Recensione dello spettacolo I GIGANTI DELLA MONTAGNA di Luigi Pirandello – regia di Marcello Amici –

GIARDINO DELLA BASILICA DI SANT’ALESSIO ALL’ AVENTINO, 25 Luglio 2024

Professore, lei è un poeta e non ha paura delle parole. Questo è morire” – disse il medico al malato Luigi Pirandello.

Ed è così che la “fine” annunciata di Pirandello prende forma “agli orli” con “l’inizio” della lavorazione di quest’ultima opera.

La gestazione de “I Giganti della Montagna” inizia dalla rielaborazione del primo atto de I fantasmi (pubblicato nel dicembre del ’31 sulla Nuova Antologia) seguita alla rielaborazione del secondo atto (pubblicato nel novembre del ’34 sulla rivista Quadrante). Sopravvenendo poi la morte e non riuscendo Pirandello a scrivere per esteso il terzo atto, lo traccia schematicamente al figlio Stefano.

Una vera e propria opera-testamento, quindi, questa de “I Giganti della Montagna”; un’eredità necessaria, da lasciare a chi desidererà farsi testimone di un particolare modo di intendere l’Arte e la Vita.  

Ingresso al giardino dalla navata destra della Basilica di Sant’Alessio

E difatti “I Giganti della Montagna” è inserita nella terza e ultima delle sezioni in cui sono state classificate le opere di Pirandello – “Il Teatro dei Miti” – con il titolo di “Il Mito dell’Arte”.  

Ma che cos’è un “mito” per Pirandello ? 

E’ una favola, una narrazione fantastica tramandata oralmente o in forma scritta, con valore simbolico. Narrazione che costituisce un’affascinante spiegazione di fenomeni naturali, sociali, culturali e trascendentali.

Qui ad esempio il tema dei “Giganti” si riallaccia al mito dell’antica Grecia, dove si parla dei Giganti come di coloro che – nati dalla Terra e dal sangue dell’evirato Urano – costituiscono un popolo selvaggio e criminale affine, sebbene più forte, alla stirpe umana e, come questa, mortale.  

Pirandello allude ai rappresentanti del potere politico ed industriale del suo tempo: coloro che “con l’esercizio della forza” stanno trasformando il mondo con grandi opere. Nate però unicamente dall’esaltazione del potere della razionalità, che finisce per inaridire e poi censurare lo sviluppo della parte più creativa della psiche umana: quella legata al nostro linguaggio inconscio, fucina dell’Arte.

Le sorti del Teatro, in tale contesto, preoccupano non poco Pirandello: privato del valore politico-sociale-culturale, il Teatro viene svalutato dal potere vigente a (innocuo) intrattenimento da dopo lavoro, perdendo così quella preziosa funzione artistica, educatrice dell’animo umano. 

Ed è attraverso il pubblico costituito dai servi dei giganti della montagna che Pirandello ci parla proprio della deriva in cui sfocia l’essere umano diseducato alla ricerca della bellezza e privato della capacità ad usare creativamente la parola.

Infatti, a chi ha perso l’abilità a usare le parole per esprimere le emozioni del proprio dissenso, non resta che manifestarlo attraverso la violenza dei gesti. 

E in un crescente disappunto per la conclusione dell’acclamato momento di evasione offerto dalle gag comiche e il conseguente inizio della rappresentazione de “Il figlio cambiato”, il pubblico con inaudita ferocia – resa con poesia di plastica suggestione dalla regia di Marcello Amici – fa a pezzi (e quindi divide) ciò che la bellezza unisce, accogliendola in sé: la meraviglia della diversità. 

Una scena dello spettacolo “I giganti della montagna” regia di Marcello Amici

Ecco allora che contro questa mortifera deriva separatista, Pirandello ci invita a riassaporare il gusto di una realtà altra, legata all’espressione di quel linguaggio proprio della zona della nostra psiche più inconsciamente libera e quindi fertilmente creativa. E che – nonostante i vari tentativi di censura – comunque entra in scena in noi ogni notte, grazie all’ospitalità onirica.

Un linguaggio, quindi, che ci costituisce e che non può essere censurato: pena la perdita della più vitale libertà d’espressione della nostra natura. “Siamo della materia di cui son fatti i sogni – ci ricorda Shakespeare – e la nostra piccola vita è circondata da un sogno” ( “La Tempesta”, Scena I, Atto IV).  

Ed è importante allora non allontanare lo sguardo dalla testimonianza di un uomo e di un intellettuale che, seppur in procinto di congedarsi dalla vita e consapevole della crisi dei costumi dell’epoca in cui è immerso, sente l’urgenza di stimolare ancora nuovi inizi. Dei quali noi possiamo e dobbiamo essere eredi. 

Luigi Pirandello

Pirandello ci conduce infatti a tornare ad “immaginare” – qualità dell’animo che in periodi di iper-razionalismo e di iper-opportunismo si rischia di smarrire – restituendo spazio, e quindi attenzione, a luoghi come quello della Scalogna: dimensione da cui si lasciano abitare uomini e donne desiderosi di bellezza. 

Un’umanità ricca di diversità – concertate tra loro mantenendone le preziose peculiarità espressive – sensibili verso gli incanti rivelati dalla magia di un poeta: Cotrone, alter ego di Pirandello.

E allora, al di là del finale così drammatico – il dilaniamento della Poesia – un messaggio ulteriore si fa strada all’interno dell’opera, così come sempre all’interno del Teatro: non smettere mai di ritentare e quindi di rieducare alla bellezza. Consapevoli, sempre, che “come la scena priva di sostanza/ ora svanita/ tutto svanirà/ senza lasciare traccia” ( “La Tempesta”, Scena I, Atto IV).  Ma gli uomini – come amava ripetere Hannah Arendt – “anche se devono morire, non sono nati per morire, ma per incominciare”.

Ricca di spunti di riflessione è stata ieri sera la rappresentazione de “I Giganti della Montagna” portata in scena da Marcello Amici: interessante il lavoro di adattamento mirato a rendere ancor più fruibile da parte del pubblico l’esigenza, che tutti ci accomuna, di esprimerci anche attraverso un linguaggio inconscio, necessario per scoprire di quali altre esigenze siamo composti e alle quali è così utile e sano dare voce e spazio. L’unico linguaggio che ci permette di far cadere quelle maschere che, per la preoccupazione di essere accettati dalla società che ci vuole tutti “uniformi” e quindi “informi”, ci rendiamo disponibili ad indossare.  

Efficace il lavoro sulla comunicazione prossemica, così come quello sullo studio dei costumi.

