attendere e il rendere testimonianza*

Ed è proprio questa fluidità degli opposti a destabilizzare le donne del Coro, loro che erano abituate a riconoscere ”gli atti che mettevano un limite al nostro soffrire. Ogni orrore aveva la sua definizione, ogni dolore aveva una specie di fine” *

Una fluidità di cui ci parla anche il dualismo dal quale Thomas (uno Stefano Guerrieri tormentato e donativo, accogliente e carismatico, visione che diventa azione) si lascia attraversare come da una sorta di via crucis. Accogliendo e patendo il serpeggiante insinuarsi sensualmente vanitoso dei tentatori, nelle suadenti interpretazioni di Leonardo Della Bianca e di Stefano Poeta.

(ph. Cristian Gennari)

E ancora, è il tema dell’omelia di Becket per il Natale del 1170, ovvero la riflessione su come la ricorrenza del Natale racchiuda in sè la gioia della nascita e insieme il dolore della morte. Dolore ribadito dal fatto che, non a caso, al giorno in cui si commemora il Natale del Signore, segue il giorno in cui si commemora il Martirio di Santo Stefano. 

(ph. Cristian Gennari)

E infine questo fluido dualismo è il fulcro dello stesso soffrire di Thomas Becket: a spaventarlo non è la morte ma l’intervallo tra il presagio e la fine, cioè l’attendere attraversando e trasformando.

Nè colui che agisce soffre

Nè il paziente fa. Ma sono entrambi fìssi

In un’eterna azione, in un’eterna pazienza*

(ph. Cristian Gennari)

E allora cosa significa “pace” ?

Pace è farsi strumento di questo dissidio.

E sentire

In un’eterna azione, in un’eterna pazienza

Alla quale tutti debbono consentire perché sia voluta

E che tutti debbono soffrire per poterla volere,

Onde sussista la trama, poiché la trama è azione

E sofferenza, e la ruota possa volgersi e pure

Stare per sempre immota*

(*i versi citati in questa recensione si riferiscono alla traduzione di Alberto Castelli al testo “Assasinio nella cattedrale” di T.S. Eliot)

Una rappresentazione questa di “Waiting in the dark” che ricorda quell’atmosfera di cui Eliot era maestro: quella che dona alla poesia un’energia legante, che riconcilia i suoi frammenti in un insieme emotivo.

Quell’atmosfera che si dà in un profondo senso della struttura musicale.

Complice la sinergia tra il lavoro drammaturgico di Francesco d’Alfonso e la traduzione di Iolanda Plescia, dove l’appagamento musicale si lega a quello letterario.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione di METADIETRO – Rezza Mastrella

con Antonio Rezza

e con Daniele Cavaioli

La vita è un viaggio tempestoso e pieno di avventure, dove la nostra libertà ha modo di esprimersi e saggiarsi. 

Ma la nostra libertà – come sottolineano con dissacrante comicità Antonio Rezza e Flavia Mastrella, Leoni d’Oro alla carriera alla Biennale di Venezia 2018 – sembra prediligere, soprattutto in questo frangente storico, le rassicuranti limitazioni tracciate dalle boe della volontà di un altro.

Anziché, quindi, rimanere solleticati dalla possibilità di affrontare continue sfide personali, preferiamo consegnare la nostra libertà nelle mani di chi, in cambio del nostro “stargli dietro”, crediamo possa offrirci una sensazione di durevole sicurezza.

Antonio Rezza – Daniele Cavaioli

Concetto efficacemente visualizzato, in questa nuova creazione del duo artistico RezzaMastrella, nel passaggio narrativo dall’epopea paradossale di un viaggio per mare – dove i componenti della ciurma sanno ancora reagire (anche se solo individualmente) al fare manipolatorio dell’Ammiraglio, decidendo quando distanziarsene – al visionario viaggio spaziale, dove un Capitano perde anche quest’ultimo residuo di egoica capacità critica, spalmando la propria volontà “dietro” quella dell’Ammiraglio.  

Una tendenza del nostro stare al modo dove, più o meno consapevolmente, ci deprediamo della preziosa occasione di avvalerci del “diritto” a manifestare un dissenso: un rifiuto ad obbedire a certi ordini dettati da un altro.

Una creazione questa di “Metadietro” il cui valore si fonda sulla capacità di andare oltre l’oggetto fisico per rappresentare idee ed emozioni, che il linguaggio logico non può esprimere.

E così, attingendo a simboli universali – quali quello del viaggio – trasforma l’atto creativo in un ponte tra il mondo sensibile e quello astratto, dando forma originale ad una ricerca di senso.

Parlano di questo anche le scelte cromatiche, le forme e i materiali selezionati da Flavia Mastrella per questo suo nuovo habitat, frutto ogni volta di un accurato studio sul diverso darsi “deformato” della comunicazione sociale.

Efficacemente pungente l’idea di legare l’habitus, ovvero le modalità manipolatorie, del personaggio dell’Ammiraglio al colore blu: un colore un tempo considerato dei degenerati e dei barbari ma che poi ha conquistato tutti.

Un Ammiraglio siffatto (che in scena è un Antonio Rezza che “è. E non ha mai smesso”) saccheggia infatti l’esperienza del viaggio dei suoi aspetti caratteristici, che ne fanno una preziosa occasione di trasformazione, di crescita interiore, di scoperta di sé e di superamento dei propri limiti. 

Incluso l’ammutinamento: come si legge nelle note di regia, in un viaggio esistenziale “l’ammutinamento è sempre auspicabile in un organismo sano”. Perché l’ammutinamento rappresenta un po’ le nostre difese immunitarie, che si attivano quando qualcosa dall’esterno mette in pericolo un equilibrio interiore. Difese che sono metafora della protezione del Sé e quindi del mantenimento di quellintegrità e di quell’equilibrio, che rendono organismo capace di affrontare le sfide che la vita presenta.

Antonio Rezza sceglie allora – com’è nella sua cifra estetica – di lavorare in questa sua creazione con Flavia Mastrella intorno al concetto di “gioco”: un gioco che parla di un dramma intriso di divertimento, capace di indurre lo spettatore a smarrirsi.

Così da veder cadere le maschere all’interno e all’esterno di sè stesso. Così da essere solleticato da stimoli capaci di attivare nuove modalità di viaggio, che sanno incontrarsi anche con fertili derive.

Un gioco quello portato in scena dal duo RezzaMastrella che sa erompere sulla scena come una felice invasione barbarica, capace di generare continui corto-circuiti su modi di fare intrisi di pregiudizi. Alla scoperta di spiegazioni sempre nuove e mai rigidamente compiute.

Che arrivano allo spettatore sotto forma di frammenti. Così come frammentaria è la precarietà della verità, così come frammentaria è la percezione del sè e del mondo.

Frammenti che provocano nello spettatore non un senso di rinuncia o di rassegnazione, ma uno stimolo all’esplorazione e alla ricostruzione di un proprio senso personale.

Antonio Rezza – Flavia Mastrella

Perché RezzaMastrella sono generatori di clamore, di risveglio comicamente drammatico, di coralità.

Perché i loro spettacoli sconfinano, si s-proteggono dalle sovrastrutture, cercando e ottenendo un contatto epidermico con “i corpi” degli spettatori, tale da improvvisare anche su di loro un’acuta regia.

Flavia Mastrella – Antonio Rezza

“Con che speranza cerco il dialogo, se è più facile cambiare canocchiale che idea?” – si chiede sul finale l’Ammiraglio. Se i legami sono divenuti guinzagli, se si finisce col preferire al contatto dei corpi la modalità di sfioramento di apparecchiature?

Quale esperienza di libertà racconteremo dopo?

Quella del nostro essere “stati dietro” a qualcun altro?

Daniele Cavaioli – Flavia Mastrella – Antonio Rezza


Recensione di Sonia Remoli

QUANDO FINIRA’ TUTTO QUESTO? – Trilogia grottesca di Sławomir Mrożek 

LAMANTICA EDIZIONI 2025

Presentazione del libro  e prova letta

ISTITUTO POLACCO DI ROMA

11 dicembre 2025

Salendo le scale del rinascimentale Palazzo Blumensthil, si arriva al piano nobile sede dell’Istituto Polacco di Roma. Fondato nel 1992, in seguito ad un accordo tra il Ministero degli Affari Esteri e l’Ambasciata della Polonia con l’obiettivo di diffondere la cultura polacca in Italia, l’Istituto propone ogni anno un ricco programma di mostre, film, conferenze, spettacoli e concerti dei più importanti intellettuali e artisti polacchi contemporanei. 

