E’ il canto della continua meraviglia di un giorno qualsiasi, dove la fantasia riesce a incontrarsi con la quotidianità. Fino a sintonizzarsi con essa.
E’ la magia che accompagna la ricerca dell’entrare in relazione con l’altro da noi, proprio lì: sul confine che vorrebbe separarci. Quel limite che può essere anche un favoloso luogo d’incontro. Di sintonia.
Quanto può rivelarsi avventuroso “un riparo”, un luogo rassicurante e protetto come la propria camera?
Quante occasioni di rapimento entusiasmante vi si possono incontrare? Sono nascoste tutte lì: ai bordi. In attesa di essere trovate. E poi esplorate, fino a farsi trascinare dalla loro magia.
Condizione necessaria per l’avverarsi di questi continui miracoli quotidiani è il lasciarsi cogliere dalla meraviglia: qualità dell’occhio e del cuore capace di coinvolgere una persona nella sua interezza, totalizzandola. E facendole intuire, con complicità, il suo posto nel mondo.
La meraviglia è una luce che nasce dal buio, dal silenzio così come dal tumulto. Nasce dai vortici del vento, dall’opacità della nebbia, dallo scatenamento delle tensioni che precedono un temporale.
Nasce nell’orecchio, prima ancora che nell’occhio.
Nasce dal rendersi “permeabili” allo scambio osmotico del confine tra la realtà e la fantasia, tra il mondo della logica e quello dell’illogico.
Nasce dal lasciare aperte “le porte e le finestre” dei nostri confini epidermici, permettendo di essere “attratti” da altre forze (da altre mani) che permettono ad esempio ad un oggetto di essere tante cose e non una sola.
La meraviglia nasce dal restare stregati dalla Luna. Da “Luz de luna”.
La meraviglia è una magia che può incantarci al di là delle parole, al di là dei codici logico-linguistici che definiscono le identità (gli oggetti, le persone, gli animali) separandole dalla ricchezza delle loro contraddizioni, dal loro essere tante cose insieme.
Tutto lo spettacolo è una continua seduzione. E lo spettatore di qualsiasi età entra nel gioco narrativo che concerta il mondo del Circo con quello del Teatro e se ne lascia trasportare. Stregato dalla “luce della luna”, che fa saltare i confini della scena: tutto respira, tutto è permeabile, tutto è a vista. E’ la magia del “circo di creazione”, di cui questo spettacolo è un favoloso esempio.
I limiti sono aperti, fruibili. Tutto si muove, dondola, oscilla. E si lascia oscillare.
Anche il corpo della protagonista (una quotidiana e divina Fabiana Ruiz Diaz) diventa di una plasticità mimica stupefacente. Le sue esplorazioni, le sue acrobazie aeree sono sintonizzate con tutte le sfaccettature del suo vivere, dove gli oggetti della quotidianità si liberano della patina dell’ovvietà per divenire anche altro. In una continua esplorazione, in una continua creazione di possibilità.
Non esistono separazioni tra essere animati e inanimati. Tutto pulsa, tutto batte, tutte vive e vibra. Anche i piedi parlano un loro linguaggio e si lanciano in un corteggiamento. Cercano un incontro per entrare in relazione. E sintonizzarsi. Gli stessi corpi si fanno continuamente “veicolo” verso altri corpi. Ed è così che la fantasia si libra sulle ali di corde e mantegni, sapientemente manipolati da creature meravigliosamente ibride.
“Luz de luna” è uno spettacolo avvolto da una magia delicata, gentilmente contagiosa: in equilibrio tra spavento, eccitazione ed estasi.
“Luz de luna” è uno spettacolo cortese e stimolantemente ardito: che apre i nostri sensi e le nostre menti alla libertà. Non quella miope, bensì quella che sa guardare oltre se stessi. Quella che si può assaporare solo “insieme”.
“Luz de luna” è uno spettacolo “politico”, che incanta lo spettatore nel testimoniare come vi può essere libertà solo se fondata sul rispetto e sulla curiosa attenzione verso la diversità degli altri: affascinanti confini da esplorare, per allacciare una rete di collaborazioni spettacolari.
Sono un’amplificazione tridimensionale del loro significato.
Sono la sua eco.
Ma non solo: lui stesso si fa eco, distorce e si distorce, altera e si altera, deforma e si deforma, risuona ed è risuonato, è armonia e corrispondenza semantica. Si rende suono, si fa udire, si rende palese.
E’ un concerto.
“Volete ascoltarmi ?”.
Questo il suo esordio: la sua proposta.
La condizione affinché ci sia “teatro”.
La condizione affinché Jago possa esistere. Perché prestargli attenzione significa riconoscergli un’identità: la sua, quella autentica. Non come ha fatto Otello.
Si rivela a noi come ad un cielo abitato da stelle: noi spettatori.
Seducentemente si confida: sa come usare le attese, i vuoti. E nel farlo ci fornisce come delle inedite “note di regia”.