Sulla scena, gli interpreti della compagnia La Bottega delle Maschere – Marcello Amici (Cotrone); Tiziana Narciso (Ilse); Fabio Galassi (Il Conte, suo marito); Mirella Martinelli (Diamante); Marco Bellizzi (Cromo); Gabriele Casali (Spizzi); Maurizio Sparano (Battaglia); Francesca Di Gaetani (Lumachi); Emilia Guariglia ( La Sgricia); Marco Tonetti (Quaqueo); Alice Zanoni (Duccia); Marco Sicari (Milordino); Beatrice Picariello (Mara-Mara); Alice Zanini (Maddalena) – restituiscono al pubblico, attraverso la credibilità e il sapore delle loro interpretazioni, la sensazione di un viaggio “sugli orli” della vita e della morte, della verità e della finzione, quale fascinosa avventura all’interno della complessità di un testo, così necessario allora ma forse ancor di più oggi. 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL GRANDE INGANNO – LA CENA DI VERMEER – di Maria Letizia Compatangelo – regia di Felice Della Corte

TEATRO MARCONI, dal 7 al 17 Marzo 2024

Che cos’è il talento ?

Che cosa significa non tradire il proprio talento ?

Un’appassionata risposta emerge dal fertile testo di Maria Letizia Compatangelo (Premio SIAE 2014 – sezione commedia; Premio Vallecorsi 2014; Vincitore della selezione EURODRAM 2016) messo in scena per la regia di Felice Della Corte.

L’autrice Maria Letizia Compatangelo

Infatti se è vero che Han van Meegeren (1889 -1947) è noto come uno dei più abili falsari d’arte del Novecento, merito della drammaturgia e della regia di questo spettacolo è quello di fare luce sulle circostanze che spinsero Han van Meegeren non tanto ad essere un falsario quanto piuttosto a non tradire il proprio talento di artista.

Il regista Felice Della Corte

La soluzione scenica scelta ricorda lo spazio teatrale “plastico“ inaugurato da uno scenografo contemporaneo al periodo storico in cui si svolge la vicenda: Adolphe Fraçois Appia (1862-1928). Uno spazio scenico essenziale, costruito intorno alla tridimensionalità dell’attore che sceglie di rinunciare ai dettagli naturalistici, per articolarsi in moduli che distinguono la scena su più livelli.

Il sipario si apre sui giorni che Han van Meegeren è costretto a vivere in carcere essendo stato accusato di collaborazionismo: vende infatti al generale nazista Hermann Göring “il falso” Vermeer Cristo e l’Adultera. Per questo dipinto il vicecancelliere del Terzo Reich cede al pittore ben centotrentasette quadri.

Han van Meegeren è interpretato con profonda credibilità da Mario Scaletta, che in un’interessante specularità tra arte e vita oltre ad essere attore e regista è restato fedele, proprio come il personaggio che interpreta, al suo istinto pittorico. E’ infatti tra i 100 artisti di Via Margutta a Roma e realizza mostre in tutta Italia, con notevole successo di pubblico e di critica. 

Felice della Corte (Joop Miller) e Mario Scaletta (Han van Meegeren)

In carcere avviene un incontro epifanico: quello tra Han van Meegeren e il capitano Joop Piller (è Felice Della Corte a renderne tutta l’acuta sensibilità).

Tra i due, al di là di una formalità dovuta alle circostanze, si accende una particolare empatia spirituale.  Entrambi hanno un rapporto speciale con la bellezza, di cui l’arte si fa tramite. Il loro è un sentire di “far parte di un racconto” iniziato da qualcun altro, di cui i quadri rappresentano “la selezione di una scena, di un singolo istante della rappresentazione”.

Sarà proprio Piller ad accorgersi del disperato slancio vitale che da sempre colora di sapore l’esistenza di Han. Un giovane di talento che – osteggiato inflessibilmente dal padre e quindi non riconosciuto nel suo sentire – scopre di dare il meglio di sé  esprimendosi creativamente non con un proprio stile ma “proseguendo il sentire” del suo pittore culto: Jan Vermeer (1632-1675). Quello che apparentemente può essere visto come un “baro” in verità è un “gioco” necessario esistenzialmente ad Han e prezioso artisticamente per l’umanità.

Mario Scaletta (Han van Meegeren) e Caterina Gramaglia (Louise, la giornalista)

Perché ciò che conta è non tradire il proprio desiderio, il proprio talento. Non arrendersi, non tradire l’eccitazione per la sublime indeterminatezza della tela bianca ma seguire le forme che il proprio sentire può assumere. E così, cercare continuamente come in “un tormento – confida Han a Piller – finché non è diventato un ritmo interno”.

Perché “la verità di un artista non è la sua identità… a meno che non esista più di una verità”.

Perché se la libertà dell’essere umano è regolata dal “limite”, quella dell’artista è spesso “eccedenza”. 

Tiziana Sensi (Joanna, la moglie di Han) e Mario Scaletta (Han van Meegeren)

A suggellare la bellezza dello spettacolo, di questo “racconto nel racconto”, si inseriscono le splendide “scene” relative alle visite in carcere della moglie di Han, Joanna (interpretata con raffinata complicità da Tiziana Sensi); l’entusiasmo composto di Louise (un’efficace Caterina Gramaglia), la giornalista che sceglie di farsi portavoce dell’autentico e generoso talento di Han e l’arringa del Presidente della Commissione Alleata Belle Arti (un appassionato Paolo Gasparini). 


Uno spettacolo intrigante.

Prezioso per i tanti spunti di riflessione che offre: in particolare il tema del del talento e delle forme che il suo sentire può assumere.

Caterina Gramaglia, Tiziana Sensi, Paolo Gasparini, Felice Della Corte e Mario Scaletta


Recensione di Sonia Remoli

Incontro con TONI SERVILLO e FERRUCCIO MAROTTI su Eduardo: ultima lezione, ultimo spettacolo. Il punto di arrivo il punto di partenza

TEATRO ATENEO, 12 Dicembre 2023 –

Ieri, in un tiepido pomeriggio del dicembre romano, il Teatro Ateneo della Sapienza Università di Roma si è animato di uno speciale fervore per l’attesa della testimonianza di Toni Servillo sull’ultima lezione e l’ultimo spettacolo di Eduardo De Filippo: Il punto d’arrivo, il punto di partenza. Momenti indimenticabili della storia e della pedagogia del teatro, conservati con sacro rispetto grazie a un docufilm di Ferruccio Marotti.

Il Teatro Ateneo


Considerato l’erede spirituale di Eduardo, Servillo proprio qui al Teatro Ateneo portò in scena “Sabato, Domenica e Lunedì” e “Le voci di dentro”. E il suo lavoro convinse così  profondamente la vedova di Eduardo – invitata dall’acuto Ferruccio Mariotti che aveva avuto sentore di qualcosa di prodigioso – da concedere eccezionalmente i diritti dello spettacolo. 