La serata dell’ 11 Dicembre u.s. è stata dedicata a Sławomir Mrożek (Borzęcin, 29 giugno 1930 – Nizza, 15 agosto 2013) scrittore, drammaturgo e fumettista polacco, le cui opere – abitate da un umorismo surreale e da situazioni grottesche che aiutano a far emergere le convinzioni distorte dei personaggi – creano quel disagio necessario a spingere il pubblico a riflettere sui dilemmi della realtà. Sono opere che esplorano i paradossi legati a temi universali come la libertà, il potere, l’emigrazione, l’identità e la condizione umana all’interno di un sistema totalitario.

Nello specifico, la serata dell’11 Dicembre scorso  –  organizzata in collaborazione con PAV osservatorio privilegiato del panorama artistico contemporaneoche promuove la drammaturgia contemporanea in ambito nazionale ed europeo – si è incentrata attorno alla presentazione del libro Quando finirà tutto questo? Trilogia grottesca di Sławomir Mrożek  (Lamantica Edizioni, 2025), dove sono intervenuti i curatori del volume Lorenzo Gafforini e Lorenzo Pompeo e il figlio del traduttore Giulio Pampiglione.

Alla presentazione è seguita la prova letta di uno dei tre testi raccolti nel libro – Il macello –  per la regia di Kamila Straszyńska, con gli interpreti Pietro Rebora, Elena Orsini,Ilaria Martinelli, Carlo Guglielminetti, Carmine Barbato, Teodoro De Cristofaro.

Nell’accogliente saluto istituzionale da parte dell’Istituto Polacco di Roma è stato ricordato come questa occasione d’incontro si carichi della fertile sinergia di tre anniversari: il 95esimo dalla nascita di Mrożek, il 25esimo di PAV e il 10cimo di Lamantica Edizioni. Casa editrice di cui Lorenzo Gafforini ha sottolineato la raffinata valorizzazione dei testi: oggetti d’arte dalla tiratura molto limitata.

Quando finirà tutto questo? Trilogia grottesca di Sławomir Mrożek  è un libro avvolto in una particolare luce, in considerazione del fatto che esce dopo un lungo momento di vuoto su questo autore. Risulta quindi prezioso – come fa notare Lorenzo Pompeo nell’Introduzione “Un illustre sconosciuto di nome Sławomir Mrożek” –  riproporre oggi questi testi che Giovanni Pampiglione aveva tradotto e proposto nel 1987 in Teatro polacco del ’900 (Il macello e Giorno d’estate) e, nel 1997, sulla rivista “Sipario” (n. 583 – dove era uscita la sua versione di A piedi).

Giovanni Pampiglione

L’affascinante personalità esuberante e schiva di Giovanni Pampiglione – regista, traduttore nonché conoscitore e promotore della cultura polacca – tradusse e mise in scena Mrożek scegliendo, come non manca di ricordare Lorenzo Gafforini, una particolare cifra minimalista dalla leggerezza, dalla trasparenza e dall’immediatezza di un acquerello. Cifra efficacissima per rappresentare la fluidità delle emozioni e del tempo, e quindi per promuovere una riflessione sulla natura transitoria dell’esistenza.

Nella seconda parte della serata si è potuto apprezzare – grazie alla collaborazione di PAV – la stimolante prova letta de “Il macello”, curata dalla regista Kamila Straszyńska, con gli interpreti: Pietro Rebora, Elena Orsini, Ilaria Martinelli, Carlo Guglielminetti, Carmine Barbato, Teodoro De Cristofaro.

Kamila Straszyńska

La regista ne fa – con l’intrigante complicità del corpo della voce dei suoi interpreti – un’appassionata restituzione acustica, davvero suggestiva: Mrożek aveva infatti inizialmente pensato “Il macello” come un radiodramma e solo successivamente come una messa in scena.

E’ attraverso la visualizzazione della scissione tra i pensieri desideranti e l’agito musicale del protagonista de “Il macello”, che Kamila Straszyńska  inizia a veicolare nello spettatore quello iato, quella frattura, che si può verificare nell’incontro tra una dualità, i cui componenti faticano a stare insieme. Metafora del nostro contraddittorio stare al mondo.

E’ uno iato che parla di “una gelosia” che mal tollera i vincoli appassionati della diversità. E che spinge verso la rottura dei rapporti di una relazione plurale. Una gelosia che sagoma lo sguardo su uno solo dei termini: qui, nello specifico, su una supposta cultura individualista “da solista”, che rifugge il duettare proprio di una sana socialità. 

Sławomir Mrożek

Una gelosia che impone una scelta: qui quella tra arte o vita. Il protagonista viene infatti manipolato fino a fargli credere di preferire essere un genio anziché un uomo. Con il pretesto che “essere un uomo non basta”. Quando in realtà quello che non basta è essere “un uomo solo”, separato cioè dalla tensione al confronto con il diverso da sé. 

E così Mrożek ci porta a vedere che quando l’arte si dissocia dalla società, “la cultura diviene una religione laica”.

In  una serie di crescendo parossistici – resi magnificamente dagli interpreti in scena – il (supposto) genio nutrito “solo a cavolfiori” finisce per perdersi nella necessità ossessiva di farsi anziché artista, macellaio.  

Scopre infatti che l’arte non è tutto, come si illudeva, perché “un animale sgozzato fa più effetto sul pubblico”.  E siccome “la verità deve essere una sola, se non è nell’arte la cercherò altrove”. Nel macello, ad esempio. “Si ucciderà in scena. Qui alla Filarmonica macelleremo le bestie: ora davanti a voi si esibirà un carnefice”.

Sławomir Mrożek

Ma nell’uccidere e nel distruggere non c’è niente di geniale: tutti sanno farlo.

Ed è così che, come in un cortocircuito, è il senso di incertezza a dominare su tutto. 

Sarà lui ad andare in scena.

Ne “Il macello” Mrożek ci pone davanti ad una situazione paradossale ma preziosa per confrontarci con l’assurdo del quotidiano. E soprattutto con le contraddizioni della nostra natura umana. Vivere in un mondo di incertezze è difficile, ma cosa siamo pronti ad aspettarci dal comportamento umano? Dall’umana follia?

Perché è proprio mettendo alla berlina i paradossi della società dell’homo sapiens, smontando quindi false certezze, che il testo di Sławomir Mrożek  riconsegna all’uomo la consapevolezza della necessità di un’interminabile ricerca della verità.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione di COPRIFUOCO 2020 – uno spettacolo scritto e diretto da Paolo Tommaso Tambasco

OFF/OFF THEATRE

10 e 11 Dicembre 2025

Com’è rassicurante proteggersi dietro a delle regole, ma com’è liberatorio infrangerle !

Durante il periodo della pandemia – e in tutti quei momenti in cui la fine sembra davvero imminente – abbiamo ogni volta l’occasione di riscoprire com’è complesso il nostro rapporto con le restrizioni e i divieti.

E quindi con la libertà. Che da un lato ci rende ebbri all’idea di aprirci verso la vastità dei suoi orizzonti, dall’altro ci provoca angoscia proprio per quella sua vastità così disorientante.

Paolo Tommaso Tambasco

Ci si lascia immergere nel fascino inquietante di questa atmosfera, partecipando alla visione del nuovo spettacolo di Paolo Tommaso Tambasco, autore e regista risultato vincitore lo scorso anno del Premio Ribalta Giovani per la sezione prosa, indetto dall’Off/Off Theatre. Vittoria che gli ha permesso di ricevere un premio di produzione per lo spettacolo in scena quest’anno: “Coprifuoco 2020”. 

Nello spettacolo – andato in scena il 10 e l’11 Dicembre u.s. all’ Off/Off Theatre, lo sguardo di Tambasco si concentra sulle reazioni che questo periodo di crisi ha suscitato sulla Generazione Y, meglio conosciuta come Millennials (nati circa tra il 1981 e il 1996): la prima generazione cresciuta con internet e i social media e immersa fin dall’infanzia nel mondo della comunicazione istantanea della digitalizzazione.

Testimoni di questa generazione, i tre accattivanti interpreti in scena: Francesco CotroneoIvo Randaccio e Nila Prisco

Francesco Cotroneo (Michele) – Nila Prisco (Greta) – Ivo Randaccio (Carlo)

-ph. Eugenia Del Moro-

Sono loro che Tambasco sceglie per immergerli in questo frangente di crisi: un misto di pericolo e di opportunità; di smarrimento e di scelta; di fuga e di consapevolezza; di stasi e insieme di trasformazione. 

