Medea la divina

TEATROSOPHIA, dal 12 al 14 Maggio 2023 –

Lo sguardo cinematografico che permea la regia e impreziosisce la graffiante drammaturgia di Massimiliano Auci dà vita ad “un monologo a tre voci”, ricco in assolvenze e dissolvenze, echi e specularità.

Massimiliano Auci, autore e regista dello spettacolo “Medea, la divina”

In un efficace gioco di flash-back, il vissuto della “persona” Maria Callas finisce per fare da contrappunto a quello del personaggio “Medea” di Pier Paolo Pasolini.

Maria Callas

Entrambi rimandano, infatti, a una predisposizione delle due donne verso amori folgoranti per uomini carismatici ma poco disponibili a riconoscere il loro autentico valore, unitamente ad un particolare rapporto sventurato con i propri figli. Donne ostinatamente ambiziose e di successo ma penalizzate da un insano rapporto con il cambiamento. 

Maria Callas in “Medea” di Pier Paolo Pasolini

È il vento ad aprire infatti lo spettacolo: un movimento vitale che allude all’energia che muove il corpo fisico, ma anche lo spirito, in un cambiamento continuo da uno stato all’altro. Perché così è la vita, dove tutto si muove tra continui equilibri e sconvolgimenti. Il piacere, il fastidio e la paura provocate dal vento porteranno l’attenzione sugli aspetti della vita delle due donne che sono ormai “maturi” per una trasformazione e quelli invece che seguono vie meno controllabili. Alle quali ci si dovrà adeguare, malgrado tutto.

Maria Callas

Evocativi e poeticamente onirici i corridoi di luce, sviluppati su diversi campi cinematografici, dove una giovanissima Ginevra Gemma, piena di grazia, osa farsi guidare dal lancio di un sassolino per saltare sulla vita.

Dagli scacchi del gioco della campana, tra assolvenza e dissolvenza, il passaggio è sulla cappa a scacchiera che veste la Medea-Callas, interpretata da un’appassionata Giovanna Cappuccio che, con fiera e fragile tragicità ha deciso di lasciare in eredità ai figli, privi di una madre, una città. Ma si spoglierà di questo proposito così come ora fa con la cappa che l’avvolge, quasi a rifiutare gli scacchi ricamati per lei dal destino.

Giovanna Cappuccio

In un interessante gioco a cerchi concentrici, il nuovo “habitus” della Callas-Medea, total black, ricorda quello sulla “de-formità” del Riccardo III shakespeariano: “io che non sono nata per i lavori nei campi…”. E’ una mancanza di quella “giusta forma” necessaria per essere riconosciute dagli altri ma soprattutto da loro stesse.

Giovanna Cappuccio

E così, Maria si lascia plasmare, “sempre indifesa”, dall’imprenditore Giovanni Battista Meneghini che la trasformerà da goffa donna a rilucente diva. Ma se ” arrivare è da molti, restare è per pochi! “. E così Maria (ma anche Medea) finisce per infilarsi in un illusorio mantenimento della continua perfezione che sfocerà in una vera e propria maniacalità.

Giovanni Battista Meneghini e Maria Callas

A una seducentemente subdola Giorgia Serrao sono affidati i contrappunti della madre e delle sfaccettature nascoste della diva indifesa e arrabbiata.

Giorgia Serrao

Finché non arrivano altri due nuovi occhi a voler plasmare la divina: quelli di un altro imprenditore: Aristotele Onassis. Una di quelle persone che pretendendo di essere amate, non sanno amare.

Aristotele Onassis e Maria Callas

Abbandonata, le serve una nuova identità: questa volta il nuovo “habitus” arriva da Pier Paolo Pasolini. Su di lei “cuce” il suo personaggio di Medea. Entrambi reduci dalla fine di un grande amore, si amano. Ma di amori diversi. Il vento continua a soffiare cambiamenti ma per Medea la divina saranno solo fratture.

Pier Paolo Pasolini e Maria Callas

Uno splendido ritratto al di là di della leggenda e al di là del divismo che, sempre con il giusto ritmo, porta lo spettatore a scoprire due nuove donne allo specchio. Nelle quali non è difficile trovare assonanze con i nostri vissuti.