Toni Servillo e Anna Bonaiuto in “Sabato, domenica e lunedì” di Toni Servillo


È ancora la cura appassionata di Ferruccio Marotti a fornire una contestualizzazione-rievocazione del docufilm rivelandoci l’occasione che ospitò l’ultima lezione e l’ultima esibizione di Eduardo: una residenza estiva del 1983 a Castel del Bosco, nei pressi di Montopoli in Val d’Arno, aperta agli studenti di tutte le università italiane.

Ferruccio Marotti

In quell’evento fu proprio Marotti a chiedere ad Eduardo De Filippo una sua illustrazione del legame tra tradizione e innovazione. Eduardo, così lieto della richiesta, vi aggiunse anche una dimostrazione pratica. E quindi oltre ad esporre e a commentare con raffinato carisma la sua “poetica del punto di arrivo e del punto di partenza”, ne diede anche un saggio: regalando una versione specialissima della celeberrima “scena del caffè”  contenuta in “Questi fantasmi” (1946).

Eduardo nella scena del caffè in “Questi fantasmi !” (1946)

Scena che solitamente si realizza nell’arco di  4 minuti ma che in questa occasione raggiunge un livello di “lievitazione” tale  da raggiungere il compimento nell’arco di ben 11 minuti. La sua partecipazione fu talmente coinvolta e coinvolgente che per la prima volta Eduardo perse il controllo. E si emozionò. A tal punto che il pace-maker che portava, mandò in tilt per un momento il radio-microfono.

Toni Servillo


Da qui, il racconto della tradizione viene portato avanti attraverso la travolgente narrazione del suo devoto interprete Toni Servillo. Per lui il Maestro è un modello non solo di professionalità ma soprattutto di un particolar modo di stare al mondo. Un maestro pedagogo. Un’epifania che Servillo visse fin da piccolissimo quando s’incantava davanti al televisore guardando le opere di Eduardo: quell’universo umano che vedeva in scena era lo stesso che aveva in casa.

Una tensione pedagogica densamente riscontrabile anche nel docufilm “messo in salvo” dalla pregevole attenzione di Ferruccio  Marotti e molto vicina a quella da cui era abitato anche Louis Jouvet che gravitava, soprattutto dal 1934 al 1951, su un teatro omonimo: il Teatro Athénée di Parigi.

Entrambi nelle loro “poetiche” sono avvicinati da un certo sentire pedagogico fondato sul fare teatro rapiti dal “sentimento”:  una capacità di saper guardare “con l’anima nell’ora” . Spendendosi.  E poi, sedotti dalla “complessità”, abili a trovare “le parole” e il “modo” per dirla.  Per “trascriverla”.

In un avanzare tormentato, guidato da una continuità che non esclude la discontinuità. Dove ci può  essere un “tac, tic” perché proviene da una conoscenza profonda del “tic, tac”. E chi non lo fa “è un ladro”.

Ferruccio Marotti e Toni Servillo

Perché per Eduardo la morte (di un maestro) costituisce un punto di partenza (per gli allievi). È questa l’immortalità che ci è concessa. Unitamente alla capacità di “sognare”.

Perché “la vita che continua è la tradizione”.

Eduardo De Filippo

Un’eredità raccolta e portata avanti anche dallo stesso Teatro Ateneo: un prezioso avamposto sulla realtà e sulla tradizione. Perché questo è il Teatro: “uno sguardo prismatico sulla vita”.

Con grande successo giunge al termine così al Nuovo Teatro Ateneo la seconda edizione della rassegna – “L’attore e il performer: tradizione e ricerca. Memorie teatrali di fine millennio dall’Archivio Storico Audiovisivo del Centro Teatro Ateneo – Dipartimento di Storia Antropologia Religioni Arte Spettacolo – Sapienza Università di Roma. 

Una serie di eventi per recuperare, valorizzare e far conoscere il patrimonio dell’Archivio, guidato dalla direzione artistica di Ferruccio Marotti e dal coordinamento di Stefano Locatelli 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL TUO NOME BRUCIA SULLE MIE LABBRA – regia Alessandro Sena –

TEATRO BELLI, dal 26 settembre al 1 Ottobre 2023

Che cos’è l’amore se non un incontro speciale che riesce a interrompere il nostro normale scorrere del tempo, il nostro precedente modo di stare al mondo ?

Anche su questo ci invita a riflettere l’appassionante spettacolo di Alessandro Sena “Il tuo nome brucia sulle mie labbra”, andato in scena ieri sera in prima nazionale nell’avvolgente intimità del Teatro Belli, nel cuore di Trastevere.

L’amore ci fa fare esperienza della nostra massima apertura verso l’altro. Ma non sempre si riesce a fare un buon uso di questa nostra incondizionata apertura. E allora l’amore può trasformarsi nel luogo della chiusura, della prigionia, dell’ossessione, della ripetizione. Dell’assedio.

Alessandro Sena

Questa è la condizione in cui si trova la protagonista del libro “Un corp en trop” della scrittrice francese Marie-Victoire Rouillier, libro caso letterario in Francia negli anni ’80 per gli straordinari contenuti e la bellezza del testo, di cui Alessandro Sena ha curato la traduzione italiana e dalla quale ha tratto lo spettacolo “Il tuo nome brucia sulle mie labbra”.

Non un adattamento ma un’autentica messa in scena di 20 lettere selezionate ed estrapolate dal libro, che ne raccoglie nella totalità 40: quelle che una giovane donna scrive e indirizza alla sua amata, ritiratasi in convento.

Lettere che – forse lette e poi accartocciate dalla destinataria o invece cestinati tentativi di seduzione, ritenuti non soddisfacenti dallo stesso mittente – giacciono a terra, ricoprendo quasi interamente il palco. Come un corpo che si offre e che ripetutamente viene rifiutato. Tocco scenografico potentissimo. 

In una realtà come quella attuale in cui si tende spesso a irridere l’amore ritenendo che ogni amore nasca portando con sé la propria morte e quindi nasca con una breve data di scadenza, questo testo recuperato e addirittura tradotto in italiano da Alessandro Sena ha il valore di riportare appassionatamente l’attenzione sull’immensità alla quale l’amore ci apre e ci consegna. Anche se qui si tratta di un amore che non ce la fa a tollerare questa apertura incondizionata. 

Attraverso una messa in scena ferocemente tenera, la regia della parola di Alessandro Sena trova la chiave per farci riflettere – sequestrandoci l’attenzione dell’anima – su che cos’ è il desiderio. Su come si nutra di tatto ma anche di segni di attenzione e di mancanze. E sul potere plasmante della parola dell’altro.

Ma la regia di Alessandro Sena non manca di sottolineare efficacemente anche quella tentazione tutta narcisistica che comunque può abitarci e che ci vorrebbe auto-fondanti. Nel dare corpo a queste due spinte contrastanti, il regista sceglie di scommettere su giovani promettenti interpreti: otto, tante quante le ombre che – come inquiline – abitano il condominio dell’inconscio dell’amante.

