Recensione dello spettacolo PASTICCERI – Io e mio fratello Roberto – di e con Roberto Abbiati e Leonardo Capuano

TEATRO LE MASCHERE, dal 18 al 20 Giugno 2024 –

Tutto è “a vista”.

La scena riproduce un laboratorio di pasticceria, dove lavorano “dal vivo” due fratelli. Sono fratelli gemelli. 

Ma qualcosa inizia a sottrarsi “alla vista”: uno dei due non ha nome proprio, prima caratterizzazione di un’identità. Il sottotitolo dello spettacolo recita: “Io e mio fratello Roberto”. E quella che sembrerebbe una privazione, inizia pian piano ad avere il sapore di una iper protezione, con un retrogusto di sopraffazione.

Acuta scelta drammaturgica di anticipare quella che è l’ontologia dei fratelli gemelli: generalmente difficili da distinguere e quindi con un’innata fame d’identità da soddisfare. Quella necessità di sviluppare un “me” separato da un “noi” diventa allora cruciale, alimentata anche dal dover competere fin dall’inizio per risorse condivise nello stesso tempo.

Leonardo Capuano e Roberto Abbiati

E così l’empatia che i gemelli provano l’uno per l’altro può trasformarsi in una lotta interiore per arrivare ad essere individui “unici”. Un mondo sotterraneo, non “a vista”, di emozioni e relativi atteggiamenti di cui, ad esempio, ci parla la balbuzie di Roberto.

Ma siamo in una cucina, il luogo per eccellenza delle trasformazioni, dove non solo i cibi ma anche le emozioni meno commestibili possono diventare pietanze gustose: utili alla vita. Serve l’azione del fuoco, non solo quello del gas ma anche quello dell’anima: quello che si sprigiona dal lasciarsi condurre dalla musica, dall’amore. Dall’improvvisare quando non si ricordano più le parole.

La scena è una stanza – un luogo fisico ma anche della mente – dove si può dar libero corso sia alla propria aggressività (grazie all’uso dei coltelli) che al propria energia sessuale. Un’energia vibrante che ripetutamente però resta bloccata da qualcosa: come l’orologio al centro della parete. Fermo all’orario in cui è avvenuto un terribile imprevisto, per sostenere il peso del quale non sono risultate sufficienti le risorse a disposizione dei due fratelli. Un trauma. 

Roberto Abbiati e Leonardo Capuano

Ma non tutto nella vita può seguire delle istruzioni, come avviene per le ricette dei dolci. E tra queste cose c’è anche l’amore, che non vuole essere controllato. Ma controllare.

Sarà per questo che in amore vince chi “viene dopo”: Roberto, il fratello balbuziente che del lavoro in pasticceria fa fatica a seguire le regole della logica, finendo per dipendere dalla gestione dell’altro fratello, quello “affidabile”.

Ma Roberto è dotato di una diversa intelligenza, che va al di là dei precisi confini fissati dai principi della logica: è un‘intelligenza emotiva la sua, che gli permette di muoversi meglio negli imprevisti poetico-erotici dell’amore, ad esempio. Lui sa stupirsi (per questo può sembrare uno che “viene dopo”) e di conseguenza sa produrre stupore. E il suo sguardo, anche quando è fisso, è creativamente perso.

Roberto Abbiati

Roberto Abbiati, l’interprete, è i suoi occhi. Parlare con la voce è secondario per uno come lui: non se ne sente la mancanza. E la sua balbuzie, pur essendo un “blocco emotivo”, in realtà viene come trasformata in una preziosa gemma che caratterizza la sua individualità. Ben oltre i suoi baffi. Quando poi parla, gli esce una vocina piccola piccola ma così suadente, da veicolare meravigliosamente un’abilità (inconsapevole) nell’arte dell’uso della parola. Tanto da sedurre, in primis, il suo stesso fratello.

Ma lui, così rigido nella sua individualità, nella sua egoità, non si permette di goderne; anzi rimprovera Renato di un “cattivo” uso delle parole, che lo riducono “a un burro”. Se invece sapesse quanto è irresistibilmente amabile quando si lascia spalmare dalle parole di Roberto! Ma lui ha ancora bisogno di credere che un vero uomo deve essere efficiente e ricco in nerbo: “Io sono io e lui è mio fratello Roberto, che arriva sempre dopo”.

Leonardo Capuano e Roberto Abbiati

In verità il meno identificato dei due fratelli è proprio lui: ancora così traumaticamente legato a suo padre e ai propri rigidi confini personali. E Leonardo Capuano, che lo interpreta, sa rendere con sensibile efficacia questo suo intimo dissidio, colto così bene da Roberto:“ Mio fratello non è nato simpatico, parla bello sciolto e mi legge nei pensieri”. E’ un uomo pervaso da una forte carica erotica che agisce nella manualità che necessariamente si sprigiona in una cucina, metafora della donna ideale: la mamma.  Ma la sua manualità non riesce a decollare fuori dai luoghi comuni delle ricette seduttive. Si fida solo di se stesso e delle sue bavaresi alla fragola e non ce la fa ad incuriosirsi fino a farsi preda del mistero che incarna una donna. Lui sa essere protettivo con le sue donne (le bignoline) e con suo fratello: ma la protezione è una forma di controllo non di arrendevolezza, di scioglievolezza.

Roberto Abbiati e Leonardo Capuano

Per questo è così spaventato dall’effetto che gli suscitano le parole di Roberto: lo fanno sentire perso, disorientato. Gli fanno perdere la memoria: e si blocca. E così lo spettacolo. Come l’orologio, che ricorda ossessivamente, ma silenziosamente, qualcosa di incontrollabile. Di cui non riescono a parlare tra loro i due fratelli. Ma con noi del pubblico sì, in teneri a parte. Questa esperienza familiare traumatica, come a suo modo può esserlo l’amore per una donna, richiede però di essere ancora ben “amalgamata” – dolcemente sì, come ordina il fratello a Roberto – ma anche rendendosi disponibili a una trasformazione.

Di cui si hanno i primi segnali nella modalità di preparazione dell’ultimo dolce della serata: una torta Charlotte, alla quale i due fratelli gemelli lavorano finalmente a quattro mani, senza subordinazioni. Un “noi”, dove trova libera espressione lo stile e quindi l’identità di ciascuno dei due pasticceri.

Leonardo Capuano e Roberto Abbiati

Uno spettacolo gustoso, profumato, eccitante, commovente, sorprendente: ingredienti follemente amalgamati all’interno di una drammaturgia calvinianamente leggera, portata ogni volta alla giusta temperatura da due interpreti irresistibili.

Leonardo Capuano e Roberto Abbiati


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo AMEN di Massimo Recalcati – regia di Valter Malosti

FESTIVAL NARNI CITTA’ TEATROChiostro di Sant’Agostino – 14 Giugno 2024 –

In una notte racchiusa dalle pareti affrescate di un chiostro del XVIII secolo ma libera di brillare sotto un cielo tempestato di stelle, i rintocchi dell’orologio della Torre dei Priori hanno segnato l’amen: il tempo della fine dell’attesa e quindi l’ora dell’inizio dello spettacolo. 

Un raggio di luce accompagna allora l’entrata in scena degli artisti del suono: co-protagonisti insieme agli interpreti dello spettacolo immaginato dallo slancio creativo di Valter Malosti, regista del testo teatrale scritto da Massimo Recalcati.

Valter Malosti

Malosti sceglie, in fertile accordo con l’essenza del testo, di “concertare” le voci di Marco Foschi, Federica Fracassi e Danilo Nigrelli – alle quali affida l’interpretazione di una selezione di brani della drammaturgia – ai suoni dello sperimentalismo in continua evoluzione del sound designer e musicista Gup Alcaro e alla chitarra laconica e brumosa, gravida di suggestioni, di Paolo Spaccamonti.

“Concertare” significa preparare per un’azione comune ed è qualcosa di diverso da una fusione; è piuttosto una cooperazione che riconosce le diverse peculiarità messe in campo. E quella del “concertare” è la cifra stilistica scelta da Valter Malosti per restituire registicamente il fecondo contrasto che agita il testo di Recalcati.

Massimo Recalcati

Le parole scelte dal celebre psicoanalista e saggista sono parole che sanno di esprimere il loro potere creativo: prendono vita da un eccesso di dolore che, lungi dalla tentazione alla rassegnazione, si trasforma in un desiderio disperato di lotta e di resistenza.