Perché Jago ha un autore, sì, ma poi si fa regista, attore e spettatore.
Entra in scena: la luce lo bagna appena, con sapienza inquietante.
Si muove di un moto sinuoso, scivoloso, strisciante, quasi una danza. Perché, per far scivolare le volontà dei suoi nemici portandole in un’altra direzione – la sua – lui stesso deve farsi corpo che si lascia plasmare dalla scivolosa seduzione dell’incertezza.
Ondeggia, s’avvita e si svita.
Ansima, difatti: la fatica è notevole ma solo così può temprarsi per resistere e vincere (forse), laddove le sue vittime si lasceranno sopraffare.
Solo così potrà dire: “io ero, sono e sarò”.
Indossa un lungo impermeabile: l’impermeabilità vuole essere la logica conseguenza del suo allenarsi ad essere fluido. Così da non lasciarsi permeare dalla paura, dalle raccomandazioni, dai sentimenti gentili.
Ed è così, in questo continuo processo che abita il suo sottosuolo inconscio, che lo Jago di Roberto Latini stupefacentemente “diviene e contiene” tutti i personaggi della tragedia.
E in un’epifania visivamente sonora, ci rende consapevoli di come loro, ciascuno a suo modo, “sono quello che non sono”.
Rivelazione resa particolarmente mirabile da Latini attraverso l’evocazione di un’immagine che riguarda Otello: “perché vi mordete le labbra – gli chiede sconcertata Desdemona pochi istanti prima di essere da lui uccisa – siete irriconoscibile”. E lui: “C’è una ragione”. Le labbra, qui in Latini, riescono a parlarci di un voler far altro di Otello, di cui resta solo una traccia in quel suo gesto di mordersi le labbra.
Perché “c’é una ragione” che non lo rende libero di essere libero.
Perché “c’è una ragione” che “lo costringe” ad essere libero, in un modo diverso da quello rivelato dal quel mordersi le labbra.
Perché i nostri gesti non coincidono con chi noi siamo, essendo noi un “poter essere”.
Dice infatti anche lo Jago di Latini: “E’ ancora presto. Sono in prova, sono in attesa di scegliere le parole”.
Anche lui, come noi, come i personaggi della tragedia, non è libero di essere libero. Siamo costretti a essere liberi: siamo costretti a scegliere.
Perché “c’è una ragione”: perché c’é sempre una ragione.
Su questa realtà ci illumina, come solo la luce del buio sa fare, lo “Jago” di Roberto Latini.
Una performance, la sua, dove la luce è gesto. E dove il gesto, così come la parola e il suono, incarnano la cifra del “verde”: il colore la cui definizione ha per lungo tempo predato la curiosità degli artisti, tanto indecifrabile si rivelava il suo essere mescolanza fluida.
Uno studio, un approfondimento, un’amplificazione, necessari.
Se è vero che i soldi possono condurci a perdere la percezione di noi stessi e del mondo, l’amore -ovvero quella forza generosa che tiene uniti in relazione elementi diversi – può avere la meglio sul desiderio conservativo dell’avarizia.
Questa una delle sensazioni che arrivano più pervasivamente allo spettatore, complice la traduzione e l’adattamento seducentemente calzanti alla nostra quotidianità di Letizia Russo, sinergicamente congiunti all’ avvincente sguardo registico di Luigi Saravo. Che ne cura (assieme a Lorenzo Russo Rainaldi) con efficace raffinatezza anche le scene, esaltate dalla cromoterapia luminosa di Aldo Mantovani e dal contrappunto sonoro e musicale del compositore Paolo Silvestri.
Se infatti l’avaro è colui che desidera ardentemente ma che poi non è capace di condividere né di essere generoso (e Ugo Dighero ce ne dona uno stupefacente interpretazione), il desiderare amoroso ci parla d’altro: ci parla di “quell’essere governati da quel dolce potere” che conduce quasi a dimenticare se stessi a favore della “relazione”. Ci parla di quel timore di amare troppo – perché non egoisticamente autoreferenziato, né condizionato dal giudizio degli altri – che si palesa solo fuori dalla bolla amorosa. “Quel dolce potere” di cui ci parla qui Elisa (Elisabetta Mazzullo) ma soprattutto Valerio (Fabio Barone) che, come dal primo incontro, continua a salvare dalle onde del destino la sua amata, rendendosi disponibile ad esplorare nuove identità di se stesso.
Qualcosa di ben diverso dal conquistare l’altro “compiacendolo”: un piacere relativo, non assoluto.
E non così distante dall’ambiguo piacere di condividere i nostri selfie: quell’illusione con la quale ci specchiamo, credendo di poter cogliere narcisisticamente l’attimo fuggente.
Decisamente di altra stoffa è “il trasporto all’ aver cura”: una declinazione del desiderare generoso, che nessuno qui può non notare, ad esempio, in Marianna (Rebecca Redaelli). Anche Arpagone ne rimane conquistato, ma ancora una volta solo egoisticamente.
