Debutta a Roma lo sguardo fotografico del poeta paesologo Franco Arminio
La mostra, curata da Stefania Pieralice, è ospitata presso l’ Università eCampus dal 1° Dicembre 2023 al 31 Gennaio 2024 –
E’ la fotografia a guidare il suo sentire poetico. E a sedimentarvisi: quella di Franco Arminio è una poesia che si dà per immagini.
Franco Arminio
“Non c’è nulla di meglio – ha confidato ieri al pubblico presente alla conferenza stampa presso l’Università eCampus – che guardare. E camminare”.
Guardare ciò che c’è fuori di noi – continua Franco Arminio – dà significato alla vita: è un ottimo modo di vivere che, distraendoci da tentazioni narcisistiche, ci predispone ad uno stile di vita incline alla clemenza.
Ci predispone cioè ad uno sguardo che sa accarezzare ciò che è piccolo e dimenticato. Ciò che rischia di andare perso.
Fino a sentire l’esigenza urgente di recuperarlo, donandogli vita attraverso l’attenzione.
Franco Arminio
A salvare i piccoli mondi antichi oramai abbandonati di cui l’Italia è costellata è un fotografo autodidatta che si avvale di uno smartphone. Uno scatto, il suo, scevro di retorica e vocato al recupero di un patrimonio ignorato – ma in realtà irrinunciabile – con il quale ridisegnare una geo-socialità politica. Un fotografo paesologo: sua l’ideazione del concetto di “paesologia” e la relativa fondazione di una Casa della paesologia.
Camminando tra i 19 scatti ospitati al quarto piano dell’Università eCampus non sfugge, tra gli altri aspetti, la sublime bellezza con la quale Franco Arminio è riuscito a cogliere le epifanie in cui può declinarsi l’attesa.
Ci svela allora che l’attesa può manifestarsi prendendo le sembianze di un velo multicolor e multi frammentato, così come quelle dell’apparente trasparenza adamantina propria dell’immobilità.
Attendere può diventare un’ossessione a “fare muro” o può deformarsi dentro una lacrima di nostalgia.
Fino a raggiungere la furia di chi l’attesa la buca, per urlare sempre più forte: “dove sei !”.
C’è poi, invece, chi dell’attesa sa fare un’arte: quella dell’accoglienza, della clemenza.
E allora la sfida in una partita; oppure le dà il benvenuto invitandola a sedersi; o ancora si prende cura di ridipingerle la casa dove la farà soggiornare. C’è addirittura chi ha saputo tenerla sempre nelle mani.
Tante attese, un’attesa.
Ora sta a noi far sì che il recupero di questa geografia umana non si trasformi in un’attesa beckettiana.
“Only you” : così recita l’insegna del locale dove si svolge una delle scene finali dello spettacolo. Quasi a voler fare di un “problema” antropologico, una moda. E quindi una nicchia di mercato, che poi tanto nicchia non è. Un locale per persone sole, che soffrono di solitudine.
E pensare, che un altro possibile sottotesto dell’insegna potrebbe alludere anche al suo opposto: alla “soluzione” per vivere bene. Infatti essere riconosciuti per la nostra unicità (“only you”) è ciò che ci soddisfa sopra ogni cosa. Esserne consapevoli (e questo è ancora un altro sottotesto che ammicca al “conosci te stesso” scolpito sul tempio dell’oracolo di Delfi) – e incontrare qualcuno che riesca a cogliere la nostra unicità – è ciò che ci fa sentire autenticamente realizzati come persone.
Ma come si fa?
Beh, serve che accada un vero incontro: di quelli imprevisti però, che dirompono nella routine della quotidianità. Così rassicurante ma stantia. Anche se frenetica. Perché la nostra vita è il risultato degli incontri che abbiamo fatto: quelli che ci hanno attraversato e ai quali abbiamo permesso di metterci in discussione. Sperimentando i continui nuovi inizi della vita.
Ma oltre ad auspicare che si manifesti epifanicamente “un incontro”, occorre essere disposti a mettersi in gioco. Perché entrare in relazione con l’Altro/a è complesso. È impegnativo. È l’arte di vivere.
Sul palco del Teatro Argentina la geniale sensibilità registica di Lisa Ferlazzo Natoli e di Alessandro Ferroni porta in scena proprio questa nostra difficoltà ad entrare in relazione con gli altri – e prima ancora con noi stessi. Senza sconti, senza edulcorazioni. L’effetto sullo spettatore è decisamente catartico. Si prova fastidio, imbarazzo ma anche compassione, a vedersi così spudoratamente rappresentati allo specchio. E qualcosa, dentro al travaglio, scatta. O scatterà. Perché questa è la natura e la vocazione del Teatro.
Foto di Claudia Pajewski
Al centro della scena, indiscusso protagonista, un elegante totem contemporaneo : un dispenser dei “vorrei ma non posso”, contenitore cioè di quegli oggetti con i quali ci illudiamo di dare vita ad una nostra personalità “altra”. E come fondale, la facciata stilizzata di un insolito Ministero: quello della Solitudine. Un’accecante e oscura normalizzazione istituzionale di un problema sociale, che in fondo così grave non è. Dà lavoro ad altre persone – apparentemente immuni da questo “contagio” – e garantisce un “servizio” sociale. Di cui è stato causa, forse, ma che poi così grave non è. Anzi, contribuisce a mantenere un’ottima stabilità. Presi singolarmente, così chiusi nelle nostre solitudini, che male possiamo fare ?
