Recensione dello spettacolo TOP GIRLS di Caryl Churchill – regia di Monica Nappo –

TEATRO VASCELLO, dal 20 al 25 Febbraio 2024 –

Quanto costa essere una top girl ? 

No, non quanto si guadagna. 

Piuttosto quanto occorre “spendersi” – cosa bisogna essere disposte a perdere – per essere al top ? 

Ancora oggi, infatti, non ci possiamo permettere di liberare un sano e creativo uso del “femminile” se vogliamo “volare un pò più in sù” (come la sagace drammaturgia sonora allude) raggiungendo posizioni di alto livello socio-politico.

Ancora oggi per essere apprezzate come donne occorre somigliare agli uomini – essere delle insensibili “lady di ferro” (molto suggestivo l’accessorio che indossano in scena le esaminatrici del personale) – o sottomettersi a dei mortificanti stereotipi femminili.

Ancora oggi desiderare avere figli è penalizzante nel mondo del lavoro.

Ma perché è così anomalo realizzarsi come “persona” – come imprenditore di se stesso – oltre che come imprenditore altrui ?

Perché risulta così difficile una rispettosa sinergia tra le caratteristiche proprie della natura maschile unite a quelle della natura femminile? 

Caryl Churchill

40 anni fa intorno a queste domande gravitava la provocante drammaturgia di Caryl Churchill, una delle più apprezzate voci viventi della drammaturgia anglosassone. Recentemente questa stessa drammaturgia, tradotta da Maggie Rose, è stata ripresa e riletta dall’acuta sensibilità della regista Monica Nappo (in scena anche come attrice)

Monica Nappo

proprio per rendere consapevoli gli spettatori-cittadini-lavoratori di come dopo 40 anni la situazione attuale sia rimasta ancora troppo simile a quella precedente. Ecco allora che può risultare utile aprire una nuova riflessione. Perché anche a questo serve il teatro, quello autentico.

La scena (efficacemente spartana e decadente, curata da Barbara Bessi) si apre ospitando una festa di promozione: quella di Marlene, responsabile di un’agenzia di collocamento londinese. Lussureggianti sono gli abiti delle invitate (la cui cura è affidata al magnifico estro di Daniela Ciancio). Ma sotto il vestito scopriremo esserci una gran miseria esistenziale: Marlene infatti nonostante la brillante promozione, riesce a tollerare i racconti relativi alle condizioni che hanno reso possibili i successi delle sue invitate (non così dissimili dalle sue) solo grazie al copioso vino rosso che continua a mescersi.

Siedono al suo tavolo:

Isabella Bird, scrittrice e esploratrice scozzese del XIX secolo che, per poter andare a cavallo come gli uomini senza dare scandalo, si disegnò e si vestì con pantaloni alla turca, casacca e sopra a tutto un abito hawaiano colorato. E che, grazie alla redazione di un libro con le testimonianze dei suoi avventurosi viaggi, fu la prima donna della storia ad essere nominata membro della Royal Geographic Society. Priva però di facoltà di parola in pubblico.

Lady Nijo,  scrittrice e poetessa giapponese del periodo Kamakura, concubina dell’imperatore Go-Fukakusa dal 1271 al 1283 e in seguito monaca buddista. Una donna che pur appartenendo ad una classe nobile, senza la protezione della famiglia, senza marito e senza prole non poteva aspirare a occupare alcuna posizione di potere.

La papessa Giovanna che nel IX secolo, travestita da uomo, raggiunse il grado ecclesiastico più alto dell’Impero. Di origini umili, assumendo abiti maschili potè studiare le arti del trivio (dialettica, grammatica e retorica) distinguendosi fra tutti per erudizione, saggezza e oratoria. A Roma, sempre in abiti maschili,  grazie al suo  straordinario  sapere riuscì a scalare la gerarchia ecclesiastica, acquistandosi grandi simpatie anche come specchio di virtù. Al punto che alla morte di Leone IV, nell’855  fu eletta papa.

