Recensione dello spettacolo LE SEDIE di Eugène Ionesco – regia di Valerio Binasco –

TEATRO VASCELLO, Dall’1 al 6 Marzo 2022 –

Un ambiente scenograficamente scarno e insieme ricco di allusioni: una scatola in bilico? Un’isola in mezzo al mare? Un vascello alla deriva? Forse una sola di queste ipotesi, forse tutte, forse nessuna.

Siamo nel teatro dell’assurdo e in questo contesto, dal quale vengono banditi i principi base della razionalità (e cioè il principio di identità e di non contraddizione e quello di causa-effetto) l’elemento “sedia” diventa un modulo e quindi la misura di tutte le cose. Una sedia non è più solo una sedia ma anche molto altro: è il supporto sul quale si possono far sedere persone (reali o immaginarie) ma anche oggetti (un servizio da thè, degli abiti). E ancora, una scala, ma anche l’unità costitutiva di una piramide-tomba del vecchio (che resta innominato) e della vecchia, alla quale qui si attribuisce il nome-destino di Semiramide. Regina famosa, nel passato, per le fiamme della sua passionalità ma che, ora, qui, sente “un gran freddo”.

Oltre che una piramide, questa struttura triangolare di sedie può essere anche la vela di una zattera o di un vascello, disperso, che anela di andare a vedere altre vele, “splendide macchie di colore”. E per riuscire a vederle, osa sporgersi oltre il grigiore fangoso che lo avviluppa. “È colpa della Terra se tutto cambia, se più si va, più si sprofonda”. Quasi un’eco dell’adagio dell’Otello di Shakespeare: “E’ colpa della Luna: si avvicina troppo alla Terra e gli uomini impazziscono”.

Il fatto è che “si crepa di noia” – ci confessa Semiramide – e per sopravvivere non resta che giocare al “facciamo finta che”. Stratagemma per “cucinare” e quindi nutrire con qualcosa di nuovo il suo compagno, così passivamente inquieto. Lei, Semiramide, invece ha la fortuna di non ricordare quasi nulla e questo la rende “fresca” alla ripetizione: “io ho uno spirito nuovo tutte le sere”.

E grazie a questo “rinnovamento continuo” riesce a commuoversi, fino alle lacrime, durante e dopo l’ennesimo rapporto sessuale con il suo uomo. Nella liturgia della loro giornata c’è anche la cerimonia del thè, accompagnata dal vago pungolamento di lei: “tu sei molto intelligente, avresti potuto fare qualsiasi cosa, se avessi seguito la tua vocazione”.

Lui invece ritiene di aver fatto bene a non essere stato ambizioso: l’unica cosa che desidera ora è continuare a dipendere dalla sua mamma. Almeno lei lo guarderebbe, lo ascolterebbe. “Siamo tutti orfani”, conclude. “Ma ora basta ” – lo ridesta Semiramide: a breve arriveranno “gli ospiti”.

Ma chi è “l’ospite” se non lo straniero (a volte anche il nemico) al quale, per sacro e tacito accordo, tributiamo accoglienza? Un’ostilità che si sublima nell’ospitalità: atavico scambio reciproco ma soprattutto supremo e inviolabile valore di civiltà.

E soprattutto chi sono, qui, “gli ospiti”? Forse siamo noi del pubblico. Siamo noi quelle vele, “splendide macchie di colore”, che il compagno di viaggio di Semiramide (un poetico e visionario Michele Di Mauro) tanto desidera incontrare. Forse ognuno di noi può essere “l’oratore”, capace di trovare le parole per dirlo, “il proclama”: così da non sentirci “orfani”, bambini che nessuno guarda, né ascolta.

Se solo osassimo, se solo prestassimo orecchio, se solo trovassimo l’audacia: un modo di stare al mondo meno serioso del coraggio ma più temerario, e perciò più brillante. L’audace non è inconsapevole del rischio ma generosamente lo accetta e se ne compiace. E la sorte l’aiuta, perché l’audace è consapevole di sé e quindi aperto all’accoglienza, all’ospitalità.

Uno spettacolo potente che, andando al di là della miseria della condizione umana, ci ricorda qual è la nostra missione qui sulla Terra: quella di “ospiti” e di “ospitanti”.

Particolarmente degna di nota, la fulgida interpretazione di Federica Fracassi.

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Maggiori informazioni sul regista Valerio Binasco


Recensione di Sonia Remoli

Nessuno dopo di te

TEATROSOPHIA, dal 22 al 27 Febbraio 2022 –

L’amore come l’acqua si insinua. E insiste fino a levigare. È un vai e vieni che sposta materia ed energia. È una continua perturbazione. Le sue onde gonfiandosi vanno a infrangersi su tutto ciò che costituisce un limite, un confine. Come le pareti di una stanza; come i muri emotivi eretti dall’altro.