Foto di Claudia Pajewski
Cinque le storie di solitudine raccontate e ambientate sotto un gravoso cielo d’attesa: un’attesa impotente, da teatro dell’assurdo. Storie immerse in uno stato di allarme perenne: una continua ansia che però non stimola nulla di fertile. A nessuno dei personaggi in scena manca qualche bene primario, eppure dentro ciascuno di loro urla un desiderio diverso.
Per Primo è il desiderio di essere guardato, anzi notato (essere il primo, appunto): incontrare qualcuno che sappia riconoscerlo così da poter finalmente riuscire, per la prima volta forse, a provare delle emozioni. Imparando a sporcarsi e a tollerare lo sporco.
Foto di Claudia Pajewski
Per Alma è il desiderio di non aver paura dei cambiamenti ma di imparare a nutrirsene. Tuffandosi nel mare della vita, piuttosto che rifugiandosi nel sonno e nel sogno.
Per F. è il desiderio di smettere di essere ossessionato dal timore dell’estinzione. Che poi è il timore di non essere ricordarti: il suo nome proprio, che lo dovrebbe identificare, è già prossimo all’estinzione.
Foto di Claudia Pajewski
Per Simone, simbolo della nomenclatura, dell’ordine e del rigore nonché dell’obbligo alla cortesia e al buon umore ma soprattutto simbolo dell’ascolto, è il desiderio di trasgredire nel feeling Blue.
Foto di Claudia Pajewski
Per Teresa è il desiderio di uscire dagli stereotipi della mamma o della scrittrice, accogliendo la sua anima selvaggia.
Foto di Claudia Pajewski
Gli attori in scena – Giulia Mazzarino (Alma), Emiliano Masala (Primo), Francesco Villano (F.), Tania Garribba (Simone), Caterina Carpio (Teresa) – complice una scrittura drammaturgica visionariamente neorealistica, sono così credibili da fare male.
Particolarmente, la scrittura drammaturgica di Fabrizio Sinisi è efficacissima nel rendere epidermicamente il senso di quanto sia difficile la gestione della libertà, anche se si sta da soli. Anche se non ci si deve avvicinare sul confine dell’altro.
I paesaggi sonori di Alessandro Ferroni sono una parallela drammaturgia che, seppur sembri liberare respiri più lievi nello spettatore, in verità cela crepe e traumi esistenziali. Dei personaggi e non solo.
La casadargilla ci fa dono di uno spettacolo terapeuticamente scomodo. Quindi necessario.
L’intimità della sua lettura interpretativa e la scelta dei testi – la cui cura è stata affidata al poeta e drammaturgo Igor Esposito – fanno dell’allestimento quasi una rievocazione della passione del Pasolini uomo scisso, spaccato in mille contraddizioni.
Pier Paolo Pasolini
La parola di Pasolini s’incarna nella voce di Musella che lo ospita intessendo un visionario dialogo con la drammaturgia musicale di Luca Canciello – musicista e sound designer devoto alla sperimentazione, in special misura quella sul ritmo. La lirica inquieta di Pasolini scopre così affinità con certe sonorità elettroniche, dense di attese e di sublimi ossessioni.
E qualcosa di sacro si manifesta proprio mentre si cela nella natura animale: Musella ci dà il fianco, si rende schivo e insieme vulnerabile. Si lascia disegnare da un profilo luminoso, quasi a evidenziare contemporaneamente la finitezza senza nome e insieme la presenza epifanica del Poeta.
Maledettamente divino, dentro un’esistenza perimetrata.
“La danza delle omissioni” è lo spettacolo di Alessandro Serra che ieri pomeriggio è andato in scena al Teatro Basilica. In forma di dono: un saggio di autenticità; un’offerta agli spettatori che emerge in tutto il suo rilievo umano e morale. Finanche spirituale: di tale natura infatti è per Serra l’avventura teatrale.
Prova ne è anche “La danza delle omissioni”: un “distillato” della sua precedente “La Tempesta” di Shakespeare – come lo ha definito Guido Di Palma, che con Serra ha dialogato al termine dello spettacolo. Un’operazione di separazione della diverse “sostanze” dalla miscela del tutto. Per estrarre il meglio: la parte nobile, spirituale. Ciò che si cerca davvero.
Ecco allora che questa messa in scena risulta scevra dei ricchi costumi, della mirabolante scenografia, degli oggetti di scena e della drammaturgia luminosa che abbiamo visto ne “La Tempesta”.
È nuda e insieme metafisica, nel rispetto della prima regola del teatro, secondo Alessandro Serra: il Teatro è l’Attore. E agli spettatori si chiede – come era solito fare Shakespeare :”sopperite alle nostre deficienze con le risorse della vostra mente… con l’aiuto della fantasia”.
Alessandro Serra
Qui, gli attori infatti sono vestiti di una seconda pelle indifferenziata (per tutti camicia bianca e pantaloni neri) per affidare la caratterizzazione di ciascuno di loro ad una diversa partitura musicale. Una specifica partitura di voce e gesto.