La sua psiche è resa opportunamente da una scena che ne evidenzia i rigidi confini, attraverso mura con le quali l’Avaro delimita esternamente l’infinitezza avventurosa del bosco (metafora della vita) e internamente il sottosuolo del proprio inconscio, riducendolo ad una botola custode del suo unico desiderare conservativo monetario. Resta indifeso però l’Avaro contro l’invasione di ricorrenti allucinazioni di antichi cori “infantili” sull’ambiguo prezzo del “bene”, che lo spingono a trattenere più che ad investire. Immolandosi inconsapevolmente sull’altare del dio denaro, confuso con il “bene”.
Mobili, invece, si plasmano gli spazi in cui tentano di trovare espressione le relazioni umane (molto interessante anche il lavoro sulla prossemica). Spazi a volte resi rassicurantemente troppo limpidi, fino ad una trasparenza che esclude il rischio del con-tatto. E che tanto ci ricorda la rassicurante trasparenza dei nostri schermi tecnologici, spesso solo apparentemente differenti dalle mura di laterizi.
L’avarizia è una “maledizione” – confida Cleonte (Stefano Dilauro) a sua sorella Elisa – che va “spezzata”, disinnescata, traducendola in un desiderio personale fertile, capace cioè di generare autentici frutti, da condividere. Generosamente. Perché – come sosteneva Gilles Deleuze – non c’è niente di peggio che vivere il sogno di un altro, anziché il proprio.
I figli di Arpagone, a differenza del proprio padre, sanno che il desiderio è ossigeno vitale – e che in quanto vitale è spaesante, non rassicurante. E che si cresce solo quando le certezze acquisite vacillano: quando ciò che nel tempo ha reso forte e rigido il nostro “io” viene messo in discussione e chiede un’interpretazione critica personale.
Compiacere gli altri è più semplice: asseconda una nostra innata tensione alla conservazione protettiva. Per di più abdicare al nostro desiderio per realizzare quello di qualcuno a cui teniamo, ci rende amabili. Ma se questa tensione non viene integrata e resa produttiva restando fedeli al nostro desiderio, finiamo per inaridirci asciugando tutta la nostra linfa vitale. Non a caso Valerio dice ad Elisa che l’avarizia del padre rischia di “strangolarla”, così come sta strangolando lui stesso. Perché se è vero che la vita umana ha bisogno di “appartenenza”, è parimenti vero che ha bisogno anche di “erranza”.
Una regia – questa di Luigi Saravo su traduzione e adattamento di Letizia Russo – che trova il giusto equilibrio nel denunciare e nel farsi portavoce propositivo di una necessaria cura per la nostra “educazione sentimentale”.
Uno spettacolo che sa rendere onore alla tradizione, facendosi testimone di un sapere assimilato ma anche rielaborato con spirito critico. Tale da poter essere riproposto efficacemente in tutta la sua necessità contemporanea. Incantevole l’interpretazione di Ugo Dighero, forte della complice coralità di attori carichi di potente espressività, quali Mariangeles Torres, Fabio Barone, Stefano Dilauro, Cristian Giammarini, Paolo Li Volsi, Elisabetta Mazzullo, Rebecca Redaelli e lo stesso Luigi Saravo.
Un ”canto di Natale” che guarda anche i vuoti delle nostre esistenze: buchi nei quali si insinua una pericolosa tendenza nichilistica. E che siamo tentati, ipnotizzati dalle lusinghe di un’economia capitalistica, a riempire con “oggetti” . Che perdono assai velocemente il proprio valore, proprio per poter essere riacquistati in una nuova “versione”, più capace a renderci felici. Cioè tutti uguali. Senza personalità. Numeri di una massa indistinta, docile ad essere gestita da qualcun altro.
Ma c’è il Teatro a prendersi cura di noi: ridando valore al potere della “parola” e a quello dell’ “ascolto”. Poteri indispensabili per “realizzarci” con autentica soddisfazione: incuriosendoci a trovare di volta in volta la maniera più adeguata ad entrare “in relazione” con l’altro.
Che cosa rende una donna così insolita da risultare indecifrabile agli occhi di un uomo ?
La sua ingovernabilità: la donna è l’incarnazione della libertà, dell’estemporaneità, della volubilità.
Caratteristiche poco familiari alla psiche maschile, che per natura si muove con agio nelle categorie della “serialità” , del “fare squadra”.
E quindi se è vero che gli uomini tendono ad assomigliarsi fra loro, le donne sono dotate per natura di una psiche che le spinge invece ad essere ognuna “unica”, nella ricerca della propria espressione della categoria della libertà.