Sono parole che sanno di essere anche suoni dal potere fonosimbolico. E quello che prorompe dalla drammaturgia come un grido è un eccesso anche acustico, che ci viene restituito attraverso la sapienza di chi conosce intimamente quell’asprezza del suono vibrantemente acuto e quel carattere di esplosione polmonare, proprio dell’atto di alzare la voce in un grido.

Un grido che, al di là di una singolare esperienza personale, desidera richiamare l’attenzione della comunità, anch’essa coinvolta in questa disperata ed eccitante esperienza dello stare al mondo. 

Ecco allora che all’ “uomo” Massimo Recalcati si affianca lo “psicoanalista-antropologo” per restituire il valore di quella che è la radice etimologica di ogni nostro “gridare”: quel chiamare aiuto inteso dai nostri progenitori come l’atto di chiamare a condivisione  tutti i concittadini. Quel “quiritare”, da cui deriva il nostro “gridare”, significava infatti chiamare a raccolta i concittadini di allora: i Quiriti, appunto. Una parola dall’impatto unico: quello del suo originarsi dalla consapevolezza che avevano gli abitanti di una piccola cittadina dell’Italia centrale – nata su una sponda del Tevere ventotto secoli fa – che quando si gridava aiuto, si stringeva come cittadinanza.

Un grido che qui si origina dal ricordo di un’incubatrice: Recalcati, infatti, nato prematuro in tempi in cui non esisteva ancora la neonatologia, racconta di aver ricevuto insieme battesimo ed estrema unzione. Lui stesso, incarnazione del possibile coabitare di vita e morte. Un ricordo che si fa materia emozionale attraverso la sublime messa in scena acustica del regista-artista Valter Malosti. 

Un’incubatrice che ci parla di quel mortificante isolamento protettivo, durante il quale si è privati del contatto uterino con la propria mamma. Ma a qualche livello “l’imprinting” del suo battito cardiaco continua a insistere nel battito di suo figlio. Di concerto alla sua voce che, anche in quest’utero di vetro, riesce ad insinuarsi e a nutrirlo. 

Paolo Spaccamonti, Federica Fracassi, Danilo Nigrelli, Gup Alcaro

Torbida  e pulsante come linfa vitale ci scorre dentro la voce di Federica Fracassi, scelta per interpretare la Madre, primo esempio della relazione e quindi della “concertazione” tra vita e morte. E nonostante il lutto che già veste, ma che non la abita e da cui eccedono guizzi di vibrante rosso sangue, “nuda” e distante ci si dà iconograficamente come una Venere botticelliana pervasa da “furor maliconicus”: quello de “La nascita di Venere”, allegoria neoplatonica incentrata sul concetto di amore come energia vivificatrice.


Una relazione, quella della vita “con” (e non “contro”) la morte, indispensabile ma che rischiamo continuamente di smarrire. Lo abbiamo sperimentato macroscopicamente durante i lunghi mesi di pandemia, dove a salvarci era il momentaneo allontanamento dalle relazioni. Anche noi, in qualche modo, chiusi terapeuticamente in un’incubatrice di vetro: quella delle pareti della nostra casa, che si estendevano attraverso i vetri dell’incubatrice-computer.

Marco Foschi, Federica Fracassi, Danilo Nigrelli

Ed è intorno al fertile “concertare” di vita e di morte, reso acusticamente dall’elettricità melmosa e metallica dei suoni e delle voci, che Valter Malosti costruisce l’epifania della vita. Che ritorna: ancora e ancora. Anche nei momenti più mortiferi: basta non smettere di accordare il nostro orecchio ai richiami acustici del nostro essere battuti dal battito cardiaco “concertato” al ritmo del nostro passo, espressione invece della nostra volontà disperata, a insistere a continuare a vivere. 

Perché sebbene ci sia sempre qualcosa di irrisolto che resta e che tende a riproporsi, noi abbiamo facoltà di accordare la nostra luce al buio di questa irresolutezza. Attraverso un nostro “come”, simboleggiato dalla parola “Amen”: un suggello d’apertura alla vita, che si fonda sulla chiusura della morte. Come avviene nell’atto della nascita, nell’atto dell’amore, nell’atto della morte: “concerti” di vita e di morte. 

Ecco allora che questo testo teatrale, che nasce come un “grido”, si apre in un meraviglioso elogio del potere della “relazione”: il solo davvero efficace nel rievocare la vita anche nei momenti di morte. 

Federica Fracassi, Paolo Spaccamonti, Danilo Nigrelli, Marco Foschi

Della madre è l’insegnamento a desiderare la vita nonostante tutto, a cantarne un inno attraverso la trasmissione di quel battito del cuore che non smette di insistere. E che, quasi come un ancestrale imprinting, il figlio Recalcati ritroverà nel ritmo del passo del padre-soldato : qui un solennemente sfibrato Danilo Nigrelli, che sa rendere con efficacia l’eroe dal fascino rigorosamente decadente, incontrato dall’adolescente Recalcati tra le righe de “Il sorgente nella neve” di Mario Rigoni Stern . Ma quel battito del cuore è rintracciabile anche nell’imprinting di cui si nutriranno i battiti-carne con la sua amata donna.

Paolo Spaccamonti e Gup Alcaro

Quei battiti resi succulenti dalla voce e dalla rievocazione del sopravvissuto e ancora affamato di vita Marco Foschi, interprete di Enne 2, il partigiano di “Uomini e no” di Elio Vittorini, altro eroe incontrato nelle prime letture del giovane Recalcati. Il suo impaziente desiderio di vita trova massima espressione nella relazione palpitante con la sua donna, di cui Marco Foschi rende tutta la gustosa e drammaticamente impetuosa forza vitale, che lubrifica i sensi.

Uno spettacolo esperienziale – questo di Valter Malosti ispirato al testo di Massimo Recalcati – denso di quella sacralità che invita lo spettatore a parteciparne, aprendosi in un ascolto libero dai rigidi principi della logica. Un ascolto indifeso che, solo, riesce a rendere onore al potere della parola, che qui si fa carne. E di cui riusciamo a sentirne la lacerazione innamorata. Fino a toccarla. Contagiandoci di vita pulsante.

Andrée Ruth Shammah

Fertilmente visionaria, com’è nella sua cifra artistica, Andrèe Ruth Shammah: la direttrice artistica del Teatro Franco Parenti che ha scelto di produrre questo spettacolo, la quale non appena ricevuto in lettura il testo di Recalcati ne ha colto le potenti vibrazioni dionisiache, confluenti in un punto di fuga che ha dell’apollineo. Le vibrazioni necessarie per riaprirsi alla vita, e quindi al teatro, dopo l’oscurità dei mesi vissuti durante la pandemia. E non solo.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo ACCABADORA – regia di Veronica Cruciani –

TEATRO ARGENTINA, 12 e 13 Giugno 2024 –

Teatro Argentina

Quanto è necessario per Maria “capire con esattezza” la segreta complicità che Bonaria Urrai aveva con la morte ?  Lei stessa dimentica che da bambina “giocava a fare torte di fango impastate a formiche vive, con la cura di una piccola donna”. Ed era bella “come lo sono a volte le cose cattive”.

Sono davvero separate la vita e la morte? E il bene dal male ?

Sarà davvero peccato avvicinare i confini della vita a quelli della morte, sottraendo un ultimo “metro” di vita? 

Non fanno forse qualcosa di simile gli uomini con i confini delle loro terre, sottraendo una parte del confine degli altri, per inglobarla nel loro nuovo confine? 

Anna Della Rosa

E la madre di Maria, non si arroga forse l’arbitrio di fissare il suo confine di madre subito dopo la terza figlia? 

E Maria, la quarta figlia, non rappresenta forse “quel metro” di confine di maternità a cui si può rinunciare, facendola diventare “fill’e anima” di un’altra donna?

Ci ostiniamo a mettere confini dichiarando che così si fa perché è giusto, quando in verità ci abita il gusto segreto di sopraffare l’altro: inclinazione che riceviamo in corredo dalla natura, non appena veniamo al mondo. Ma l’amore no, quello viene dopo l’odio. Viene se si ha voglia d’impararlo, l’amore.

