Recensione dello spettacolo LA NOTTE DI VITALIANO TREVISAN – mise en éspace di Andrea Baracco – drammaturgia a cura di Jacopo Squizzato –

TEATRO BASILICA, 27 Maggio 2024

E’ la sua voce ad aprire la mise en éspace curata da Andrea Baracco: una voce così materica eppure così in disequilibrio. Oscura, dolente, contorta. Tenera, a suo modo dolce, musicale.

Una voce necessariamente “incompiuta” per potersi rendere disponibile a generare continuamente nuove aderenze linguistico-morfologiche aspre e ruvide. Come quelle che agitano la vita. 

Una voce necessariamente “incompiuta” com’è la natura della conoscenza per noi umani: “sempre da dilettanti, altrimenti non ci sarebbe letteratura”.  

Una voce necessariamente “incompiuta” perché, come la sua scrittura, visceralmente ossessionata dalla necessità di essere “vera”. E quindi costantemente sul ciglio del precipizio, prossima al crollo.  

Vitaliano Trevisan

Ora, soffiando in scena la sua aura, può prendere avvio la rievocazione del suo stare al mondo, che coincide con la particolare postura della sua scrittura.

Ecco allora entrare in scena coloro che fortemente hanno sentito il desiderio di ricordare l’unicità della vita di Vitaliano Trevisan, ritessendola in un arazzo di cui le loro voci si fanno fili.

E’ così che Jacopo Squillazzo – che ne cura l’intreccio drammaturgico – ci propone di partecipare ad una lettura a ritroso della vita di Trevisan, partendo appunto dall’ultimo libro “Black Tulips” e dalle esperienze legate alla fuga in Nigeria, suo paradiso di autenticità esistenziale. 

E’ Valerio Binasco ad incarnare le parole di questo testo e a rendere la morfologia di un Trevisan appesantito dal continuo essere attraversato dalla vita così come dalla morte. Ce ne parla l’efficace postura di Binasco: una postura rigida, gravata dal carico che sembra materializzarsi sulle sue spalle, che ne restano schiacciate. Ma reggono ancora queste spalle – facendosi “trasparenti” – il peso dei molteplici frammenti che agitano il caos esistenziale.

Valerio Binasco

Ai suoi passi da sessantenne in Nigeria si intrecciano, diversamente ossessivi, quelli del quarantenne Trevisan dei “Quindicimila passi”. Vivono nella voce di Gabriele Portoghese che ne rende lo stupore ironicamente drammatico del constatare che nulla torna nei conti dei passi. E intanto tutta questa fatica del contare gli ha fatto perdere il senso delle mete raggiunte. Ma gli ha permesso, evitando di farsi cogliere di sorpresa, di non sprofondare nell’abisso esistenziale.

Una modalità – questa di inscrivere nello spazio dei passi e della carta il suo distacco dal dolore esistenziale – che l’arte può assumere per rappresentare credibilmente “la pena riflessiva” della vita: quel rimuginare senza orizzonte che non conosce pace per l’anima. “Un’ arte del tempo”: la sola adatta a rendere ciò che è mobile.

Gabriele Portoghese

Dall’arte ossessiva del contare si arriva di nuovo in Nigeria: qui ad abitare Trevisan è l’ossessione cromatica del suo biancore, e quello di pochi altri, su tutto questo paradiso di nero. Dove ci si può ancora permettere di sdraiarsi sulle panchine.

Privilegio che i veneti e i vicentini non approverebbero, ossessionati quali sono da quel tanto fare (“il mal della piera”) senza però riuscire a “sapersi vendere”. Ed è l’espressività dell’affascinante minimalismo mimico di Daria Deflorian a farsi carne nelle parole seminate in “Tristissimi giardini”.  

A lei il compito di “rappresentare” ad esempio il fascino irresistibile di una caduta, come quella che avviene anche in amore, resa con le suggestioni e i ritmi di quella musicalità jazzata propria degli “standards”. Ma Trevisan, e con lui la Deflorian, vanno oltre: qui non c’è il gusto per il gioco ma il riconoscimento di una modalità che rende credibile il pulsare dei pensieri della vita. Ai quali si tende a rimanere legati come ad una catena.

Daria Deflorian

E mentre prosegue l’intreccio della tessitura a 6 mani della vita e della scrittura di Trevisan, noi del pubblico abbiamo come la sensazione di passeggiare accanto a Vitaliano, provando a seguire i suoi passi e le sue fughe, grazie al disegno “libero” dell’arazzo, che intanto si sta componendo. E che rimarrà “fatalmente incompleto”. 

Un’inspiegabilità “che non è un invito a risolvere enigmi, non è un invito ad essere arguti, bensì un ammonimento della morte al vivente: ‘Io non ho bisogno di spiegazioni, (…) pensa solo che con questa decisione tutto è finito’» ( da “Accanto a una tomba”, in Standards, vol. 1, Sironi, 2002).

“Farmi domande, a questo mi attengo”: il lavoro “manuale” della scrittura di Trevisan non pretende infatti mettere ordine nella vita, quanto piuttosto renderne – in modo rigorosamente ordinato – l’intrinseco disordine.

Vitaliano Trevisan

Una notte, quella di ieri sera dedicata a Vitaliano Trevisan – in un Teatro Basilica intasato da tutti coloro che non hanno resistito a tornare a rileggere ancora e ancora lo sguardo di un uomo spigoloso, crudo e illuminante qual era lui  – che non sarà l’unica. 

Questo  progetto, che nasce qui a Roma al Teatro Basilica ed è curato da Carnezzeria (direzione artistica Emma Dante e Aldo Grompone), viaggerà infatti in altre città italiane.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione del film CONFIDENZA – tratto dal romanzo di Domenico Starnone (Einaudi) – con Elio Germano, Federica Rosellini, Vittoria Puccini, Pilar Fogliati, Isabella Ferrari – un film di Daniele Luchetti

Stupefacente è come questo film riesca a destabilizzarci, anche senza esserne totalmente consapevoli. 

Indubbiamente ha la capacità di insinuarsi seducentemente in quella quotidianità, che crediamo di saper tenere sotto controllo. 

Non è necessario aver vissuto qualcosa di simile ai protagonisti per rimanere profondamente turbati, perché la narrazione ha il potere di arrivare in “un luogo” dove tutti confluiamo e che ci fa vedere quanto è labile il confine tra “amare” e “sopraffare”. 

Amare è quanto di più distante dalla nostra natura: ciò che riceviamo in corredo dalla natura é infatti un istinto alla sopraffazione utile per sopravvivere, senza andare troppo per il sottile sul “come” . 

Amare si impara: amare richiede un desiderio e un insegnamento erotico, un’educazione sentimentale, dove si apprende, per seduzione, a sublimare l’istinto all’individualismo nell’arte di entrare in relazione. Se ne occupa anche il prof. Pietro Vella (un Elio Germano investito della grazia della mediocrità).

Elio Germano è il prof. Pietro Vella

Ma allora, se questi sono i presupposti, quanto può risultare pericoloso chiedere e concedere di affidare una confidenza – qualcosa cioè di intimo e segreto tanto da essere quasi impronunciabile – ad un’altra persona?