Tambasco sceglie allora di raccogliere e potenziare il senso di questo mix di contraddizioni, costruendo la sua drammaturgia dentro attanaglianti cerchi concentrici: la ambienta sullo sfondo traumatico del periodo della pandemia covid 19; la concentra in una delle tante serate abitate dal coprifuoco e la fa passare dentro l’ulteriore rito di passaggio – dalla libertà individuale alle nuove responsabilità matrimoniali – di un addio al celibato. Sceglie poi come personaggi, dei rappresentanti della generazione più immersa nell’instabilità: quella dei Millennials, generazione essa stessa “ponte” tra il mondo analogico e quello iperconnesso.

– ph. Eugenia Del Moro-

Arriva così allo spettatore tutta la cedevole scivolosità della fine di vecchi equilibri e la repentina stasi eccitante propria dell’inizio di nuovi. Non meno seducentemente sfuggenti dei precedenti.

Scivolosità ben rappresentata anche dalla scelta del gioco del poker, per di più a 5 carte, con un mazzo ridotto: uno degli intrattenimenti previsti per attraversare questa serata decisamente particolare. 

E così in un interno borghese, immerso nel silenzio assordante di una Roma che a scoprila così mette ansia, 3 amici di un tempo accettano di ritrovarsi, al di là dell’occasione da festeggiare, per cercare di placare, almeno momentaneamente, quel senso di “strettezza”, quella mancanza di spazio, quella scarsità di risorse, proprie dei frangenti più angoscianti. Così da riuscire, magari per un pò, “a non tener conto della società e del suo super-io”. 

Tambasco costruisce poi, in un’intrigante rete di nascondimenti emotivi, le stratificazioni esistenziali di questi amici, così diversi eppure così uguali, nel loro diverso darsi tra vita pubblica, vita privata e vita segreta.

Perché soffocare fuochi sotto la cenere – come nelle migliori intenzioni di ogni coprifuoco – può condurre ad esiti inaspettati.

Perché la nostra spinta irrazionale è molto più potente di quella razionale.

Perché l’applicazione di un necessario controllo di sicurezza sanitaria soffoca e insieme alimenta la nostra spinta irrazionale. Che riesce a trovare nuovi varchi alla solitudine e al distanziamento epidermico.

Parallelamente al ritirarsi in se stessi infatti, si fa strada un’altra esigenza, impellente soprattutto in questa generazione: quella di stare insieme, del farsi compagnia, del condividere insieme le difficoltà.

Interessante il lavoro di scavo interiore che ciascun interprete restituisce allo spettatore nel comunicare – proprio con “i non detto” narrati dal loro corpo – l’universo di contraddizioni tra volere e dovere; tra quel che resta della complicità di una supposta amicizia e le apparenze esibite.  E ancora: tra lo scoraggiamento nel non sentirsi mai all’altezza delle situazioni proposte dalla vita e il rifiuto di adattarsi; tra la voglia di perdersi e la ricerca di se stessi nell’amore, nella scrittura, nell’azzardo e nel bluff.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione di SABATO, DOMENICA e LUNEDI – regia Luca De Fusco

– Commedia in tre atti di Eduardo De Filippo –

TEATRO ARGENTINA

dal 25 Novembre 2025 al 4 Gennaio 2026

“Sì, ma ci vuole coraggio”.

Con queste parole Eduardo De Filippo decide di farci conoscere il titolo del romanzo che zia Memé sta scrivendo con l’aiuto del Dott. Cefercola.

Eduardo De Filippo

Memé – scissa tra una maternità iperprotettiva e una femminilità d’avanguardia – è donna che non si accontenta rassegnata e soddisfatta. Piuttosto è alla continua ricerca di conoscere se stessa, per un bisogno irrinunciabile di sentirsi viva, piena di entusiasmo. 

Il suo romanzo è infatti una sorta di autobiografia che si propone di trasformare il caos “dei ricordi, delle impressioni, delle delusioni, delle rinunzie” in una narrazione. Stimolando così in lei un processo interiore di autoconsapevolezza tale da permetterle di dare un senso alla propria esistenza, ridefinire la propria identità, elaborare il passato e connettersi più profondamente con sé stessa e con gli altri.

E’ lei, zia Memé (qui una sapientemente umana Anita Bartolucci) il punto di riferimento della famiglia, quando si tratta di capire come meglio relazionarsi l’uno all’altro.

La zia dichiara infatti che, sebbene nella sua vita inevitabilmente ci siano state delle rinunce, “la mia vita è stata una vita felice, o per lo meno ho fatto tutto il possibile per farla essere come volevo io”.

Quindi, a qualche livello, Eduardo De Filippo ci sta dicendo che si può essere felici, “sì, ma ci vuole coraggio”.

Teresa Saponangelo (Rosa Priore) – Claudio Di Palma (Peppino Priore)

Perché ci vuole coraggio per aprirsi fino a fare “esodo” dal nostro egoismo, per diventare “prossimo” dell’altro. Superando le barriere dell’incomunicabilità e della diffidenza.

Coraggio che sfugge, a volte, a Peppino (qui un luminosamente inquieto Claudio De Palma). Il quale nei momenti in cui tenta di entrare in relazione con qualcuno, soprattutto con sua moglie Rosa (qui una Teresa Saponangelo di vertiginosa bellezza), si sente “invaso” da immaginifiche presenze. Tanto da reagire sentendo l’urgenza ossessiva di “chiudere gli occhi” a tutte le finestre. Come a tenere fuori tutti gli sguardi su di lui.

Ci vuole coraggio allora anche a restare in ascolto dell’altro per la sua unicità, fatta di fragilità. Entrare in relazione significa infatti farsi luogo di creazione di significato. Luogo che trascende la semplice connessione, per trasformarsi in un percorso di cura reciproca, di scoperta di sé e quindi di superamento del proprio egoismo. 

Rossella De Martino(Virginia, cameriera), Paolo Serra (Luigi Ianniello), Teresa Saponangelo (Rosa Priore)

(ph. Tommaso Le Pera)

E poi ci vuole coraggio anche a tirar fuori “le amarezze” o, ancor meglio, a discuterne con l’altro non appena si palesino. Al di là dell’angoscia di essere esclusi dal suo sguardo e dalle sue attenzioni. Senza reagire solo in difesa, ma anche in avanscoperta. Aprendosi all’intimità di un dialogo: “Noi – dirà Peppino sul finale a sua moglie Rosa – io e te, siamo stati tanti anni insieme, abbiamo fatto tre figli, e non siamo riusciti a raggiungere quell’intimità che ti fa dire pane al pane, vino al vino”. 

Il coraggio di cui ci parla Eduardo si relaziona con la paura, che può essere saggia, e diventa l’intervento umano che supera l’istinto. Perché qualcosa di luminoso lo chiede, da dentro di noi.

Luca De Fusco

(ph. Tommaso Le Pera)

Profondamente acuta la scelta registica di Luca De Fusco di valorizzare questa tensione tra dentro e fuori, tra conosciuto e sconosciuto, tra sè e altro da sè, visualizzandola attraverso lo spazio scenico -fisico e metaforico- del balcone. 

Uno spazio che rappresenta il confine tra pubblico e privato: un elemento di transizione tra interno ed esterno, tra passato e futuro. Che funge da specchio per le emozioni e le aspirazioni umane: dalla celebrazione dell’amore romantico, alla rappresentazione della malinconia esistenziale. La cura delle scene e dei costumi è di Marta Crisolini Malatesta.

(ph. Tommaso Le Pera)

Icastica la scena di apertura dello spettacolo con i protagonisti – tranne Rosa e Virginia intente nel laboratorio alchemico della cucina – prossemicamente “in relazione” sulla soglia del balcone di casa Priore. Chi immergendosi, chi sfuggendo, la luce surreale del proprio sé più intimo e inconscio (la cura della drammaturgia delle luci è di Gigi Saccomandi). Tutti sotto un cielo azzurro, abitato da nuvole che parlano di impermanenza, di trasformazione, di mutevolezza. Ma anche di libertà.

Non a caso “Sabato, domenica e lunedì “ è una commedia che Eduardo inserisce nella “Cantata dei giorni dispari”: una raccolta di commedie – scritte dal 1945 al 1973 – dove i “giorni dispari” sono quelli negativi, quelli legati a ciò che resta della realtà sociale, dopo le distruzioni materiali e morali causate dalla guerra.  

E la prima forma di socialità ad essere analizzata è proprio quella della famiglia – specchio dei cambiamenti sociali – mostrando la frammentazione del nucleo patriarcale, i conflitti generazionali, il difficile rapporto tra padri e figli. Ed evidenziando come l’unità familiare possa sgretolarsi sotto il peso di tensioni individuali e sociali, riflesso anche del disagio di un’epoca. 