Dull Gret, figura centrale di un quadro di Bruegel: personificazione di quelle donne colleriche che quando sfogano la propria rabbia “possono saccheggiare la soglia dell’inferno e tornare incolumi”, come recita un antico proverbio fiammingo. Una rappresentazione della lotta tra i sessi, già allora un soggetto di successo nel teatro e nella letteratura popolare. 

Griselda, un personaggio delle storie di Boccaccio, Petrarca e Chaucer, la cui obbedienza al marito di fronte a orribili maltrattamenti l’ha resa leggenda. Griselda infatti conserva intatto il proprio amore per il marito, il quale alla fine le svela di averla voluta mettere alla prova.

Come in un visionario esperimento antropologico, s’immagina allora che questa festa possa prendere le sembianze di una sorta di simposio platonico, dove Marlene sceglie di circondarsi di “vincenti” donne del passato, per condividere insieme esperienze e teorie sul tema del rapporto tra uomo e donna, tra maschile e femminile.

L’esperimento di condivisione rivelerà non solo cosa ognuna di loro ha dovuto sacrificare per farsi riconoscere dalla società patriarcale in cui è vissuta ma – a differenza di un autentico simposio – come anche tra donne non riescano a lasciarsi spazio all’ascolto e quindi al riconoscimento l’una dell’altra.

Ormai così snaturate nel proprio femminile – che invece è capace di fertile condivisione e di attitudine alla relazione – che pur di primeggiare e quindi d’imporsi, finiscono per rendersi sorde, sovrapponendosi continuamente nel parlare.

Testimonianze passate e presenti così poco edificanti che Marlene inizia a faticare nel continuare a farne oggetto di festeggiamento. L’apice dell’assurdo si raggiunge nel momento in cui ciascuna racconta che cosa è stata costretta a fare della propria maternità: la festa sembra degenerare in un senso di vuoto dai contorni voraginosi, che però prontamente viene riempito con succulenti dolci.

Marlene è l’unica che non riesce a raccontarsi: che cosa nasconde la sua sfolgorante promozione?

Ecco allora che, quasi come in una regia cinematografica, successivamente a questo campo lungo su dinamiche antropologiche insite nella stessa natura umana, la regista Monica Nappo ci fa entrare in una serie di primi piani dedicati al vissuto di donna proprio di Marlene. 

Uno spettacolo dalla forza comunicativa “espressionista” :  gesto, movimento, luce (la cui drammaturgia è curata da Luca Bronzo) e parole sono concertati per mettere a nudo i conflitti sociali e le contraddizioni dello stare al mondo degli umani. Lo spettatore se li sente tutti sulla pelle: l’adesione è intima, profonda. Al di là della discrezione. 

Le interpreti in scena – (in o.a.) Corinna Andreutti, Valentina Banci, Cristina Cattellani, Laura Cleri, Paola De Crescenzo, Martina De Santis, Simona De Sarno, Monica Nappo, Sara Putignano– brillano nell’accordarsi tra loro come un autentico ensemble. E suscitano, attraverso il potere poetico della parola, l’irruzione in scena del nucleo segreto della vita. 

Uno spettacolo che sonda la nostra vitalità interna, per metterci davanti a tutte le nostre possibilità. Perché seppur l’istinto alla sopraffazione ci costituisce, la capacità di amare la possiamo continuare ad imparare.

E’ la funzione del teatro, il suo senso ultimo: luogo di riflessione, di denuncia e di continue restituzioni.

E’ l’arte di far naufragare certezze senza mai rinunciare a cercarne di nuove.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo AMLETO di William Shakespeare – regia di Giorgio Barberio Corsetti –

TEATRO ARGENTINA, dal 15 Novembre al 4 Dicembre 2022 –

Amleto siamo noi.

Amleto è uno di noi: immerso qual è in dinamiche familiari ed esistenziali sempre attuali.

Amleto è un mito moderno: un uomo alla continua ricerca di una ragion d’essere ma soprattutto un uomo dilaniato da una prepotente dualità. 