Ma non c’è niente di insormontabile: sarebbe sufficiente incuriosirsi l’un dell’altro divenendo “più elastici” verso le rispettive diversità. Questo il messaggio che fin dall’inizio del prologo lo spettacolo di Gabriela Alejandra Praticò non smette di veicolare. Perché la capacità a “rendersi duttili” è alla base della possibilità di “entrare in relazione” con l’altro: massima realizzazione della psiche umana. Maschile e Femminile.
Invece accade che laddove “la mente” femminile rischia di sfuggire alla decodifica maschile, il messaggio espresso dal suo “corpo” continui ad essere considerato inequivocabile. Certe fattezze non veicolano dubbi e un’impropria concezione della virilità finisce troppo spesso col degenerare in un’appropriazione indebita.
Ma la donna sa inventare continuamente nuovi “habiti” (modi di essere); sa indossare “tacchi su misura” per esplorare se stessa, come suggerito magnificamente dallo stesso nome che la compagnia ha scelto di darsi. E come non manca di ricordarci la vibrante interpretazione degli attori in scena: Lucia Ciardo, Floriana Corlito, Massimo Folgori, Elisa Mascia, Francesca Targa, Matilde Tursi. Una rievocazione di donne, la loro, che in diverse epoche storiche sono riuscite a fare dell’unicità della loro femminilità l’espressione originale della loro libertà. Nonostante siano dapprima passate attraverso la negazione del rispetto loro dovuto, o attraverso il mancato riconoscimento degli effettivi meriti delle loro capacità.
Uno spettacolo immersivo, che rompe continuamente la quarta parete e che – pur denunciando necessariamente atteggiamenti ancora impropri, ma perfezionabili attraverso un’accurata educazione sentimentale – emana una solidarietà, una complicità, un’umanità tali, da non escludere la possibilità di un prezioso coinvolgimento tra uomini e donne.
Uno spettacolo pulito, onesto, propositivo: energico e delicato, rispettoso e valorizzante, capace di “comunicare” attraverso un sapiente uso dei mezzi che il teatro mette a disposizione, senza indulgere nel “giudicare”.
Uno spettacolo che continua a solleticare il cuore e la mente dello spettatore, anche una volta usciti dal teatro.
Il sipario resta chiuso: il “Faust” non può essere rappresentato.
Se ne può parlare, però: Faust può essere analizzato, portando in scena quel che resta del suo condominio psichico. A noi in platea, il compito dell’ascolto terapeutico.
Obiettivo: evocare e rivivificare, attraverso la magia della parola, il diavolo (Mefistofele). Lui, oggi il grande assente, colui senza il quale il “Faust” non può essere rappresentato. Lui: il produttore, l’impresario. Lui, ora il ”rimosso”: colui nel quale nessuno più crede.
Leonardo Manzan
Questa volta Leonardo Manzan, sagace e mordace osservatore della realtà, immagina di portare in terapia il teatro: un teatro nel teatro dell’inconscio.
I protagonisti che manda in scena ricordano i pirandelliani personaggi non più in cerca d’autore, quanto di un produttore. Il loro linguaggio è pieno di figure retoriche, di metafore, di allegorie, di metonimie: di quell’enigmaticità colta e creativamente sporca, propria della lingua con cui si esprime il nostro mondo inconscio. Un mondo del quale non possiamo permetterci di fare a meno, pena il blocco creativo. E quindi la stasi generativa della realtà.
Un mondo che non va separato dal suo partner: la razionalità. Faust e Mefistofele hanno bisogno l’uno dell’altro: fertile è che tra loro ci sia un patto, una relazione dialettica. Ma Mefistofele è in crisi d’identità e l’autostima – come si sa – è un dono sociale. Che tira in causa anche noi, fruitori del teatro.
I personaggi di Manzan sono “satolli” di razionalità e carenti di vuoti creativi inconsci, necessari a far eruttare il desiderio. E non aria. Anche noi fruitori del teatro siamo un po’ satolli, un po’ indifferenti, e non a caso Manzan solletica il nostro desiderio ponendogli un fecondo limite: la barriera-transenna-censura delle postazioni dei personaggi in proscenio.
Ma soprattutto ci manca da morire l’apertura del sipario, che Manzan sceglie di tenere chiuso, privandoci del sogno. Regalandoci in cambio una mancanza che punge, che ci solletica, che solletica il nostro desiderio di azione, di cambiamento.
Noi uomini, come amava ripetere Hannah Arendt, non siamo fatti per morire ma per continuamente “incominciare”. E un modo per recuperare Mefistofele c’è: incominciando con il liberare l’opera-mondo del “Faust” da tutta l’articolazione monumentale con la quale è stata sapientemente costruita. E ripartire, come fece a suo tempo Goethe, dalla Favola del Faust.
Così come scenograficamente si riparte con un “avanspettacolo”: con un rito collettivo e terapeutico nel quale esce il troppo e si recupera l’essenziale.
Senza il diavolo non si va da nessuna parte: “siamo tutti troppo intelligenti per essere felici!”. L’indole umana vive infatti di antitesi, di contrasti, di contraddizioni vitali.