La prima volta, al mare, solo Diego viene inondato da Mirko, che invece si limita ad apprezzare narcisisticamente le sue attenzioni. Gli è sempre piaciuto piacere. Gli è sempre piaciuto essere infastidito. Ma Diego, nonostante tutto, insiste: come fa l’acqua che leviga, come fa il desiderio che dice “ancòra”, come si fa con una corda che prima si tira e poi si allenta, in un continuum.

E qualcosa in Mirko si leviga: inizia ad innamorarsi del desiderio con il quale Diego lo desidera. Un desiderio che ospita la lotta, la guerra, il gioco, la passione travolgente: elementi resi con efficacia coreografica e narrativa. E poi c’è l’intimità: quella che parte dal corpo per attraversarlo, passando per la mente, fino a raggiungere l’anima. Intimità che a volte si fa fatica a riconoscere e ad accettare: una sinergia di sensazioni, rese suggestivamente con plasticità iconografica.

Ma la verità più vera spesso la si trova nel “non detto”, nell’assenza, nel silenzio: solo così, ci si manifesta un’insolita versione di noi stessi, che l’altro ci solletica. E che ci salva.

Uno spettacolo interessante: elegantemente travolgente.

LO ZOO DI VETRO – regia Leonardo Lidi

TEATRO VASCELLO, dal 22 al 27 Febbraio 2022 –

In un ambiente scenico che sa di marshmallow, abita quel che resta di una famiglia, in bilico tra un’apatica malinconia e un’ossessiva eccitazione.

Abiti-maschera amplificano visivamente l’indole principale di ciascun personaggio, resa invece in maniera convincentemente ambigua dalla recitazione.

Improbabili calzature (che ricordano quelle di alcuni personaggi Disney) sortiscono il geniale risultato di rendere ancora più impacciata e maldestra la convivenza, quasi elefanti in una cristalleria, e prossemicamente ancora più incomunicabili le relazioni.

Ciascuno, pur ostinandosi a restare in quella casa, riesce a sopravvivere ancorandosi ad una propria evasione: per Tommaso è l’andare, ad ogni ora libera del giorno, al cinema per sognare quelle avventure che nella realtà non riesce ad affrontare. Per Laura è l’ascolto di vecchi dischi che le parlano del misterioso rapporto tra genitori e figli e di come il giocare a nascondersi per essere trovati possa prendere insolite varianti: ad esempio, quella in cui a nascondersi è un padre (in scena visivamente nascosto ma motore immobile della narrazione). Occasione di massima evasione per Laura, però, è scegliere di prendersi cura di un’insolita famiglia di animaletti di vetro. Per Amanda, la mamma, evadere è poter ricordare continuamente l’indimenticabile serata al Blue Mountain, dove nel pieno della sua bellezza, le ronzavano attorno diciassette pretendenti, che lei dice di aver intrattenuto esercitando l’arte della conversazione, da lei confusa con l’oratoria.

Lo spettatore viene avvertito da Tommaso, in una sorta di prologo, che suo intento sarà quello di raccontare la propria storia (nelle vesti di personaggio e insieme di voce narrante) non in maniera realistica bensì “sentimentale”, avvalendosi dell’aiuto della finzione: “c’è molto trucco e molto inganno”. Da Amanda, invece, ci arriva l’invito metaforico a mangiare lentamente, masticando bene: solo così si riusciranno ad assaporare le spezie, nascoste nei cibi. 

Particolarmente emozionante l’interpretazione del personaggio di Laura, da parte di Anahi Traversi: nelle scene “in primo piano” ci si può incantare a seguire il percorso emotivo che lei attraversa e che, valicando l’estremo contenimento, si scatena finalmente in silenziose lacrime. Per poi, con la velocità del battito di ciglia di un sospiro, passare schizzofrenicamente ad una insospettata situazione di esasperata carica eccitativa.

Una scelta scenografica di grande impatto ed efficace nel rendere, per contrasto, la desolazione di quattro anime prigioniere nel labirinto iper zuccheroso della loro famiglia.


Recensione di Sonia Remoli

I sorrisi del portiere

TEATRO SETTE, Dal 24 Febbraio al 6 Marzo 2022 –

Che cosa accomuna l’Arte di sorvegliare uno stabile all’esigenza di regalare un sorriso? Gli occhi. Come colui che attende alla cura di un palazzo si avvale nel suo lavoro soprattutto dell’uso degli occhi, così nel regalare un sorriso non sono solo le labbra a distendersi: un sorriso lo si va a cercare negli occhi, soprattutto. La ricchezza del Portiere Orazio Parini sta nel suo sguardo, nel particolare uso che fa degli occhi. Un uso propositivo, generativo, fertile. E di questa ricchezza lui ne è consapevole.