Qui in“Sabato, Domenica e Lunedì” Eduardo, con la sua sapiente cifra stilistica dolce-amara, lascia emergere dai toni della commedia temi di rilevanza sociale, come ad esempio il mito del lavoro e il suo efficientismo sterile, che finisce per svuotare e rendere gli uomini spaesati di fronte alla gestione del tempo libero. E ancora, la seduzione della pubblicità e la sua ipocrita fidelizzazione attraverso concorsi a premi. 

E poi la crisi dei padri, quasi infastiditi dalle scelte dei propri figli: dal farsi testimoni creativi – e quindi anche critici – dell’eredità paterna. Padri che fanno fatica “a saper tramontare , ovvero a lasciare spazio ai figli, ritirandosi dal centro della scena per permettere loro di crearsi una propria identità. Senza rimanere ingombranti.

(ph. Tommaso Le Pera)

Perché la famiglia è un pò come il ragù, sembra volerci dire Eduardo.

E’ una ritualità che si fonda sulla cura e sul saper attendere.

E’ un incontro sempre uguale e sempre nuovo da condividere. 

Teresa Saponangelo (Rosa Priore)

(ph. Tommaso Le Pera)

La lunga e lenta cottura del ragù è infatti metafora della cura e del tempo da dedicare alla relazione con l’altro. Un atto d’amore che non si dà una volta per tutte, ma che chiede di rinnovarsi continuamente. Ogni volta. Lo stesso termine “ragù” – derivando dal francese “ragoût” e a sua volta dal verbo “ragoûter” – significa “risvegliare l’appetito” o “ravvivare il gusto”. 

Non a caso Rosa sottolinea l’importanza di un ingrediente “scomodo” come la cipolla. Una pungente amarezza il cui segreto è  –  quando soffriggendo lentamente si consuma fino a creare intorno al pezzo di carne una specie di crosta nera – versarvi sopra il quantitativo necessario di vino bianco, cosicché la crosta si sciolga fino ad ottenere “quella sostanza dorata e caramellosa che si amalgama con la conserva di pomodoro. E si ottiene quella salsa densa e compatta che diventa di un colore palissandro scuro, quando il vero ragù è riuscito alla perfezione”. 

Claudio Di Palma (Peppino Priore)

(ph. Tommaso Le Pera)

Quell’amarezza inevitabile anche in una relazione di coppia, o familiare, che richiede di essere annaffiata da un generoso versare di parole a chiarimento. Per tirar fuori da questa amarezza quel caramello che poi si sposa magnificamente con la passionalità creativa.

E invece Rosa e Peppino è almeno da quattro mesi che si soffriggono nell’amarezza, senza versare neanche un filo di parole sull’accaduto. Ne risulta che Peppino ha perso il suo appetito, facendosi possedere dal “quel mostro dagli occhi verdi” della gelosia e lasciandosi “fare dalla Luna”, che “quando si avvicina troppo alla terra fa impazzire gli uomini”. E Rosa si sta caricando di rabbia, come una molla pronta a saltare fuori dalla scatola, che ancora la contiene, fino a spegnersi dolorosamente.

Al malcelato rancore che fatica a liquefarsi tra Rosa e Peppino e che finirà per far “attaccare” la loro relazione alle pareti del contenitore familiare, si somma una lunga “pippiatura”.

Mersilia Sokoli (Giulianella)

Una fase cioè di lentissima cottura delle “varie specie di carni”, rappresentata dall’esuberante vitalità inquieta dei figli e di un nonno tutti in bilico tra la tentazione a replicare l’imprinting familiare e la voglia di inserirsi nel futuro; la zia Memé che sublima la sua iper protezione verso il figlio con la passione per i libri e per l’emancipazione femminile;  la generosa espansività dei vicini di casa Ianniello; una cameriera con la croce di un fratello traumatizzato dagli orrori della guerra e uno zio che alla fragranza del ragù preferisce le tavole del teatro.

Teresa Saponangelo ((Rosa Priore) – Claudio Di Palma ( Peppino Priore)

Il regista De Fusco sa lasciar parlare il testo di Eduardo De Filippo in tutta la sua valenza carica di sfumature, restituendo ed interpretando quel “fermento contestatario, quell’anticipazione dell’avvento del divorzio in Italia, quell’apparente fusione di finti rapporti cordiali in una famiglia, in cui convivono i rappresentanti di tre generazioni” ( Eduardo De Filippo sul «Roma» del 7 maggio 1969).

Ma soprattutto la regia di De Fusco veicola efficacemente quella calda e pungente sensazione che, solo entrando in una “relazione” amorosa, due persone possono restare unite: non per il matrimonio e nemmeno per i figli.

Piuttosto per quel desiderare ancora una volta un nuovo inizio, che si genera quando l’esuberante amarezza trova un varco nell’intimità del dialogo: in “un affacciarsi”, che tiene l’altro negli occhi. Anche dopo che scompare alla vista.

Maria Cristina Gionta (Elena)

Lo spettacolo di De Fusco si avvale della complicità di un folto cast attoriale accordatissimo,

Teresa Saponangelo, Claudio Di Palma, Pasquale Aprile, Alessandro Balletta, Anita Bartolucci, Francesco Biscione, Paolo Cresta, Rossella De Martino, Renato De Simone, Antonio Elia, Maria Cristina Gionta, Gianluca Merolli, Domenico Moccia, Alessandra Pacifico Griffini, Paolo Serra, Mersilia Sokoli

che brilla e commuove nel restituire la sensazione di come noi umani – al di là delle più disparate differenze sociali e culturali – si vive tutti di attenzioni e di sguardi.

Altrimenti è come non esistere, è come essere invisibili.

“Ma mannaggia la morte fetente: ma perché la gente non capisce mai per conto suo quello che può essere il desiderio di una persona e l’accontenta subito, senza costringere questo disgraziato ad usare la forza per ottenere quello che gli spetterebbe di diritto?”.

Francesco Biscione (Antonio Piscopo, padre di Rosa)



Recensione di Sonia Remoli

Recensione di MISURA PER MISURA – regia Giacomo Bisordi

di WILLIAM SHAKESPEARE

– Traduzione e adattamento Chiara Lagani –

TEATRO INDIA

dal 2 al 14 Dicembre 2025

“Tu ce l’hai un desiderio?”

Si apre come un diario il prologo di questo spettacolo del regista Giacomo Bisordi, per confidarci la genesi del suo lavoro di ricerca sul darsi del desiderio nella società, soprattutto nei periodi di crisi.

Infatti se il desiderio è quanto di più soggettivo e singolare possa esserci – l’uomo è il suo desiderio – di conseguenza il desiderio è anche ciò che si rende meno adattabile e omologabile alle richieste della società in cui vive, dove la norma sociale parla alla collettività, è per tutti.

Il desiderio quindi è anche l’espressione di quel “disagio della civilta” di cui parlava Freud e di cui Misura per misura di W. Shakespeare è un esempio emblematico.

Giacomo Bisordi

Succede infatti, sopratutto quando salta in aria l’ordine a cui abbiamo creduto di dar forma stabile – degenerando in un disordine tale da rendere palpabile il senso di fine imminente – che prorompa in noi, per reazione, una potente spinta vitale del desiderio, di cui non si conosce “la portata e la natura”.  

Qualcosa di simile si verificò nella Vienna in cui Shakespeare ambienta questa commedia oscura, con alle porte la guerra. Ma qualcosa di simile si verificò anche, più recentemente, in occasione della pandemia.

Succede cioè una sorta di applicazione del principio “misura per misura” tra amore e morte, tra eros e thanatos, che fa fatica a trovare un equilibrio. E che scoperchia un nostro autentico modo di stare al mondo, in un’insolita sintonia con la natura.

(ph. Manuela Giusto)

Mettere in scena personaggi così ambigui e contraddittori risulta destabilizzante per lo spettatore. Ma proprio questa sensazione Bisordi, seguendo creativamente Shakespeare, desidera insufflare nel pubblico, avvalendosi della collaborazione di una giovane donna, interprete e traduttrice delle forme del desiderio umano. Un po’ come la Madama Sfondata di Shakespeare.

Un lavoro “a quattro mani” il loro, per rileggere il testo shakespeariano, qui tradotto e adattato dalla fine e poetica sensibilità di Chiara Lagani. Che riesce a restituire nel passaggio da una lingua all’altra – come in uno specchio – la caduta di esseri umani magnificamente mostruosi, sulla superficie scivolosa della vita. 

Chiara Lagani

Bisordi allora lascia come cadere a terra le pagine del diario, rese in scena da un telo impermeabile: metafora di un nostro atteggiamento incline a rendere impermeabile la mente dal corpo, il dovere dal volere. Anziché cercare sempre nuovi modi di tenerli in relazione. 