Ma cosa siamo disposti a fare per essere felici?
Uno spettacolo, questo di Leonardo Manzan – regista la cui cifra si identifica nel suo lavorare per estremi – che con entusiasmo e ironica spavalderia stimola una feconda crisi d’astinenza nello spettatore.
Uno spettacolo godibile attraverso vari livelli di lettura, perché la ricetta del suo “ragout” è variamente stratificata.
Uno spettacolo così curiosamente dirompente, da solleticare anche gli animi più atarassici, più satolli.
C’è qualcosa che rischia di essere spazzato via, di andare perduto.
C’è qualcosa che stiamo privando della sua “eccezionalità”, soppiantandolo con qualcosa di “utile”.
Ma cosa significa “utile”?
Diversamente dall’uso comune che siamo soliti attribuirle, la parola “utile” non allude tanto all’ “usare” e “all’essere usato”, quanto piuttosto al “rendere utile”.
Non si tratta quindi di una furbizia o di una sottomissione, quanto piuttosto di un’attività creativa. “Utile” non è solo una funzione economica ma anche un valore esistenziale, sociale e politico.
“Utile” è ciò che rende fertile qualcos’altro: la qualità della vita personale e comunitaria, ad esempio.
Ma come siamo arrivati a questo punto ?
Com’è che siamo arrivati a buttar via cose, pensando solo alla loro “utilità” economica?
Leonardo Lidi
Anche da queste domande si genera il “Progetto Čechov” di Leonardo Lidi: dalla sua urgenza di erede del passato, che desidera rendere onore alla tradizione. Per poi tradirla sapientemente, al fine di renderla vicina e d’ispirazione per il presente.
Un presente che, come ogni volta accade nei momenti di transizione, ci chiede di non sottrarci all’esigenza di rivalutare le nostre responsabilità, per poter affrontare fertilmente, insieme, i necessari cambiamenti.
Responsabilità vitali che il teatro da sempre – e con sempre nuove modalità – fotografa e racconta, mosso dall’urgenza di affrontarle.
Ecco allora che la penetrante sensibilità di Leonardo Lidi si mette al servizio di un’attiva presa di coscienza su come il passato – anche teatrale – può fornirci delle “utili “idee per affrontare periodi di particolare difficolta adattativa, che ciclicamente si presentano nel corso della storia.
“Il giardino dei ciliegi” regia di Leonardo Lidi
Quello che infatti accade ora ne “Il giardino dei ciliegi” è il risultato di qualcosa che si era già presentato ne “Il gabbiano” , che si era manifestato in “Zio Vanja” e che ora qui, nella terza opera della trilogia, produce i suoi effetti devastanti.
Acutamente Lidi già entrando in sala ci immerge in un’atmosfera scenica “barbarica”: qualcosa è passato a spazzare via quelle sedie che ne “Il gabbiano” erano allineate in fondo alla scena – in un dietro le quinte a vista – dove gli attori sedevano in attesa di entrare in scena.
Ora invece quello che lì era dietro (il futuro) è divenuto qui, ne “Il giardino dei ciliegi”, il presente. Ma gli attori, ognuno con il proprio ruolo e quindi con la propria responsabilità – proprio così come nella vita – hanno tardato ad agire. E ora quello che prima accoglieva la loro attesa è divenuto inaccogliente, visto che nessuno di loro ha considerato “utile” entrare in scena.
“Il gabbiano” regia di Leonardo Lidi
Quel presente che ne “Il gabbiano” era così aperto – e che veniva così ben rappresentato da una scena totalmente libera e quindi disponibile ad essere plasmata – già spaventava assai.
Perché è questo l’effetto che può farci la libertà: può non solo inebriarci ma anche angosciarci
“…Ti senti sola Con la tua libertà Ed è per questo Che tu Ritornerai…”
Lo spazio scenico, allora così ampio, era già un po’ troppo prudentemente vissuto. Ci si accalcava spesso tutti intorno a quella panchina, che ora ne “Il giardino dei ciliegi” scopriremo essere tornata sul fondo, laddove una volta erano le sedie degli attori in attesa di entrare e prendere il loro ruolo nella scena. Non solo teatrale. Per dare voce alla loro interpretazione del presente e quindi alla loro vocazione esistenziale.
“Zio Vanja” regia di Leonardo Lidi
Una prudenza che inizia a diventare terrore in “Zio Vanja” dove gli attori scelgono di muoversi in una scena presente, il cui sguardo è reso miope da un alto muro di legno. Sul quale si desidera aderire, quasi a restarne epidermicamente ed esistenzialmente incollati. Concedendosi giusto lo spazio per mantenere la postura seduta e quella eretta. E pochi passi di libertà.
Un presente “in campo corto”, dove ci si limita alla fisiologia del mangiare e del dormire. Ma soprattutto dove si beve molta vodka. Per mantenere ancora vivo un barlume di ardire in amore.