All’apertura del sipario, la prima cosa che sceglie di fare, infatti, è proprio quella di regalare al pubblico un irresistibile sorriso (a ben guardare “uno per ognuno”) al quale il pubblico non solo risponde ma sente di amplificare con un applauso. Subito dopo, prima ancora di iniziare a parlare con il Commissario, istintivamente il suo primo gesto è quello di “guardare”, o meglio, di guardarsi intorno: non il banale curiosare, o il subdolo guardarsi alle spalle, piuttosto il non perdere di vista qualcosa che è degno di interesse: eventuali esigenze dei suoi condomini.

Preziosa attenzione che anche Orazio ama ricevere dagli altri: non a caso arriva ad invitare calorosamente il Commissario a fargli tante “domande”. E che cos’è una domanda se non un desiderio di sapere da esaudire? da domare? La domanda non è incalzante come un’interrogazione: è più delicata, quasi elegante. Ed esprime una certa fiducia. Attenzione e fiducia che Orazio non sente di ricevere da nessuno degli ospiti del palazzo: “a me nessuno mi considera, qui”. Potrebbe, crogiolandosi in un euforizzante istinto di vendetta, replicare anche lui quest’ inumano atteggiamento verso gli altri.

Invece no. Lui sente l’esigenza di dedicarsi agli altri: ama compensarli. E sa che per riuscirci si può avvalere, proprio come in una partitura musicale, di “pause”. Perché la pausa può essere utilizzata ad effetto per stupire, oppure può regalare occasioni in cui alternare al “fare” il “pensare”. Ma sebbene Orazio sia così generoso nell’attendere alle necessità dei suoi condomini, questi stessi gli fanno pervenire una raccomandata dove, dietro l’efficace ed ipocrita motivazione di una necessaria riduzione dei costi condominiali, gli danno il ben servito.

“Figli di mignotta”- pensa Orazio – e con la perspicacia che il nome che porta gli regala, aggiunge che non è un’offesa: piuttosto “un attestato di stima”. Sì, come il celebre poeta latino di cui porta il nome, Orazio sa avvalersi di un’inusuale ironia per affrontare le vicissitudini della vita. Il destino che eredita con il suo nome lo porta a costruirsi una sua ars vivendi: quella che lui definisce la cultura derivatagli dall’aver praticato per anni “l’arte del portiere” e che ai suoi occhi risulta equivalente ad una triplice laurea in giurisprudenza, in psicologia e in scienze della comunicazione. E, se non bastasse, su tutte queste formazioni svetta anche un Master in “odorologia gastronomica”.

Con il susseguirsi delle “domande” del Commissario, Orazio si abbandona ad una ritrattistica dei suoi condomini, nella quale prende vita l’esigenza e la capacità di rappresentare gli ingiusti privilegi dei borghesi del suo tempo. Capacità che ha in comune con chi, prima di lui aveva il suo cognome: quel Giuseppe Parini de “Il giorno”. Ma, sul finale, si fa strada un colpo di scena e quella particolare parola (“Sempre”) che Orazio sceglie per iniziare la sua narrazione (“sempre così va a finì”) troverà una smentita. Almeno per una volta. 

Alla riapertura del sipario, incalzata da un appassionato applauso del pubblico, “Orazio Laganà” ci accoglie tutti con uno dei suoi migliori sorrisi: raggiante e fiero, come un condottiero alla guida della sua auriga.

Uno spettacolo che riesce a veicolare la profondità incandescente di alcuni temi attraverso la freschezza colorita di un arguto linguaggio registico, poeticamente efficace. 

Leggi di più su Rodolfo Laganà

Per maggiori informazioni sul regista Claudio Boccaccini e sull’autore del testo Carlo Picchiotti

Morte di un commesso viaggiatore

TEATRO QUIRINO, Dal 22 Febbraio al 6 Marzo 2022 –

Lo skyline di una New York anni ’50, quasi un sipario. Un commesso viaggiatore che lo percorre finché non volta l’angolo e arriva a casa. Una casa dove quello che resta delle pareti è ciò che un sisma, non solo tellurico, ha lasciato sopravvivere. Una casa, metafora di una psiche devastata da sordi terremoti emotivi. Che non si riescono neppure a guardare. E che vengono scambiati per sogni.