Le otto interpreti in scena – Angela Di Domenico, Erika Fusini, Chiara Iannacone, Francesca Mele, Sara Morassut, Marta Porfiri, Micaela Iago e Sania Ricchi – rapiscono il pubblico, che inconsapevolmente si lascia andare immedesimandosi a specchio con ciò che accade sulla scena. E sentiamo insistentemente queste ombre rotolarsi anche nelle nostre pance. La partecipazione è tale che un sublime silenzio ci lega tutti e solo momentaneamente ci libera in sospiri.

Sono ombre che acquistano corpo attraverso la densità delle voci, tutte diversamente e lacerantemente affamate d’amore. Ogni ombra fa di tutto per farsi ascoltare ma quanta struggente bellezza quando le ombre si compongono coreograficamente! I loro rituali ossessivamente circolari; la potente simbologia dell’amore simbiotico rappresentato attraverso l’insana sacralizzazione del rito della comunione (il peccato originale dell’amante); la loro rabbia vendicativa da Erinni; la loro ebrezza da Baccanti; la splendida liturgia di un Alleluja illuminato dalla sinistre luci delle candele, poste sotto i loro volti. E poi la brama finale: quella del tatto con la terra, con il suolo.

Ombre incapaci di amare davvero, cioè pur non essendo corrisposte. Non a caso, forse, il nome dell’amata non è mai pronunciato. E perciò brucia sulle labbra dell’amante che non c’è la fa a chiamarla per nome assegnandole un’autentica identità. Perché qui l’altra, l’amata, è una proiezione del sé dell’amante: non c’è nell’amante una vera apertura all’affascinante diversità dell’amata. C’è brama del suo corpo, delle sue attenzioni ma non decolla mai “un vero incontro” che, solo, può produrre una nuova nascita di se stessi e quindi una riconfigurazione del mondo esterno.

Non riesce l’amante descritta nel conturbante testo della Rouillier – ma non possiamo fare a meno di amarla anche per questo – a provare una sana curiosità per l’irriducibile diversità dell’amata. Una diversità che, anche se non corrisponde, non necessariamente deve portare a reazioni violente. Anche verso se stessi. E la regia di Sena non a caso non regala un corpo all’amata. Né all’amante: quelle in scena sono solo le sue ombre inconsce. Quelle che hanno finito, purtroppo, per “cibarsi” del suo corpo. 

Accuratissima l’attenzione alla resa delle ombre. Un abito, identico per ciascuna, che esteticamente e registicamente è anche un habitus: un esuberanza castrata. Una seconda morbida pelle di stoffa nera, allora, si lascia stringere sul ventre da un’ambigua guaina contenitiva che ammicca alla seduzione di un reggi giarrettiera. Castrante però: ricco in ulteriori lacci velati, che ne suggellano la costrizione.

Uno spettacolo e un libro che ci parlano della difficoltà di amare e di amarsi. Ferite di cui Alessandro Sena riesce a fare lancinante poesia.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo CONSIGLI PER SOPRAVVIVERE IN NATURA – un progetto di Lacasadargilla – regia Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni

TEATRO INDIA, Festival IF/INVASIONI(dal) FUTURO_Dark Ages*2023, 31 Agosto e 1 Settembre

Che cos’ è davvero un’invasione? Questo moto tanto violento quanto pacifico, lento o improvviso, momentaneo o perdurante ? Ma soprattutto qual è la sua cifra, la sua essenza ? Siamo davvero, noi umani, la specie superiore ? Siamo davvero noi i più intelligenti ?

Festival if/invasionidalfuturo_darkages*2023- aspettando l’inizio del melologo scifi “Consigli per sopravvivere in natura”, al Teatro India di Roma

In questi giorni, più precisamente dal 28 agosto al 3 settembre p.v., il Teatro India si lascia invadere e contaminare da realtà diverse, rendendosi permeabile all’osmosi con forme artistiche di disparata natura: narrazioni miste e atipiche di matrice antropologica, scientifica o storica e poi mondi alieni e alterati, con qualcosa di inquietantemente prossimo al reale.

Un dispositivo misto che alterna, nei diversi orari della giornata, spettacoli multimediali e melologhi sci-fi, laboratori, un’istallazione/performance musicale, una video istallazione multimediale, una conferenza di filosofia, un inedito progetto biennale, una biblioteca condivisa, una libreria e un palinsesto radiofonico quotidiano sulla piattaforma spreaker.

Questa è la decima edizione del Festival IF/INVASIONI (dal) FUTURO_Dark Ages*2023. 

Al Festival if/invasionidalfuturo_darkages*2023 l’installazione multimediale EU_PH0_R1A. A Shining Darkness di Alessandro Ferroni e Maddalena Parise – Teatro India di Roma –

Un progetto promosso da Roma Capitale -Assessorato alla Cultura- e curato da lacasadargilla: una realtà che riunisce intorno a Lisa Ferlazzo Natoli (autrice e regista), Alessandro Ferroni (regista e disegnatore del suono), Alice Palazzi (attrice e coordinatrice dei progetti) e Maddalena Parise (ricercatrice e artista visiva), “un gruppo mobile” di attori, musicisti, drammaturghi e artisti visivi.

Un ensemble allargato, il loro: un’unione di parti, ovvero una realtà che sceglie di essere una complessità, dove la personalità di ciascuno degli artisti in qualche modo “perde spicco” affinché risulti più completa l’armonia d’insieme.

Una realtà, quella della casadargilla, che fa quindi della fertilità dell’ invasione la sua filosofia. Il suo modo di essere e di stare al mondo. Non a caso la loro peculiare vocazione artistica è la realizzazione di progetti speciali “allargati” alle diverse arti. Un’invasione che impreziosisce il dialogo tra le diverse discipline artistiche. Alla base della loro ricerca, il vasto tema dell’estinzione di quei sistemi delicati e complessi che reggono relazioni, immaginazioni, antropologie ed ecosistemi.

Alice Palazzi, Maddalena Parise, Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni

Da questa ricerca di una fertile osmosi che, sola, permette la sopravvivenza di tali sistemi prende vita anche il primo dei loro due spettacoli musicali/melologhi sci-fi presenti a questa nuova edizione del Festival IF/INVASIONI (dal) FUTURO_Dark Ages*2023: “Consigli per sopravvivere in natura”.

L’afflato di tutto l’ensemble coinvolto in questo progetto ha offerto al pubblico, copiosissimo in sala, la magnifica possibilità di elaborare la narrazione dei racconti in scena (una selezione di racconti introvabili di quattro autrici di distopie estreme che sfiorano un orrore tutto umano: Lo psicologo che non voleva far male ai topini di Alice Bradley Sheldon; Figlio di sangue di Octavia Butler; Più vasto degli imperi e più lento di Ursula Le Guin e Palla di pelo di Margaret Atwood) come “un movimento” immaginifico e riflessivo.