La caduta di questo telo rivela “un non luogo” fisico: la Vienna alle cui porte incombe la guerra e di cui in lontananza si sente l’eco di un bombardamento, reso suggestivamente da un motivo di musica techno. Una Vienna che è anche un luogo mentale: la mente del Duca Vincenzo  (le scene e le luci sono di Marco Giusti).

Un sovrano che ha scelto di de-regolamentare il desiderare di ciascun cittadino, togliendo efficacia creativa ai limiti che le Leggi mettono al desiderio individuale “di essere tutto e di volere tutto”.

Un siffatto modo di fare ha prodotto un decadimento tale del desiderio, che il Duca stesso anziché trovare il modo per rimediare creativamente ai propri errori, sceglie di fingere di assentarsi e di affidare pro-tempore la gestione della città all’intransigenza di un vicario. Per godere nel vedere come i cittadini lo avrebbero odiato: un desiderio narcisistico-voyeristico di chi preferisce eccedere nella clemenza, per un proprio ritorno personale d’immagine.

(ph. Manuela Giusto)

Il passaggio di consegne al Vicario Angelo avviene in questo spazio privo di coordinate, dove campeggia – libero anche dal vincolo della forza di gravità – il luogo della liberazione corporale. Bisordi lo visualizza in un bagno chimico, simbolicamente luogo delle soluzioni temporanee per necessità primarie.

Per far arrivare subito allo spettatore la sensazione dell’incapacità di Angelo di relazionarsi con gli altri, chiuso com’è nel rigore delle sue regole, Bisordi sceglie non solo di ri-vestirlo di un impermeabile ma anche di mettergli in bocca un’altra lingua. 

Il primo segno che il vicario Angelo imprime al suo governare è dare forma ad una bilancia, convinto di poter trovare un equilibrio nell’applicazione del principio “misura per misura”. Un equilibrio disumano, non meno di quello opposto, scelto dal Duca Vincenzo. 

(ph. Manuela Giusto)

Ostinandosi, poi, a voler condurre la propria amministrazione seguendo la linearità delle regole, Angelo dimostra, a differenza del Duca, di non conoscere affatto le contraddizioni dell’animo umano e di quanto l’irrazionalità superi in potenza la razionalità. Su questa linearità mentale crea urbanisticamente anche il suo spazio fisico. Ma il terreno sul quale edifica non è solido: affonda.

(ph. Manuela Giusto)

E poi c’è lei: Isabella.

Isabella è la sorella di Claudio, che Angelo con il suo criterio iper rigoroso del “misura per misura” ha condannato a morte per aver messo incinta una donna fuori dal matrimonio. Claudio chiede allora alla sorella di convincere Angelo a cambiare idea. Lei sta per prendere i voti per diventare suora ma “nella sua giovane presenza c’è un certo muto e sommesso linguaggio ch’ha la virtù d’intenerire gli uomini”.

Infatti la prima cosa che Isabella fa quando Lucio, un amico di suo fratello, l’avvisa di andare da Angelo, è quella di entrare in sintonia con lui preparandosi a parlare la sua stessa lingua. E poi gli rivela qual è il suo desiderio e perché Angelo deve esaudirlo.

(ph. Manuela Giusto)

E così, in un gioco di specchi, lei gli confida di sentire spinte contrastanti che dividono il suo sentire tra il dovere e il volere. E che anche lui “se volesse”, potrebbe concedere la grazia a suo fratello.

Nei pensieri prefabbricati di Angelo, “uno che nelle vene non ha sangue, ma neve liquefatta”, qualcosa inizia a vacillare: ”Ella parla, ed è come se il suo senno m’accenda i sensi”.

Ecco allora che Angelo, complice quell’arrossire con presenza di spirito proprio della verecondia di Isabella, inizia a vedere il desiderio di lei da un altro punto di vista: ne parla anche la sua prossemica. Si va a sedere infatti in un altro lato della sua stanza. Ma ormai non riesce più a guardarla dritto negli occhi: lei riesce ad accendergli un desiderio perverso.

E Isabella lo sente. E cambia corpo: s’inginocchia ma, più che devozione, il suo è il risultato dell’accordo della sensualità della voce a quella dei gesti. Come quello di raccogliere una manciata di terra e sassi iniziando a strofinarla sul tavolo. L’effetto è irresistibile sul Vicario Angelo.

Tanto che ora è Angelo a sentire di voler cambiare lingua per parlare quella di lei. Ora scopre il piacere dell’essere condotto, anziché quello del condurre; di essere governato, anziché governare. E si contamina lui stesso con la terra. Angelo scopre che nel suo corpo scorre sangue. E scappa.

Ma Isabella torna e insiste con il suo desiderio di ottenere la grazia per il fratello. Angelo a fatica riesce a negargliela ma non ce la fa a vederla andar via: “ resta ancora un po’ ” – le dice.  E lo spazio diviene più intimo, la prossemica più confidenziale. Tanto che lui si lancia nel dichiararsi. Ma credendo ancora di poter applicare il principio “misura per misura”: la grazia in cambio di una notte d’amore. 

Isabella si rifiuta categoricamente di tenere in equilibrio sulla bilancia peccato e carità. Perché “la purezza” – dice – “pesa di più della vita di un fratello”.

Lo spettacolo procede in un susseguirsi di colpi di scena verso un finale a lieto fine, che volutamente non ci concede piena soddisfazione. Shakespeare nel 1603 portava al cospetto del suo pubblico una commedia dilemmatica perfetta per ricordare, in tutti i momenti di crisi, chi siamo e come risulta difficile coordinare individualmente e collettivamente il volere al dovere. 

E come invece ci viene facile renderci impermeabili a questa tensione: il telo che cade all’inizio viene poi nel finale ricercato per rendere di nuovo impermeabile quella sorta di “giudizio universale” nel quale si crogiola il Duca Vincenzo.

In scena un cast, composto da  

Dimitri Galli Rohl (Duca di Vienna), Arne De Tremerie (Angelo, vicario del Duca), Vanda Colecchia (Isabella, una novizia), Edoardo Raiola (Claudio, suo fratello), Michele Lisi (Escalo, prefetto di Vienna), Francesco Russo (Lucio, un borghese cliente di prostitute), Irene Mantova (Mariana, Suor Francisca, La Signora Gomito), Miruna Cuc (in video),  

che sa rendere assai efficacemente la tortuosa esplorazione della natura umana e dei suoi grovigli, anche insolubili. Ma soprattutto il cast sa restituire quanto risulti complessa la gestione del rapporto – individuale e collettivo – tra carità e merito; tra amore e giustizia. 

E’ il Duca – sebbene con un’intenzione ipocrita – a dire al Vicario Angelo qualcosa di estremamente vero,  all’inizio del Primo Atto:

Tu e le tue doti non siete solo cosa tua,

da esaurir te stesso nelle tue virtù, e loro in te.

Il cielo fa con noi come noi con le torce,

che non s’accendono solo per se stesse:

se dalle nostre virtù non si irradia luce,

tanto varrebbe non averle

E’ questa affermazione che poi conduce lo spettatore a riflettere su come il desiderio di ognuno di noi abbia in sé anche la carica erotica di un daimon: di un’attitudine talentuosa che chiede di realizzarsi con una generosità che raggiuga altri, oltre che noi stessi.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione di SCOPATE SENTIMENTALI – Esercizi di sparizione

– uno spettacolo di e con Filippo Timi, Rodrigo D’Erasmo, Mario Conte –

TEATRO ARGENTINA

1 Dicembre 2025

PPP Visionario – 50° anniversario dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini


Nell’ambito dei festeggiamenti che la città di Roma propone alla comunità in occasione del 50° anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini attraverso il grande progetto “PPP Visionario – la più grande rassegna multidisciplinare, come ama sottolineare con orgoglio il Sindaco Roberto Gualtieri, che da ottobre a dicembre attraversa la città con eventi dedicati alla figura e all’opera di uno dei massimi intellettuali del Novecento – il Teatro di Roma, nello specifico, sceglie di omaggiare Pasolini con un trittico di appuntamenti .

Dopo la selezione dei testi di Roberto Scarpetti da “Ragazzi di vita” e “Petrolio” al Teatro Elsa Morante e l’ “Oratorio per i 50 anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini” ideato e diretto da Giacomo Bisordi al Teatro Argentina, ieri 1 Dicembre è andato in scena “Scopate Sentimentali. Esercizi di sparizione” uno spettacolo di e con Filippo Timi, Rodrigo D’Erasmo, Mario Conte, sempre al Teatro Argentina.

Ecco allora che Timi, onorando l’eredità ricevuta da Pier Paolo Pasolini, lascia soffiare tutto il suo folle amore in un’erotica composizione, dove fa sua quell’energia che riesce a tenere uniti elementi che la logica vorrebbe in opposizione.