Una rete metallica circonda quel che resta di una casa, nella speranza di riuscire a contenere le macerie che si origineranno dalle prossime scosse, dai pensieri che vanno e vengono a vuoto. Come il viaggio del commesso, con il quale si sceglie di far iniziare la narrazione dello spettacolo.

A casa, ad attendere il marito, che manifesta fin da subito evidenti segni di asfissia (un emaciato e vibrante Michele Placido) c’è sempre la sua materna moglie geisha (una superlativa, per verità interpretativa, Alvia Reale). Apparente ossigeno vitale è il mito ossessionante del fare carriera, del “trovare la strada” per programmare ed assicurarsi il futuro.

In realtà, ciò non basta per “sentirsi qualcuno” e come spesso accade nelle dinamiche tra padri e figli, questi ultimi si orientano o per imitazione o per opposizione. E non funziona la regola che “va avanti chi si presenta bene”. Funziona invece provare “simpatia” per qualcuno e così risultare simpatici. Perché la simpatia non è ingannevole apparenza ma profonda capacità di entrare in sintonia con le emozioni dell’altro.

Willy, il commesso, è consapevole di non essere simpatico e di non risultare simpatico; piuttosto si definisce “un uomo ridicolo”, grottesco, che in parte ricorda l’uomo ridicolo di Dostoevskij ma qui senza un finale catartico, senza un sogno che salva e che aiuta a capire che «La cosa più importante è amare gli altri come se stessi; questo è tutto, non occorre altro: troverai subito come organizzar la vita». Willy sente che “il vento sta cambiando” ma il suo sentire resta molto in superficie: è un po’ il captare e il registrare del magnetofono, di cui tanto va fiero il suo datore di lavoro che, perfettamente sintonizzato sulla vigente economia creatrice di bisogni, proclama che “senza (magnetofono) non si può vivere”.


Tanti egoismi, tanto benessere. Ma possono tanti egoismi rendere tutti felici?  “Per farcela, a volte è meglio andare via” inizia a progettare Willy. Un andar via non tanto fisico, piuttosto un andar fuori di sé mentale. Un’evasione allucinatoria che già un altro commesso viaggiatore dall’altra parte del mondo aveva esplorato: si chiamava Gregor Samsa.

Ma Willy ha anche due figli: cosa lascia loro? Ereditare significa solo omologarsi o anche far proprio e quindi ri-ereditare? È tradimento questo? E se tradire fosse a volte necessario? Di lui diranno al suo requiem: “non conosceva se stesso”. Cosa serve per conoscere se stessi, per non tradire il proprio personale desiderio, per essere liberi?
Quasi tre ore di spettacolo scorrono davanti ai nostri occhi e arrivavano a turbarci. Anche profondamente. 
Interessante l’uso dello spazio scenico, declinato a rendere con efficacia interni ed esterni. Fisici e mentali.

Leggi l’intervista a Michele Placido sul Corriere della Sera

Per saperne di più sul testo Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller

Petrolini infinito

SUNDAY BOOGIE THEATER, 20 Febbraio 2022 –

Una serata dedicata ad Ettore Petrolini, genio “deformatore” del Teatro di Varietà, grazie ad un progetto trasversale alla multimedialità di Enoch Marrella.

Lo spettacolo si apre con un prologo musicale fuori campo, dove Petrolini (nelle vesti di Gastone una delle sue più riuscite creazioni) invita lo spettatore a non fermarsi alla superficie ma piuttosto ad ascoltare bene quello che c’è dentro, quello che c’è sotto.

“È il mio motto – dice Gastone – “sempre più dentro, sempre più sotto”.

Solo ora può prendere forma e fare il suo ingresso l’interprete: un profondo ed ipnotico Enoch Marrella in frac scuro, labbra scure, biacca e brillantina, dalla quale sfugge per un attimo un tirabaci. Un volto ed una voce metamorfici, accompagnati incantevolmente dalle note del Maestro Paolo Panfilo. La comicità irriverente erompe lasciando poi il passo a riflessioni più amare e compassionevoli sulle debolezze umane.

Si susseguono, secondo la moda futurista, versi malthusiani. Uno fra tutti:

Petrolini è quella cosa che ti burla in ton garbato, poi ti dice: ti à piaciato? Se ti offendi se ne freg.

Lui è il re dello sberleffo e della satira pungente e caustica con la quale condanna ipocrisia e malcostume. E non risparmia né popolani, né potenti.

È il dadaista Fortunello che – come disse lo stesso Marinetti – “scava dentro il pubblico tunnel spiralici di stupore e di allegria illogica e inesplicabile”.

Sono un uom grazioso e bello

sono Fortunello.