Così, dal buio, prende vita il rito ancestrale racchiuso in “un indegno tavolato”: un territorio segnato. Fin dall’inizio tutti gli attori sono in scena. Dentro o fuori dal territorio segnato. Al centro lo spiritello Ariel, in un crescendo di evocazione e possessione, origina ed è il caos della tempesta: contenente e contenuto. Qui, è lui a passare dal tremare al gonfiarsi come telo, quasi a levitarsi, fino a volteggiare e a vorticare.
Coloro che Ariel ha fatto naufragare, mantenendoli illesi, sono ora nelle sue mani. Letteralmente: come marionette gestite da un burattinaio. Oppure animati dal suo zefiro. O ancora quali scattanti pupazzetti ubbidienti alla sua carica.
A Caliban è affidata una doppia partitura: parla una lingua “chiusa”, vicina al ringhiare e al rantolare degli animali ma poi – snaturato da Miranda – parla anche una lingua molto più “aperta”, fatta di sillabe e vocali allungate, vicina a quella dei presunti “normali”. Lo definiscono “il mostro”, perché diverso da loro. Ma così irresistibilmente affascinante e libero da doverlo predare, per poi esporlo a pagamento. Un’opera d’arte da offuscare.
Caliban invece è colto da autentica meraviglia nel vedere persone diverse da sé: è il più predisposto ad entrare con loro nella relazione, rinunciando ad una pretesa libertà assoluta e mitigando l’istinto alla sopraffazione, che tutti ci accomuna. Per natura.
Anche lo spazio scenico ci parla di questa demarcazione tra il territorio segnato e il fuori, che spesso nel corso dello spettacolo perde di rigidità diventando follemente osmotico.
E proprio la difficoltà umana dell’entrate in relazione con l’altro è, forse, il distillato che ci offre questa “Danza delle omissioni”. Distillato suggerito anche nella poetica scelta del titolo: quel movimento dell’oscillare della danza – quel procedere che non esclude l’indietreggiare – necessario per passare oltre i nostri confini, oltre i nostri pregiudizi. Omettendoli.
È la potenza del perdono di Prospero. È il meraviglioso senso di libertà del pianto di Antonio. È la bellezza sublime dell’ “esporsi”, mostrando – finalmente liberi – le proprie ferite segrete.
È il gettare indietro il bouquet da parte di Miranda: invito a nuove unioni, a nuove relazioni.
Perché “per fare meta e andare avanti si deve passare la palla indietro”.
Mirabile la forza espressiva a tutto tondo di alcuni freeze: potentissimi altorilievi. È la scultura del tempo e dello spazio, è il talento degli attori a sostegno del vuoto.
È la regia: quella di Alessandro Serra.
Alessandro Serra
Questo spettacolo offerto da Alessandro Serra e dal Teatro Basilica e il relativo dialogo con il regista appartengono al ciclo di incontri Artigiani di una tradizione vivente nell’ambito del progetto Le lacrime della Duse – Il patrimonio immateriale dell’attore.
Il progetto – di grande valore artistico – nato per recuperare l’antica cultura artigiana del teatro che punta a preservare e valorizzare il patrimonio immateriale dei saperi teatrali, dopo il primo ciclo di formazione teatrale e drammaturgica per giovani attori under 35 curata da Glauco Mauri, inaugura ora il secondo step dedicato agli “Artigiani della tradizione vivente”, un ciclo di incontri con grandi attori e attrici della tradizione teatrale condotti da Guido Di Palma.
“La cultura teatrale non può essere affidata solo alla scrittura e tantomeno ai video – afferma il Prof. Guido Di Palma – essa vive principalmente nella presenza e nelle relazioni delle persone che la agiscono. Per questo le residenze didattiche universitarie sono pensate come un luogo di scambio. Passato e presente s’incrociano in uno spazio protetto affinché i saperi teatrali non vengano dimenticati e possano essere rivivificati nell’incontro tra generazioni. Per questo, nel quadro della Terza Missione universitaria, la Sapienza sostiene il progetto Le lacrime della Duse”.
Guido Di Palma
I prossimi appuntamenti vedranno protagonisti:
venerdì 1° dicembre ore 16:00 Mimmo Cuticchio (Teatro Ateneo)
lunedì 4 dicembre ore 16:00Lino Musella (Vetrerie Sciarra).
Per un attimo la sensazione è quella di essere sul set del cechoviano “Vania sulla 42esima strada” di Louis Malle, con David Mamet alla sceneggiatura.
Dicono di voler fare una memoria. Ma in realtà sembrano averla fatta così bene d’averla persa. Sanno, ora. E possono attingere alla memoria del cuore.
Ci arriva tutta la loro urgenza di tenere a memoria ogni momento che hanno condiviso con Lina. Ed è come se stessero iniziando a scrivere un diario di memorie quotidiane. A ritroso. Un diario del tempo che si sono regalati; dell’amore che sono stati in grado di offrirsi.
Ed è nostalgia: quella piena di gratitudine, quella che continua a scaldare il cuore. Quella da celebrare ed onorare nutrendola anche con un bicchiere di vino, del cibo. “La vita è strana, non meno della morte”.