Giovanna Cappuccio e Giorgia Serrao

Recensione dello spettacolo GLI UCCELLI di Dafne Du Maurier -adattamento Roberto Scarpetti – a cura di Lisa Ferlazzo Natoli, Alessandro Ferroni –

TEATRO INDIA, 3 e 4 Agosto 2022 –

Entrano insieme, attraversando velate nuvole, uniti dal comune intento della narrazione. Sono Uccelli che si appollaiano in diagonale sulla sinistra del palco; Umani che si stanziano nel centro; Suoni che si sintonizzano sulla destra.  

Rievocano “l’inverno del loro scontento”, quando dalla notte del 3 dicembre, tutte le nuvole, sepolte nel petto profondo del mare, iniziarono ad incombere minacciose. Un vento di ghiaccio a salire. Gli intenti a mutare. E gli Uccelli ad essere “sempre più agitati e fruscianti come seta”.

Nell’omonimo racconto di Daphne Du Maurier, a cui lo spettacolo si ispira, non sono stati gli Uomini ad andare a chiedere agli Uccelli di prendere il governo delle loro città, come nella celebre commedia di Aristofane. No. Qui gli Uccelli, animati da una fame senza desiderio, sembrano stregati da un incantesimo. Costretti “con regole assegnate” e “codici di geometrie esistenziali”. Ubriachi di moto: il vento li anima, il vento è il segnale che precede i loro attacchi. Vento che gli interpreti rendono magnificamente nella voce; attraverso un’accurata prossemica ed esteticamente con ventagli neri, di piume.

La scrittrice Daphne Du Maurier

Gli uomini li guardano ma non sanno osservarli: solo Nat Hocken (colui che ripara cancelli e rafforza argini) sa farlo. Solo lui si rende conto che stanno “cambiando le prospettive al mondo”. Ma come Cassandra non viene creduto. Gli Uccelli hanno modo così di invadere le città, come gli Achei di uscire (apparentemente) all’improvviso dal cavallo di Troia.

Li vediamo anche, gli Uccelli: inquietantemente disegnati e proiettati su teli di velatino. Sono bianchi, sono neri, sono piume, sono becchi: “mescolati in strane amicizie, in cerca di una specie di liberazione, mai soddisfatti, mai fermi…come uomini che temendo una morte prematura, per reazione si buttano a capofitto nel lavoro oppure impazziscono”. La strana agitazione degli Uccelli risalta con evidenza anche perché le città sono molto tranquille e apparentemente si sentono ben protette. Appese alla routine quotidiana, alla musica della radio o ai comunicati-oracolo, trasmessi di tanto in tanto. Che questa volta non sono frutto dell’appassionata recitazione di Orson Welles, quando la sera del 30 ottobre del 1938, convinse mezza America che i marziani avevano dichiarato guerra alla Terra, dando vita a “La Guerra dei Mondi” !

Aleggia un’incomprensibilità della natura umana che ricorda “l’immensa complessità e la confusione dell’andare avanti degli uomini” raccontato con disperata malinconia in “Uccellacci e uccellini” da P.P.Pasolini.

Particolarmente accordati gli attori (Lorenzo Frediani, Tania Garribba, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Stefano Scialanga e Camilla Semino Favro): la voce di ognuno, “corpo” più di un corpo. Sofisticatamente efficaci i costumi dei tre “Uccelli” , riempiti da posture e piccoli scatti assai credibili.

Suggestivo il contributo sonoro di rumori e strida di uccelli (l’elettronica è di Alessandro Ferroni) deformati e ritmati come in una partitura e malinconicamente accompagnati dalla chitarra elettrica di straziante bellezza di Fabio Perciballi.

La regia di Lisa Ferlazzo Natoli e l’adattamento di Roberto Scarpetti hanno saputo restituire efficacemente il clima d’attesa, le atmosfere ossessive e il finale inquietantemente risolto nella minaccia di un’attesa ulteriore. Particolarmente persuasiva, inoltre, l’idea di coniugare metaforicamente la narrazione a tinte gotiche con il clima di rilassatezza, da club degli anni ’40.

La scrittrice Daphne Du Maurier

Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo VENERE E ADONE – Siamo della stessa sostanza di cui sono fatti sogni – di e con Roberto Latini –

TEATRO VASCELLO, Dal 6 all’8 Maggio 2022 –

L’amore nasce dal caso e può diventare un destino. Per un caso Venere s’innamora perdutamente di Adone: per baciarla, suo figlio Cupido, le si avvicina troppo e per errore una freccia parte dal suo arco. È un amore non ricambiato quello di Venere ma che ugualmente altera il respiro, fa ansimare, produce pensieri ossessivi, mette le ali, fa cadere.