Sono un uomo ardito e sano

sono un aeroplano.

Sono un uomo assai terribile

sono un dirigibile.

Sono un uomo che vado al culmine

sono un parafulmine.

E’ Salamini: una creazione spontanea e insieme elaborata, sciocca ma geniale, che racconta di “un imbecille di statura ciclopica”.

Ho comprato i salamini e me ne vanto

se qualcuno ci patisce che io canto

è inutile sparlar

è inutile ridir

sono un bel giovanottin

sono un augellin…

A seguire il raccontino di Isabella e Beniamino e subito dopo una veloce trasformazione: il frac lascia la scena ad una camicia e a delle bretelle che si sfidano sull’effetto optical, sublimate da una gorgiera bianca. Sui capelli impomatati cala il sipario di una parrucca nera dal taglio carrè con frangia. È il gran finale in cui Marrella/Petrolini, con il teschio di Yorick sotto braccio, interpreta “il pallido prence danese, che parla solo, che veste a nero”: Amleto.

Ma la singolare analisi della storia “deformata” da Petrolini, osa scioglier ogni dubbio:

Si può essere più afflitti, più lagnosi, più melanconici di Amleto?

Poteva essere felice, no!

Poteva essere amato, no!

Io non ho mai capito che cosa voleva Amleto.

Ma che voleva Amleto?

L’amore è facile

non è difficile

si ha da succedere

succederà.

Sulle note di questa ariosa conclusione anche il pubblico si unisce a cantare in coro, dopo l’invito di un insolito Amleto aperto alla condivisione.

Un lavoro interessante dove Enoch Marrella, complice il Maestro Panfilo, riesce a trascinare lo spettatore: divertendo ed emozionando.

Per maggiori informazioni su Enoch Marrella:

-Premio Tuttoteatro.com Dante Cappelletti 2021: vincitore con lo Studio “Tecnicismi”

-Spettacolo “Sottobanco” per la regia di Claudio Boccaccini

Art

TEATRO VASCELLO, Dal 15 al 20 Febbraio 2022 –

Quali sono i confini della nostra tolleranza? Non quella di cui ci fregiamo in discorsi buonisti e di cui sentiamo inesorabilmente il peso, l’imbarazzo. Piuttosto, invece, quanto siamo capaci di sostenere e quindi di accogliere una scelta dichiaratamente diversa dalla nostra, in nome di qualcosa di più alto, come l’Amicizia e più in generale dell’Arte della vita?

Sentirsi solo formalmente tollerato non procura benessere, piuttosto suscita senso di inadeguatezza e quindi disistima. La cortesia senza coinvolgimento emozionale, regala solo un tangibile disagio. Siamo consapevoli quindi di cosa lasciamo all’altro, quando siamo noi a vestire i panni del tollerante?

Lo spazio scenico è vuoto: solo un telo bianco, posizionato a 45gradi, occupa il lato destro del palco. Entrano i tre attori, ognuno dei quali inserito rigidamente nel proprio spazio di luce. Il quadro bianco, oscuro oggetto del desiderio di Serge, non è (almeno non ancora) il telo che vediamo fisicamente sul palco ma un quadro metafisico che i tre attori ci lasciano immaginare attraverso le loro conversazioni ma soprattutto attraverso le loro reazioni. L’ amico ad avere l’onore di fare la conoscenza dell’opera d’arte, appena acquistata da Serge, è Marc.

Scandalizzato dalla scelta estetica ed economica dell’amico, se ne esce con una forzata risata proterva, cercando aiuto, senza troppo successo, in tre granuli omeopatici di Gelsemium o in alternativa di Ignatia. Rimedi utili per cercare di tollerare ansie da prestazione, con il rischio però che la tolleranza diventi sinonimo di indifferenza: la peggiore delle reazioni umane. Arriva poi Yvane, l’altro amico di Serge, uno che con “il bianco” dovrebbe avere dimestichezza lavorando in una cartoleria. In realtà invece la sua capacità di condivisione dell’emozione dell’amico è resa impossibile da una maniacale necessità di porre completezza e uniformità ad una banale esigenza: quella di trovare qualcosa che manca, il cappuccio della sua penna. Quando finalmente la sua personale esigenza di ordine si è (apparentemente) composta, e può concedersi di regalare attenzione al folle acquisto dell’amico, la sua reazione è di totale accondiscendenza: “se ti fa piacere!”.