Ma tutta nostra è la possibilità di consultare il passato, di distenderci accanto a lui. Ancora. Non per fuggire dal presente – ora così strano, così senza senso – ma per capire ed essere capaci di cura e di responsabilità nell’oggi e nel futuro.
Per tenere alta la consapevolezza sorridente di chi siamo, da dove veniamo e dove abbiamo la possibilità di spingerci. Per non perdere niente di quello che naturalmente entra nella nostra vita.
Perché vivere significa “aspettare che finisca” amando far attenzione a godere dei più piccoli dettagli. E così imparare a lasciar andare. Che non significa essere risucchiati.
Piuttosto “digerire”: godere di tutti i sapori, masticare senza lasciare vuoti e trasformare, attraverso l’enzima della memoria, la nostalgia di ciò che è entrato in noi – ed è stato assimilato – in gratitudine. Costruendoci un “archivio”, un diario di sapori belli a cui ripensare: dai quali attingere energia vitale nei momenti più ombrosi. Godendo della presenza di chi non c’è, proprio nella sua assenza.
Sta a noi trovare la luce dell’ombra: sta a noi seguire con questa nuova luce chi non c’è più. Darle una nuova “sagoma”.
Uno spettacolo geniale, che riesce a parlare dell’essere con il nulla.
L’acqua, risorsa naturale così abbondante in Italia e dono così prezioso, offerto dal suolo che ci ospita.
Un dono scambiato per possesso.
Un dono che pur essendo abbondante non risulta sufficiente a nutrire quell’ingordigia che a volte offusca il cuore dell’uomo.
Andrea Ortis
Lo sguardo del friulano Andrea Ortis – autore, attore e regista di questo appassionato e appassionante spettacolo – fa sì che sulla scena la storia scorra su due flussi narrativi. Quasi due torrenti d’acqua che a loro modo parlano, ricordano, piangono, testimoniano. Per non dimenticare. Per impedire che prendano ancora forma disastri torbidi e tragici di questa portata.
Il torrente narrativo di Ortis scorre sul proscenio: il suo è uno storytelling puntualissimo nei contenuti – sostenuti anche da una storica e tecnica documentazione visiva – e nostalgicamente poetico nel sentire più profondo.
È un senso della memoria, il suo, forgiato da un desiderio di fedele testimonianza che si vena di accenti di quel lirico languore proprio di chi ha vissuto quell’attraversamento tra il prima e il dopo e che avverte viscerale la consapevolezza che l’uomo tende a smarrire l’intimo legame a sentirsi in armonia con la natura.
Una testimonianza che – scevra dalla rassegnazione – si carica della volontà ad impegnarsi nel rinsaldare una rispettosa continuità tra la storia della natura e quella dei suoi ospiti, presto – sia spera – consapevoli e disponibili a farsi “docile fibra dell’universo” – come scriveva Giuseppe Ungaretti.
Alla narrazione di Ortis s’intervalla quella di chi è sopravvissuto al dramma e fatica a mandar via quell’insopportabile odore tipico del senso di colpa per essere vivi. Alcune scene sono rievocate mirabilmente come dentro la diga stessa, utero maledetto. E una tremenda emozione ci assale. Ma è in nostro potere riuscire a fare del buio del dramma qualcosa di interessante, di fertile per il nostro futuro. E allora proprio da quell’utero maledetto, che ci lega a non dimenticare, ci può arrivare il dono di una nuova e potente consapevolezza.
Infatti, seppur “Perché sei vivo?” sia la domanda che ossessivamente assilla chi resta, la tentazione a sentirsi in colpa può essere splendidamente sublimata dal pulsante orgoglio a sentirsi eredi e quindi testimoni. Per non dimenticare il passato e quindi non essere costretti a ripeterlo. Perché “la storia siamo noi, siamo noi queste onde nel mare, questo rumore che rompe il silenzio, questo silenzio così duro da masticare”.
In un magnifico gioco scenografico di presenze/assenze pluri presenti – regalato da un sapiente uso della drammaturgia delle luci su una superficie velata – riesce ad imporsi allora anche visivamente l’urgenza di raccontare.
Ed è la storia del loro vivere quegli anni ’40 -’50- ’60 ignari che il tempo che li separa dal tragico destino sia segnato non solo da momenti di ritrovata spensieratezza post bellica ma anche da torbide complicità su superbi deliri di onnipotenza.
Ecco allora l’avvicendarsi di momenti in cui ci si ritrova insieme anche a cantare, a “godere fantasticamente del proprio corpo unificato» come diceva Roland Barthes. Ed è mirabile l’interpretazione dei ragazzi de La Compagnia della Rancia, dove dalla partitura delle voci riesce ad emergere “una grana” che sa farsi corpo.
Una cifra stilistica degli spettacoli di Ortis questa, dove anche e soprattutto attraverso il canto si raggiunge una potentissima forma di comunicazione con il pubblico.
Ma ad essere rievocate sono anche le scene degli inquietanti luoghi dove si presero superficiali decisioni, nonostante voci autorevoli si fossero battute, prove alla mano, andando oltre il chiudersi in un “Tutti sono uguali, tutti rubano alla stessa maniera”. Piuttosto salvando proprio quel valore simbolico così fondamentale proprio della parola “tutti”.