Ma continuando a restare paralizzati dalla libertà esplorativa offerta dal nuovo contesto storico in mutamento – quello tra 800 e 900 certo, ma così vicino anche al nostro – si finisce per ritrovarsi ancora in attesa di “debuttare”. Ancora alla prova. Anzi: ancora in attesa. Ma non c’è più nulla d’attendere, se non le conseguenze di una difficoltà sempre più atarassica ad affrontare i mutamenti.
Così facendo si finisce col perdere anche la preziosa relazione con la natura. Qui ne “Il giardino dei ciliegi” è impossibile non notare il trionfo della plastica sul legno. Un legno che resta solo come cielo di un passato che, come un deus ex macchina, a volte plana sul presente con le ali della nostalgia.
“Il giardino dei ciliegi” regia di Leonardo Lidi
“Il giardino dei ciliegi” regia di Leonardo Lidi
E quella plastica – apparentemente così economicamente “utile”, così fallace sinonimo di benessere e di democrazia dei consumi – arriva a contaminare anche i tessuti degli abiti di scena, seconda pelle di “habiti”, ovvero modi di fare e costumi etico-sociali. Laddove, infatti, ne “Il gabbiano” sopravviveva la preziosa naturalità del lino, che poi in “Zio Vanja” declina in cotone, qui ne “Il giardino dei ciliegi” diventa il trionfo del tessuto tecnico e quindi sintetico.
“Il gabbiano” regia di Leonardo Lidi
“Zio Vanja” regia di Leonardo Lidi
“Il giardino dei ciliegi” regia di Leonardo Lidi
Della stessa tragica involuzione Lidi ci rende partecipi anche attraverso il riflesso che questa produce sulla recitazione degli attori, sul loro diverso modo di esprimere lo stato di disagio.
Se infatti ne “Il gabbiano” il linguaggio espressivo conservava ancora una fertile malizia, che trovava una particolare forma musicale nei ritmi sostenuti – sebbene tentati dalla fuga nell’irrazionalità dell’assenza dei segni d’interpunzione, così come dei principi della logica- ; in “Zio Vanja” Lidi rende più perturbante l’incarnazione attoriale ed esistenziale spingendola verso un ondivago senso delle parole, esaltato per contrasto da una solida immobilità del corpo dell’attore, che si apre solo meccanicamente ad una rottura dei piani. Quasi burattini nelle mani del fato. Per poi arrivare qui, ne “Il giardino dei ciliegi”, ad assistere paradossalmente a come la paralisi d’azione abbia provocato una rottura quasi totale degli argini tra tragico e comico; tra riso e pianto; tra causa ed effetto. Anche la stessa arte medica ha perso la sua capacità terapeutica. E laddove la conoscenza di se stessi è maggiormente oscura, anche i generi si prestano a scivolare più fluidamente l’uno nell’altro.
“Il giardino dei ciliegi” regia di Leonardo Lidi
E così, quasi come un contrappasso, quella duttilità e quell’entusiasmo che di almeno un pizzico avrebbero potuto superare la paura dei cambiamenti, ora si scatenano in una fluidità indistinta. Che provoca, per reazione, il sorriso ma che, subito dopo, stringe la pancia dello spettatore in un giro di morsa.
Perché una Dunjasa che si ostina a rimanere giovane, rifiutando la responsabilità dei suoi anni racconta molto di noi, della nostra tendenza, ad esempio genitoriale, a farci complici dei nostri figli, più che loro testimoni del segreto di un sano desiderare.
Perché un Lopachin così subdolo ci ricorda il fare tipico da presentatore delle nostre amate televendite.
“Il giardino dei ciliegi” regia di Leonardo Lidi
Perché un First ridotto in sedia rotelle e a sua volta in sedia, ci parla di come anche noi oggi tendiamo a dimenticarci del nostro passato. E, così facendo, non possiamo se non condannarci a ripeterlo. Come provocatoriamente ci invita a cantare Lopachin:
“Ritornerai…
Ritroverai Tutte le cose che Tu non volevi Vedere intorno a te
E scoprirai Che nulla è cambiato
Che sono restato L’illuso di sempre…”
Perché la tensione a non modificarci è innata al nostro corredo genetico, orientato all’autoconservazione.
Perché ad affrontare con coraggio la libertà e i suoi mutamenti si impara. E solo poi, si può trasmetterla.
“Il giardino dei ciliegi” regia di Leonardo Lidi
Ma Lidi inserisce anche un alito di speranza. E lo fa, ad esempio, quando sceglie di ambientare la festa da ballo in un’atmosfera di denuncia e di ribellione, quale quella espressa dalla musica rap. Un genere e una filosofia che abbracciano elementi del rock, dell’elettronica e del jazz, dando vita a nuovi stili e a suoni unici.