Siamo spinti a correre questo rischio forse perché a prevalere sulla consapevolezza a riconoscere che il patto d’intimità si regga sul ricatto della paura reciproca ad essere smascherati, è l’idea che la confidenza implichi un grado di conoscenza così profonda tra due persone, raggiungibile solo quando si è disposti vicendevolmente a riconoscere all’altro un’accoglienza altruistica. Un atto quindi di grande fiducia, un investimento emotivo che non esclude un possibile tradimento dell’intimità della parola data, seppur suggellata dal segreto a custodirla entro le mura delle due persone coinvolte.

Non a caso Teresa (una Federica Rosellini dalla densità propria di una divinità mitologica) alla richiesta del suo insegnante Pietro Vella di tentare di definire cos’è l’amore risponde che l’amore non è mai alla pari: l’amore è sempre sopraffazione. Che un po’ è quello che lui, il prof, aveva poco prima scritto alla lavagna. Lui, però, separando l’amore dalla paura. 

Elio Germano è il prof. Pietro Vella

Ma invece al centro della nostra psiche, sotto la superficie di educate finzioni, giace inconfessata e perenne proprio lei: la paura. Non disgiunta nemmeno dall’amore e dai suoi fantasmi, che aleggiano nel buio delle nostre emozioni: sono i vari terribili “e se …” (“e se sapesse che …”; “e se la perdessi …”; “e se pensassero male di me …”; “e se fallissi …”). Per non parlare poi delle paure a cui non riusciamo nemmeno a dare un nome: vere e proprie angosce, perché quello che temiamo è proprio l’ignoto (il futuro, l’incomprensibile e la nostra stessa inettitudine). Tic, tic, tic: un vero stillicidio. 

Un po’ quello che si trova a vivere Pietro Vella: da sempre e per sempre, ma con un’impennata incontrollabile dopo lo scambio di confidenze con la sua ex studentessa Teresa. 

La quale, invece, sembra avere un diverso rapporto con la paura: quasi fosse un altro nome della fantasia. Un sintomo, il suo, della bizzarra potenzialità di una psiche che non si accontenta. Soprattutto delle cose così come appaiono: delle maschere che si tende ad assumere per difesa. Un sintomo che trasforma l’esistenza, soprattutto se animata come nel caso di Teresa dalla vendetta, in un thriller a puntate pieno di colpi di scena, di suspense e sobbalzi. Godendo proprio di quei misteri impossibili da svelare: le angosce dell’Altro, di Pietro appunto. 

Elio Germano è Pietro Vella

E quello che sembrava essere un felice “incontro” si tramuta in una sorta di “incantesimo”: nel rito magico della parola, prima magia dell’uomo e nella genesi dell’impossibile, che passa per l’intonazione della voce, per la scelta delle parole, per il ritmo del respiro. E’ quindi questa consapevolezza di Teresa sul potere dell’asserzione a travalicare le frontiere del fantastico, invadendo la realtà.

Sì, perché l’asserzione è quell’affermazione attraverso la quale si tesse una posizione e quindi un’identità. E’ il superamento delle dichiarazioni rabbiose – proprie della Teresa che scopre di essere stata tradita – così come delle dichiarazioni cerebrali, spesso prive di catene dimostrative. Ecco allora che l’affermazione, quella versata shakespearianamente da Teresa nell’orecchio di Pietro, viene data per vera, sebbene sia la prospettiva umana quella che veramente ne svela la cifra. E’ un po’ quello che Iago fa con Otello. 

Federica Rosellini e Elio Germano

Ecco, forse è proprio questo che risulta stupefacente: scoprire fin dove le possibilità umane possano bloccarsi dietro maschere (come accade a Pietro Vella), o invece spingersi oltre, verso quel qualcosa di “divino” che ci abita. Federica Rosellini, infatti, ci restituisce una Teresa Quadraro dalla densità di una divinità: che ha qualcosa delle Erinni (divinità vendicatrici dei torti subiti) e insieme qualcosa dello Zeus che sceglie la punizione per Tantalo. Come Zeus, Teresa sceglie infatti di infliggere a Pietro il tormento di chi desidera tantissimo qualcosa, apparentemente a portata di mano (in questo caso la conferma del silenzio sul segreto rivelatole) ma scopre che questo desiderio è destinato a rimanere perennemente inappagato. Un tormento che fa cadere la maschera buonista di Pietro, rivelandole l’indole da bestia pavida.

Quanta poca cosa è allora un tradimento umano rispetto alla punizione eterna, e quindi divina, di disporre del “laccio” di una “confidenza segreta”! Fino a quanto può stringere questo “laccio” ? Fino a quanto possiamo sopportarne il giogo?

Federica Rosellini è Teresa Quadraro

Perché mantenere il silenzio non è solo il contrario del comunicare. Il silenzio non racchiude un vuoto ma un pieno, non un’assenza ma una presenza: contiene infinite possibilità. E’ lo spazio dell’infinito.  E’ lì dove abita il silenzio, che tutto può essere detto.

Ed è questo tipo di intimità sospesa, senza cioè il vincolo della paura da parte di Teresa e quindi volutamente in dubbio relativamente al voto del silenzio sul segreto – quella sensazione di possibile tradimento di un patto di fedeltà orale che Teresa vuol far provare a Pietro, punendolo del tradimento del patto di fedeltà fisica. Che al confronto diventa davvero ben poca cosa. 

Da qualche tempo Daniele Luchetti  e Domenico Starnone ci stanno educando alle profondità abissali alle quali conducono ta erotika: le cose dell’amore. Profondità nelle quali sanno muoversi bene – come ci annunciava già Platone nel Simposio – le donne, perché dotate per natura di una psiche predisposta a orientarsi con più agilità nella “relazione” e nell’ambiguità delle sue dinamiche. 

“Confidenza” è un film potentissimo, irresistibile, che ci fa sentire disarmati: non confortandoci con una soluzione, con un finale definito.  E ci lascia senza parole, scegliendo di condividere con noi le infinite possibilità che ci confida il silenzio.  


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo GENERAZIONE PASOLINI – drammaturgia e regia di Marta Bulgherini –

TEATRO VITTORIA , dal 21 al 26 Maggio 2024

Che cosa significa essere audaci ?

Di cosa brilla la temerarietà di questa tempestosa idea drammaturgica di Marta  Bulgherini?

Della consapevolezza del rischio di un sogno. Accettato osando. Con compiacimento. 

E’ un’evocazione fuori dai suoi confini dello spirito di Pier Paolo Pasolini, per inscenare un sogno, una fantasia, com’è nella natura del Teatro e quindi della Vita. 

“Noi siamo della materia/Di cui son fatti i sogni/E la nostra piccola vita/È circondata da un sogno”

Ma c’è qualcosa di più nella fantasia evocativa alla base di questo accattivante testo drammaturgico di Marta Bulgherini: l’autrice e attrice ci parla del suo desiderare un’esperienza intima e profonda con se stessa. Desiderio che per potersi realizzare ha necessariamente bisogno di quella particolare grazia insita in “un incontro”, capace di generare quella meraviglia indispensabile per poter dare un nuovo corso alla propria vita.

Ma incontrare chi? E soprattutto: come si fa a “incontrare qualcuno”? Come si fa, in ultima analisi, “a incontrarsi con se stessi”? 

Occorre sentire l’esigenza di avviare una ricerca. Partendo da qualsiasi parte, preferibilmente quelle meno confortevoli. 

Pier Paolo Pasolini, ad esempio. Lui che tutta la sua vita non ha mai smesso di cercare. Con audacia poi. 