L’urgenza di dare forma a questa composizione – come dichiara in un’intervista rilasciata a Rodolfo di Giammarco – scaturisce dal riuscire a tenere insieme due spinte emotive contrastanti: quella del sentirsi inseguito dal rancore per essere stato abbandonato dal suo padre artistico “per il semplice fatto che è morto” e insieme quella del sentirsi incalzato dal desiderio di riavvicinarsi a Pasolini, fino ad “accettare quello che il poeta chiamava scandalo, il Cristo sulla croce, il divino che finisce”.

Timi dà avvio così ad una sua personale e laica rievocazione della passione della croce di Pasolini – uomo che non poteva sfuggire al suo destino – secondo un ciclo si stazioni scandito da quattro stagioni, ognuna delle quali composta da tre movimenti, che rievocano i colori emozionali propri di ciascuna stagione. Tracce dell’imprinting di questa struttura si rintracciano in un altro uomo ricco in umanità: Antonio Vivaldi.

Mario Conte, Filippo Timi, Rodrigo D’Erasmo (ph. Simone Cecchetti)



Sulle orme di Vivaldi con il complice estro di due compagni di viaggio quali Rodrigo D’Erasmo (violinista, compositore, arrangiatore e polistrumentista) e Mario Conte (musicista/sperimentatore dentro e fuori la musica elettronica) – Timi fa sì che ogni concerto per violino sia accompagnato da una sorta di sonetto descrittivo, che illustri ciò che la musica e le immagini video andranno ad evocare.

La scrittura di Timi contatta tutte le vibrazioni cromatiche della poesia, sapientemente restituita in musica contaminando la matrice apollinea con echi dall’esplosività dilaniata. Che ricordano, ad esempio, quella tensione a dar voce “all’inascoltabile” della musicista, cantante e pianista Diamanda Galás

Ecco allora che le melodie al violino di Rodrigo D’Erasmo si aprono a sconfinamenti graffiati, abilmente distorti e amplificati dall’artigianalità acustica in avanscoperta di Mario Conte. Arriva così allo spettatore un’accattivante sinergia tra parola-suono-immagine che sa restituire le varie anime, anche fantasmatiche, di Pier Paolo Pasolini.

Il tutto è concepito dentro un ciclo vitale dove la vita s’incontra costantemente con la morte. Proprio lì, sulla soglia. Come testimoniano le poltrone riservate in prima fila: dove “con noi” assistono allo spettacolo le anime belle care a Timi. Da Ornella Vanoni a Adriana Asti, passando per la Callas e per Attilio e Bernardo Bertolucci, fino alla Vitti, a Laura Betti, alla Magnani, ad Aberto Moravia, a Guido Pasolini. E poi lei, la mamma: Susanna Colussi.

Uno spettacolo “generoso” – come lo ha definito il Presidente della Fondazione del Teatro di Roma Francesco Siciliano nella sua presentazione dell’evento di ieri 1 Dicembre – al quale la comunità di Roma ha risposto con una partecipazione d’assalto. Una scelta – ha sottolineato Siciliano – “fortemente voluta” dall’Assessore alla Cultura di Roma Capitale Massimiliano Smeriglio

(ph. Simone Cecchetti)

Perché è uno spettacolo che facendosi testimone dell’eredità pasoliniana attraverso “un poietico” modo di stare al mondo, si prende cura di preservare tale eredità dal rischio di essere inghiottita dall’ossessione capitalistica alla mercificazione della bellezza.

Rischio che Timi ci fa entrare negli occhi, già prima dell’inizio dello spettacolo, attraverso i due pannelli ai lati del palco che riproducono la Venere del Botticelli – allegoria dell’amore come forza motrice della natura e quindi  energia vivificatrice che spinge alla creazione – distorta e addomesticata in un’icona da franchising. 

Dello stesso rischio ci parla l’immagine a tutto schermo sul palco: quello di ridurre la sensuale e dilaniante fecondità della parola di Pasolini ad un esotico souvenir, poggiato su una soffice e spensierata sabbia, carezzata dal rassicurante mood di un ukulele.

Questo – ci ricorda Timi – è quello che potrebbe restare della poetica e dell’estetica pasoliniana all’indomani di un deformazione mercificata, che farebbe della diversità tragressiva una moda commerciale. Privandola così di tutta la sua carica dirompente: divenendo “alla moda” – spiega Massimo Recalcati nel suo “Pasolini – Il fantasma dell’origine”perde fatalmente ogni suo potenziale critico divenendo una manifestazione della pervasiva capacità del potere di addomesticare anche ciò che può sembrare inassimilabile.

Ma ad un diverso sguardo quell’immagine di apertura, nonostante il suo essere riplasmata attraverso connotati aurei, morbidi ed ingenui, ricorda nella sua essenza quella bocca della figura a destra dei “Tre Studi per figure alla base di una Crocifissione” di Francis Bacon. 

Una bocca dilatata in un urlo disumano, dall’anatomia disgustosamente ambigua, che ritorna come costante in vari momenti dello spettacolo. Resa assai efficacemente da efficaci distorsioni della voce, del suono e delle immagini video. 

Perché quello di cui Pasolini si faceva autore e interprete, al di là e grazie alle sue contraddizioni, è una riflessione più ampia sulla condizione dell’essere umano. Una riflessione che parla anche dello smarrimento e dell’orrore sub-umano in cui può darsi l’esistenza. Dove il cadere degradante si fa spazio sulla possibilità di salvezza.

Ecco allora che Filippo Timi, Rodrigo D’Erasmo e Mario Conte – insieme ad Amerigo Cornacchione – ci lasciano con un particolare messaggio: “ci vuole incoscienza per vivere e incoscienza per morire!”

Pasolini, non a caso, chiedeva e si chiedeva: “Qual è la vera vittoria quella che fa battere le mani o quella che fa battere i cuori”?

La mia è una visione apocalittica. Ma se accanto ad essa e all’angoscia che la produce, non vi fosse in me anche un elemento di ottimismo, il pensiero cioè che esiste la possibilità di lottare contro tutto questo, semplicemente non sarei qui, tra voi, a parlare” (Pier Paolo Pasolini)


SCOPATE SENTIMENTALI

Esercizi di sparizione


Recensione di Sonia Remoli

Recensione di QUELLI CHE RESTANO – regia Davide Celona

TEATRO COMETA OFF

24 e 25 Novembre 2025

Che cosa significa essere amici?

Che cosa significa essere un gruppo?

Se l’amicizia è l’incontro non solo con un’altra persona ma anche con la possibilità di entrare in dialogo con parti oscure di noi stessi, uno spazio cioè dove la ragione incontra la “l’irrazionalità” offrendole un luogo sicuro attraverso lo sguardo accogliente dell’altro, 

come riescono efficacemente a restituire i ragazzi in scena, ovvero Marta Ferrarini, Leonardo Lutrario, Luca Molinari, Emanuela Vinci,

cosa succede a chi resta quando un amico si suicida?

Ci s’interroga su un fallimento: il fallimento della parola.

Gilles Deleuze diceva che “la violenza non parla”: la violenza porta ad immaginare come in un’allucinazione che si possa arrivare alla soluzione di un problema sùbito, linearmente. Senza passare per le complessità labirintiche della parola. 

Ed è una tentazione decisamente seducente, quella della violenza: abita anche i nostri sogni. E rischia di sedurci a tal punto, da provare una sorta di piacere per la nostra stessa autodistruzione.

Su questo si interroga la drammaturgia di Marta Ferrarini e Emanuela Vinci, supervisionata da Giovanni Bonacci e dallo sguardo di Gianni Clementi.

Leonardo Lutrario, Marta Ferrarini, Emanuela Vinci, Luca Molinari

Nello specifico coloro che restano – qui i quattro ragazzi in scena – s’interrogano su “come” Milo abbia scelto di suicidarsi. Ma soprattutto “perché”.

Perché non ne ha parlato con il gruppo? Almeno con uno di loro, visto che proprio ora nel parlarne insieme emergono altre confidenze fatte non a tutto il gruppo ma solo a singole persone. Ed è subito gelosia, ed è subito spinta al gesto violento, anziché al lavoro più lungo della parola.

O forse, pensano, Milo ha provato a parlarne ma loro non sono stati sufficientemente in ascolto dei segnali che lui stava cercando di inviare. Forse …forse ….

Davide Celona

La regia di Davide Celona porta in scena una fascinosa elaborazione del lutto di quattro giovani, alla ricerca di ristabilire un contatto con quelle parti di sé con cui Milo permetteva loro di entrare in dialogo. 