Perchè questo di Leonardo Lidi è il compimento di una trilogia capace di “rendersi utile e di renderci utili ”. Grazie al suo spingerci verso una presa di coscienza : quella che precede l’audacia di difendere i valori che ci rendono creativamente umani; quella che ci stimola a cercare in noi e nella vita qualcosa di “utile”, cioè di creativamente interessante.
Perché quando scopriamo qualcosa che ci interessa scopriamo un legame “utile”, qualcosa che ci avvicina a qualcosa, o a qualcuno.
Perché l’interesse è la cifra dell’unione fra noi e tutto il mondo intorno.
Ed è un invito alla partecipazione e al coinvolgimento.
Applausi per “Il giardino dei ciliegi” di Leonardo Lidi
Senza interesse ci si accontenta di vivere in una squallida torre d’avorio, capaci solo di osservazioni distanti e distorte, evitando di calarsi davvero nella realtà per rendersi nodo solido di una rete.
Coerentemente il Teatro di Leonardo Lidi si dà come un teatro di attori inclini a riconoscere preferibile un desiderio di crescita e di testimonianza collettivo, piuttosto che miopemente individuale. Un teatro e uno stile di vita sociale e politico dove ciascuno è consapevole di splendere in quanto parte irrinunciabile di un tutto.
Un Teatro che non smette di divertire, pur non proponendosi mai come un teatro “innocuo”.
Sicuramente qualcosa che ci racconta visceralmente del nostro essere misteriosamente umani. Qualcosa che ha l’irresistibile afrore dell’arcaico sopraffare. Ma anche qualcosa della simbiotica tensione alla completezza, propria di una dimensione mitica. Quell’unità platonica che rendeva gli uomini simili a dei.
Ma quanto, di divino, noi umani siamo capaci a esprimere, a godere, a tollerare?
Quanto il nostro corpo finito riesce ad arginare quella scintilla divina, che tutti ci abita?
Qual è il nostro desiderio più profondo, più viscerale, più erotico ?
Quello di essere guardati, forse.
Perché essere guardati, con continua curiosità, ci fa esistere.
Perché guardare è intrigante non meno dell’essere guardati.
Perché ciò che davvero appaga costantemente la nostra folle scintilla divina, costretta a bruciare dentro i confini di un corpo, è il cimentarsi nell’apprendere l’arte di intessere una partitura di vuoti e di pieni epidermici. E’ l’arte di entrare in relazione con l’altro.
Andrea Baracco
Anche di questo ci parla la bellezza spietata di “Interno Abbado”, un testo di Andrea Baracco sul mistero di essere umani. Un testo che, oltre ad essere cucito sartorialmente come un noir, ci parla hegelianamente di come non ci sia niente di più profondo di quello che appare in superficie.
La cute in superficie e l’Io in profondità raccontano la stessa storia di assorbimento e di termoregolazione.
La cute in superficie e l’Io in profondità rappresentano un complesso àmbito di separazione-unione-comunicazione: con se stessi e con il resto del mondo.
La cute in superficie e l’Io in profondità rivelano i segreti l’una dell’altro: quei segreti sprofondati nel nostro inconscio, spesso propri del vissuto di un organismo, che soffre da così tanto tempo da non poterlo più nascondere.
Baracco cura callidamente anche la regia dello spettacolo e individua in Giandomenico Cupaiuolo l’interprete capace di incarnare e, a qualche livello, sublimare “la summa” delle esistenze interne ed esterne, che abitano questo racconto. Così come il nostro essere gettati al mondo.
Giandomenico Cupaiuolo
Il regista con elegante e tagliente acutezza si avvale poi di un’estensione fisica e metafisica alla “summa” delle esistenze del racconto: il suono di un particolare strumento musicale e la presenza scenica del suo interprete Edoardo Petretti.
Edoardo Petretti
Uno strumento musicale, la fisarmonica, che accende e infiamma l’anima. Ma che da sempre è considerato un pò troppo “pop” e quindi scarsamente preso in considerazione dai compositori classici (fatta eccezione per Čajkovskij , Verdi e pochi altri).
In verità, la fisarmonica è “uno strumento-orchestra” pieno di imprevedibili possibilità. Perfetto, anzi speciale, per questo testo di Baracco che è, tra le altre mille cose, anche un racconto sull’imprevedibilità umana.
Imprevedibilità resa con sapiente follia da un Giandomenico Cupaiuolo che si fa lui stesso “strumento musicale”. Il suo apparato respiratorio, quasi come un mantice, cerca e trova un respiro che riesce a far vibrare la scala delle “voci” delle sue esistenze.
Un respiro che si origina da una sorta di gocciolio: un suono indecifrabile, arcaico, magicamente animalesco ma non lontano da uno schioccare di lingua umano. E che poi si sviluppa attraverso la ricerca di una contrazione e di una apertura estensiva, necessari ad estrarre il potenziale sonoro dalle voci esistenziali che abitano “la summa” dei suoi personaggi. Ne parlano visivamente le sue spalle: “mantice nostalgico, amaramente umano, che tanto ha dell’animale triste…” per dirlo alla G. G.Marquez.