E da Pasolini parte la ricerca della Bulgherini, con la complicità di Goffredo Parise, a lei invece affine. Almeno quanto a Pasolini: i due erano infatti grandi amici.   

Una ricerca, quella narrata in scena e fuori dalla scena – con una prossemica da regia cinematografica tale da avvolgere lo spettatore fisicamente oltre che a livello esperienziale – che solo apparentemente nota e annota gli innumerevoli successi della vita di Pasolini.

Perché, in realtà, Marta vuole di più: sono i suoi insuccessi ad interessarle davvero. Sono loro a riuscire a farle sentire vicina, complice, l’icona inarrivabile di Pasolini. E se è vero che ciò che ci accomuna tutti è la nostra attitudine a sbagliare, così come a  differenziarci è l’uso che riusciamo a fare dei nostri errori, allora come sbagliava Pasolini? E cosa faceva dei suoi sbagli? 

Lungo questa ricerca che finisce per assumere anche i contorni di una discesa dentro se stessa, la Bulgherini incontra uno stimolante e fertile ostacolo: lo scrittore, critico letterario e saggista Walter Siti. E’ lui a tentare di dissuaderla a continuare la sua ricerca verso e attraverso Pasolini perché, sostiene, la società attuale è troppo poco “complessa” per pretendere di avvicinarsi a lui. 

Ed è crisi.

Marta Bulgherini e Nicolas Zappa

Ma è proprio dalle dinamiche innescate da questa crisi che si origina un’epifania.

E da qui l’inizio di un dialogo, finalmente, tra le parti.

E quella meraviglia, che solo certi incontri possono regalare, complice un efficace Nicolas Zappa.

“Generazione Pasolini” è uno spettacolo che può contare sull’audacia di un’idea che trova compimento in un testo che dà prova di sapersi confrontare con una personale “complessità”, oltre che con la “complessità” pasoliniana. Una felice testimonianza di come tradire fedelmente una tradizione, preservandone l’eredità.

A completamento di questo interessante progetto, due prove attoriali che brillano di fresca energia e di autentica profondità nel sentire. Con questi presupposti la scena può permettersi di essere iper minimalista. 

Marta Bulgherini e Nicolas Zappa


“Generazione Pasolini” ha già conquistato il cuore della critica e del pubblico, aggiudicandosi il titolo di vincitore della 14a edizione della prestigiosa Rassegna Salviamo i Talenti – Premio Attilio Corsini 2023 del Teatro Vittoria di Roma, nonché la destinazione del bando di distribuzione Per Chi Crea 2023, promosso da SIAE. Inoltre, lo spettacolo è stato selezionato per le edizioni 2024 del Torino Fringe Festival e FringeMI.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA MARIA BRASCA – di Giovanni Testori – regia Andrée Ruth Shammah –

TEATRO VASCELLO, dal 21 al 26 Maggio 2024 –

Non si resiste a non amare tutto di lei, finanche il suo pallore, solare prima che lunare: é la Maria Brasca di Marina Rocco, diretta dalla Shammah. Un pallore, il suo, risultante dalla prorompente fusione di tutti i colori di cui riesce a tingersi il suo desiderio: quello potente e prepotente, che prima di pretendere di essere ricambiato esige poter dare, poter offrirsi, potersi battere. 

Marina Rocco è Maria Brasca

Un’esigenza irrefrenabile e scandalosa – questa di testimoniare il sublime entusiasmo del suo desiderare – in una Milano degli Anni ’60, che il desiderio lo vorrebbe sordo, muto, celato. E che la Maria invece fa risuonare in tutto il suo fragore. Senza vergogna. Perché quel modo lì di “amare insieme” è la più grande espressione della dignità umana. 

Marina Rocco (Maria Brasca) e Filippo Lai (Romeo Camisasca)

Qual è, infatti, la cifra della nostra “umanità” se non la capacità di amare al di là dell’ostinato pretendere di essere ricambiati?

La Brasca resta preda per la prima volta di questa insolita capacità di amare con il suo Romeo Camisasca. E la nuova forza erotica è così invadente che lei vede vacillare un’attitudine che finora l’ha sempre guidata: la limpidezza concreta di “dire le cose come sono”. Unita a quella di “saper giudicare gli uomini”. 

Ma l’amore, questo amore, che la trova disponibile a lasciarsi infatuare, le insegna che non serve a nulla “giudicare”. Serve, piuttosto, far sì che l’errore ci renda migliori di prima. Tanto da poter arrivare a progettare un avvenire, lei che “io per l’avvenire non fisso niente. Per adesso è così, poi vedremo”

Filippo Lai (Romeo Camisasca) e Marina Rocco (Maria Brasca)

Un talento fertilmente contagioso, questo a godere apertamente di tutta la succulenza della vita incluse le eventuali conseguenze: lei, la Brasca, è un fiume in piena, che tracima depositando limo esistenziale. “Un giorno o l’altro devi trovarlo anche tu chi ti farà perder la testa. È talmente bello! E se tu proprio non lo trovi, te lo tiro fuori io, vedrai… Ma cosa fai, adesso? Sei contenta o non sei contenta che la tua Mariassa è innamorata? E allora ridi, su, andiamo, ridi! Tanto, finché c’è vita, c’è speranza!… Giuseppa, ascolta: la bellezza avrà il suo valore, non dico di no, ma quello che conta è poi un’altra cosa. Come lo chiamano i signori? Lo sbrinz, ecco; lo sbrinz”.

La Maria Brasca ha il dono di una sapienza spiccia: svelta e risoluta; fresca e scintillante. Ha un modo tutto suo di entrare in relazione con gli altri. Li capisce al volo, istintivamente, grazie a quella sua disperata gioia erotica – così naturalmente resa da Marina Rocco – esclusiva di chi è fedele al proprio desiderare. E sa lasciarsene guidare. 

E’ una donna affamata di vita, la Brasca: morde il presente ma, insieme, sa perdersi nello stupore proprio “di una verginella al primo amore”. E sa anche aspettare, come chi ama davvero, “per dei giorni e delle notti di fila”.  E se poi c’è da difendersi, da lottare, sceglie di farsi vedere “nuda e cruda”: in tutta la sua controversa purezza. Scoprendosi ad amare non solo ciò che luccica, come la bellezza indiscussa del suo Romeo, ma anche quel “suo fare da remollo”: perché amare davvero significa amare tutto dell’altro. 

Filippo Lai (Romeo Camisasca) e Marina Rocco (Maria Brasca)

Un respiro vitale che lei generosamente condivide, perché questo significa “stare insieme”. Amare la vita. Perché questo significa avere una dignità.

Significa che essere una donna non equivale solo “ad avere le paturnie” ma ad avere anche le ovaie. E perché “libera non significa puttana”.

“Libera” significa amare e sperimentare la vita in tutto il suo spettro cromatico. Proprio come amava dire Giovanni Testori«Basta amare la realtà, sempre, in tutti i modi, anche nel modo precipitoso e approssimativo che è stato il mio. Ma amarla. Per il resto non ci sono precetti».

Una vita che è partecipazione, in quanto “cosciente emozione del reale, divenuta organismo” e che come tale Testori riflette sul corpo della sua lingua, qui – nel suo primo testo d’esordio drammaturgico – già irresistibile.

Giovanni Testori

Così come uno spettacolo – dirà André Ruth Shammah introducendo il debutto della prima romana – “è una storia di partecipazione che si desidera condividere. Non un prodotto commerciale”.