Un momento del melologo sci-fi “Consigli per sopravvivere in natura” ( foto di Claudio Riccardi )

In uno spazio scenico aperto e quindi disponibile ad essere invaso, velate membrane protettive disegnano ambienti fluidi dove attori e i musicisti sempre in scena (tutti efficacissimi nelle loro partiture di corpo e voce) sostano, si muovono, assaporano le zone di confine e se ne inebriano.

Una sapiente drammaturgia delle luci crea ambienti umani dalla raffinata solitudine hopperiana, sottoposti alla tentazione a sfumare in nuovi ecosistemi: è l’ebrezza della clorofilla. E non solo. Complici i fascinosi ed enigmatici ambienti visivi e l’ossessionante e seducente disegno del suono capace di contribuire a rendere plastica la suggestione che la paura sia solo l’altra faccia del desiderio.

Un momento del melologosci-fi “Consigli per sopravvivere in natura” ( foto di Claudio Riccardi )

La cura dei costumi si esprime attraverso la scelta di vestire gli attori in eleganti abiti in tessuti rigorosamente osmotici, quali il lino e il cotone.

Perché noi esseri umani, pur essendo dotati di un cervello, non siamo le creature più intelligenti sul pianeta. Essendo esseri animati siamo solo le creature più veloci a trovare soluzioni per adattarci ai mutamenti dell’ambiente. Ma la nostra organizzazione verticistica ( che per di più abbiamo replicato a livello sociale, governativo, aziendale, ecc. ) ci rende fragili nella durata.

Un momento del melologo sci-fi “Consigli per sopravvivere in natura” ( foto di Claudio Riccardi )

A differenza delle piante, che invece non si muovono e di conseguenza sono organizzate in maniera tale da essere estremamente sensibili e recettive ai mutamenti dell’ambiente ( molto più di noi esseri umani) per poter resistere a lungo. Prova ne è anche il fatto che la loro presenza sul pianeta è pari 87% mentre quella degli animali (tra cui l’uomo) è solo dello 0,3%.

La salvaguardia del rispetto delle varie specie viventi è necessario ed urgente ma contemporaneamente risulta una tensione contro natura. L’ “amore per il prossimo”, cioè per l’altro, per il diverso da noi, è un obiettivo da costruire pazientemente e costantemente, arginando l’originaria tensione umana alla sopraffazione.

Ecco perché il lavoro di ricerca de lacasadargilla, teso alla salvaguardia dell’estinzione di tutti quei delicati e complessi sistemi che sono alla base delle “relazioni” tra ecosistemi naturali, antropologici e immaginativi, è fortemente prezioso. Oltre che di una caratura poetica speciale.


giovedì 31 agosto – venerdì 1° settembre (ore 21:15)

SPETTACOLO MULTIMEDIALE / MELOLOGO SCI-FI

CONSIGLI PER SOPRAVVIVERE IN NATURA

a cura di lacasadargilla regia Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni 
adattamenti Roberto Scarpetti

drammaturgia musicale Gianluca Ruggeri
ambienti visivi Maddalena Parise costumi Camilla Carè 

drammaturgia delle luci Omar Scala disegno sonoro Pasquale Citera
con Lorenzo Frediani, Arianna GaudioFortunato Leccese, Anna MallamaciPaolo Minnielli, Alice Palazzi, Stefano Scialanga, Roberta Zanardo
chitarra elettrica Fabio Perciballi, el. devices Alessandro Ferroni 

aiuto regia e coordinamento Matteo FinamoreMartina MassaroCaterina Piotti e Francesco Cecchi Aglietti


Recensione di Sonia Remoli


Recensione dello spettacolo EVERY BRILLIANT THING (Le cose per cui vale la pena vivere) di Duncan Macmillan – regia Fabrizio Arcuri e Filippo Nigro –

DOMUS AUREAParco Archeologico del ColosseoMOISAI 2023

In occasione dell’ultimo appuntamento della Rassegna “Moisai 2023 – Voci contemporanee in Domus Aurea” (dal 5 al 21 Maggio) ieri sera, dopo un’avvincente visita guidata alla Domus Aurea, siamo stati condotti all’interno della Sala Ottagona: la più scenografica, la più teatrale.

Sala Ottagona della Domus Aurea, luogo scenico della rappresentazione “Every brilliant thing” di Fabrizio Arcuri e Filippo Nigro

Per ciascuno dei 9 incontri ci si è affidati alla fertile ispirazione delle 9 Muse del mito. Ieri sera a insufflarci “forti cose pensar e mettere in versi” è stata la Musa Urania, che brilla astronomicamente sull’ora e sull’altrove e quindi sull’insieme dei momenti che compongono l’intera vita.

Uno degli interni della Domus Aurea nel Parco archeologico del Colosseo di Roma

Qualcosa di affascinante lega la Domus Aurea e la storia lì narrata ieri sera : “Every brilliant thing”(Le cose per cui vale la pena vivere).

Cosa lega il contenente e il contenuto?

La “damnatio memoriae”, ad esempio. La pena, cioè, che si usava ai tempi dell’antica Roma e che consisteva nel cancellare qualsiasi ricordo, qualsiasi traccia riguardante una determinata persona, come se non fosse mai esistita.

Questo accadde a Nerone: il suo ambizioso progetto di villa autocelebrativa – la Domus Aurea appunto – fu usata come fondamenta (e quindi sepolta ) per costruirvi sopra le Terme traianee.

Uno degli interni della Domus Aurea nel Parco archeologico del Colosseo di Roma

Qualcosa di simile rischia di capitare al protagonista della storia raccontata in “Every brilliant thing” : un bambino, poi divenuto adulto, che a suo modo combatte “la condanna” che sta cadendo su sua madre che, a causa di una depressione, tende cronicamente a suicidarsi.

Suo figlio, allora, temendo inconsciamente una “damnatio memoriae”, fa di tutto per salvare il valore della vita in generale (da qui il titolo), della vita di sua mamma e di conseguenza della propria. Non tutto andrà secondo i piani ma, così come avvenne per la Domus Aurea , anche il figlio nonostante tutto riuscirà a tenere insieme passato-presente-futuro. 

Uno degli interni della Domus Aurea nel Parco archeologico del Colosseo di Roma

Nel mentre s’attende il riempirsi della sala, lo stesso regista Fabrizio Arcuri, con sorriso sornione, ci consegna misteriosi foglietti dove sono scritte delle annotazioni.