Una parola così carica di potente energia non può finire per farci mollare. “Tutti” infatti ha la forza rivoluzionaria del tenerci insieme, “aggrappati” gli uni agli altri, per essere un’autentica comunità che lotta contro egoistici “a solo”.
In occasione dell’anniversario dei 60 anni della tragedia che colpì il Vajont il 9 ottobre 1963,
la MIC – International Company, in coproduzione con il Teatro Stabile Friuli Venezia Giulia e in collaborazione con Compagnia della Rancia, ha scelto di portare in scena, con una tournée nazionale nei più importanti teatri italiani, “Il Vajont di tutti, riflessi di speranza”.
Lo spettacolo, che si avvale del sostegno della Regione del Friuli, dopo essere andato in scena in anteprima proprio sullaDiga del Vajont – nell’ambito degli eventi per la celebrazione dell’anniversario- è approdato a Roma, al Teatro Ambra Jovinelli.
In un seminario del 1985 al Teatro Ateneo Ferruccio Marotti chiede ad un giovane Roberto Benigni da che cosa si origina, a suo avviso, l’effetto “comico”.
Benigni risponde che non si può dire. Ci si arriva improvvisando e andando avanti per un percorso che man mano diventa una rete di percorsi. Finché ad un certo punto, inaspettatamente, si manifesta l’aggancio comico. È una sorta di epifania misteriosa che non appena appare è così irresistibile che per mantenerla vitale, permettendole quindi di rimanifestarsi sotto altra forma, si deve cambiare percorso, voltando lo sguardo inventivo in un’altra direzione. In attesa che nel corso della narrazione improvvisata si manifesti di nuovo qualcosa capace di provocare, in una rete di incroci semantici, l’effetto comico sullo spettatore.
E anche per chi ascolta accade qualcosa di misteriosamente simile. È qualcosa che rapisce e fa ridere perché sfugge proprio mentre lo si sta raggiungendo. Qualcosa che lascia a bocca asciutta ma paradossalmente felici. Felici di essere arrivati prossimi a qualcosa di “divino”.
Platone diceva che s’impara solo per seduzione. E probabilmente si ride per qualcosa di simile. Perché “il comico non guarda come un cronista, ma vede come un poeta”. È uno sguardo, il suo, attento a sottrarre per poter creare: “ciò che nessuno ci toglie, nessuno ci può dare”.
Roberto Benigni confessa poi di essere profondamente innamorato della “parola” e del mistero che la circonda: ama giocarci, creando incroci, anagrammi. Il suo profondo desiderio di ricerca semantica per certi versi rimanda al “viz” ebraico.
Ma non è il suo il piacere del gestire una sorta di “potere”. Tutt’altro è il piacere di essere avvolto dal mistero: di presentarsi al suo cospetto disarmato lasciandosi guidare da un gioco sulle parole che non è lui a condurre ma nel quale è condotto. Divinamente.
Un gioco che diventa uno stile di vita, che lo porta a chiedersi quotidianamente: “Chissà che cosa farò !?”.
Gli appuntamenti al Teatro Ateneo con la seconda edizione della rassegna “L’attore e il performer: tradizione e ricerca. Memorie teatrali di fine millennio” dall’Archivio Storico Audiovisivo del Centro Teatro Ateneo Dipartimento di Storia Antropologia Religioni Arte Spettacolo Sapienza Università di Roma proseguono con il seguente calendario:
Il 4 dicembre alle 17.00
DARIO FO – AUTOBIOGRAFIA DI UN FABULATORE, introdotto da Paolo Rossi con Ferruccio Marotti, una videosintesi delle lezioni che Dario Fo tenne al Teatro Ateneo, succedendo a Eduardo dopo la sua morte come docente di Drammaturgia, nel corso di tre anni.
Il 12 dicembre alle 17.00
a conclusione del ciclo Toni Servillo, insieme con Ferruccio Marotti, introdurrà
EDUARDO RACCONTA EDUARDO: UN’AUTOBIOGRAFIA QUASI SEGRETA DI EDUARDO DE FILIPPO, una videosintesi dei momenti in cui Eduardo, negli anni trascorsi alla Sapienza, ha raccontato di sé e della sua vita, accompagnati da alcuni dei brani più famosi delle sue opere, con cui avranno inizio le celebrazioni dei quarant’anni della morte del grande autore e attore, che al Teatro Ateneo ha lavorato, gli ultimi quattro anni della sua vita, al sogno utopico di creare una bottega di teatro, volta a proiettare la tradizione del teatro verso il futuro.
Ferruccio Marotti
Dopo la prima edizione – nata nel 2022 – che ha visto restaurati e digitalizzati oltre mille video che documentano l’attività del Centro Teatro Ateneo – centro d’eccellenza di ricerca sull’attore dell’Università di Roma “La Sapienza”, diretto da Ferruccio Marotti, il progetto prosegue grazie al sostegno del Ministero della Cultura.