Ma ora, prima ancora di capire se andare o non andare al suo funerale, dopo essere stati esiliati su scelta della famiglia di Milo dalla camera mortuaria, occorre chiudere un loro rito – il rito tra quelli che restano – per potersi aprire poi ad una nuova forma di ritualità collettiva.

Occorre attraversare “quello che resta” – quel vuoto, quella mancanza, quel senso di colpa – per poter arrivare alla consapevolezza che Milo non va salutato e lasciato andare, ma continuato a tenere “con” loro. Attraverso la parola, attraverso il ricordo quotidiano, attraverso la percezione della sua presenza.

Emanuela VinciMarta Ferrarini

E se gli interpreti brillano in credibilità e in coralità e la drammaturgia in intensa e cruda complicità con il dolore, la regia riesce a trovare soluzioni sceniche dalla bellezza arcaica.

Come i rituali di danza, potente linguaggio non verbale che riesce a ricontattare legami con il divino, con la natura, con la società e con le proprie emozioni.

Come il totem del muretto, in lutto per potersi declinare in una nuova forma di agorà.

Come il rituale dello spogliarsi, per ricontattare ancora dolorose parti nascoste, indossando poi diversamente i propri abiti.

Ne emerge un suggestivo affresco contemporaneo di una generazione che cerca e lotta insieme attraverso ritualità trasformative, anche di affrancamento dalle famiglie, per riuscire ad esprimere la propria unicità. Facendo un interessante uso delle rovine del proprio passato, la cui nuova fioritura ora può essere colta. Ancora con Milo. 

Ma noi siamo quelli che restano in piedi e barcollano su tacchi che ballano
E gli occhiali li tolgono e con l’acceleratore fino in fondo le vite che sfrecciano

E vai e vai che presto i giorni si allungano e avremo sogni come fari
Avremo gli occhi vigili e attenti e selvatici degli animali

(da “Quelli Che Restano” Elisa feat. Francesco De Gregori)

-.-.-.-.-

Lo spettacolo è l’opera prima di Marta Ferrarini e Emanuela Vinci ed è uno dei cinque progetti vincitori della sezione Teatro del bando “Labor Work” di DiscoLazio, indetto da Officina delle Arti Pier Paolo Pasolini.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione di LENNY Ipotesi di un omicidio – regia Antonello Avallone

TEATRO NINO MANFREDI DI OSTIA

dal 13 al 23 Novembre 2025

Uno spettacolo brillante e conturbante, che onora il potere della parola e di chi sceglie con coraggio di farsene interprete e testimone.

Ne parla fin dall’apertura del sipario la scenografia di Alessandro Chiti realizzata dalla scenotecnica Mario Amodio: la gigantografia del nome LENNY  che, dietro la fulgente patinatura, cela una vita piena di vitali fragilità. Perché, nonostante tutto, quella di Lenny Bruce – all’anagrafe Leonard Alfred Schneider, ebreo americano di famiglia yiddish – fu una vita sempre fedele all’idea che, attraverso un libero uso della parola, si possa difendere un ideale di giustizia e di uguaglianza di diritti tra diverse etnie.

Perché la parola di Lenny Bruce arde dal desiderio di restituire dignità all’umanità dell’uomo: quella che, ad esempio, ha visto negata quando ancora bambino ha vissuto indirettamente il trauma della discriminazione razziale.

Ecco allora che, così come la parola di Lenny si dà libera, anche il suo nome si carica scenograficamente di tutta la vitalità cromatica di cui si sa far portavoce (il disegno luci è di Manuel Molinu). Cromaticità che si staglia su un fondo nero che ne accresce la visibilità.

E se le prime lettere del nome LENNY rivelano le intimità dei camerini e le ultime quelle del bar del locale notturno dove si esibisce Lenny, l’estro di Chiti fa sì che la prima “N” del nome LENNY resti un meraviglioso mistero. 

Non solo è l’unica di cui non ci si dà di vedere cosa celi dietro – splendida metafora del mistero che avvolge la sua morte – ma contiene orgogliosamente un’anomalia che, nella sua diversità, rende metaforicamente onore al coraggio di “essere diversi”. 

Il locale notturno dove avviene l’incontro tra Lenny e la spogliarellista Honey Harlow è per entrambi un luogo erotico: qui, non solo ha inizio la loro storia d’amore ma anche la scelta di Lenny di portare in scena, per la prima volta, la parola oggetto di repressione. Una parola tutta da “spogliare” dagli strati di ipocrisie e di pregiudizi, che ne soffocano la pericolosa fertilità.

Lo spettacolo ha inizio con una prolessi, un salto narrativo in avanti proprio come accade nel cinema con il flash forward. E’ la scena della morte di Lenny, sulla quale una sorta di narratore onnisciente dà indicazioni storiche, così da aiutare lo spettatore a seguire la diversa e personale ipotesi drammaturgico-registica proposta dallo spettacolo.  

Se quindi la morte di Lenny viene ufficialmente archiviata con la motivazione di un “acuto avvelenamento da morfina causato da un’overdose accidentale”, obiettivo dello spettacolo è evidenziare dettagli e indizi per proporre un’ipotesi personale, come quella avanzata dal testo di Giuseppe Pavia e condivisa dalla regia di Antonello Avallone.

Ipotesi secondo la quale si sarebbe trattato di una partita di droga volutamente “tagliata male” per eliminare un uomo divenuto oramai decisamente scomodo. Una  loro personale interpretazione, non un’affermazione storica, che si fa strada tra i mille dubbi che ancora aleggiano intorno alla morte di Lenny. 

Avallone regista, quindi, non si rifà per il suo spettacolo al film di Bob Fosse –  tratto da una pièce teatrale di Julian Barry e dal racconto di chi lo aveva conosciuto bene come la moglie Honey, la madre Sally e il manager Artie Silver – ma insieme a Pavia cerca di dare una personale continuità alla storia, focalizzando l’attenzione d’indagine sul periodo che va dall’incontro con Honey Harlow avvenuto nel  1951, all’anno della morte di Lenny, ovvero il 1966.

Ambienta poi gli eventi in un unico night club di New York, mantenendo sullo sfondo il livido sentore dello spaccato delle contraddizioni socio-culturali di un’America attraversata da una delicata fase di cambiamento. In bilico tra la prosperità e l’ottimismo della Guerra Fredda, da un lato e il razzismo e la disuguaglianza sociale, dall’altro. 

L’approvazione del Civil Rights Act del 1964 e del Voting Rights Act del 1965 rappresentarono una risposta a queste contraddizioni, ma la loro applicazione fu spesso ostacolata dalla resistenza e dalla violenza. Specchio del divario tra gli ideali dichiarati e le pratiche reali; tra le leggi federali e l’applicazione locale.  E che portò ad una repressione del dissenso, da parte delle istituzioni e delle forze dell’ordine, che a volte assunse anche forme di violenza. In contraddizione con la libertà di parola e di espressione che l’America dichiarava di difendere.

Contraddizioni denunciate continuamente nei testi di Lenny Bruce, come quando affermava: “Io parlo di tette e di culi, e vengo accusato di essere offensivo, ma io vi dico che le scene offensive sono le fotografie stampate sui nostri giornali, dove si vedono tette e culi presi a fucilate, massacrati, bruciati, dal nostro esercito americano, in nome della libertà in Vietnam”.

Oppure come dichiarava in questo celebre monologo:

“C’è qualche lurido Negro qui stasera? Volete accendere le luci per favore, e i camerieri e le cameriere possono smettere di seguire per un momento? Grazie, grazie, grazie, e spegnete i riflettori. Allora: “Che cosa ha detto? C’è qualche lurido negro qui stasera“? Io so che ce n’è uno, perché lo vedo lavorare, laggiù. Vediamo… ecco là due luridi negri. E fra quei due negri c’è un giudio usuraio. E … là c’è un altro giudio, due usurai e tre luridi negri. E c’è anche uno spaghetti, giusto? Mhm? Ooh, ecco un altro spaghetti. E, uh! Ecco là un greco traditore… e poi un paio di spagnoli unti… e poi anche tre ubriaconi irlandesi vestiti bene… E poi c’è un tipo nero, nero, nero, moro… brutto. Un lurido negro. Ho tre usurai qui, qualcuno dice cinque usurai, siamo a cinque usurai. Qualcuno dice sei spaghetti? Ho sei spaghetti, qualcuno dice sette negri? Ho sette negri! Aggiudicato. Io passo con sette negri, sei spaghetti, cinque ubriaconi irlandesi, quattro greci traditori e tre usurai. Stavi per spaccarmi la faccia, vero? Ehehe, e con questo siamo arrivati al punto. Ovvero che è la repressione di una parola quella che le dà violenza, forza, malvagità. Attenti. Se il presidente Kennedy apparisse in televisione e dicesse: “Vorrei farvi conoscere tutti quanti i negri del mio gabinetto“. E se continuasse a dire: “Negro, negro, negro, negro“, a tutti i negri che vede. “Moro, moro moro moro, negro negro negro“, finché negro non significa niente, mai più. Allora non vedreste più piangere un bambino di colore di sei anni perché qualcuno a scuola lo ha chiamato “Negro“.