Fabrizio Arcuri, regista dello spettacolo “Every brilliant thing”

E poi un uomo microfonato – l’ammaliante Filippo Nigro – entra e inizia a passeggiare tra noi. E ci guarda con accoglienza indagatrice.

Filippo Nigro, interprete e co-regista dello spettacolo “Every brilliant thing”

Ma poi, a schiaffo -cosi come entrano alcune esperienze nella nostra vita- arriva il suo attacco: “La lista !” . Sì, perché proprio la lista sarà la prova per la confutazione della “damnatio memoriae”, in quanto esprimerà le cose per cui vale la pena vivere.

L’ accattivante performance di narrazione di Filippo Nigro scopriremo avvalersi della complicità di alcuni spettatori, chiamati a dare corpo ad numerosi personaggi della storia. A schiaffo, ma con garbo, Nigro di volta in volta li avvicinerà: come l’imprevisto ci si avvicina, nel corso della nostra vita. 

Un momento dello spettacolo “Every brilliant thing” (Le cose per cui vale la pena vivere) in Domus Aurea a Roma

Fai parlare il tuo cuore ! ” : questo ciò che possiamo sentirci sussurrare in un orecchio dalla Musa Urania. Che cosa significhi “cuore” nessuno lo sa per certo, la sua stessa etimologia è sfuggente. Ma va bene così. Infatti ” l’oracolo” della Musa Urania allude al “far parlare” quel non so che, quel quid che ci risuona dentro e che esce da solo. Senza ragionarci sù. C’è già. Nasce da un mistero, è il frutto della nostra fulgente immaginazione.

Un momento dello spettacolo “Every brilliant thing” (Le cose per cui vale la pena vivere) in Domus Aurea a Roma

E’ il 1977 e il protagonista della storia ha solo 7 anni. Sua mamma ha tentato di togliersi la vita e lui non riesce a capire “perché”. Per aiutare la mamma ma soprattutto, pur non rendendosene conto, per evitare di “dimenticarsene” come è successo alla mamma, inizia a scrivere – interpretando a suo modo il “Fai parlare il tuo cuore” – una lista di risposte al “perche” vale la pena vivere.

Crescerà e continuerà ad integrare la lista, anche con la complicità della sua donna e di cari amici, fino ad arrivare a trovare un milione di motivi per cui vale la pena vivere.

Ma dopo continui tentativi succedutesi nel corso degli anni, un giorno sua mamma riesce a togliersi la vita. E lui crolla. A nulla serve, per sollevarlo dal suo stato di “down,” invitarlo a leggere la lista con i motivi per cui essere grato di vivere. La butterà nella spazzatura.

Troverà, questa volta, un altro modo per confrontarsi con la vita e con la morte: trovando le parole per dirlo ad altri che vivono la sua stessa difficoltà. Come sta facendo con noi.

La Sala Ottagona oggi e al tempo di Nerone nella Domus Aurea di Roma

Fino a scoprire che il segreto dei segreti sta nell’assaporare proprio quell’attesa speciale, così piena di mistero, così immersa in un’eccitante incertezza.

Come quella, ad esempio, che precede l’ascolto di un disco: toccarlo per estrarlo dalla copertina, posarlo sul piatto. E, appoggiata la puntina, iniziare a godersi quel fruscio confuso che precede l’inizio della melodia. Ecco, lì : quando la morte si bacia con la vita.

Uno spettacolo divino, così come solo l’uomo sa esserlo.

Ingresso al Parco archeologico del Colosseo dove si trova la Domus Aurea di Roma


Recensione di Sonia Remoli


7 Sogni – Intervista al regista e autore Alessandro Fea

TEATRO PORTA PORTESE, Sabato 15 e Domenica 16 Aprile 2023

A pochi giorni dal debutto del nuovo spettacolo di Alessandro Fea, “ 7 Sogni ” – in scena al Teatro Porta Portese il 15 e il 16 Aprile – ho avuto il piacere di intervistare il poliedrico musicista, autore e regista, per scoprire qualche preziosa anticipazione sull’evento.

Alessandro Fea

“ 7 Sogni “ è uno spettacolo ricco di suggestioni, di significati e di significanti. Molte, quindi, le domande che desidererei sottoporgli. Inizio dal titolo:

Perché, Alessandro, è  importante parlare di ‘sogni”  in questo momento? E perché proprio 7 ?

La scelta del numero 7 e’ legata a un gioco che coinvolge i protagonisti in scena. Non voglio andare oltre per ora: gli spettatori si appassioneranno a scoprirlo nel corso dello spettacolo.

Il “sogno” è il potere che si trova a gestire ciascun personaggio: il loro diverso modo di stare al mondo fa sì che ciascuno ne immagini uno proprio.

La capacità di sognare è, per me, centrale nella vita di noi esseri umani. È uno straordinario potere di cui disponiamo, capace di innescare in noi un meccanismo di reazione-azione ontologicamente terapeutico.

Per dimostrarlo ho scelto personaggi “ai margini”, allo stremo, messi all’angolo dalla cosiddetta società “civile”. Persi sì ma solo apparentemente perdenti o impossibilitati a qualunque reazione. Sarà invece proprio la loro capacità di “sognare una svolta”, di investire in una “presuntuosa” sfida, a regalare loro la più audace voglia di vivere e di reagire.

Mi è sembrato utile ricordare a noi tutti, soprattutto nel momento storico che stiamo vivendo, dov’è che va cercato il fulcro delle nostre esistenze. Da dove si originano le nostre migliori energie.


Trovo molto bella, Alessandro, la scelta di rendere protagonisti degli “esiliati”. Come nasce questa tua esigenza?

Dalla ricerca di una verità di vita. Perché per esperienza personale, e poi lavorativa, mi sono trovato spesso in contesti lontani dalle mie origini, io che sono nato in una Roma borghese. E lì, proprio in quei contesti così “diversi”, ho capito e imparato quanto la vita a volte non offra possibilità di scelta ad alcune persone.

Mi riferisco a situazioni sociali di povertà, di disabilità, di prostituzione. Ma nascere in certi contesti piuttosto che in altri, ti “investe” anche di un imprinting speciale. Paradossalmente, dove c’è “meno” ho sempre trovato “il più“: una umanità “talentuosamente” portata a valorizzare le piccole cose e la preziosa unicità delle relazioni umane. Lungi dall’essere un giudizio, trovo che questa sia la pura realtà.

E dare voce a chi non riesce ad averla, credo sia un dovere per chi come me scrive e sente l’esigenza di dare un volto alla sofferenza. Sono consapevole che risulta “scomodo” parlare di certi argomenti e focalizzare l’attenzione su certe situazioni sociali “al limite”. Preferibile, per i più, ghettizzarle in luoghi lontani dagli occhi.