E commuove la grazia che si sprigiona dall’appassionata cura umana – prima ancora che registica -nell’onorare il passaggio di testimone da un’attrice all’altra, nel corso degli anni, per continuare ancora a far vivere la Maria Brasca: nel 1992 era stata la cura di far sì che Adriana Asti continuasse a far partecipare Franca Valeri coinvolgendola nello spettacolo, anche dalla prima fila della platea

Franca Valeri è Maria Brasca (1960)

e ora, dal 2023, è Marina Rocco che prima di pronunciare la sua battuta d’apertura pare desiderare raccordare la sua voce a quella di Adriana Asti, che si libra nell’aria sulle note di una canzone. E nell’ascoltarla la Rocco si toglie il basco. E poi le manda un bacio. Ora si può. Ora tocca a lei portare avanti il testimone.

Adriana Asti è Maria Brasca (1992)

Un’eredità di sacra riconoscenza che si tramanda nella Casa del Teatro del Franco Parenti anche attraverso il recupero di fonti storiche, amorevolmente conservate: ad es. gli appunti accuratissimi della sarta della Asti, la Sig.ra Carlotta nonna dell’attuale sarta di Marina Rocco Simona Dondoni, che proprio grazie a questa eredità di cura può permettersi di vestire la Rocco con gli stessi costumi indossati dalla Asti. 

Ma eredità significa anche profonda fedeltà nei necessari tradimenti che lo scorrere del tempo impone: ecco allora la naturale esigenza di un opportuno ricambio generazionale, compimento di un ciclo di vita, a cui anche le foglie che abitano la scena alludono. E che non vengono mai eliminate. 

Andrée Ruth Shammah e Giovanni Testori

Eredità è il ricordo di Giovanni Testori, immenso maestro della Shammah, che non ha nulla del rimpianto, quanto piuttosto la gratitudine per esserci stato e per esserci ancora, attraverso una presenza metafisica e insieme palpabile. Lo si percepisce nitidamente già nella modalità profondamente giocosa attraverso la quale la Shammah e Giuseppe Frangi (Presidente dell’Associazione Casa Testori) amano ricordarlo durante l’incontro con il pubblico, appena precedente la prima romana al Teatro Vascello. 

Marina Rocco (Maria Brasca), Mariella Valentini (Enrica) e Luca Sandri (Angelo)

E poi “quel” insinuarsi della voce di Testori dai muri dello spettacolo. E poi la costruzione di tutti “quei” dettagli che la Shammah ha sapientemente inserito, quale mirabile contrappunto al suo sguardo registico. Uno su tutti, la casa riprodotta in scena che trema al passare del treno: così allusiva dell’abitazione dove Testori era cresciuto e dove ha trascorso gran parte della sua esistenza – oggi sede dell’Associazione Giovanni Testori – costruita lungo i binari delle Ferrovie Nord e affiancata dalla fabbrica tessile avviata da suo padre. 

Apre la scena metateatrale (curata da Gianmaurizio Fercioni) – dalle plumbee tinte della prudente ipocrisia del compromesso – la meravigliosa voce di Adriana Asti che canta ‘Quella cosa in Lombardia‘, con le musiche di Fiorenzo Carpi e il testo del poeta-cantacronache Franco Fortini

Uno spaccato di “famiglie cadenti come foglie, di figlie senza voglie, di voglie senza sbagli” sul quale la Shammah fa cadere la quarta parete. E quello che ora si lascia vedere, immagina come di proiettarlo-rivelarlo su un maxi schermo di una sala cinematografica.

Ma la vita, quella scandalosamente vera e vibrante, è quella che si svolge fuori dallo “schermo”. Con un‘interessante allusione anche all’intendere la vita nella nostra attuale modalità “social”.

Lo spettacolo è la storia di una famiglia che cerca di contenere ed arginare perbenisticamente l’inarrestabile esuberanza di una giovane donna, la Maria Brasca appunto, che non teme il coro dei “dicono che…, si dice che…”: non ha timore di quello che può uscire dalle bocche della gente, atrofizzate dal continuo spifferare pregiudizi e maldicenze.

Lei, la Brasca, la sua bocca la tiene ben aperta, anzi la spalanca in seducenti risate di piacere, scandalosamente generose a donare e a ricevere baci. Sua sorella Enrica (un’efficacissima Mariella Valentini) invece è sovrastata dall’affettuosa premura a mantenere un’apparenza di decoro nella sua famiglia. Nonostante correnti telluriche scuotano il sottosuolo della sua esistenza e quella dei suoi familiari: quella di suo marito Angelo (un delizioso Luca Sandri, così placido proprio perché così inquieto) e quello di sua sorella Maria, che ha perso la testa per quel fannullone del Camisasca (un Filippo Lai che splende di quel groviglio di prorompente impulsiva immaturità, proprio del suo personaggio). Atteggiamento che, per l’ottimismo della Brasca, proprio perché così vago nel decidersi a trovare focalizzazione su un lavoro, é espressione del fatto che può farli tutti. Mica come suo cognato, l’ Angelo,  che “non era difficile capire che più che meccanico non sarebbe mai diventato!“.

Luca Sandri (Angelo), Marina Rocco (Maria Brasca) e Mariella Valentini (Enrica)

Dopo la proiezione del docufilm “Scarrozzanti e spiritelli – 50anni di vita del Teatro Franco Parenti” alla Festa del Cinema di Roma 2023 e la messa in scena qui a Roma di una selezione di spettacoli prodotti dal Teatro Franco Parenti per condividere con la Capitale i festeggiamenti dell’evento (“Il delitto di via dell’Orsina” di Eugène Labiche per la regia di Andrée Ruth Shammah; “Farà giorno” di Rosa A. Menduni e Roberto De Giorgi per la regia di Piero Maccarinelli e “Sulla morte senza esagerare” per la regia di Riccardo Pippa) con “La Maria Brasca” di Giovanni Testori – regia di Andrée Ruth Shammah – si chiude il ciclo di spettacoli selezionati dalla Shammah per onorare i festeggiamenti, qui a Roma, dei 50anni di vita del Teatro Franco Parenti, nonché del centenario di Giovanni Testori.

Spettacoli – anzi “storie da condividere”, come ama definirli la Shammah – che sanno parlare ancora al pubblico di oggi, anche perché storie legate tra loro dall’indagine di quei passaggi di testimone, che la vita ci invita ad attraversare e che spesso sono zone di confine che si possono vivere quali fertili occasioni d’incontro, piuttosto che di separazione.

Luca Sandri (Angelo), Mariella Valentini (Enrica), Marina Rocco (Maria Brasca) e Filippo Lai (Romeo)

Un’esperienza di feconda condivisione, questa con la Capitale, voluta fortemente dal generoso umanesimo di cui Andrée Ruth Shammah sa farsi autrice e ambasciatrice. Un inno alla Vita, il suo, e quindi un inno al Teatro, che ha commosso, divertito ed entusiasmato il pubblico romano.

Non c’è niente da fare: nella Casa del Teatro del Franco Parenti si respira davvero la Vita.

Andrée Ruth Shammah, suo figlio Raphael Tobia Vogel e Franco Parenti


Recensione di Sonia Remoli



Recensione dello spettacolo L’ UOMO CHE VOLO’ OLTRE SE STESSO di e con Giuseppe Manfridi – regia di Claudio Boccaccini

TEATROSOPHIA, dal 17 al 19 Maggio 2024


Quanto bisogno abbiamo – per natura – di essere visti e letti dagli altri, commentati e quindi oggetto di un loro racconto?  