Anna Della Rosa

Questo appassionato testo drammaturgico scritto da Carlotta Corradi, ispirato all’omonimo celebre romanzo di Michela Murgia edito da Giulio Einaudi Editore, ne “amplia il respiro “ – come la stessa autrice osservò leggendolo, dopo averlo commissionato alla Corradi .

E ci parla anche di questo: di quanto sia importante per Maria, difronte al corpo morente della sua seconda madre, capire – anzi sentire – qual è il vero nome del mistero di quella loro relazione. Ora che quel mistero è stato “separato dalla violenza sottile dell’analisi logica”.

La Corradi immagina allora che Maria compia un suo “nostòs” : un suo viaggio di ritorno, non solo fisico (da Torino a Soreni) ma anche dentro se stessa, attraversando con il suo racconto tutto quel “non detto”, che ha caratterizzato il rapporto con la tzia Bonaria Urrai. 

Anna Della Rosa

Perché Maria è ora pronta per tentare di mettere insieme tutti gli elementi della storia passata, per dare vita a una nuova forma di comunicazione. Lo ha imparato (ancora senza consapevolezza) andando via dall’Isola: è nel Continente, a Torino, che scopre un nuovo criterio di comunicazione “urbanistica”. Quello secondo cui si possono costruire prima le strade (le vie di comunicazione) e poi i confini per i palazzi e le piazze, suddivisi tra loro per “quadri”. Come se fossero le relazioni umane a fare le città-persona. Poi le cose: i palazzi, le piazze. 

E proprio così Veronica Cruciani costruisce la sua accorata regia al testo della Corradi: per quadri, collegati tra loro da una nuova rete stradale di comunicazione. Quella del racconto di Maria.

Anna Della Rosa

Il racconto di chi ha bisogno di sperimentare se è vero che “le cose se devono accadere, accadono da sole”, o se invece ci sono anche realtà ontologico-esistenziali più grandi di noi, che ci precedono. Come quella di essere “figli”: una realtà che nessuno di noi può scegliere. E si viene al mondo senza volerlo, plasmati per svariati anni, o per tutta la vita, dalle parole di altri (i nostri genitori), persone che nessun figlio ha scelto. 

Così come, a volte, abbiamo bisogno che l’Altro sia disponibile a fare ciò che non è in grado di fare. Al di là del confine che crede lo racchiuda.

Anna Della Rosa

Sconfinata è Anna Della Rosa, la generosa interprete di Maria e di tutta quella geografia umana che la compone: la sua disponibilità, come persona prima ancora che attoriale, la guida nell’attraversare gli impervi, più spesso assenti, confini di una moltitudine di microcosmi esistenziali. Quelli, ad esempio, tra una Maria ancora bambina alla quale si richiede di essere donna o quelli che separano l’imprevisto piacere di ri-nascere nello sguardo di Bonaria Urrai dalla sconcertante incapacità di guardare lei, Bonaria Urrai, per accettarla nella sua accecante multiformità. Lei che sembrava solo una sarta avvolta dal nero delle ombre. Ma la Maria di Anna Della Rosa sa trovare il modo sconosciuto di ri-nascere ancora una volta, ora abitata da una nuova consapevolezza. E scoprirà, anche lei, di essere sconfinata.

Anna Della Rosa

La scena minimalista, dal cromatismo emozionale, si libera nel corso della narrazione di quella geometria confortata da angoli, per aprirsi – rompendo tutti i piani conosciuti – ad un’accoglienza di vuoto, che sa riempirsi della presenza fondante dell’Altro. Perché siamo Relazione.

Veronica Cruciani e Michela Murgia


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo SCAPPATI DI CASA – di Roberto Gandini e Roberto Scarpetti – regia di Roberto Gandini –

TEATRO ARGENTINA, 9 Giugno 2024

Sono “scappati di casa”: sono ragazzi e attraverso la fuga si sono sottratti a un danno imminente, a un pericolo, a una costrizione.

Hanno avuto il coraggio – come suggerisce anche l’etimologia della parola “scappare” – di desiderare un diverso modo di vivere, alleggerendosi della “cappa” che indossavano e che li legava a un mondo che si stava lasciando portare alla deriva.

Perché lo scappare non è come il fuggire: è  piuttosto “la premessa” del fuggire. Lo scappare descrive il momento di uno slancio improvviso: una seducente e vitale esigenza a riappropriarsi di desideri e di inclinazioni talentuose, indirizzate verso una progettualità. 

E’ quello smalto selvaggio e vibrante che ci fa cogliere l’occasione più opportuna per approfittare del momento giusto: per dire “basta”, sottraendoci al passivo lasciarci trascinare laterale, fuori da ogni naturale rotta. 

Già qui si percepisce tutta la densa raffinatezza drammaturgica di questo testo scritto a quattro mani da Roberto Gandini e da Roberto Scarpetti. Ma oltre alla forma, seducentemente prezioso è l’entusiasmo pedagogico di cui il testo è fecondo e che ha offerto a questi ragazzi del Laboratorio Pilota Piero Gabrielli la possibilità di sperimentare un modo di stare al mondo pieno di gusto, di sapore e di sana avventura. E chi assiste allo spettacolo ne resta irresistibilmente contagiato.

Perché se è vero che obiettivo di ogni attività educativa è creare un legame, una “colla” con gli adulti, è anche vero che a questa prima fase è fertile ne segua un’altra di “scollamento” critico dalle figure di riferimento, con le quali prima si era aderito. 

Ecco quindi l’importanza dello “scappare”, evitando di “sdraiarsi” senza una progettualità propria, trascinati “lateralmente” dalla corrente. Privi di meta e non sostenuti da alcuna volontà. Da nessun desiderio che corregga la rotta e che si prenda cura del come raggiungere una propria destinazione.

Perché soli. E quindi troppo pieni di rabbia: senza le parole per dare forma al proprio disagio. Situazione esistenziale in cui i giovani si sono trovati gettati durante e dopo il trauma della pandemia.

E proprio sull’alleggerimento di questa condizione emotiva il Laboratorio Teatrale Integrato Piero Gabrielli ha lavorato – e da anni lavora – con cura, per poter sublimare attraverso il potere trasformativo del raccontare e dell’agire scenico i disagi relazionali e progettuali dei ragazzi.

Gli “scappati di casa” invece sono ragazzi ancora abitati da quel sano desiderio che per prima cosa ha fatto sì che ciascuno sentisse l’esigenza di andare a cercare l’altro. Soprattutto dopo il trauma della pandemia. Per ritrovarsi in un loro microcosmo, dove i desideri di ciascuno possono esprimersi efficacemente proprio perché “regolati” da un progetto di comunità. Come avviene da sempre anche nella comunità del Teatro.

Perché gli “scappati di casa” sentono ancora il desiderio di fare gruppo, di rischiare nel riallacciare relazioni.

Perché trovano più accattivante – anche se è più difficile rispetto allo stare da soli, (troppo) protetti da mamma e papà – impegnarsi nel trovare ogni volta una maniera diversa per accordarsi con gli altri coetanei.

Il gruppo, infatti, si nutre dell’idea di comunità: piccolo ma indispensabile microcosmo per un vivere di gusto, con sapore. Realizzante. 

E questo microcosmo degli “scappati di casa” ha voglia di accordarsi anche con il macrocosmo esterno che li ospita e di cui, per continuare a vivere dignitosamente, occorre prendersi cura. Come di una persona a cui vogliamo bene. Come faremmo con noi stessi. 

La fulvida immaginazione dei due drammaturghi Gandini e Scarpetti sceglie acutamente allora di dotare i personaggi di questo spettacolo di “capacità telepatiche” con le forze della natura e con le persone che li circondano. 

Una seducente enfatizzazione dell’entrare in empatia e quindi del dedicare attenzione e cura alla natura (e all’altro da noi, più in generale). Notando i segnali che lei, la natura, proprio come può accadere a un nostro amico, ci manda quando è in difficoltà e da sola sente di non potercela fare. 

Gli “scappati di casa” sono un gruppo che si costituisce in “tribù”: anche qui non si può non apprezzare la sagacia di cui sanno far uso gli autori Gandini e Scarpetti. “La tribù” infatti è qualcosa di più di “un gruppo”: è un termine a cui tendiamo ad attribuire molta suggestione ma di cui sfugge l’autentica cognizione. Racconta infatti le nostre origini: la genesi di una Roma che prende vita dall’azione sinergica tra Latini, Etruschi e Sabini. Dove fondamentali erano i concetti di “magistratura dei tribuni” e di “tribunale”. Così come  il concetto di “tributo”: quello dovuto appunto dalla “tribù”. 