L’obiettivo è quello di far conoscere il patrimonio conservato presso l’Archivio, che fa ora capo al Dipartimento SARAS (Storia Antropologia Religioni Arte Spettacolo) della Sapienza Università di Roma. Il progetto dal 2022 ha riscosso una grande attenzione di pubblico e ricevuto adesioni e richieste di collaborazione che permettono oggi di dare un ulteriore risonanza alle attività, valorizzando il prezioso materiale conservato nell’archivio della Sapienza. Ad ospitare gli eventi saranno il Teatro di Roma, lo Stabile di Napoli e naturalmente il Teatro Ateneo, dove si svolsero quarant’anni or sono le attività conservate nell’archivio. Nel 2024 poi i maggiori laboratori verranno trasmessi da Rai Cultura e diffusi sul web.
Che cos’è la verità? Quando si realizza un disvelamento? Quando riusciamo a togliere la coltre di oscurità che ammanta gli aspetti più profondi della nostra esistenza? Oppure quando riusciamo a sostenerne il buio ?
Ad enfatizzare la mordacità caratteristica della drammaturgia britannica – in questo caso pervasa anche dalla vena poetica di Ben Norris – un’efficace drammaturgia delle luci ci guida verso la consapevolezza che l’emozione, e quindi ciò che in noi c’è di più autenticamente vero, può nascere solo dal buio. E che è in nostro potere fare del buio qualcosa di interessante: di fertile per la nostra esistenza.
Ben Norris
Cosa decidiamo di svelare di noi in un incontro? Quante “prove” sono necessarie per costruire un’immagine di noi che gli altri sicuramente accoglieranno ? In altre parole dove è conveniente – nel presentarci ad un altro – far cadere la luce su di noi e dove invece è decisamente preferibile toglierla, nascondendo? Quanto è importante il giudizio degli altri? Cosa ci permettiamo di desiderare?
Ilaria Martinelli e Elena Orsini
In una serrata e pungente tenzone, dove apparentemente ci si sfida a rompere schemi mentali nonché spaziali, solo dalle domande fatte a bruciapelo zampillano autentiche risposte. E le due interpreti in scena – Elena Orsini ( curatrice anche della traduzione del testo e della regia dello spettacolo ) e Ilaria Martinelli – brillano della luce delle proprie ombre. Brillano cioè in quel lacerante lasciar trapelare l’oscurità delle loro fragilità.
Si domandano, tra gli altri svariati enigmi che punteggiano le loro (e le nostre) vite, se l’alta tecnologia sia davvero così salvifica e “democratica”. E soprattutto se vale la pena affidarsi alla rassicurante guida in modalità “pilota automatico” piuttosto che ad una guida manuale, magari meno affidabile, ma continuamente e stimolantemente migliorabile.
Ma poi, perché ci viene così spontaneo affidare la guida della nostra vita a qualcuno esterno a noi? Chi è Alexa? Il nuovo oracolo di Delfi ? Conoscere se stessi significa diventare un “prodotto tipico” ? Cosa vuol dire “vivere” ? Vivere per avere soldi con cui comperare cose oppure vivere di passione artistica, condividendo con altri artisti quel poco che si possiede?
Elena Orsini
In scena, oltre la potenza della parola – resa dalla feroce tenerezza dell’interpretazione – è la prossemica a disvelarci le tensioni autentiche di queste due ragazze che s’incontrano, diventano amiche e poi scoprono di essersi innamorate l’una dell’altra.
Ma come sono diversi i loro vissuti e com’è difficile incontrarsi senza scontrarsi, senza cadere nella tentazione di scegliere cosa mettere in luce o in ombra l’una dell’altra? Senza manipolare e lasciarsi manipolare. Senza lasciarsi condizionare dal giudizio degli altri.
Le due interpreti – dandosi così generosamente nelle loro zone d’ombra – ci attraggono tremendamente. Stanno parlando di noi, oltre che a noi: delle nostre difficoltà ad amare e ad entrare davvero in “contatto” con l’altra persona; della paura ad essere travolti dalla follia dell’amore e della difficoltà a darsi la possibilità di perdersi con l’altro. Per poi ritrovarsi rigenerati dall’incontro reciproco. Continue sono le varianti da affrontare e sulle quali continuamente riequilibrarsi. E noi invece, proprio come loro, siamo tentati a credere che nella vita “servono le spalle grosse e un lungo termine”.
Ilaria Martinelli
Ma poi incontriamo la morte e dobbiamo rifare daccapo i conti con tutto ciò che ci eravamo tanto impegnati a organizzare, a fissare, a rendere stabile a lungo termine. Tutto sembra saltare, ritrovandoci così in un “buco nero”. Scoprendo però insospettatamente che del buio, del nero, si può fare qualcosa di interessante, di fruttuoso. Dal buio possono emergere nuove consapevolezze, nuovi strumenti da mettere in campo. Per vivere fidandosi un po’ di più dell’irrazionale.
Un’occasione davvero stimolante – questo spettacolo Autopilot curato da Elena Orsini e supervisionato da Mario Scandale – per condividere temi così prepotentemente presenti nelle nostre vite con lo storytelling ironico e poetico, attento ma anche foriero di nuove torsioni esistenziali, come quello d’Oltremanica.
Ne emerge un teatro di energica curiosità, disposto a sperimentare nuove possibilità espressive.
Rodolfo di Giammarco
Prezioso, quindi, il Trend Festival curato dall’acuto sguardo di Rodolfo di Giammarco teso, da 22 anni, a monitorare e a selezionare quelle che sono le opere e gli autori delle nuove frontiere della scena britannica.