Quanto bisogno abbiamo di essere ricordati per qualcosa di unico e quindi deviante dalla normalità?

Quanto ci fa sentire davvero vivi tutto questo?

E cosa succede invece quando si verifica un deficit di vitalità e quindi di visibilità, preda di quell’ “autunno del nostro scontento” che ad esempio da anni affligge l’indolente e fedele Wakefield e la sua silenziosissima moglie, che sceglie di abdicare anche ai piaceri insiti nel dialogare per rinchiudersi in una muta e fedele osservazione del marito?

Succede che ci s’impoverisce sempre più del nostro potere erotico-immaginativo, finendo per non trovare più le parole per poter definire ciò che davvero desideriamo comunicare, o che sospettiamo danneggiarci. “La sua mente – dice la moglie di Wakefield nel racconto che, del fatto di cronaca, ne fa Nathaniel Hawthorne – s’intratteneva in lunghe e oziose meditazioni che non tendevano a nessun fine o non avevano forza sufficiente per raggiungerlo, i suoi pensieri erano di rado abbastanza risoluti da trovare espressione nelle parole”. E’ quello che succede quando ci si uniforma al sistema dei sistemi, rinunciando a perdere la nostra singolare individualità, le nostre aspirazioni, in cambio dell’essere riconosciuti in una massa di “normalità omologata” .

E il vero danno è che non trovare le parole per dire ciò che ci interessa davvero comunicare – ovvero non ascoltare il nostro demone creativo – fa smettere di esistere i desideri. Perché questo è il potere della parola e quindi della scrittura: far esistere le cose. Se non si hanno le parole per dirle, le cose che pensiamo non trovano realizzazione.

Giuseppe Manfridi (ph@Grazia Menna)

Per questo lo spettacolo che Giuseppe Manfridi costruisce come un gustosissimo gioco per intarsi dinamici, che sanno incastrarsi e insieme lasciarsi liberi di saltare oltre se stessi, risulta prezioso. Anche politicamente, in quanto veicola e rende fruibilissimo il concetto di “comunità”. Che al di là di una perversa vocazione all’omologazione, sa invece accogliere quei preziosi salti, quelle devianze dalla dritta via, che regalano gusto e nutrimento al nostro stare al mondo.

Ce ne parla Wakefield con quella sua “disposizione all’inganno che di rado aveva prodotto effetti maggiori di qualche piccolo segreto che teneva celato” ma che un venerdì di ottobre il suo demone persuade a far si che prenda la forma di un vero e proprio salto lungo 20 anni.

Ce ne parla Bob Beamon con il suo “chi lo sa! “: carma, dalla magnifica apertura ad uno sterminato salto dì possibilità, sussurratogli dal suo demone (racconta Manfridi) e da lui ripetuto come in trance prima di confezionare in 7 secondi un salto lungo 8 metri e 90 centimetri.

Ce ne parlano i piedi scalzi e il pugno in guanto nero di Tommie Smith e John Carlos, rispettivamente medaglia d’oro e di bronzo nei 200 metri piani ai Giochi Olimpici del 1968. Salti (ovvero coraggiosi gesti simbolici contro il razzismo) lunghi il tempo della squalificazione dalle gare successive. 

Ce ne parla, facendo un salto di pochi giorni e di pochi metri dal villaggio olimpico del 1968, la mattanza di Tlatelolco nella quale furono massacrati migliaglia di studenti con le loro famiglie per aver osato chiedere pacificamente il rispetto dei loro diritti.

E ce ne parlano ancora altri interessantissimi personaggi della letteratura, che la magia di Giuseppe Manfridi andrà a contattare.

Giuseppe Manfridi (ph@Grazia Menna)

Questo racconto dei racconti intessuto da Giuseppe Manfridi  ed interpretato – sotto il cesellante sguardo registico di Claudio Boccaccini – con una complicità fascinosamente dotta, predispone il pubblico a gustare la succulenza dell’enunciazione del ricamo di storie, che si dispiegano richiamandosi incredibilmente tra loro, in un intendersi di analogie.

La speciale sinergia artistica che si sprigiona tra Claudio Boccaccini, Giuseppe Manfridi e Antonella Rebecchini – estrosa autrice delle immaginifiche installazioni sceniche – è tale da riuscire a far “volare oltre se stesso” questo fantastico spettacolo.

Claudio Boccaccini

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Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo QUESTO E’ IL TEMPO IN CUI ATTENDO LA GRAZIA – da Pier Paolo Pasolini – regia di Fabio Condemi

TEATRO VASCELLO, dal 14 al 19 Maggio 2024

Gabriele Portoghese

E’ il nostalgico rammarico di un paradiso perduto: “Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?”.

Condizione esistenziale che – osservando la poetica installazione scenografica sul palco del Teatro Vascello – potrebbe essere tradotta anche così:  “ Perché realizzare una nascita (all’esterno) quando è così bello restare dentro la propria madre e sognare, da lì, la vita che si potrebbe realizzare (all’esterno)?

E infatti dentro un utero di terra, sulla cui sommità spuntano lunghi ciuffi d’erba profumata, si rotola beato il feto di Pier Paolo Pasolini (reso con santa e realistica plasticità da Gabriele Portoghese).

E sotto un caldo cielo notturno, un coro di grilli annuncia la sua imminente venuta al mondo.

Un sole di provincia e il pianto dei salici gli danno il benvenuto, una volta avvenuta la separazione dal corpo materno. 

Gabriele Genovese

E come in un gioco con la palla, il neo-nato passa di mano in mano, di braccia in braccia. Finché non arrivano “quelle” braccia: inconfondibili. Come il bianco seno che custodiscono e che si slaccia per offrirsi alla sua piccola bocca. E proprio da lì, epifanicamente, “lo sguardo” del neonato incrocia quello di sua madre. Anche il coro di cicale ne resta folgorato. E tace. 

Passano gli anni e in una sera di profonda estate – sulle note di una canzone di Claudio Villa – il piccolo si ritrova a “incollare il suo sguardo” sui suoi genitori, ”alleati in un abbraccio”  danzante.  Sotto un cielo di fuochi d’artificio premonitori di traumi, il piccolo continua a seguire con lo sguardo i suoi che ora s’infuocano in un abbraccio “senza pudore e senza malizia”.

Slacciatosi infine dalla moglie, il padre sente improvvisa la premura di andare, ora lui, “a guardare” il figlio. E lo invade un moto incontrollabile di stizza: quello che si può nutrire verso un edipico rivale in amore. 

Ma cosa significa “vedere” ? Cosa si cela dietro al desiderio di vedere? E che cosa può succedere quando prende il sopravvento il desiderio di non voler vedere ?  Quale croce e quale delizia si annidano nei nostro occhi, nel nostro sguardo ? Quanto ad esempio l’odore (ovvero gli occhi dell’olfatto) di questo edipico prato verde  torna ad abitare e a chiudere la vita e le opere di Pasolini ? Quanto lo sguardo di chi ci getta al mondo genera anche il nostro destino ?  

“… In ogni punto in cui i tuoi occhi guardano è nascosto un Dio.
E, se per caso non c’è, ha lasciato lì i segni della sua presenza sacra:
o silenzio o odore di erba o fresco di acque dolci.
Eh sì: tutto è santo! Ma la santità è insieme una maledizione.
Gli Dei che amano in un tempo stesso odiano…”.