Una filosofia di vita che dà per scontata la diversità: non ne coglie, né ne riconosce l’essenza. Non si crea insomma quella speciale curiosità verso l’altro che ti porta a partecipare, fino a diventare complice della sua scelta. Piuttosto a crearsi è una netta separazione tra due possibili, e quindi diversi, atteggiamenti. Separazione enfatizzata anche visivamente dagli incomunicabili corridoi di luce che illuminano e fanno risaltare le zone d’ombra che separano i tre amici. Piccoli, subdoli giochi di potere si insinuano in un sentimento, l’Amicizia, che invece proclama di metterli al bando in nome di un totale riconoscimento della dignità dell’altro.

Legame di importanza vitale quello dell’Amicizia, se Aristotele era solito dire che gli uomini potrebbero fare a meno di qualsiasi bene ma non possono rinunciare all’amicizia. Ma quando invece la curiosa attenzione verso la diversità dell’altro diventa sterile giudizio, che fa dei confini solo elementi di separazione e non anche luoghi dove ci si può incontrare, si crea necessariamente uno stato di necrosi delle relazioni. E pensare, come dice Serge (citando il Platone de Il Simposio) che niente di bello si può creare con la razionalità, con l’ordine, con il simile. È solo dalla vertigine di tensione che si crea tra l’ordine razionale e il divino disordine della follia che nasce la vera bellezza.

E quando i tre amici riusciranno a trovare questa speciale accoglienza l’un l’altro, sperimenteranno di vedersi in un modalità diversa: attraverso la colorata diversità delle ombre di ciascuno. Complice il telo bianco che ora, come in uno specchio, restituisce la bellezza dell’Arte di vivere insieme. In Amicizia. Diversi. Perche Arte, come il titolo dello spettacolo ci suggerisce, è la capacità di andare verso qualcuno o qualcosa.

Informazioni sull’autrice del testo Yasmina Reza

Recensione dello spettacolo SERVO DI SCENA di Ronald Harwood – regia di Guglielmo Ferro –

TEATRO QUIRINO, Dall’8 al 20 Febbraio 2022 –

Uno spettacolo sull’esigenza di vivere, nonostante tutto, di teatro e per il teatro. Anche quando ciò che ci circonda sembra cadere a pezzi. Anzi, soprattutto perché tutto il resto sta cadendo a pezzi. Il teatro sta alla vita così come il servo di scena sta al capocomico: il teatro serve, sostiene, infiamma e soprattutto libera.

Perché nasce dall’urgenza, esclusivamente umana, di guardare ma soprattutto di essere guardati; di parlare ma soprattutto di essere ricordati, base ontologica dei rapporti umani, così come del rapporto attore-spettatore. Finalmente qualcuno ci guarda e mentre ci guarda ci fa esistere in modo nuovo, ci fa nascere un’altra volta. Questo è il messaggio che al di là dei capricci, dei facili egoismi e delle modalità narcisistiche, ci consegna Sir Roland, un attore ormai vecchio e al tramonto, capo comico di una compagnia inglese degli anni ’40.

Con l’apertura del sipario entriamo nell’elegantemente ricercato camerino di Sir, dietro al quale si sopraeleva il retro di un palcoscenico, ovvero un fondale di quinte armate, che fa da confine-non confine tra due spettacoli. Un’idea scenografico-narrativa metateatrale che sottolinea, anche visivamente, il continuum tra vita e teatro, tra attore e spettatore. 

Lo spettacolo prende avvio da una tempesta emotiva alimentata dal servo di scena tuttofare Norman (un elegante e sensibile Maurizio Micheli) e dalla prima attrice nonché moglie di Sir, Milady (una brillante e raffinata Lucia Poli) disperatamente addolorati per la fuga isterica di Sir a poche ore dall’inizio della recita.

Norman, da buon servo di scena qual è, fa credere a tutti di nutrire un solido ottimismo sulla positiva risoluzione della situazione; Milady invece spinge affinché si rimandi lo spettacolo : “Che sarà mai!”- dice. E rincalza: “E poi: ma esiste qualcuno a cui interessa se lui recita o no?”, introducendo così il tema fondante dello spettacolo. Benché esausto e in evidente disequilibrio fisico e mentale, Sir (un intensissimo Geppy Gleijeses) ritorna in camerino, pronto a qualsiasi cosa pur di stare lì, proclamando: “Non posso, non devo, non voglio, saltare la replica” e continua: “Ogni sera, in scena, mi mangio la vita!”. 

Poco prima dell’annuncio che resta solo mezz’ora dall’andare in scena, ha inizio, a favore di pubblico, complice una piccola pedana roteante (sottostante il mobile da toelette di Sir), il rituale della cerimonia del trucco, per entrare magicamente nella pelle del personaggio da interpretare: “Re Lear”.