(Foto Bettmann Archives, Getty Images)  

Nell’intrigante fumosità di un night club, qui nello spettacolo di Avallone, lo spettatore si ritrova immerso in un seducente spettacolo di cabaret, che accoglie in sé sketch comici di satira politica che, complice lo strumento della risata, si fanno occasione di riflessione per lo spettatore. E che Antonello Avallone – nei panni di Lenny Bruce – restituisce in un’intensa interpretazione. Sketch comici che si intervallano ad accattivanti brani musicali, interpretati da una carismatica Flaminia Fegarotti e ad eleganti spettacoli erotici di danza, resi opportunamente dal fascino di Giulia Di Quilio, nel ruolo di Honey Harlow.

Completano la coralità del cast il Procuratore distrettuale Frank Hogan (interpretato da un efficacemente subdolo Riccardo Bàrbera), strettamente legato al cardinale Spellman, arcivescovo di New York e impegnato in un monitoraggio molto forte nei confronti Lenny; la generosità del manager e amico Artie Silver che mai tradì Lenny  fino alla fine, interpretato con efficace candore da Giuseppe Renzo e la lungimirante proprietaria del night club e presentatrice degli show Francesca Cati. Particolarmente curata si rivela inoltre la cura dei costumi di scena di Red Bodò.

Nei suoi ultimi spettacoli nei club, Lenny descriveva in dettaglio i suoi incontri con la polizia e i processi in tribunale e ciò incoraggiò la polizia a controllarlo sempre di più, nonostante la libertà di parola fosse proclamata dal 1° e dal 14° emendamento della Costituzione Americana. 

Successivamente, malgrado un gruppo di artisti firmò una petizione in suo favore, tra i quali Woody Allen, Bob Dylan (che nel 1981 gli dedicò una canzone contenuta nell’album “Shot of Love”), Elizabeth Taylor, il poeta Allen Ginsberg e lo scrittore Norman Mailer, e per quanto gli avvocati di Bruce davanti ai giudici paragonarono il linguaggio dei suoi testi a quelli del commediografo greco Aristofane e dello scrittore Jonathan Swift, nel 1964 arrivò la condanna per oscenità. Alla quale poi seguì nel 2003 una grazia postuma, la prima nella storia dello Stato di New York, da parte dell’allora governatore George Pataki.

Con la sua passione nel fare teatro civile attraverso monologhi audaci e illuminanti, Lenny Bruce ha ridefinito il panorama della comicità, aprendo la strada ai futuri comici della controcultura e della stand-up comedy .

Tornare, come fa Antonello Avallone, a ricordare con il suo spettacolo questo personaggio significa invitare lo spettatore ad una riflessione personale sulla natura della libertà di espressione.

Un’importante riflessione che chi fa arte, e quindi Teatro, sa di avere la responsabilità di affrontare, soprattutto in frangenti storici in cui la discussione su questo tema è necessaria, quanto nell’America degli anni ’60.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dell’episodio n. 5 della Saga NELLE PUNTATE PRECEDENTI – regia Pier Lorenzo Pisano e Alessandro Di Murro

Una saga familiare 

ideata 

dal Gruppo della Creta e da Pier Lorenzo Pisano

per riflettere

sulla trasposizione della narrazione seriale a Teatro 

Episodio n.5

Titolo: “A te, fra 25 anni”

Autore: Rebecca Righetti

In scena: Shadi Romeo, Elena Vanni

Tra impazienza e nostalgia, sfidando la pioggia e l’insolito freddo, anche ieri sera si era in tantissimi ad aspettare l’ultimo episodio della saga familiare “Nella puntate precedenti”: A te, fra 25 anni di Rebecca Righetti.

Ad attenderci un finale di stagione che, attraversando durezze inscalfibili, ci ha portati a sognare, per poi lasciarci come appesi ad un nuovo vuoto. 

“Fine delle trasmissioni” – l’ultima frase pronunciata – apre infatti a diverse letture, che vanno oltre quella relativa alla fine della prima stagione della saga.

Parlandoci anche, ad esempio, della possibile rottura della trasmissione dell’incantesimo che percorre tutta la saga. Il dare le spalle cioè alla “presa in carico” della maternità e più in generale della genitorialità. Alla presa in carico dell’aver cura di un altro da sé, com’è un figlio, destinato poi a lasciare il nido familiare. Un investimento complesso e rischioso che richiede molto e che, in cambio, non si dà come una proprietà.

Ma ora, per la prima volta nella saga familiare, una figlia abbandonata e poi adottata sente l’esigenza di mettersi sulle tracce del proprio passato. E così facendo dà avvio ad un nuovo corso del presente, che parte da quell’eredità, ma che ora immagina come materia per una possibile costruzione personale.

“La presa non funziona” – dice Giulia (una commovente e commossa Shadi Romeo): non si produce infatti calore.

“Lo sapevo”  – risponde Serena (un’efficacissima Elena Vanni) – e propone una presa che è lì in stanza. Ma che lei – anzichè fare in modo che produca calore tra loro – fa sì che diventi il confine tra avversarie di uno stesso campo da gioco.

E poi come un deus ex machina cade il tetto di contenimento e scende un’altalena, dove al momento nessuno sale, ma che prelude ad un seguito di continue sedute oscillanti, esistenzialmente incendiarie, tenute sospese da nuove catene.

Ciò che resta, che lo spettatore si porta con sé, è il potere del dono: di una postura vitale generosa, che sa andare oltre le regole del gioco, oltre la ritualità chiusa di un incantesimo, oltre le cinture di sicurezza. E che riesce a fare breccia sull’altro, nonostante tutto. 

Prima ancora di scartarlo, infatti, il dono di Giulia viene accettato e tenuto in grembo da Serena come fosse un bimbo appena nato. Come un nuovo inizio: una nuova occasione di maternità. 

Giulia sceglie non a caso come dono un pezzo unico, speciale, diverso da tutti gli altri dello stesso genere: per riconoscere a Serena l’unicità del suo essere madre, madre biologica. 

E’ una fonte di luce: come vorrebbe che accettasse di essere ora Serena, fin dall’inizio rimasta all’ombra della sua vita.

Ma in amore non vale il merito, non vale la giustizia: l’amore va oltre. Ed è tale se riesce ad accogliere e a fare un fertile uso delle fragilità, degli errori, delle mancanze, dell’altro.

Ne parla con poetico disincanto la prossemica della madre, sempre sulla difensiva e quella della figlia sempre a tentare, sempre a corteggiare, fino a sedurre le resistenze materne.

Ma poi quando alla dichiarazione di “simpatia” arriva in risposta una dichiarazione di “estraneità”, Giulia molla la partita.

E, a qualche livello, continua a vincere: ora sua madre, in solitaria, si scioglie con noi del pubblico in un racconto immaginativo, che apre nuovi orizzonti alle parole castranti con le quali è riuscita a farla andar via: “non ci saranno altre puntate !”.

E invece no, qualcosa si muove. 

Serena non sale sull’altalena ma si appoggia a una delle catene che la sostengono, confidandoci che “c’è una storia che non esiste, un soggetto che non è stato ancora girato…”.

E noi questo soggetto si aspetta di condividere nelle “prossime puntate”, quelle di una nuova stagione. Per saperne di più ma soprattutto per scoprire cosa deciderà di fare Giulia di questo nuovo incontro con il suo passato.

Una Serie Teatrale, questa de “Nelle puntate precedenti”, che reinventando il tempo del teatro lo ha saputo trasformare in un rito seriale. E così facendo ha conquistato Roma.

Un esperimento narrativo e teatrale che come tale apre una nuova frontiera nella drammaturgia contemporanea, trasformando la serialità — linguaggio per eccellenza del nostro tempo — in un’esperienza scenica condivisa, intima e collettiva.

Dopo lo strepitoso successo dei primi cinque episodi, con un seguito in costante crescita, repliche raddoppiate e una partecipazione del pubblico che ha superato ogni previsione, l’esperimento è decisamente riuscito.

Non ci resta che attendere il sequel.

E, nell’attesa, continuare ad immaginare i possibili esiti di questa esplorazione delle proprie origini. Perchè questa storia, che tanto ci avvince, riguarda tutti noi.


NELLE PUNTATE PRECEDENTI


Recensione di Sonia Remoli