Gabriele Portoghese

La narrazione poetica ricostruita da Fabio Condemi é carica di quella quotidiana ignara bellezza che sola può esprimere il sacro della realtà. E procede attraversando una selezione di sceneggiature del corpus pasoliniano – necessarie allegorie per la comprensione della realtà – capace di regalare vita ad un’insolita ed affascinante “biografia poetica” sul poeta friulano.  

Una lettura del corpus scenografico che viene analizzato – proprio com’era nello stile del folgorante insegnamento dello storico dell’arte Roberto Longhi – attraverso un accurato “sguardo sui particolari” dell’opera stessa. 

Longhi era solito avvalersi di diapositive per inquadrare – non solo visivamente – quei dettagli, quei frammenti così preziosi per cogliere il valore di un’opera.  Qui Condemi – che per la drammaturgia delle immagini ama avvalersi del sapiente estro di Fabio Cherstich – traduce l’eredità delle diapositive con delle brevi “proiezioni-apparizioni” che orientano lo spettatore nell’indirizzare lo sguardo su quei particolari della narrazione drammaturgica capaci di rivelarne la cifra dell’originalità. 

Gabriele Portoghese

Gabriele Portoghese è un incantatore: la sua meravigliosa e feroce capacità istrionica costruita su calibratissimi dettagli riesce a mettere a servizio del testo il corpo e la voce con una disponibilità, direttamente proporzionale al potere calamitante che esercita su chi lo ascolta. Che si lascia stringere in una morsa d’attrazione, fino alla fine dello spettacolo.


Recensione di Sonia Remoli


Recensione dello spettacolo 1 PERSONA – scritto e diretto da Matteo Pantani

ARTEMIA CENTRO CULTURALE , dall’11 al 13 Maggio 2024

Eccomi qua
Sono venuto a vedere
Lo strano effetto che fa
La mia faccia nei vostri occhi
…”

Cosa c’è dentro la “valigia dell’attore” ?

Più precisamente, cosa tende a sfuggirci quando la valigia si apre ?

Cos’è cioè quel qualcosa che resta un po’ al buio, poco illuminato, tanto che può risultare utile una  piccola torcia per  inquadrarlo ?

Insomma, cosa fa sì che valga la pena fare l’attore ? Essere “1 persona”: perché così veniva chiamato dai latini l’attore. Che poi equivale a dire: cosa dà un sapore irresistibile alla nostra vita rendendoci unici, irripetibili, speciali ?

Elena Biagetti

Che cosa ci rapisce, ci seduce, fino a renderci prigionieri di un autentico desiderio? Che cosa sentiamo che ci manca così tanto da diventare un’esigenza vitale ? Perché questo è un autentico desiderio, non quelli che ci vengono spacciati come bisogni dalle strategie di marketing dei social o dei media.

Che cosa ci affascina dell’Arte intesa in tutte le sue espressioni – in particolare nell’arte teatrale – se non la stupefacente sensazione di farci sentire liberi ? E quindi vivi, realizzati? Al di là dei soldi.

Questo accattivante spettacolo scritto e diretto da Matteo Pantani e interpretato dalla caleidoscopica Elena Biagetti  è una sagace applicazione del metodo socratico della maieutica. Una forma di comunicazione  –  nello specifico un dialogo – che ci porta ad essere consapevoli delle nostre capacità, così da indirizzarle verso la nostra “vocazione” di vita. Sentendo il piacere di dedicare il tempo che ci è concesso a conoscere davvero noi stessi. Conoscenza che ci rende liberi. Una sensazione dall’effetto stupefacente: l’unica dipendenza che ci rende longevi.

Elena Biagetti

Lo spettacolo si apre infatti con un momento di  profonda insicurezza da  parte dell’attrice sulle sue capacità di riuscire ad interpretare efficacemente il testo tagliato su misura su di lei come un abito – anzi come una seconda pelle – dal suo autore e regista.

Dubbi, quelli dell’attrice – ma in generale quelli che capita di vivere per i più svariati motivi a ciascuno di noi in alcuni momenti della nostra vita – da non mettere a tacere perché in realtà preziosissimi per conoscere noi stessi  e vivere con il piacere di sentirci davvero realizzati. 

Interrogandoci, appunto, e verificando se quello che abbiamo il dubbio di fare è una direzione che non ci appartiene ma che subiamo perché condizionata da altri o invece è solo un timore che vela un grande desiderio tutto da scoprire. Un desiderio così solleticante, così vivo e vibrante da averne quasi paura.

Perché l’attore ha il dono di riuscire a vestirsi e a svestirsi della pelle di volta in volta diversa di ciascun personaggio. Come la Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto è sempre disposto a mettersi a nudo di se stesso per poter indossare tutti i vestiti (stracci) dei vari personaggi che gli si chiederà di far propri, per un periodo. E che scoprirà non essere mai così lontani da se stesso.

Elena Biagetti

E anche tutti noi ogni giorno, senza esserne consapevoli come un attore, mettiamo sulla scena della nostra vita tutti i vari personaggi (identità) che danno forma alla nostra personalità.

Nel corso dello spettacolo sarà l’autore-regista  a far “partorire” nell’attrice la consapevolezza di aver scelto – e di continuare ancora a voler scegliere – la voglia di desiderare: quel senso di vuoto, propedeutico alla ricerca di qualcosa che può colmarlo, almeno in parte.

Uno spettacolo accuratissimo in ogni dettaglio: dal testo, alla direzione attoriale, al sapiente uso delle luci e delle ombre, ai sottotesti scenografici. 

Uno spettacolo che rende divertente per lo spettatore muoversi tra i vari significati che rendono la nostra vita così complessa ma anche così maledettamente viva. Interessante. Libera.

Una vera opera d’arte.

Venere degli stracci” di Michelangelo Pistoletto

“…E allora eccoci, siamo qua
Siamo venuti per poco
Perché per poco si va
E c’inchiniamo ripetutamente
E ringraziamo infinitamente
…”


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo ULTIMI CREPUSCOLI SULLA TERRA – liberamente ispirato all’opera letteraria di Roberto Bõlano – regia e drammaturgia di Fabio Condemi

Quanto ci piace “vederci chiaro” nelle esperienze della vita?

Quanto è importante raggiungere questa condizione per poter alimentare in noi la sensazione di tenere tutto sotto controllo? 

Fabio Condemi

Lo sguardo registico di Fabio Condemi intorno alla poetica di Roberto Bõlano sembra venirci incontro su questa esigenza esistenziale, che più o meno tutti ci accumuna. 

E con la complicità artistica di Fabio Cherstich – che ne cura le scene, la drammaturgia delle immagini e i costumi – ci immerge fin da subito in un habitat minimalista, frammentato e iper controllato che si avvale della sinergia delle temperature offerte dalle tecniche cinematografiche. 

Infatti, non solo in proscenio campeggia una macchina per la ripresa, ma la rappresentazione che si dà sulla scena viene riprodotta in diretta su un maxi schermo. Così da avere la possibilità di “leggere” la narrazione attraverso (almeno) altri due diversi sguardi: uno in primo piano e l’altro in campo medio-lungo. E laddove necessario anche in soggettiva, per entrare ancora di più nel punto di vista del personaggio. E perché “leggere è sempre più importante che scrivere”.