“Tribù” ci parla quindi della consapevolezza di appartenere ad un’unità, a una comunità, a una nazione. 

Ed è la prima cosa di cui si accorge Letizia, al di là degli iniziali sospetti di cui è oggetto, lei pariolina di Roma Nord. Lei che – nonostante sia colma di costosi oggetti alla moda – ora si sente così disperatamente sola e fa tanta fatica ad attraversare il ponte che lega l’età infantile a quella di una prima maturità.

Ma insieme agli “scappati di casa” scoprirà la stupefacente sensazione di essere accolta anche nella sua “diversità”, perché è la diversità che aggiunge quel qualcosa in più a quello che già si conosce, mettendo alla prova la duttilità “dei confini” di ognuno. Con il risultato di riuscire a sentire la gratitudine per essere parte di una tribù, dove ci si rispetta perché ci si ascolta. 

Brillano per coralità, per ritmo, per rigorosa freschezza e credibile profondità – complice l’energizzante contrappunto della musica dal vivo – i giovani attori sulla scena, alcuni al primo battesimo con il pubblico.  Le musiche di Andrea Filippucci e di Luigi Gramegna sono state eseguite dal vivo dallo stesso Luigi Gramegna.

I giovani attori sulla scena sono: Giordano Arista, Giorgia Aversa, Maura Ceccarelli, Flavio Corradini, Alessandro Giorgi, Alexia Giulioli, Samuel Kowalik, Edoardo Maria Lombardo, Alessio Mazzocchi, Andrea Maria Margu, Aurora Orazi, Marina Ottaviani, Sofia Piperissa, Fabio Piperno, Anna Prinzivalli, Edoardo Ricotta, Marcello Selvatino, Elena Sili, Livia Spagnoli, Elisabetta Tarantini.

Efficacissimi i cambi di scena – mobili e tutti a vista – nonché i costumi (curati da Tiziano Juno e realizzati in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Roma): capaci di rendere la  fluidità di un’esteriorità spesso specchio inconsapevole di un’interiorità predata.

Curate le coreografie e i testi delle canzoni (maestra di coro Virginia Guidi) : su tutti il testo e la coreografia del canto “Tarantella”, dionisiaci e insieme terapeutici nel liberare metaforicamente (e non solo) i giovani dal morso della taranta (depressione), il cui veleno era ritenuto causa di malinconia, disagio psichico, agitazione, dolore fisico e sofferenza morale.

Uno spettacolo inebriante, che ci ha accompagnato fuori dal teatro con la consapevolezza di un nuovo entusiasmo. 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo ELETTROCARDIODRAMMA di e con Leonardo Capuano –

TEATRO LE MASCHERE, dal 4 al 6 Giugno 2024 –

E’ un cocktail di allucinazioni stupefacentemente verosimili, dove i principi della logica (quello di identità-non contraddizione e quello di causa-effetto) diventano come idrosolubili, dissolvendosi nel liquor cerebrospinale del personaggio sulla scena. 

È un gioco per divertirsi; sono sogni dove ci si scopre intrepidi.

E’ l’esigenza di creare un ambiente sicuro nel quale riuscire ad esplorare e ad affrontare una serie di difficoltà legate a emozioni e pensieri.

E’ il teatro nel quale possono trovare rappresentazione  affetti ed emozioni appartenenti alla storia relazionale e che, contestualizzati nel qui ed ora, permettono di accedere a un mondo interiore singolare e collettivo.

Una dimensione dove sentir dire “devo fare un elettrocardiodramma” fa sì che l’espressione verbale venga tradotta letteralmente e che il personaggio in scena si faccia lui stesso “elettrocardiodramma”. Portando in salvo l’essenza della vita. 

E il merito è della terapia teatrale, dove ci si può permettere di essere altro da sé. Come in un gioco, come in un sogno. 

Il personaggio in scena – interpretato con lisergico realismo da Leonardo Capuano – ci si dà come un’epifania. Non ha un nome proprio perché non ne ha bisogno: è un personaggio di un inconscio collettivo in cui tutti, in qualche modo, confluiamo. Una creatura maschile dotata anche di un’esuberanza di femminile.

L’occasione – così ci racconta – è data dal fatto che in un ipotetico gioco, come profetizzato macabramente da sua madre, è caduto dalle scale svenendo. E ora sente in testa un gran rumore. 

Ed è da qui che parte il suo farsi elettrocardiodramma, dove la tecnica medica riesce a fondersi argutamente con quella teatrale. 

E quella che in medicina è una riproduzione “grafica” dell’attività elettrica del cuore, qui sulla scena diventa una riproduzione “verbale”. I cui picchi sono resi con episodi di balbuzie acuta. Leonardo Capuano è mirabilmente credibile: pulito ma intenso; ossessivo e poetico; stralunato ma vero.

Le tensioni generate dalle cellule cardiache che in medicina sono registrate da un apparecchio (il cardiocardiografo) qui sono registrate dalla sua gamba  destra che si attiva meccanicamente, al di là di ogni efficace controllo. In presenza di un’acutizzazione della tensione si attiva un altro movimento involontario, rapidissimo, ripetuto ossessivamente: quello della sua mano destra.

Il movimento della carta del cardiocardiografo – che esce verso sinistra contemporaneamente all’oscillazione verticale delle linee prodotte dalle variazioni di potenziale – è resa da un movimento sull’orizzonte di sinistra dalle sue gambe, che scorrono lasciando immaginare il prodursi del continuum di carta.

Leonardo Capuano

Da tutto l’acuto lavoro drammaturgico e fisico-interpretativo di Capuano emerge l’insostenibile leggerezza dello stare al mondo, sostanzialmente soli anche se in compagnia, in balia di ogni evento e di ogni sua molteplice interpretazione. Senza poter contare sul conforto di un qualche equilibrio: cercato, anzi “rincorso” per tutto lo spettacolo. Come una palla: ma non è una palla. E’ l’idea gestuale di un’armonia, dalle sembianze di un cerchio.  Ecco allora che per provare ad andare al di là dei fraintendimenti delle parole e della stessa gestualità, il personaggio – quasi come una nike -si auto-mutila l’uso delle braccia.

Ma sarà poi vero che dove non arriva la natura arriva la chimica ? Esisterà mai un farmaco per gestire il peso del quotidiano vivere? E se non c’è, che si fa?  Come si gestisce tutto questo caos esistenziale ? 

Non c’è fretta. Per procedere bisogna ritrovare la calma. E poi suvvia: queste domande esistenziali tengono impegnati, fanno passare meglio il tempo! Perché finché c’è qualcosa da attendere, non va poi così male. Ce ne parlano i suoi occhi: persi, sì, ma che non smettono mai di cercare. Senza  fine.

Perché la nostra piccola vita è il racconto di infiniti sogni. E del sogno che tutti li genera, li accoglie e li distrugge.

E’ questo l’esito dell’elettrocardiodramma. Forse.

Un testo drammaturgico, questo di Leonardo Capuano davvero di grande efficacia, anche lirica: incantevoli i dialoghi concretamente illogici con un’immaginaria donna al primo incontro. Una tempesta di emozioni.

Solo un sensibile e rigoroso lavoro di ricerca può come in Padovano far assurgere a luminosa semplicità ciò che semplice non è. Affatto. Ed è un trionfo di intensità, che irretisce chi guarda.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione degli spettacoli MADRE-PERLA da Antonio Mocciola e PERFORMING 4:48 da Sara Kane – regia di Giorgia Filanti

CENTRO CULTURALE CAPPELLA ORSINI, 29 Maggio 2024

Rassegna teatrale inserita all’interno del “Festival De Rebus Amoris” –


Quella di essere figli è una condizione esistenziale che ci unisce tutti.

Nessuno di noi sceglie di venire al mondo, quali saranno i propri genitori e neppure i progetti con i quali loro scelgono di darci una forma, già prima della nostra nascita.

Veniamo al mondo “raccontati e scritti” da altri e interpretiamo le loro richieste per molti anni della nostra esistenza. E non sempre riusciamo, più avanti negli anni, a fare qualcosa di nostro di quello che gli altri hanno precedentemente fatto di noi.