È questa l’occasione per delle riflessioni sul mestiere dell’attore e su ciò che dà senso a questo particolare modo di prendere la vita, dove il dolore nasce insieme alla parola e la parola è ciò che ti consegna alla memoria, al ricordo.

Arriva il momento del “chi è di scena” e sebbene con evidente fatica e con un notevole ritardo (colmato con arguta improvvisazione dai colleghi sulla scena, le cui ombre vediamo proiettate sul retro del telo bianco al centro del fondale), Sir/Re Lear entra in scena sostenuto non solo dal servo di scena e dalla direttrice di scena ma soprattutto dalla voglia di dire, ancora una volta: “Eccomi qua: sono venuto a vedere lo strano effetto che fa, la mia faccia nei vostri occhi e quanta gente ci sta e se stasera si alza una lira per questa voce che dovrebbe arrivare fino all’ultima fila …”.

Ma lo spettacolo non termina qui, almeno per noi che sediamo nella platea dietro al palco. E un colpo di scena ribadirà, ancora una volta, quanto sia di vitale importanza per noi umani essere negli occhi e nella mente di qualcun altro.

Lo spettacolo è un omaggio a Turi Ferro nel centenario della nascita.

Leggi l’intervista a Geppy Gleijeses dal Corriere della Sera

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Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA METAMORFOSI di Franz Kafka – adattamento e regia di Giorgio Barberio Corsetti –

TEATRO ARGENTINA, 5 – 27 febbraio 2022 –

Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale

La metamorfosi
di Franz Kafka
Mondadori Libri, traduzione di Ervino Pocar –
adattamento e regia Giorgio Barberio Corsetti
con Michelangelo Dalisi, Roberto Rustioni, Sara Putignano / Gea Martire –
Anna Chiara Colombo, Giovanni Prosperi, Francesca Astrei, Dario Caccuri –

Due scritte campeggiano sui muri  della casa di Gregor Samsa: “MONDO” (su una parete del soggiorno, dove vive e si arrocca la famiglia) e  “IMMONDO”  (su una parete della camera da letto, dove viene confinato Gregor, l’uomo-insetto). Ma è davvero possibile dividere il genere umano attraverso queste due categorie? Tra chi è “mondo” (cioè ordinato) perché si crede depurato da tutti gli aspetti che creano disordine nella vita e chi invece è “in-mondo” (cioè non-ordinato) e dagli “ordinati” viene additato come repellente, perché diverso da loro e per questo meritevole di essere emarginato? E coloro che si ritengono “mondi” (ordinati e ordinari) lo sono davvero? A cosa serve essere “mondi”, ammesso che ciò si possa davvero concretizzare? 

Lo spettacolo prende avvio creando, al buio, un’atmosfera magico-onirica, preludio alla metamorfosi di Gregor da uomo a bestia (insetto). In scena una camera da letto che ricorda, soprattutto nella costruzione, il dipinto “La camera di Vincent van Gogh ad Arles”, senonché qui la luce, ma soprattutto le ombre, vengono opportunamente giocate sui toni misteriosi del blu cobalto, capaci di donare un carattere fosco e sospetto all’ambiente.

Scopriamo fin da subito che ciascun personaggio è insieme anche voce narrante di se stesso: soluzione che sorprende e diverte. Così come una roteante scenografia regala, di scena in scena, novanta gradi di spazi-tempi diversi e ben legati tra loro.

Merito anche degli interpreti, che riescono a infondere una profonda leggerezza (non ultimo attraverso una continua rottura dei piani d’azione) ad una situazione dominata e bloccata dal disgusto verso il protagonista (un Michelangelo Dalisi, polimorfico per posture fisiche e vocali).

Accogliere i cambiamenti, si sa, non è cosa facile  per gli umani, che per loro natura tendono ad essere molto abitudinari. Troppo, forse, se questa tendenza non riesce a dare spazio anche a eventuali variazioni, proprie di personalità attirate dalla profondità dell’umano.

Che non si accontentano di rimanere in superficie (come i più) ma che anelano a scoprire la propria speciale diversità, inseguendo così una personale realizzazione interiore. Per avvicinarsi alla quale, occorre togliere (qui sì mondare) tutto ciò che sembra importante ma che in realtà è superfluo, perché deviante dalla conoscenza profonda di se stessi. Cosa che inconsciamente Gregor già sapeva, quando soleva dedicare il suo tempo libero ad intagliare il legno: un’arte che consiste appunto nella sapiente rimozione di materia da altra materia, al fine di ricavarne un’opera d’arte. I familiari credono (e in un primo momento anche lo stesso Gregor) che l’essere arrivato a ricoprire il ruolo di commesso viaggiatore sia il massimo della sua realizzazione.