Rigorosamente “a vista” sono i contributi della drammaturgia delle luci e delle ombre. Affascinanti, calibratissimi effetti sanno rendere efficacemente il movimento emotivo, così come il muoversi nello spazio e nel tempo.

Ma, al di là di ogni lettura, il mistero connaturato alla vita resta, resiste. Sfugge all’umano controllo. E si dà in tutte le sue contraddizioni.

Ecco allora che da questo impianto dalla lucidità vivisezionante Condemi lascia emergere quello sguardo insieme feroce e lirico proprio del corpus poetico di Bõlano. E lo fa intrecciando quattro testi: Consigli di un discepolo di Jim Morrison a un fanatico di Joyce; 2666; Puttane assassine e Chiamate telefoniche. Dove – con acuto taglio registico – svela e cela il labirintico darsi di quelle che sono le ossessioni e i temi ricorrenti del grande autore cileno: la letteratura, la violenza, l’amore e il sesso.

Dove il bene e il male, la legge e la sua evasione, il deforme e il quotidiano, la storia e la letteratura, la realtà e la finzione, il comico e il tragico, il gioco e l’agonia si mescolano, si sovrappongono, si nascondono, per poi riemergere. Mostrando così ogni sfaccettatura, ogni possibilità: senza remore, senza paura, mettendo al centro di ogni cosa il linguaggio, la fantasia. 

Perché così è la vita.

“La violenza, la vera violenza, non si può fuggire, o almeno non possiamo farlo noi, nati in America latina negli anni Cinquanta, noi che avevamo una ventina d’anni quando morì Salvador Allende”.

E’ questo tipo di mistero che interessa molto Bõlano. E la verità che rincorre è quella che prende forma dalla costruzione del suono delle frasi. A lui interessa l’inafferrabile, il punto in cui l’onirico incrocia il reale, l’attimo in cui la vita è attraversata dall’incubo e subito dopo raggiunta da un attimo di dolcezza.

Gli attori sulla scena –  Anna Bisciari, Lorenzo Ciambrelli, Federico Fiocchetti, Vincenzo Grassi, Sofia Panizzi, Eros Pascale  – sanno rendere con vibrante espressività e generosa accoglienza i personaggi di Bõlano, così complessi e insieme così necessariamente incompleti, per riuscire ad essere pronti a dare forma ad altre possibilità. E’ la violenza delle cose inespresse, delle realtà eventuali.

Uno spettacolo potentemente crepuscolare che ci permette di addentrarci nella mente pirotecnica di uno dei più grandi autori del Novecento, che ci rivela che proprio nel mistero, nel non sapere, nel non comprendere, c’è tutto quello che occorre per andare avanti.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo CANTO ALLE VITE INFINITE – Progetto Terra mater matrigna – di e con Elena Bucci

TEATRO BASILICA, dal 3 al 5 Maggio 2024 –

E’ un moto di ricerca che nasce da una sensazione di esilio.

E’ il grato rammarico di aver tradito le proprie origini e l’eroica malinconia che accompagna un tornare. Solo ora capace di cogliere, recuperare e quindi tradurre ciò che prima risultava inassimilabile.

E’ un processo alchemico di separazione, di cottura e quindi di purificazione.

E’ il raggiungimento di quel “libero uso del proprio” – che passa per l’attraversamento degli opposti – di cui parla Friedrich Hölderlin.

E’ poesia di greca e di dantesca memoria: un nostos e un itinerarium mentis ad matrem novercam.

Elena Bucci

Ma per accedere al cancelletto – ricoperto di fedele edera – a custodia dei sottilissimi confini tra presente e passato, tra vita e morte,

occorre vestirsi di buio. E farsi buio.

Occorre girare su sé stessi fino a rischiare di perdere l’equilibrio.

Occorre rendersi flessibili e quindi disponibili ad accogliere tutto come “canne al vento”.

Allora ci si ritrova trasformati in creature volatili capaci di alzarsi da terra e di tornare ad ancorarsi, questa volta con la prensilitá di artigli. Fino a riuscire a giocare a stare su una zampa sola. 

Così ci si dà Elena Bucci, stregata e poi complice della Luna, parlando la magia del canto. Resiliente ad una luce satinata che cela il troppo per poter aprile lo spettro cromatico (la cura delle luci è affidata a Loredana Oddone). Il suo corpo ora sa usare le ginocchia per sostenere il peso del passato, i piedi per aderire alla terra e da lì potersi librare. Le sue braccia sanno prendere la forma più adatta a reggere il peso della tradizione per poterlo lanciare in una trasformazione.

Christian Ravaglioli e Elena Bucci

E la sua voce: gracchiante e insieme così modulante; graffio e balsamo. Contrappuntata dalle musiche originali di Christian Ravaglioli al pianoforte e alla fisarmonica. E dalla drammaturgia del suono di Raffaele Bassetti.

Christian Ravaglioli e Elena Bucci

Solo così le è permesso sfogliare la sua storia e la storia della sua Terra come fossero pagine di un libro. Solo così le è permesso dialogare e riconciliarsi con i fantasmi delle vite infinite che hanno dato forme diverse alla sua esistenza.

E fare la pace, perdonare, accogliere avendo misericordia. 

Perché lei ora sa di aver fatto e di continuare a far del bene con il Teatro.

Perché il suo teatro affronta argomenti che l’informazione giornalistica stenta ad affrontare.

Perché quella della Bucci e della sua compagnia Le Belle bandiere é la vocazione a portare in salvo quella molteplicità di specie umane, artistiche e linguistiche a rischio di estinzione. O di divisione.

Christian Ravaglioli e Elena Bucci

Perché “la bellezza è nella molteplicità: lì il suo mistero”.

Un diluvio di applausi cade su questo mirifico viaggio. Che lo accoglie pienamente.

Elena Bucci


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo CHI COME ME di Roy Chen – regia di Andrée Ruth Shammah

TEATRO FRANCO PARENTI, dal 5 Aprile al 5 Maggio 2024

Andrée Ruth Shammah ci invita a salire a bordo della sua nave – la nuova sala A2A – e un po’ come il Prospero shakespeariano fa scoppiare una tempesta. 

Che non colpisce solo gli interpreti in scena. No, coinvolge anche noi del pubblico. Perché siamo tutti nella stessa barca: qui si parla della vita e di come possa essere desiderabile anche la morte.

E’ naturale – come ama ricordare Roy  Chen autore di questo appassionante e commovente testo – che la vita sia abitata da conflitti, da tempeste. Ma tutti noi sappiamo che possiamo contare sul “dialogo”: quel movimento che fa sì che due (o più) persone si lascino attraversare dal potere della parola. 

Roy Chen

Quel movimento che fa “incontrare” due (o più) singolarità che scoprono di preferire alle proprie ragioni rigidamente individuali quelle che nascono dall’incontro con le ragioni dell’altro. Perché il dialogo è il linguaggio della “relazione” e renderla possibile è lo scopo della nostra esistenza, qui in questo mondo. Perché solo attraverso la relazione ci riveliamo “creatori” e quindi artisti del vivere quotidiano. 

Misurare il nostro spazio vitale, definirlo rigidamente, ci regala l’illusione di sentirci sicuri e quindi forti. Ma in realtà ci rende “poveri”, sterili, proprio perché “separare” non genera vita, non fa nascere alla realtà cose nuove. 