E’  il caso delle protagoniste di questi due spettacoli: la Madre-perla (anche lei figlia, prima di essere madre) del racconto di inquietante bellezza di Antonio Mocciola e la protagonista di Performing 4:48 di Sara Kane

Storie di figlie che ancora rincorrono quelle attenzioni mai ricevute, quel riconoscimento emotivo mai arrivato. Perché l’identità e l’autostima sono doni sociali: si ricevono.

Loro invece crescono come figlie non guardate, non ascoltate, non difese, non amate. E crescendo, a loro volta – come per effetto di un perverso imprinting – replicano queste mancanze sugli altri, che siano figli o amanti. Perché quello che non si è ricevuto, quello che non si è conosciuto, non si può offrire agli altri. 

Entrambi gli spettacoli – curati dall’appassionato sguardo registico di Giorgia Filanti – sono dei flussi di coscienza di sacra bellezza, scolpiti da quelle ripetizioni ossessive che li rendono veri e propri rituali.

Madre-perla (un’intensamente enigmatica Teresa Ruggeri) è una Joan Crawford che ha perso il suo potere sugli altri: ha perso, com’è naturale ed inesorabile in ogni ciclo di vita, il meglio della sua giovinezza.

Si sono spenti i riflettori su di lei, essendosi spenti i bagliori iridescenti del suo continuare a farsi “madreperla”. Da poter continuare a far brillare: ma in modo diverso, ora non più giovane.

Teresa Ruggeri

Spenta si è la sua capacità cioè a fare qualcosa di proprio, ovvero a produrre del proprio materiale luminoso intorno all’insinuante invasione di corpi irritanti ed estranei, infiltratisi nella sua vita. Come fanno i molluschi di alcune conchiglie secernendo quel materiale che solidificandosi diventa appunto madreperla. Materiale (di difesa creativa) prezioso per lucentezza ed iridescenza e per la capacità di riflettere la luce in modo unico.

Ma madreperla è un materiale molto delicato e si graffia facilmente. E questo sta succedendo a Joan Crawford che avendo perso la consapevolezza di cosa significhi ora la femminilità, si ostina a continuare a puntare su quel che resta di una femminilità “estetica”, naturalmente in declino.

E quella che l’avvento del cinema ha trasformato in una femme fatale, le fragilità esistenziali rivelano nella sua originaria natura di strega clawnesca, dalla seduttività anche distruttiva.

Distruzione alla quale si consegna anche la protagonista del secondo spettacolo Performing 4:48, che ci si dà attraverso una dionisiaca performance allucinatoria (molto interessante il lavoro sul corpo restituito da Serena Borelli; audio e luci affidati a Diego Pirillo).

Serena Borelli

Notturna e misteriosa, la protagonista – quasi come una falena – si è evoluta dallo status di “farfalla” per riuscire a vivere nella notte dell’esistenza ricevuta in sorte. In questo processo evolutivo punta – per gestire al meglio le minori temperature notturne e quindi proteggere i propri pensieri – su foltissime capigliature. E su abiti (ali) dalla pigmentazione tale, da potersi mimetizzare con l’habitat così carente di calore (amore) e di luce.

Ma la sua capacità di adattamento non riesce a tenere il ritmo del progressivo raffreddamento dell’ambiente (sociale). Risultando troppo visibile (diversa) e quindi vulnerabile. Perché la sua autentica natura, così ricca in curiosità, anela in verità a farsi vedere, per essere riconosciuta e amata. Un desiderio che si rivelerà fatale. E, disorientata dalla freddezza della luce, si brucerà.


Due lavori, questi curati da Giorgia Filanti, seducentemente inquietanti nell’aver sapientemente scelto come portare luce sull’oscurità esistenziale e socio-affettiva in cui siamo immersi.

La sala che ha ospitato gli spettacoli, una delle sale della Cappella Orsini

Recensione dello spettacolo LA NOTTE DI VITALIANO TREVISAN – mise en éspace di Andrea Baracco – drammaturgia a cura di Jacopo Squizzato –

TEATRO BASILICA, 27 Maggio 2024

E’ la sua voce ad aprire la mise en éspace curata da Andrea Baracco: una voce così materica eppure così in disequilibrio. Oscura, dolente, contorta. Tenera, a suo modo dolce, musicale.

Una voce necessariamente “incompiuta” per potersi rendere disponibile a generare continuamente nuove aderenze linguistico-morfologiche aspre e ruvide. Come quelle che agitano la vita. 

Una voce necessariamente “incompiuta” com’è la natura della conoscenza per noi umani: “sempre da dilettanti, altrimenti non ci sarebbe letteratura”.  

Una voce necessariamente “incompiuta” perché, come la sua scrittura, visceralmente ossessionata dalla necessità di essere “vera”. E quindi costantemente sul ciglio del precipizio, prossima al crollo.  

Vitaliano Trevisan

Ora, soffiando in scena la sua aura, può prendere avvio la rievocazione del suo stare al mondo, che coincide con la particolare postura della sua scrittura.

Ecco allora entrare in scena coloro che fortemente hanno sentito il desiderio di ricordare l’unicità della vita di Vitaliano Trevisan, ritessendola in un arazzo di cui le loro voci si fanno fili.

E’ così che Jacopo Squillazzo – che ne cura l’intreccio drammaturgico – ci propone di partecipare ad una lettura a ritroso della vita di Trevisan, partendo appunto dall’ultimo libro “Black Tulips” e dalle esperienze legate alla fuga in Nigeria, suo paradiso di autenticità esistenziale. 

E’ Valerio Binasco ad incarnare le parole di questo testo e a rendere la morfologia di un Trevisan appesantito dal continuo essere attraversato dalla vita così come dalla morte. Ce ne parla l’efficace postura di Binasco: una postura rigida, gravata dal carico che sembra materializzarsi sulle sue spalle, che ne restano schiacciate. Ma reggono ancora queste spalle – facendosi “trasparenti” – il peso dei molteplici frammenti che agitano il caos esistenziale.

Valerio Binasco

Ai suoi passi da sessantenne in Nigeria si intrecciano, diversamente ossessivi, quelli del quarantenne Trevisan dei “Quindicimila passi”. Vivono nella voce di Gabriele Portoghese che ne rende lo stupore ironicamente drammatico del constatare che nulla torna nei conti dei passi. E intanto tutta questa fatica del contare gli ha fatto perdere il senso delle mete raggiunte. Ma gli ha permesso, evitando di farsi cogliere di sorpresa, di non sprofondare nell’abisso esistenziale.

Una modalità – questa di inscrivere nello spazio dei passi e della carta il suo distacco dal dolore esistenziale – che l’arte può assumere per rappresentare credibilmente “la pena riflessiva” della vita: quel rimuginare senza orizzonte che non conosce pace per l’anima. “Un’ arte del tempo”: la sola adatta a rendere ciò che è mobile.

Gabriele Portoghese

Dall’arte ossessiva del contare si arriva di nuovo in Nigeria: qui ad abitare Trevisan è l’ossessione cromatica del suo biancore, e quello di pochi altri, su tutto questo paradiso di nero. Dove ci si può ancora permettere di sdraiarsi sulle panchine.

Privilegio che i veneti e i vicentini non approverebbero, ossessionati quali sono da quel tanto fare (“il mal della piera”) senza però riuscire a “sapersi vendere”. Ed è l’espressività dell’affascinante minimalismo mimico di Daria Deflorian a farsi carne nelle parole seminate in “Tristissimi giardini”.  

A lei il compito di “rappresentare” ad esempio il fascino irresistibile di una caduta, come quella che avviene anche in amore, resa con le suggestioni e i ritmi di quella musicalità jazzata propria degli “standards”. Ma Trevisan, e con lui la Deflorian, vanno oltre: qui non c’è il gusto per il gioco ma il riconoscimento di una modalità che rende credibile il pulsare dei pensieri della vita. Ai quali si tende a rimanere legati come ad una catena.

Daria Deflorian

E mentre prosegue l’intreccio della tessitura a 6 mani della vita e della scrittura di Trevisan, noi del pubblico abbiamo come la sensazione di passeggiare accanto a Vitaliano, provando a seguire i suoi passi e le sue fughe, grazie al disegno “libero” dell’arazzo, che intanto si sta componendo. E che rimarrà “fatalmente incompleto”. 