Se l’acutezza di spirito di Harold Pinter è riuscita a provocarci ad immaginare negli ipotetici panni di un “guardiano” un ladro; il mordace sguardo registico di Duccio Camerini riesce a solleticarci a riflettere su come i panni del “ladro” possano essere vestiti da Mick – una delle vittime del furto – “lasciando in mutande” il ladro.
Ed è vero, è proprio così: per natura l’istinto alla sopraffazione ci unisce tutti. È ciò che più profondamente costituisce un essere umano. Sì, l’odio viene prima dell’amore: ci fonda.
L’ amore no. L’ amore – e quindi l’accoglienza, la condivisione, la misericordia, l’amicizia, l’altruismo – è tutto da imparare. Così come il concetto del “custodire”: dello sviluppare la fiducia a lasciare in custodia qualcosa di nostro ad un altro.
Ma cosa c’è da custodire in una stanza dove regna la fatiscenza e il caos ?
L’interno.
Qui, nel penetrante sguardo registico di Duccio Camerini, “il territorio da segnare” è un teatro abbandonato, roccaforte su un “esterno” minaccioso.
Ma cosa c’è di più accogliente di uno spazio teatrale? Uno spazio dove “deve” esserci qualcun altro che viene dall’esterno, per poter dar vita all’epifania del teatro?
In un’allucinata metateatralità, qui il living dei personaggi è un “territorio segnato” da un quadrato impermeabile. Ma un teatro non resta mai davvero asettico, abbandonato: per sua natura è permeabile, osmoticamente comunque visitato da presenze, da “fantocci” continuamente nuovi – spesso fedeli – che desiderano guardare, assistere, condividere, proteggere. Custodire.
Lo sguardo registico di Camerini non manca di valorizzare anche l’altra forma – oltre quella territoriale – in cui si esprime l’esigenza dei personaggi pinteriani di “segnare il territorio”: quella linguistica. Quella dei significanti: lo spazio nascosto e sottostante il significato delle parole. Uno spazio “interno” autentico e sofferto. Così lacerante che nessuno dei personaggi può e vuole sostenerne il peso: né il mittente riesce a tradurlo in una comunicazione intima e sincera; né il destinatario riesce ad accoglierlo ascoltando davvero la confessione dell’altro. Laddove l’ascolto è la condizione base per permettere ai sintomi della sofferenza di trasformarsi in parole. Non appena uno dei tre pare tentare di raccontarsi, l’altro si distrae a fare altro oppure parla contemporaneamente anche lui. Evitando che si lasci spazio al silenzio, presupposto che onora la parola dell’altro. “Guardiano” è quindi ciascuno dei tre protagonisti, nell’accezione riflessiva che ciascuno “si guarda” dall’Altro.
La vita, sembra dirci lo spazio teatrale, è una partita, dove le squadre avversarie, o i contendenti, sono realmente divisi. La separazione infatti è il presupposto di ogni partita. Non a caso Mick, il fratello di Aston, presentandosi all’ospite inatteso Davies (il ladro) lo accoglie con la provocazione: “A che gioco giochiamo?”. E a quante partite scoprirà di dover giocare Davies, in una metateatralità del gioco della vita !
In una visione registica che riesce a far coabitare ritmo ed eloquenti silenzi, fedeltà ed opportuni tradimenti, Duccio Camerini scende anche in scena vestendo i panni di un Davies carismatico e scoppiettante, che sottovaluta l’altruismo rappresentato da Aston (un Leonardo Zarra credibile nella sua vellutata e ossessiva sofferenza) e la diffidenza del fratello Mick, resa con efficace isterica violenza da Lorenzo Mastrangeli.
Uno spettacolo che – nell’apparente freddezza – brucia di passione.
Uno spettacolo che cela e rivela verità esistenziali.
Perché il Teatro ci salva. Sempre. È la nostra roccaforte da dove “guardare” la Vita.
Come nel Teatro così nella Vita, infatti, ci “deve” essere l’altro per esserci un noi.
Premio a Luciano Violante (cat. Teatro Classico e Contemporaneo Sez. Nuova Drammaturgia) – perché «la sua versione dei fatti é la versione di una donna imprigionata dal volere altrui che cerca di liberarsi dai vincoli patriarcali».
Premio a Viola Graziosi (cat. Teatro Classico e Contemporaneo Sez. Miglior Attrice)
Premio a Giuseppe Dipasquale (cat. Teatro Classico e Contemporaneo Sez. Regia e Scenografia). Il nuovo direttore di Marche Teatro -Teatro di rilevante interesse culturale- offre «uno sguardo caleidoscopico che ci rimanda ad un linguaggio cinematografico, all’immagine inconscia e metafisica. Circe è parte di un mondo fluido, Circe tra mito e realtà; prigioniera del suo abito crisalide e del suo stesso incantamento che le impedisce la piena libertà: ricca di rimandi iconografici da Bottazzi a Waterhouse in una sinergia tra mitologia e lirismo, il percorso di una donna alla ricerca dell’essenza dell’essere».
Il racconto è lo sforzo, il tentativo, di chi vuole comunicare qualcosa. Con una determinata intenzione.
Cosa sappiamo di Circe?