Sala A2A

Di questo ci parla la postura con la quale ci accoglie questa sala: la A2A il cui nome è un omaggio allo sponsor che ha permesso l’ultima trance dei lavori.

Una postura che ci commuove: regala una scossa ai nostri individualismi e li fa crollare. Questa sala è così bella – una vera “figata” – perché così può essere la vita, se ci ricordiamo che siamo tutti sulla stessa barca e che “insieme” si ottiene molto di più che custodendo “da soli”, sterilmente, i nostri confini esistenziali. 

Non si poteva trovare modalità migliore, forse, per ricordarci “chi siamo”. E che per scoprirlo abbiamo bisogno di stare “insieme” agli altri, così diversi da noi e proprio per questo così preziosi per noi. 

Perché “la libertà non si definisce, si testimonia”, sosteneva Vitaliano Trevisan

Vitaliano Trevisan

Qui siamo nel libro di Roy Chen. 

Qui siamo nel libro della vita. 

Questa è la prossemica che possiamo tenere per essere “ricchi”, per essere “forti”: la prossemica del mescolarci, dell’incuriosirci compassionevolmente dell’altro. La cui diversità ci parla anche di noi e ci permette di amarci. E di avvicinarci al miracolo del “perdono”: ciò che resta di una “tempesta”, non solo shakespeariana.  Ciò che resta di un conflitto. 

La diversità è tra noi: non a caso il reparto di igiene mentale nello sguardo registico ed esistenziale della Shammah non resta confinato sul palco ma ci raggiunge in platea. E ci contamina fertilmente. L’allestimento scenico é curato da Polina Adamov.

La sala A2A

La diversità è in noi: ciò che notiamo nell’altro, in qualche forma, è anche in noi. E’ quello che consideriamo il nostro peggio e con il quale ci guardiamo bene di venire in contatto, mantenendo accuratamente le distanze, rinforzando i confini. Indossando maschere.

Invece è lì, in quella stranezza, in quel “difetto” provocato in noi da “una ferita” che ci ha segnati, che si nasconde qualcosa capace di generare cose meravigliose di noi. 

Sa parlarne con sapiente fascino la nuova edizione di “Elogio dell’inconscio. Come fare amicizia con il proprio peggio” di Massimo Recalcati (Castelvecchi). 

Più forte però è la tentazione a vergognarci dei nostri “difetti”: allora rinforziamo i nostri confini per delimitare la stranezza, per non farla uscire da lì. Addirittura riusciamo a dimenticarla. Convincendoci – e impegnando tutte le nostre energie a convincere anche gli altri – del contrario. 

Ecco allora l’importanza di allenare invece quell’ abilità – che tutti noi possediamo – del chiederci e del chiedere “Chi come me”.

Abilità al cui “sboccio” partecipiamo attraverso questa stupefacente rappresentazione teatrale. Che in verità è la semplice ed autentica riproposizione di qualcosa che è realmente accaduto all’autore del testo Roy Chen nel 2019: quando fu invitato a partecipare ad una lezione di teatro nel reparto giovanile di un centro di salute mentale di Tel Aviv. 


In scena – anzi tra noi – 5 splendidi adolescenti “diversi” con la freschezza e la grazia del loro essere ragazzi e con la pesantezza di essere diventati precocemente adulti. Sono interpretati da intensissimi attori esordienti (dai 14 ai 21 anni): Amy Boda, Federico De Giacomo, Chiara Ferrara, Samuele Poma, Alia Stegani.

Sono ragazzi che hanno la fortuna di essere guardati con meravigliosa attenzione dallo psichiatra direttore del reparto ( un appassionato Paolo Briguglia) che ogni mattina prima di svegliarli si prende un attimo: “ode” i loro respiri quando dormono e li trova la più ammaliante delle sinfonie. 

Paolo Briguglia e Federico De Giacomo

Desidera essere inserito – e quindi incluso, accettato – nei loro respiri: non tanto nelle loro menti. Perché il respiro è qualcosa di più profondo: regge la vita alla base. E più in alto, regge anche architetture senza le quali stenteremmo a pensare.

E parla di loro all’insegnante di teatro, la signorina Dorit (una commovente Elena Lietti), con l’incanto di “chi sa che sono come noi”. Ma con un contrappunto di Seriquel, Helydol, Prisma e Ritalin.

Sarà l’azione sinergica della cura dello sguardo e dell’ascolto poetico dello psichiatra mescolati all’erotica della didattica teatrale della signorina Dorit a produrre rigogliosi frutti nei 5 ragazzi, nonostante le non sempre favorevoli “condizioni atmosferiche”.

Elena Lietti

Perché efficaci nel lasciare il proprio segno sono quegli insegnanti che con il loro stile hanno la “capacità di immedesimarsi” rendendo possibile l’esistenza immaginifica di nuovi mondi. Riattivando così quel desiderio capace di accendere la vita e di allargarne l’orizzonte. Solo in questo modo ad ogni diversità sarà restituita la propria singolare bellezza.

Perché se è vero, come è vero, che l’empatia è importante, lo è ancor di più che non diventi un pretesto per imporre il proprio sguardo. Errore nel quale possiamo avere la tentazione di cadere noi genitori. Che infatti non possiamo non trovare qualcosa di nostro nella varietà degli atteggiamenti dei genitori di questi ragazzi, tutti interpretati con viva maestria da Sara Bertelà e Pietro Micci.  Perché i legami che durano nel tempo sono quelli che si fondano sul riuscire ad amare l’altro proprio in quanto diverso da noi.

Pietro Micci e Sara Bertelá

E intanto, superata la tempesta, qualcosa è successo.

Perché scendendo dalla nave (la nuova sala A2A) si ha una strana voglia: quella di non voler essere poi così normali. 

Il teatro contagia, per fortuna. E cura le nostre preziose fragilità.

E finché ci saranno urgenze che prenderanno forma attraverso regie di così profonda testimonianza, avrà ancora “sapore” il nostro stare al mondo.

Grazie Andrée Ruth Shammah: “randagia dello spirito”.

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CHI COME ME

di Roy Chen

adattamento, regia e costumi di Andrée Ruth Shammah
traduzione dall’ebraico Shulim Vogelmann

con in o.a. Sara BertelàPaolo BrigugliaElena LiettiPietro Micci
e con Amy Boda, Federico De Giacomo, Chiara Ferrara, Samuele Poma, Alia Stegani

allestimento scenico Polina Adamov
luci Oscar Frosio
musiche di Brahms, Debussy, Vivaldi, Saint-Saëns, Schubert … e Michele Tadini

assistente alla regia Diletta Ferruzzi
assistente allo spettacolo Beatrice Cazzaro
consulenza vocale Francesca Della Monica
direttore dell’allestimento Alberto Accalai
direttore di scena Paolo Roda
elettricista Domenico Ferrari
fonico Marco Introini
sarta Marta Merico
scene costruite da Riccardo Scanarotti – laboratorio del Teatro Franco Parenti
costumi realizzati da Simona Dondoni – sartoria del Teatro Franco Parenti
gradinate costruite da Pietro Molinaro – Scena4
Si ringrazia Bianca Ambrosio per averci fatto conoscere Roy Chen

produzione Teatro Franco Parenti

rassegna La Grande Età, insieme

Partner culturale

Fondazione Ravasi Garzanti

In collaborazione con

RINASCENTE

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Recensione di Sonia Remoli