Un’inspiegabilità “che non è un invito a risolvere enigmi, non è un invito ad essere arguti, bensì un ammonimento della morte al vivente: ‘Io non ho bisogno di spiegazioni, (…) pensa solo che con questa decisione tutto è finito’» ( da “Accanto a una tomba”, in Standards, vol. 1, Sironi, 2002).

“Farmi domande, a questo mi attengo”: il lavoro “manuale” della scrittura di Trevisan non pretende infatti mettere ordine nella vita, quanto piuttosto renderne – in modo rigorosamente ordinato – l’intrinseco disordine.

Vitaliano Trevisan

Una notte, quella di ieri sera dedicata a Vitaliano Trevisan – in un Teatro Basilica intasato da tutti coloro che non hanno resistito a tornare a rileggere ancora e ancora lo sguardo di un uomo spigoloso, crudo e illuminante qual era lui  – che non sarà l’unica. 

Questo  progetto, che nasce qui a Roma al Teatro Basilica ed è curato da Carnezzeria (direzione artistica Emma Dante e Aldo Grompone), viaggerà infatti in altre città italiane.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione del film CONFIDENZA – tratto dal romanzo di Domenico Starnone (Einaudi) – con Elio Germano, Federica Rosellini, Vittoria Puccini, Pilar Fogliati, Isabella Ferrari – un film di Daniele Luchetti

Stupefacente è come questo film riesca a destabilizzarci, anche senza esserne totalmente consapevoli. 

Indubbiamente ha la capacità di insinuarsi seducentemente in quella quotidianità, che crediamo di saper tenere sotto controllo. 

Non è necessario aver vissuto qualcosa di simile ai protagonisti per rimanere profondamente turbati, perché la narrazione ha il potere di arrivare in “un luogo” dove tutti confluiamo e che ci fa vedere quanto è labile il confine tra “amare” e “sopraffare”. 

Amare è quanto di più distante dalla nostra natura: ciò che riceviamo in corredo dalla natura é infatti un istinto alla sopraffazione utile per sopravvivere, senza andare troppo per il sottile sul “come” . 

Amare si impara: amare richiede un desiderio e un insegnamento erotico, un’educazione sentimentale, dove si apprende, per seduzione, a sublimare l’istinto all’individualismo nell’arte di entrare in relazione. Se ne occupa anche il prof. Pietro Vella (un Elio Germano investito della grazia della mediocrità).

Elio Germano è il prof. Pietro Vella

Ma allora, se questi sono i presupposti, quanto può risultare pericoloso chiedere e concedere di affidare una confidenza – qualcosa cioè di intimo e segreto tanto da essere quasi impronunciabile – ad un’altra persona?

Siamo spinti a correre questo rischio forse perché a prevalere sulla consapevolezza a riconoscere che il patto d’intimità si regga sul ricatto della paura reciproca ad essere smascherati, è l’idea che la confidenza implichi un grado di conoscenza così profonda tra due persone, raggiungibile solo quando si è disposti vicendevolmente a riconoscere all’altro un’accoglienza altruistica. Un atto quindi di grande fiducia, un investimento emotivo che non esclude un possibile tradimento dell’intimità della parola data, seppur suggellata dal segreto a custodirla entro le mura delle due persone coinvolte.

Non a caso Teresa (una Federica Rosellini dalla densità propria di una divinità mitologica) alla richiesta del suo insegnante Pietro Vella di tentare di definire cos’è l’amore risponde che l’amore non è mai alla pari: l’amore è sempre sopraffazione. Che un po’ è quello che lui, il prof, aveva poco prima scritto alla lavagna. Lui, però, separando l’amore dalla paura. 

Elio Germano è il prof. Pietro Vella

Ma invece al centro della nostra psiche, sotto la superficie di educate finzioni, giace inconfessata e perenne proprio lei: la paura. Non disgiunta nemmeno dall’amore e dai suoi fantasmi, che aleggiano nel buio delle nostre emozioni: sono i vari terribili “e se …” (“e se sapesse che …”; “e se la perdessi …”; “e se pensassero male di me …”; “e se fallissi …”). Per non parlare poi delle paure a cui non riusciamo nemmeno a dare un nome: vere e proprie angosce, perché quello che temiamo è proprio l’ignoto (il futuro, l’incomprensibile e la nostra stessa inettitudine). Tic, tic, tic: un vero stillicidio. 

Un po’ quello che si trova a vivere Pietro Vella: da sempre e per sempre, ma con un’impennata incontrollabile dopo lo scambio di confidenze con la sua ex studentessa Teresa. 

La quale, invece, sembra avere un diverso rapporto con la paura: quasi fosse un altro nome della fantasia. Un sintomo, il suo, della bizzarra potenzialità di una psiche che non si accontenta. Soprattutto delle cose così come appaiono: delle maschere che si tende ad assumere per difesa. Un sintomo che trasforma l’esistenza, soprattutto se animata come nel caso di Teresa dalla vendetta, in un thriller a puntate pieno di colpi di scena, di suspense e sobbalzi. Godendo proprio di quei misteri impossibili da svelare: le angosce dell’Altro, di Pietro appunto. 

Elio Germano è Pietro Vella

E quello che sembrava essere un felice “incontro” si tramuta in una sorta di “incantesimo”: nel rito magico della parola, prima magia dell’uomo e nella genesi dell’impossibile, che passa per l’intonazione della voce, per la scelta delle parole, per il ritmo del respiro. E’ quindi questa consapevolezza di Teresa sul potere dell’asserzione a travalicare le frontiere del fantastico, invadendo la realtà.

Sì, perché l’asserzione è quell’affermazione attraverso la quale si tesse una posizione e quindi un’identità. E’ il superamento delle dichiarazioni rabbiose – proprie della Teresa che scopre di essere stata tradita – così come delle dichiarazioni cerebrali, spesso prive di catene dimostrative. Ecco allora che l’affermazione, quella versata shakespearianamente da Teresa nell’orecchio di Pietro, viene data per vera, sebbene sia la prospettiva umana quella che veramente ne svela la cifra. E’ un po’ quello che Iago fa con Otello. 

Federica Rosellini e Elio Germano

Ecco, forse è proprio questo che risulta stupefacente: scoprire fin dove le possibilità umane possano bloccarsi dietro maschere (come accade a Pietro Vella), o invece spingersi oltre, verso quel qualcosa di “divino” che ci abita. Federica Rosellini, infatti, ci restituisce una Teresa Quadraro dalla densità di una divinità: che ha qualcosa delle Erinni (divinità vendicatrici dei torti subiti) e insieme qualcosa dello Zeus che sceglie la punizione per Tantalo. Come Zeus, Teresa sceglie infatti di infliggere a Pietro il tormento di chi desidera tantissimo qualcosa, apparentemente a portata di mano (in questo caso la conferma del silenzio sul segreto rivelatole) ma scopre che questo desiderio è destinato a rimanere perennemente inappagato. Un tormento che fa cadere la maschera buonista di Pietro, rivelandole l’indole da bestia pavida.

Quanta poca cosa è allora un tradimento umano rispetto alla punizione eterna, e quindi divina, di disporre del “laccio” di una “confidenza segreta”! Fino a quanto può stringere questo “laccio” ? Fino a quanto possiamo sopportarne il giogo?

Federica Rosellini è Teresa Quadraro

Perché mantenere il silenzio non è solo il contrario del comunicare. Il silenzio non racchiude un vuoto ma un pieno, non un’assenza ma una presenza: contiene infinite possibilità. E’ lo spazio dell’infinito.  E’ lì dove abita il silenzio, che tutto può essere detto.

Ed è questo tipo di intimità sospesa, senza cioè il vincolo della paura da parte di Teresa e quindi volutamente in dubbio relativamente al voto del silenzio sul segreto – quella sensazione di possibile tradimento di un patto di fedeltà orale che Teresa vuol far provare a Pietro, punendolo del tradimento del patto di fedeltà fisica. Che al confronto diventa davvero ben poca cosa. 

Da qualche tempo Daniele Luchetti  e Domenico Starnone ci stanno educando alle profondità abissali alle quali conducono ta erotika: le cose dell’amore. Profondità nelle quali sanno muoversi bene – come ci annunciava già Platone nel Simposio – le donne, perché dotate per natura di una psiche predisposta a orientarsi con più agilità nella “relazione” e nell’ambiguità delle sue dinamiche. 