Roberto Latini

Di ferro sono le ali immaginate dal regista Roberto Latini, collegate ad una cassa toracica anch’essa di ferro. Così come l’arco, che nasce da una fusione con l’asta del microfono, metamorfico oggetto di scena. Questo è il suo Cupido: appesantito, rigido e insieme languido. Innamorato della sua mamma. Quasi geloso. Anche lui patisce un amore non ricambiato, anche lui ansima e parla dell’angoscia della libertà, come nella celebre aria di Händel:

“Lascia ch’io pianga

Mia cruda sorte

E che sospiri la libertà!”

E che sospiri

E che sospiri la libertà!”

Roberto Latini

I suoi piedi poggiano su di “un indegno tavolato” ridotto, o amplificato, a una minuscola pedana ospitante la sua tecno-orchestra, replicante ossessive, lacerate e distorte sonorità. È il tormento dell’amore, che ci trova e ci lascia disarmati. Senza parole, senza un senso: “mi è cresciuto dentro un vuoto … come mai, non so dirlo, non so dirlo, ancora”. È l’ambivalenza del potere dell’impotenza, che ci strugge e ci affascina. E ci sorprende a dire sempre “ancora”. Così si chiude il primo capitolo del racconto del regista.

Roberto Latini

Latini immagina che ciascuno dei personaggi coinvolti nel mito desideri raccontare la propria narrazione al pubblico. La ricerca di questa intimità è necessaria, urgente e sentita da tutti, anche dal cinghiale che ferì mortalmente Adone. Con un guizzo di genialità, Latini lo fa entrare in scena nelle vesti di Riccardo III, cinto da una corona di freccette. È l’antagonista dell’arciere Cupido. Lui che pare centrare ogni bersaglio che si prefigge ma che alla fine resterà vittima di una freccia altrui.

Pronuncia il suo più famoso monologo con il ritmo trotterellante di un solitario cinghiale prima che punti il bersaglio e galoppi lungo la sua rossa e rettilinea traiettoria (qui immaginata come un lungo red carpet) ad azzannarlo. Latini ci restituisce l’immagine di un uomo immerso nel risuonare ossessivo della parola RE, suffisso di altre parole, come ad esempio re-spiro, anche lui, a suo modo, vittima di un amore negato, a causa delle sue forme.

E allora, quasi come in un quadro di Chagall, scopriamo un uomo leggero nella sua pesantezza, maneggiare un arco come un violino e viceversa. Un uomo sprofondato e sollevato nel seguire ossessivamente la parola MI, se stesso: mi accorgo, mi fingo e poi però ti spingo, ti infilzo, ti piango, t’ammazzo. E ti abbraccio.

Al suo uscire entra un tipo in vestaglia di seta, con fantasie giapponesi (ovviamente sempre il metamorfico Latini) . Si siede su un Chesterfield gonfiabile. Ai suoi piedi una glacette di plastica (un secchio), in distratto ascolto di una specie di karaoke di pensieri, proiettati su schermo. Una lettera d’addio. La brutta copia di un commiato d’amore. È Adone. Dietro di sé Venere, che lo invoca da un giradischi che suona:

“… c’è solo mezza luna stanotte

Niente può accadere

Perfino lontano da niente succede qualcosa.

Ma non qui…”. 

“Siamo della stessa mancanza di cui sono fatti i sogni”. E quella che vediamo nel capitolo successivo è una Venere ridotta quasi alla condizione di barbona. Coperta di stracci, ha perso l’eleganza del suo incedere. E trascina un carrello della spesa in cerca di cibo. Perché l’amore è mancanza: Eros nasce in una notte d’amore rubato da Penia (la dea della povertà) a Poros (colui che è la Via), dormiente ubriaco, compagni nel mendicare briciole, alla fine di un banchetto al quale non erano stati invitati. Qui, nel carrello della spesa di Venere, c’è solo qualcosa di secco, ricordo o speranza di ciò che poteva essere vivo e pulsante.

Il racconto si chiude con il capitolo intitolato “Chiunque”, affidato ad un cane telecomandato: in amore noi non abbiamo nessun controllo di noi stessi. Qualcun altro ci accende. E ci spegne.

Roberto Latini. Foto ©Masiar Pasquali

Roberto Latini non smette di sorprendere come interprete e come regista. La sua è una sensibilità piena di estro che incanta e scuote la platea (di giovanissimi).


Recensione di Sonia Remoli