Ma se penso a figure come Lou Reed che per una vita hanno scritto di periferie, di droga, di emarginati, sapendo trovare il modo di farne “poesia”, allora perché non prendere esempio promuovendo questo impegno sociale a voler dare voce a chi non ha la possibilità di urlare ?



Che cosa rappresenta oggi la periferia, Alessandro ?

La periferia di oggi è diversa da quella descritta da tanti autori anni fa. Oggi, almeno a mio avviso, le città sono sempre più “costruite a blocchi” talmente isolati ed autonomi da divenire “micro città” nelle città stesse.

Al degrado urbano e sociale sempre più marcato dovrebbe rispondere una forte esigenza a far convivere culture diverse. C’è invece una grande difficoltà giovanile a trovare lavoro. C’è una crisi di valori sociali e morali altissima: complice anche la devastante presenza di Internet nelle nostre vite, che tende ad annullare il distacco tra realtà e finzione.

Colori sonori

Che tipo di musica hai composto per accompagnare queste storie? 

Un po’ sulla scia dello spettacolo “Anna e altre Storie”, come cornice sonora sono andato su suoni “attuali”. Mi sono ispirato a brani recenti, ai suoni industriali, alle voci italiane dell’ultima generazione che gridano dolore esprimendo con insofferenza le problematiche da cui sono afflitte.

Non parlo di Trap (che non amo affatto) ma di giovani autori che si esprimono in maniera decisamente interessante in quanto appassionati verso nuove ricerche sonore e testuali. Mi è piaciuto relazionarmi con loro attraverso il mio stile. Trovo che si sia creato così un fertile flusso tra me e loro. Uno stimolante scambio generazionale tra un musicista boomers e nuove leve.

Il “suono” del dramma, della sofferenza, l’urlo che ne viene fuori, ha una base forte. Suoni diretti, duri, quando questo è il messaggio da veicolare. Morbidi, romantici quando serve altro. Come sempre accade nei miei spettacoli, la musica è quel “personaggio” in più che parla con gli attori.

E ora parliamo della tua compagnia “Sofis”: cosa racchiude questo nome? Qual è lo spirito che la guida ? Cosa vi unisce ?

Il nome è nato come omaggio a mia figlia Sofia nata ormai 20 anni fa. Lo spirito che ho sempre cercato di avere è quello di scrivere storie urbane, vere. Ho sempre sperato che potessimo diventare un piccolo punto di riferimento nell’immenso mondo teatrale, con il nostro stile, il nostro linguaggio.

Considero il lavoro per la compagnia un vero e proprio “viaggio”. Un viaggio bellissimo in cui ogni singolo elemento che va, che viene, che entra, che esce, si possa trovare a suo agio e possa dare così il proprio contributo con tutto l’entusiasmo che cerchiamo sempre di mettere in tutto quello che facciamo.

La prima regola per me è sempre quella di creare un clima dove non ci siano “prime donne” ma tutti al servizio di tutti, me compreso. Un lavoro collettivo, di continuo scambio, di crescita continua, fatta di preziose osservazioni critiche, indispensabili per correggere il tiro.

E questa filosofia negli anni ha pagato: lavorare in un clima siffatto evidenzia infatti l’ unicità dei singoli attori. E li aiuta a crescere, non solo sul palco. Vengono valorizzate a 360 gradi le caratteristiche migliori di ciascuno, perché è la forza del gruppo a renderlo possibile. Esattamente come in questo spettacolo.

Mi piacciono molto i concetti di “solidarietà da branco” , di “istinto ferale” e quello di “fare cerchio”. Parliamone.

Come detto sopra, è la forza del gruppo la vera leva. Un gruppo che può anche litigare, avere crisi di qualsiasi tipo ma alla fine trova sempre il modo di compattarsi. E che quando si verifica “un attacco esterno” riesce sempre a trovare energie, quasi inimmaginabili, per combatterlo.

Esplicando un vero e proprio spirito di sopravvivenza ancestrale, dove l’umanità, il vero senso di umanità, vince, vive. Esiste. Valore esistenziale che non sempre nella società di oggi riesce a trovare espressione, soprattutto quando invece invita a chiudersi nel proprio singolo egoismo.

In un orizzonte che accecato dall’egocentrismo dà vita a “isole” umane più che a “reti” relazionali. Mentre invece è proprio nell’aiuto che solo il “branco” può offrire, che ci si ritrova davvero. Nella propria essenza. E si cresce. Ci si evolve. Nel confronto, nello scontro, nel dialogo.

Ti ringrazio Alessandro. Ora non resta che venire a vedere il tuo spettacolo !

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Teatro Porta Portese

7 SOGNI

Sabato 15 e Domenica 16 Aprile

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Turandot

TEATRO LE SALETTE, dal 28 Febbraio al 5 Marzo 2023 –

Nella produzione di Carlo Gozzi, drammaturgo della Venezia del Settecento protagonista di una polemica sul teatro nella quale difendeva i vecchi artifici della Commedia dell’Arte contro le novità introdotte nel teatro da Goldoni, c’è anche una serie di pezzi drammatici basati sulle fiabe: inizialmente queste opere divennero popolari, ma dopo lo smembramento della Compagnia Sacchi caddero nel dimenticatoio. Furono molto apprezzate da Goethe, Schlegel, Madame de Staël e Sismondi. Uno di questi testi drammatici, Turandot, fu tradotto da Schiller in lingua tedesca e ispirò a Puccini l’opera omonima.

L’ambientazione di Turandot è esotica ed orientale, in risposta al gusto dell’epoca, a quella illuministica voglia di migrare verso posti lontani, di esplorare terre sconosciute di cui non si conoscono né usi, né costumi. Ma i personaggi secondari sono quelli tipici del teatro delle maschere.

E questa caratteristica è ben rispettata e resa nell’adattamento di Francesca e Natale Barreca e nella messa in scena registica di Stefano Maria Palmitessa.

Stefano Maria Palmitessa, regista dello spettacolo “Turandot”, al teatro Le Salette

Prendendo posto nella suggestiva sala del Teatro Le Salette, incastonato in quel fascinoso Vicolo del Campanile che collega la maestosa via della Conciliazione all’atmosfera raccolta di un inaspettato secondo cuore pulsante di Roma qual è il medioevale Borgo Pio, subito si nota una particolare modifica dello spazio teatrale, elemento centrale nella ricerca registica di Stefano Maria Palmitessa, per il quale risulta fondamentale iniziare lo spettatore ad un nuovo “sguardo”. Spesso solo suggerito ma proprio per questo più aperto ad un “oltre”.

Il boccascena in questo caso è delimitato, su due livelli, da quinte orizzontali che, come delle balaustre, riducono la visione degli attori fino a metà del loro busto. Chiara è l’allusione al Teatro dei Burattini, ricordo inconscio del regista, solito frequentare il celeberrimo Teatro dei Burattini di Villa Borghese.