“Confidenza” è un film potentissimo, irresistibile, che ci fa sentire disarmati: non confortandoci con una soluzione, con un finale definito.  E ci lascia senza parole, scegliendo di condividere con noi le infinite possibilità che ci confida il silenzio.  


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo GENERAZIONE PASOLINI – drammaturgia e regia di Marta Bulgherini –

TEATRO VITTORIA , dal 21 al 26 Maggio 2024

Che cosa significa essere audaci ?

Di cosa brilla la temerarietà di questa tempestosa idea drammaturgica di Marta  Bulgherini?

Della consapevolezza del rischio di un sogno. Accettato osando. Con compiacimento. 

E’ un’evocazione fuori dai suoi confini dello spirito di Pier Paolo Pasolini, per inscenare un sogno, una fantasia, com’è nella natura del Teatro e quindi della Vita. 

“Noi siamo della materia/Di cui son fatti i sogni/E la nostra piccola vita/È circondata da un sogno”

Ma c’è qualcosa di più nella fantasia evocativa alla base di questo accattivante testo drammaturgico di Marta Bulgherini: l’autrice e attrice ci parla del suo desiderare un’esperienza intima e profonda con se stessa. Desiderio che per potersi realizzare ha necessariamente bisogno di quella particolare grazia insita in “un incontro”, capace di generare quella meraviglia indispensabile per poter dare un nuovo corso alla propria vita.

Ma incontrare chi? E soprattutto: come si fa a “incontrare qualcuno”? Come si fa, in ultima analisi, “a incontrarsi con se stessi”? 

Occorre sentire l’esigenza di avviare una ricerca. Partendo da qualsiasi parte, preferibilmente quelle meno confortevoli. 

Pier Paolo Pasolini, ad esempio. Lui che tutta la sua vita non ha mai smesso di cercare. Con audacia poi. 

E da Pasolini parte la ricerca della Bulgherini, con la complicità di Goffredo Parise, a lei invece affine. Almeno quanto a Pasolini: i due erano infatti grandi amici.   

Una ricerca, quella narrata in scena e fuori dalla scena – con una prossemica da regia cinematografica tale da avvolgere lo spettatore fisicamente oltre che a livello esperienziale – che solo apparentemente nota e annota gli innumerevoli successi della vita di Pasolini.

Perché, in realtà, Marta vuole di più: sono i suoi insuccessi ad interessarle davvero. Sono loro a riuscire a farle sentire vicina, complice, l’icona inarrivabile di Pasolini. E se è vero che ciò che ci accomuna tutti è la nostra attitudine a sbagliare, così come a  differenziarci è l’uso che riusciamo a fare dei nostri errori, allora come sbagliava Pasolini? E cosa faceva dei suoi sbagli? 

Lungo questa ricerca che finisce per assumere anche i contorni di una discesa dentro se stessa, la Bulgherini incontra uno stimolante e fertile ostacolo: lo scrittore, critico letterario e saggista Walter Siti. E’ lui a tentare di dissuaderla a continuare la sua ricerca verso e attraverso Pasolini perché, sostiene, la società attuale è troppo poco “complessa” per pretendere di avvicinarsi a lui. 

Ed è crisi.

Marta Bulgherini e Nicolas Zappa

Ma è proprio dalle dinamiche innescate da questa crisi che si origina un’epifania.

E da qui l’inizio di un dialogo, finalmente, tra le parti.

E quella meraviglia, che solo certi incontri possono regalare, complice un efficace Nicolas Zappa.

“Generazione Pasolini” è uno spettacolo che può contare sull’audacia di un’idea che trova compimento in un testo che dà prova di sapersi confrontare con una personale “complessità”, oltre che con la “complessità” pasoliniana. Una felice testimonianza di come tradire fedelmente una tradizione, preservandone l’eredità.

A completamento di questo interessante progetto, due prove attoriali che brillano di fresca energia e di autentica profondità nel sentire. Con questi presupposti la scena può permettersi di essere iper minimalista. 

Marta Bulgherini e Nicolas Zappa


“Generazione Pasolini” ha già conquistato il cuore della critica e del pubblico, aggiudicandosi il titolo di vincitore della 14a edizione della prestigiosa Rassegna Salviamo i Talenti – Premio Attilio Corsini 2023 del Teatro Vittoria di Roma, nonché la destinazione del bando di distribuzione Per Chi Crea 2023, promosso da SIAE. Inoltre, lo spettacolo è stato selezionato per le edizioni 2024 del Torino Fringe Festival e FringeMI.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA MARIA BRASCA – di Giovanni Testori – regia Andrée Ruth Shammah –

TEATRO VASCELLO, dal 21 al 26 Maggio 2024 –

Non si resiste a non amare tutto di lei, finanche il suo pallore, solare prima che lunare: é la Maria Brasca di Marina Rocco, diretta dalla Shammah. Un pallore, il suo, risultante dalla prorompente fusione di tutti i colori di cui riesce a tingersi il suo desiderio: quello potente e prepotente, che prima di pretendere di essere ricambiato esige poter dare, poter offrirsi, potersi battere. 

Marina Rocco è Maria Brasca

Un’esigenza irrefrenabile e scandalosa – questa di testimoniare il sublime entusiasmo del suo desiderare – in una Milano degli Anni ’60, che il desiderio lo vorrebbe sordo, muto, celato. E che la Maria invece fa risuonare in tutto il suo fragore. Senza vergogna. Perché quel modo lì di “amare insieme” è la più grande espressione della dignità umana. 

Marina Rocco (Maria Brasca) e Filippo Lai (Romeo Camisasca)

Qual è, infatti, la cifra della nostra “umanità” se non la capacità di amare al di là dell’ostinato pretendere di essere ricambiati?

La Brasca resta preda per la prima volta di questa insolita capacità di amare con il suo Romeo Camisasca. E la nuova forza erotica è così invadente che lei vede vacillare un’attitudine che finora l’ha sempre guidata: la limpidezza concreta di “dire le cose come sono”. Unita a quella di “saper giudicare gli uomini”. 

Ma l’amore, questo amore, che la trova disponibile a lasciarsi infatuare, le insegna che non serve a nulla “giudicare”. Serve, piuttosto, far sì che l’errore ci renda migliori di prima. Tanto da poter arrivare a progettare un avvenire, lei che “io per l’avvenire non fisso niente. Per adesso è così, poi vedremo”

Filippo Lai (Romeo Camisasca) e Marina Rocco (Maria Brasca)

Un talento fertilmente contagioso, questo a godere apertamente di tutta la succulenza della vita incluse le eventuali conseguenze: lei, la Brasca, è un fiume in piena, che tracima depositando limo esistenziale. “Un giorno o l’altro devi trovarlo anche tu chi ti farà perder la testa. È talmente bello! E se tu proprio non lo trovi, te lo tiro fuori io, vedrai… Ma cosa fai, adesso? Sei contenta o non sei contenta che la tua Mariassa è innamorata? E allora ridi, su, andiamo, ridi! Tanto, finché c’è vita, c’è speranza!… Giuseppa, ascolta: la bellezza avrà il suo valore, non dico di no, ma quello che conta è poi un’altra cosa. Come lo chiamano i signori? Lo sbrinz, ecco; lo sbrinz”.

La Maria Brasca ha il dono di una sapienza spiccia: svelta e risoluta; fresca e scintillante. Ha un modo tutto suo di entrare in relazione con gli altri. Li capisce al volo, istintivamente, grazie a quella sua disperata gioia erotica – così naturalmente resa da Marina Rocco – esclusiva di chi è fedele al proprio desiderare. E sa lasciarsene guidare. 

E’ una donna affamata di vita, la Brasca: morde il presente ma, insieme, sa perdersi nello stupore proprio “di una verginella al primo amore”. E sa anche aspettare, come chi ama davvero, “per dei giorni e delle notti di fila”.  E se poi c’è da difendersi, da lottare, sceglie di farsi vedere “nuda e cruda”: in tutta la sua controversa purezza. Scoprendosi ad amare non solo ciò che luccica, come la bellezza indiscussa del suo Romeo, ma anche quel “suo fare da remollo”: perché amare davvero significa amare tutto dell’altro. 