Invece il viaggio potrebbe continuare ma non più come commesso (cioè come subalterno) bensì come imprenditore di se stesso, sotto nuove “forme”. Ma non è semplice. E ascoltare, dal violino della sua amata sorella, l’aria di Händel “Lascia ch’io pianga” è solo l’inizio della fine per Gregor che, piangendo la dura sorte, se ne va, sospirando la libertà.


Recensione di Sonia Remoli

Un tram che si chiama desiderio

TEATRO QUIRINO, dall’ 1 al 6 Febbraio 2022 –

Delle gambe di donna salgono dal piano terra al primo piano di uno stabile cinereo e squallidamente tetro. Le stesse gambe che per arrivare lì, al quartiere dei Campi Elisi, sono prima salite su un tram, chiamato Desiderio e a seguire su un altro tram, chiamato Cimitero. Gambe che, non solo “geograficamente” attraversano il luogo del desiderio (eros) e quello della morte (thanatos), per arrivare al quartiere d’oltretomba dei Campi Elisi. Le gambe sono di Blanche, una brillante professoressa di lettere, amante di Walt Whitman e di Edgar Allan Poe, recentemente vedova di un marito e di una tenuta nel Mississippi.

Sta raggiungendo, qui, nel quartiere dei Campi Elisi, sua sorella Stella, che la ospiterà per un periodo. Non appena entra in scena, Blanche (una dannatamente divina Mariangela D’Abbraccio) ci si manifesta subito come una donna fuori posto, disorientata perché già dislocata altrove: “non mi reggo in piedi” è la sua prima battuta. Una donna dall’allure di Jackie Kennedy e amante delle camicette bianche, come l’Arcadina cechoviana, con la quale condivide anche un disperato bisogno di piacere agli altri. “Come sto?” chiede a tutti, mettendosi sotto i riflettori ma scegliendo lei sotto quale luce mostrarsi.

La luce delle ombre (rese intensamente dalla metamorfica D’Abbraccio) che continuano a seguirla dalla tenuta Belle Rêve al quartiere dei Campi Elisi: luoghi che di “bello” hanno solo il nome. Quando i riflettori si spengono e lei resta sola, il suo fallace sostegno è l’alcol, il cui tocco ha il potere di arrivarle dritto nelle vene, surrogato di un calore e di un’ebrezza insoddisfabili.

Ma dall’alcol dipende anche Stanley (un magnetico e bestiale Daniele Pecci), il marito di sua sorella: i due si annusano e si riconoscono subito: “io non lo tocco quasi mai” mente lei. E lui, allusivo: “c’è gente che non lo tocca ma che si lascia toccare”. Perché per Stanley una donna “deve mettere subito le carte in tavola”, non solo quelle relative alla tenuta Belle Rêve.

Così come in casa sua non può esistere privacy e le porte o non ci sono o vengono lasciate aperte. Inclusa quella del bagno. Ma la prima a nascondergli cose è proprio sua moglie Stella, che non solo non lo avvisa dell’arrivo della cognata ma nasconde (soprattutto a se stessa) un desiderio malato dietro un altro bel nome: amore. Stella infatti si lascia accecare da una prepotente tenerezza, che gli fa vedere il marito come “un cucciolotto”: “ci si sopporta un po’ ” dice per giustificare la sua dipendenza, nonostante lui arrivi spesso, invasato dalla rabbia, a distruggere quello che prende in mano. E di fronte ai deliri della sorella, si limita a dire: “come sei buffa”. Stella è sfuggente come una quaglia, analogia che la stessa Blanche intuisce ma che poi applica all’ammorbidirsi del fisico della sorella.

Blanche invece riconosce immediatamente il desiderio animale che l’accomuna a Stanley. E ammiccantemente gli si propone con piume e pelli di volpe, chiedendogli di aiutarla ad allacciare bottoni. Ma lui le dirà che con i bottoni non ci sa fare: non sa, a differenza del bottone, unire e tenere insieme due parti. Non sa entrare in relazione.

Così a Blanche non resta che continuare ad affidarsi al buon cuore degli estranei. Come sempre. Per sempre.

Perché il desiderio può essere il luogo dell’inganno ma anche della verità. Quella verità capace di essere generatrice di vita. Quella vita che è desiderio di essere desiderati dal desiderio dell’altro. 


Una regia potente, quella di Pier Luigi Pizzi, capace di tenere incollato lo spettatore per due ore e mezzo. Complici gli attori e la stessa magnificente scenografia. Pecci e la D’Abbraccio hanno interrotto gli applausi per dedicare lo spettacolo a Monica Vitti.

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