Il regista Giorgio Barberio Corsetti

Dualità che, com’è nel destino da sperimentatore del regista Giorgio Barberio Corsetti , trova sviluppo in questo adattamento prendendo le sembianze di una interessantissima “metamorfosi” globale. 

In fieri, in trasformazione, non è solo Amleto ma tutto l’universo in cui è immerso. Ad iniziare dalla leviatanica struttura multiscenica (così cara al teatro shakespeariano) rappresentante il castello-prigione di Elsinor (le scene sono firmate da Massimo Troncanetti). Complice una schiera di macchinisti che entrano ed escono dalla scena, come in un’elegante coreografia, armonicamente declinata sulla poetica della narrazione.

Una scena dell’ “Amleto” di Giorgio Barberio Corsetti

Parlano di intrinseche dualità i pannelli che scendono a “tagliare” l’apparente verità, rivelando ciò che in essa si cela.

Una scena dell’ “Amleto” di Giorgio Barberio Corsetti

Dualità che metamorficamente si moltiplica in una frammentazione, nella scena del duello finale tra Amleto e Laerte. Davvero molto suggestiva: acuta intuizione quella di Corsetti di far scendere sulla scena pannelli specchianti che moltiplicano, scomponendoli in una miriade di immagini, i due contendenti. Intuizione che ricorda archetipicamente la scena del labirinto di specchi de “La signora di Shangai” di Orson Welles.

Il M° Massimo Sigillò Massara

Incentrate sulla dualità classico-contemporanea sono le originalissime architetture musicali composte dal Maestro Massimo Sigillò Massara. 

Una scena dell’ “Amleto” di Giorgio Barberio Corsetti

Ad un interessante “in bilico” sono sapientemente sottoposte anche alcune prove attoriali: davvero stimolante la resa di alcuni passi della narrazione dove la decisa inclinazione dei piani costringe gli interpreti a trovare sempre nuovi equilibri fisici. E metafisici. 

Una scena dell’ “Amleto” di Giorgio Barberio Corsetti

Perché ciò che conta, conclude l’ “Amleto” di Corsetti non è stabilire nettamente se “essere o non essere” quanto piuttosto “essere presenti a tutto”. E a tutti: perché l’immortalità dei mortali si dà nell’essere ricordati. E nell’avere, quindi, la preziosa opportunità che qualcuno desideri essere il “testimone” della nostra esistenza. Come Amleto lo è stato per il re, suo padre, e Orazio lo sarà per il carissimo amico Amleto. 

Gli applausi ieri sera alla prima dell’ “Amleto” di Giorgio Barberio Corsetti

Gli attori danno una splendida prova della “fluidità” in cui sono chiamati a muoversi. Non ultima quella tra l’essere “attori” e l’essere “spettatori”.

Particolarmente accattivante la rivisitazione che Corsetti fa di alcuni personaggi: un’ Ofelia poeticamente rock (interpretata con profonda leggiadria da Mimosa Campironi) che, anziché ‘evadere’ intrecciando ghirlande di fiori, preferisce ascoltare musica correndo sul tapis roulant, oppure sedersi sul bordo della finestra, al chiaro di luna, scrivendo lettere e suonando la sua chitarra elettrica. Una splendida rivisitazione della Audrey Hepburn di “Moon River”. Molto gradevole anche l’elegante poliedricità che Corsetti regala al padre di Ofelia, Polonio ( il gentlemen Pietro Faiella) raffinato anche nei panni di giardiniere, che a tratti ricorda il candore di Chance in “Oltre il giardino”. Felice poi l’idea di rendere la complessità psicologica di Gertrude (l’interprete è Sara Putignano) attingendo anche ad una sensualissima Jessica Rabbit. Fausto Cabra (Amleto) brilla per naturalezza e filosofica inquietudine.