Filippo Lai (Romeo Camisasca) e Marina Rocco (Maria Brasca)

Un respiro vitale che lei generosamente condivide, perché questo significa “stare insieme”. Amare la vita. Perché questo significa avere una dignità.

Significa che essere una donna non equivale solo “ad avere le paturnie” ma ad avere anche le ovaie. E perché “libera non significa puttana”.

“Libera” significa amare e sperimentare la vita in tutto il suo spettro cromatico. Proprio come amava dire Giovanni Testori«Basta amare la realtà, sempre, in tutti i modi, anche nel modo precipitoso e approssimativo che è stato il mio. Ma amarla. Per il resto non ci sono precetti».

Una vita che è partecipazione, in quanto “cosciente emozione del reale, divenuta organismo” e che come tale Testori riflette sul corpo della sua lingua, qui – nel suo primo testo d’esordio drammaturgico – già irresistibile.

Giovanni Testori

Così come uno spettacolo – dirà André Ruth Shammah introducendo il debutto della prima romana – “è una storia di partecipazione che si desidera condividere. Non un prodotto commerciale”.

E commuove la grazia che si sprigiona dall’appassionata cura umana – prima ancora che registica -nell’onorare il passaggio di testimone da un’attrice all’altra, nel corso degli anni, per continuare ancora a far vivere la Maria Brasca: nel 1992 era stata la cura di far sì che Adriana Asti continuasse a far partecipare Franca Valeri coinvolgendola nello spettacolo, anche dalla prima fila della platea

Franca Valeri è Maria Brasca (1960)

e ora, dal 2023, è Marina Rocco che prima di pronunciare la sua battuta d’apertura pare desiderare raccordare la sua voce a quella di Adriana Asti, che si libra nell’aria sulle note di una canzone. E nell’ascoltarla la Rocco si toglie il basco. E poi le manda un bacio. Ora si può. Ora tocca a lei portare avanti il testimone.

Adriana Asti è Maria Brasca (1992)

Un’eredità di sacra riconoscenza che si tramanda nella Casa del Teatro del Franco Parenti anche attraverso il recupero di fonti storiche, amorevolmente conservate: ad es. gli appunti accuratissimi della sarta della Asti, la Sig.ra Carlotta nonna dell’attuale sarta di Marina Rocco Simona Dondoni, che proprio grazie a questa eredità di cura può permettersi di vestire la Rocco con gli stessi costumi indossati dalla Asti. 

Ma eredità significa anche profonda fedeltà nei necessari tradimenti che lo scorrere del tempo impone: ecco allora la naturale esigenza di un opportuno ricambio generazionale, compimento di un ciclo di vita, a cui anche le foglie che abitano la scena alludono. E che non vengono mai eliminate. 

Andrée Ruth Shammah e Giovanni Testori

Eredità è il ricordo di Giovanni Testori, immenso maestro della Shammah, che non ha nulla del rimpianto, quanto piuttosto la gratitudine per esserci stato e per esserci ancora, attraverso una presenza metafisica e insieme palpabile. Lo si percepisce nitidamente già nella modalità profondamente giocosa attraverso la quale la Shammah e Giuseppe Frangi (Presidente dell’Associazione Casa Testori) amano ricordarlo durante l’incontro con il pubblico, appena precedente la prima romana al Teatro Vascello. 

Marina Rocco (Maria Brasca), Mariella Valentini (Enrica) e Luca Sandri (Angelo)

E poi “quel” insinuarsi della voce di Testori dai muri dello spettacolo. E poi la costruzione di tutti “quei” dettagli che la Shammah ha sapientemente inserito, quale mirabile contrappunto al suo sguardo registico. Uno su tutti, la casa riprodotta in scena che trema al passare del treno: così allusiva dell’abitazione dove Testori era cresciuto e dove ha trascorso gran parte della sua esistenza – oggi sede dell’Associazione Giovanni Testori – costruita lungo i binari delle Ferrovie Nord e affiancata dalla fabbrica tessile avviata da suo padre. 

Apre la scena metateatrale (curata da Gianmaurizio Fercioni) – dalle plumbee tinte della prudente ipocrisia del compromesso – la meravigliosa voce di Adriana Asti che canta ‘Quella cosa in Lombardia‘, con le musiche di Fiorenzo Carpi e il testo del poeta-cantacronache Franco Fortini

Uno spaccato di “famiglie cadenti come foglie, di figlie senza voglie, di voglie senza sbagli” sul quale la Shammah fa cadere la quarta parete. E quello che ora si lascia vedere, immagina come di proiettarlo-rivelarlo su un maxi schermo di una sala cinematografica.

Ma la vita, quella scandalosamente vera e vibrante, è quella che si svolge fuori dallo “schermo”. Con un‘interessante allusione anche all’intendere la vita nella nostra attuale modalità “social”.

Lo spettacolo è la storia di una famiglia che cerca di contenere ed arginare perbenisticamente l’inarrestabile esuberanza di una giovane donna, la Maria Brasca appunto, che non teme il coro dei “dicono che…, si dice che…”: non ha timore di quello che può uscire dalle bocche della gente, atrofizzate dal continuo spifferare pregiudizi e maldicenze.

Lei, la Brasca, la sua bocca la tiene ben aperta, anzi la spalanca in seducenti risate di piacere, scandalosamente generose a donare e a ricevere baci. Sua sorella Enrica (un’efficacissima Mariella Valentini) invece è sovrastata dall’affettuosa premura a mantenere un’apparenza di decoro nella sua famiglia. Nonostante correnti telluriche scuotano il sottosuolo della sua esistenza e quella dei suoi familiari: quella di suo marito Angelo (un delizioso Luca Sandri, così placido proprio perché così inquieto) e quello di sua sorella Maria, che ha perso la testa per quel fannullone del Camisasca (un Filippo Lai che splende di quel groviglio di prorompente impulsiva immaturità, proprio del suo personaggio). Atteggiamento che, per l’ottimismo della Brasca, proprio perché così vago nel decidersi a trovare focalizzazione su un lavoro, é espressione del fatto che può farli tutti. Mica come suo cognato, l’ Angelo,  che “non era difficile capire che più che meccanico non sarebbe mai diventato!“.

Luca Sandri (Angelo), Marina Rocco (Maria Brasca) e Mariella Valentini (Enrica)

Dopo la proiezione del docufilm “Scarrozzanti e spiritelli – 50anni di vita del Teatro Franco Parenti” alla Festa del Cinema di Roma 2023 e la messa in scena qui a Roma di una selezione di spettacoli prodotti dal Teatro Franco Parenti per condividere con la Capitale i festeggiamenti dell’evento (“Il delitto di via dell’Orsina” di Eugène Labiche per la regia di Andrée Ruth Shammah; “Farà giorno” di Rosa A. Menduni e Roberto De Giorgi per la regia di Piero Maccarinelli e “Sulla morte senza esagerare” per la regia di Riccardo Pippa) con “La Maria Brasca” di Giovanni Testori – regia di Andrée Ruth Shammah – si chiude il ciclo di spettacoli selezionati dalla Shammah per onorare i festeggiamenti, qui a Roma, dei 50anni di vita del Teatro Franco Parenti, nonché del centenario di Giovanni Testori.

Spettacoli – anzi “storie da condividere”, come ama definirli la Shammah – che sanno parlare ancora al pubblico di oggi, anche perché storie legate tra loro dall’indagine di quei passaggi di testimone, che la vita ci invita ad attraversare e che spesso sono zone di confine che si possono vivere quali fertili occasioni d’incontro, piuttosto che di separazione.

Luca Sandri (Angelo), Mariella Valentini (Enrica), Marina Rocco (Maria Brasca) e Filippo Lai (Romeo)

Un’esperienza di feconda condivisione, questa con la Capitale, voluta fortemente dal generoso umanesimo di cui Andrée Ruth Shammah sa farsi autrice e ambasciatrice. Un inno alla Vita, il suo, e quindi un inno al Teatro, che ha commosso, divertito ed entusiasmato il pubblico romano.

Non c’è niente da fare: nella Casa del Teatro del Franco Parenti si respira davvero la Vita.

Andrée Ruth Shammah, suo figlio Raphael Tobia Vogel e Franco Parenti


Recensione di Sonia Remoli