Una scena al Teatro dei Burattini di Villa Borghese a Roma

Con la complicità di praticabili, gli attori lentamente si palesano suscitando la meraviglia di un’epifania e velocemente si eclissano scomparendo dietro le balaustre. Prime nel palesarsi sono le maschere della Commedia dell’Arte, alle quali è affidata la funzione di Coro: aprono la rappresentazione con un prologo introduttivo della vicenda narrata; chiudono con un epilogo ” …e al fin li magnam sti confetti” e frammezzano la narrazione con dei commenti.

L’intelaiatura narrativa ricorda le trame di quelle novelle orali che venivano raccontate in epoca pre-rinascimentale: vi è un eroe che deve conquistare il cuore di una principessa, bella ed impossibile, ma che nel farlo, incontra ostacoli maledettamente difficili da superare.

La storia, ormai nota a tutti, è quella di Turandot, principessa della Cina, tanto bella quanto gelida e spietata, vinta solo dalla forza dell’amore e del coraggio di un principe temerario e innamorato che, sostenuto dalla sua cultura e dalla sua passione, risolve i famosi inestricabili enigmi.

Una storia quella della tragica ‘bisbetica domata’ Turandot, già narrata dal francese Francois Pétis de la Croix in quel suo Les mille et un jours” (1710) con cui aveva inteso sfruttare il successo, recente e vivissimo, de “Le Mille et une nuits“.

Curatissimi esteticamente ed efficaci drammaturgicamente i costumi di Mary Fotia: bianchi per i personaggi della favola cinese, neri per le maschere della commedia dell’arte.

Di grande fascino il kesho (ovvero il trucco dell’attore nel kabuki) che prevede che i volti di onnagata (qui il personaggio di Turandot è infatti un uomo) e di ragazzi siano coperti solo di bianco, essendo il bianco il colore per eccellenza della bellezza femminile e della delicatezza della gioventù. Unica concessione, le labbra rosse, una pennellata di rosso agli angoli degli occhi e le sopracciglia disegnate più in alto del naturale (tsukuri mayu). 

Esempio di trucco kabuki per femmine e giovani

Sul volto dei personaggi maschili, invece, sono stese le linee che ne fissano l’espressione sotto la luce dei proiettori, rendendo evidenti i sentimenti che li animano: il blu per la calma; il rosso per la collera, il coraggio, l’ostinazione; il grigio per la tristezza; il viola e il nero per la paura o la malvagità; il porpora per la superbia.

Esempio di trucco kabuki per maschi

Il regista Palmitessa dà forma ad uno spettacolo elegante e pieno di suggestioni, dove si nota un interessante studio sulla parola e sulla sua musicalità; su quel che resta del corpo dell’attore e sulla possibilità di dilatarlo. Vivificando continuamente l’attenzione dello spettatore.

Van Gogh Café

TEATRO AMBRA JOVINELLI, il 27 e il 28 Febbraio 2023 –

Nell’immaginare questa commedia musicale, l’eclettico Andrea Ortis sceglie di mettere al centro della narrazione un libro: quello sulla vita e sulle opere di un uomo disarmato e disarmante qual era Vincent Van Gogh.

Andrea Ortis, autore, regista e attore nello spettacolo “Van Gogh Café”

Cosa c’è di meglio di un libro per originare incontri, quelli belli, che non si dimenticano più ? “In un libro ci possono stare tutti – si dice nello spettacolo – come in un Café o in una Stazione !”. O come nel suo adattamento: Andrea Ortis riesce, infatti, a trovare il modo per far sì che “il libro di Van Gogh” faccia incontrare anche palco e platea.

Una scena dello spettacolo “Van Gogh Café” di Andrea Ortis

Attraverso delle grandi proiezioni animate in 3D su di un velatino è come se anche noi del pubblico sfogliassimo insieme ai protagonisti quello stesso libro. Fermandoci contemporaneamente sulle stesse pagine che, come quadri impressionisti in movimento, avvolgono lo spettatore e la scena trasformandola in una “Notte Stellata” o in un “Campo di grano con volo di corvi”.

Una scena dello spettacolo “Van Gogh Café” di Andrea Ortis

Ortis, oltre che autore e regista, in questo spettacolo è anche attore nel ruolo di M. Louis Philippe: un antiquario o, come lui ama definirsi, “colui che cerca di cercare”. Un lettore. Obiettivo del regista è infatti quello di rendere manifesto allo spettatore come le vicende di Van Gogh si intreccino a quelle dei protagonisti. E a quelle di ogni lettore. Perché non siamo solo noi a leggere un libro ma è anche il libro che ci legge.

Una scena dello spettacolo “Van Gogh Café” di Andrea Ortis

Filo conduttore della narrazione di Ortis è portare in scena lo sguardo, carico di un’umanità incessantemente incantata, proprio dell’uomo Van Gogh. Un uomo abitato, contemporaneamente, da un continuo peregrinare in cerca di ascolto ma anche da una solitudine profondamente fitta.

Una scena dello spettacolo “Van Gogh Café” di Andrea Ortis

È, quello di Ortis, il voler portare in scena il dis-velamento di un uomo capace di entrare nei “disegni” di ognuno di noi, nei nostri “quadri”. Ritrovandoci partecipi. Questo è il desiderio di Vincent: un desiderio tenerissimo e feroce, sul quale viene “dipinta” l’interpretazione dei personaggi in scena. La parola-colore. E le stesse luci.

Una scena dello spettacolo “Van Gogh Café” di Andrea Ortis

A fare da sfondo, la Parigi di metà ‘800 attraversata dalla raffinatezza dei più grandi parolieri e cantanti francesi: da Edith Piaf a Charles Aznavour fino a Yves Montand. Una Parigi vista con gli occhi dei frequentatori e del personale di lavoro di un Café Chantant, luogo di divertimento e di pensiero, frequentato da letterati e artisti del calibro di Vincent Van Gogh, George Braques, Cezanne, Renoir, Manet, Gauguin, Modigliani.

Una scena dello spettacolo “Van Gogh Café” di Andrea Ortis

Come nei migliori Cafè Chantant anche quello in scena ha una sua orchestra dal vivo e una sua chanteuse. E poi ballerine.

Una scena dello spettacolo “Van Gogh Café” di Andrea Ortis

Il quadro coreografico è “un quadro” nei quadri, nel quale Ortis ama immergerci. E brilla. E vibra, trascinandoci in un ritmo vertiginoso. Interrotto solo da irrefrenabili applausi.

Una scena dello spettacolo “Van Gogh Café” di Andrea Ortis

Un meraviglioso modo di festeggiare l’Anniversario dei 170 anni dalla nascita di Vincent Van Gogh.

Una scena dello spettacolo “Van Gogh Café” di Andrea Ortis