Fausto Cabra (Amleto)

Il disegno luci di Camilla Piccioni è così chirurgicamente efficace, da ricoprire un vero e proprio ruolo poetico all’interno della narrazione.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA METAMORFOSI di Franz Kafka – adattamento e regia di Giorgio Barberio Corsetti –

TEATRO ARGENTINA, 5 – 27 febbraio 2022 –

Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale

La metamorfosi
di Franz Kafka
Mondadori Libri, traduzione di Ervino Pocar –
adattamento e regia Giorgio Barberio Corsetti
con Michelangelo Dalisi, Roberto Rustioni, Sara Putignano / Gea Martire –
Anna Chiara Colombo, Giovanni Prosperi, Francesca Astrei, Dario Caccuri –

Due scritte campeggiano sui muri  della casa di Gregor Samsa: “MONDO” (su una parete del soggiorno, dove vive e si arrocca la famiglia) e  “IMMONDO”  (su una parete della camera da letto, dove viene confinato Gregor, l’uomo-insetto). Ma è davvero possibile dividere il genere umano attraverso queste due categorie? Tra chi è “mondo” (cioè ordinato) perché si crede depurato da tutti gli aspetti che creano disordine nella vita e chi invece è “in-mondo” (cioè non-ordinato) e dagli “ordinati” viene additato come repellente, perché diverso da loro e per questo meritevole di essere emarginato? E coloro che si ritengono “mondi” (ordinati e ordinari) lo sono davvero? A cosa serve essere “mondi”, ammesso che ciò si possa davvero concretizzare? 

Lo spettacolo prende avvio creando, al buio, un’atmosfera magico-onirica, preludio alla metamorfosi di Gregor da uomo a bestia (insetto). In scena una camera da letto che ricorda, soprattutto nella costruzione, il dipinto “La camera di Vincent van Gogh ad Arles”, senonché qui la luce, ma soprattutto le ombre, vengono opportunamente giocate sui toni misteriosi del blu cobalto, capaci di donare un carattere fosco e sospetto all’ambiente.

Scopriamo fin da subito che ciascun personaggio è insieme anche voce narrante di se stesso: soluzione che sorprende e diverte. Così come una roteante scenografia regala, di scena in scena, novanta gradi di spazi-tempi diversi e ben legati tra loro.

Merito anche degli interpreti, che riescono a infondere una profonda leggerezza (non ultimo attraverso una continua rottura dei piani d’azione) ad una situazione dominata e bloccata dal disgusto verso il protagonista (un Michelangelo Dalisi, polimorfico per posture fisiche e vocali).

Accogliere i cambiamenti, si sa, non è cosa facile  per gli umani, che per loro natura tendono ad essere molto abitudinari. Troppo, forse, se questa tendenza non riesce a dare spazio anche a eventuali variazioni, proprie di personalità attirate dalla profondità dell’umano.

Che non si accontentano di rimanere in superficie (come i più) ma che anelano a scoprire la propria speciale diversità, inseguendo così una personale realizzazione interiore. Per avvicinarsi alla quale, occorre togliere (qui sì mondare) tutto ciò che sembra importante ma che in realtà è superfluo, perché deviante dalla conoscenza profonda di se stessi. Cosa che inconsciamente Gregor già sapeva, quando soleva dedicare il suo tempo libero ad intagliare il legno: un’arte che consiste appunto nella sapiente rimozione di materia da altra materia, al fine di ricavarne un’opera d’arte. I familiari credono (e in un primo momento anche lo stesso Gregor) che l’essere arrivato a ricoprire il ruolo di commesso viaggiatore sia il massimo della sua realizzazione.

Invece il viaggio potrebbe continuare ma non più come commesso (cioè come subalterno) bensì come imprenditore di se stesso, sotto nuove “forme”. Ma non è semplice. E ascoltare, dal violino della sua amata sorella, l’aria di Händel “Lascia ch’io pianga” è solo l’inizio della fine per Gregor che, piangendo la dura sorte, se ne va, sospirando la libertà.


Recensione di Sonia Remoli