Il racconto più diffuso fa di lei una maga ingannatrice e malvagia. Ma è solo un punto di vista, un tentativo di comunicare qualcosa. Ci sarà dell’altro?
Luciano Violante
Da qui probabilmente nasce il desiderio di Luciano Violante, ex magistrato e politico italiano, di approfondire il fatto. Il mito, in questo caso. Ne scaturisce un testo davvero convincente che l’originalissima regia di Giuseppe Dipasquale e l’istrionica interpretazione di Viola Graziosi rendono irresistibile.
Giuseppe Dipasquale
Questo di Luciano Violante è il racconto su Circe, di Circe: la sua versione dei fatti. Il suo personale e consapevole entrare nell’habitus costruito per lei dagli altri. L’altra faccia della medaglia. La parte mancante, ad ora. Quella che era rimasta ingabbiata in una struttura rigida, mortifera. Che le toglieva respiro.
Viola Graziosi
È la sua voce a farsi corpo. Ma a differenza di un corpo, non è parte determinata di una materia. E’ tutta la materia, tanto è variegata – l’espressività vocale e mimica di Viola Graziosi è stupefacente, al di là degli accattivanti effetti sonori ad essa applicati.
E poi è essenza. Una voce caleidoscopica, dilatata, con echi. Una voce che si specchia e produce un rimando. Una voce epica: fisica e metafisica. Un canto: una melodia sì, ma anche un punto di vista: quell’angolo dell’occhio che produce quella particolare curvatura. Quel particolare sguardo. Ed è incanto.
Scenograficamente questo suo caleidoscopico sguardo è riprodotto quasi fosse una proiezione cinematografica. Una proiezione lisergica, inconscia, metafisica all’interno di un grande occhio che le fa da fondale. Lei così disponibile a farsi parte di un mondo fluido, marino e non solo. Lei così poliedrica, seppur incarcerata in un racconto che le tarpa il corpo.
L’appassionata regia di Giuseppe Dipasquale visualizza molto efficacemente questa prigionia: non ci sono quasi mai movimenti scenici in Viola Graziosi se non quei piccoli, flessuosamente ondulati, liquidi movimenti delle sue mani. Unitamente alla restituita possibilità di entrare e di uscire dal rigido habitus, confezionato sul precedente racconto intessuto su di lei.
Il magnifico apparato scenografico cita con originalità celebri opere iconografiche dedicate al mito di Circe : partendo dal dipinto del poliedrico pittore romano Umberto Bottazzi (1865 – 1932) per arrivare al britannico preraffaellita John William Waterhouse (1849 -1917). Ma è l’insieme degli sguardi della drammaturgia luminosa a vivificare – in sinergia al lirismo del testo di Luciano Violante – questo nuovo racconto restitutivo.
Eccolo. Fu il padre di Circe a scegliere per lei: le ordinò di rinunciare a tutti i privilegi di essere una divinità, anche se minore, per scendere tra i mortali. Una descensus che solo apparentemente ha il sapore di un esilio: in verità è una missione, una vocazione terapeutica. Un viaggio che lei solo percorrendolo dentro di sé può restituire a coloro che riescono ad avvertirne l’esigenza. Perché – le disse suo padre – “serve uno sguardo diverso sul mondo: serve lo sguardo di una donna”.
Nella sua discesa interiore – metaforico viaggio fino all’isola di Eea – a lei si uniranno dei mortali ingiustamente condannati a causa di racconti ingannevoli . Proprio come è successo a lei. Perché “per gli umani sovente la verità è piena di spine, mentre l’inganno di miele”.
L’isola di Eea diverrà così, nel nuovo racconto portato alla luce da Violante, un luogo di purificazione: dove, chi ne avvertirà l’esigenza, potrà fermarsi per purificarsi, per redimersi. Un luogo gestito solo da donne e dal loro sguardo sul mondo.
Viola Graziosi e Graziano Piazza (Ulisse)
Vi si fermeranno in molti: non ultimi gli uomini di Ulisse. Uomini affamati di cibo e di donne, di cui si considerano padroni. Allo specchiante sguardo di Circe non passa inosservato questa brama di sopraffazione, di illecito potere: nel suo sguardo ciascun membro della ciurma di Ulisse vede riflessa l’autentica natura ferina che cela.
Ma, essendo ancora incapaci di avvertire l’esigenza di un viaggio interiore purificatorio, è opportuno che vivano consapevolmente questa momentanea trasformazione propedeutica.
Poi arriverà Ulisse: colui che consapevolmente confeziona racconti mendaci. Lei lo disarma immediatamente. Ma lui oppone resistenza: “Io sono quello che sono”. E non si può mutare il cuore di un uomo, se l’uomo non vuole.
“Io voglio non aver catene, questa è la mia tragica libertà” – continua l’Ulisse di Violante.
Serve infatti un coraggio di donna, per affrontare se stessi.
Serve la capacità e la vocazione a desiderare di entrare in relazione con l’altro.
Relazione, non sopraffazione.
Preziosissimo questo progetto “DONNE! Trilogia sulle donne dal mito ai social” voluto dal Teatro di Roma.
Perché è importante raccontare, denunciare, far conoscere, rivelare nuovi sguardi su ciò che ci accade.
Perché è importante che i vari racconti entrino in relazione e si faccia chiarezza.