L’ampiezza di registro e di voci utilizzabili, unita ad una grande duttilità nelle dinamiche, nei modi di attacco e di articolazione del suono, fanno delle sue spalle un fulcro di sublime espressività timbrica e ritmica.
L’estro registico di Andrea Baracco è tale da rendere “strumento musicale” un corpo umano e “corpo umano” uno strumento musicale. Lo spettatore ne riceve in dono un incredibile senso di avventura, riccamente denso del brivido della scoperta.
Che cosa sappiamo in fondo di noi?
Siamo più o meno consapevoli di impiegare spesso tutta una vita a tenere a bada certi nostri inquieti slanci “interni”, attraverso “rassicuranti” rituali tra il sacro e il profano (come argutamente suggerisce la messa in scena del regista Baracco). Ma il lavoro di contenimento di una vita può rompere gli argini senza preavviso. E rivelare racconti stupefacenti di noi stessi.
Quel “the dark side of the moon” che può manifestarsi epifanicamente, ad esempio, quando quel certo nostro amore scompare come spuma tra le onde. E, di quello che è stato, non resta nulla nell’aria a ricordarci che siamo amabili perché siamo stati amati.
Quel “the dark side of the moon” che denuda un “interno”, fisico e psichico, imprevedibile. Sguardi e attenzioni, mancati o subiti, che qui ci si illude follemente di recuperare attraverso i mille occhi della pelle dell’altro.
Sono come gocce che si staccano da un liquido comune: è il brano musicale che li introduce a presentarli attraverso questa immagine.
Sono spiccatamente diversi e per questo “esclusi” dalla normalità.
Chissà perché non li definiamo invece “esclusivi”? Forse perché non siamo consapevoli che il loro sapere è precluso ai più; forse perché non riconosciamo in loro un valore prezioso. Insostituibile.
La regista Valentina Ghetti
Non c’è futuro nella separazione, nel diabolico atto dell’ escludere. È nell’inclusione, nell’integrazione, che sta il futuro: un futuro più saggio, più sacro. Al di là dei sussiegosi valori identitari.
La sofferenza – figlia della disattenzione e del non ascolto – “ha scolpito” i loro corpi e le loro menti. Ma loro sanno ancora interrogarsi: sanno chiedersi se un cambiamento sarà davvero possibile. Anche per loro, apparentemente così bloccati, così incastrati.
Si lasciano attraversare dagli stimoli previsti dagli esperimenti in programma: ma lo fanno creativamente. Paradossalmente questa loro “presentazione-esibizione” diventa l’occasione per tenere insieme le loro diversità. Non per continuare a classificarle.
E’ la parola, la prima magia di cui imparano a disporre: è il raccontarsi, tentando di tenere insieme tutto ciò che sfugge verso diverse direzioni.
Poi imparano ad ascoltarsi. Come nessuna delle loro famiglie “illustri” è riuscito a fare: loro “i figli di“, vip del mondo della cultura e della politica. Ma le loro famiglie così esclusive, li hanno inclusi nelle file degli ultimi.
Sono Eduard, il figlio di Einstein; Lucia, la figlia di James Joyce; Rosemary figlia di Joseph P. Kennedy; Giorgio figlio di Edoardo Agnelli; Albino il figlio di Benito Mussolini e Aldo il figlio di Palmiro Togliatti.
Il senso di vergogna – alimentato dai loro genitori – li ha nutriti modificando i loro caratteri fisici e psichici. Un nutrimento cesello di disagio, di condanna sociale.
Perché la vergogna è il sentire del fallimento, dell’errore privato dell’occasione del ritentare. Ancora e ancora. E’ l’inadeguatezza rispetto al proprio ruolo. È molto più dell’imbarazzo: la vergogna tocca corde profonde, identitarie.
Eduard, il figlio di Einstein (interpretato da Alessio De Persio) è un brillante musicista. Intercala i suoi racconti a delle improvvise risate, che hanno perso il confine con il pianto.
Lucia, la figlia di James Joyce (interpretata da Camilla Ferranti) è un’appassionata di danza. Indossa dei bellissimi guanti verdi, fatti di squame: ciò che resta di un abito che lei stessa si era confezionata. Per resistere.
Rosemary, figlia di Joseph P. Kennedy (interpretata da Caterina Gramaglia) è una dolcezza: ogni parte del suo corpo vive di torsioni, riccioli di grazia spettinata.
Giorgio, il figlio di Edoardo Agnelli (interpretato da Dario Masciello) è un tipo stylosissimo e fragilissimo.
Albino, il figlio di Benito Mussolini (interpretato da Leonardo Zarra) è un esperto di arti di difesa personale. La sua insicurezza lo spinge a nascondersi, continuamente.
Aldo, il figlio di Palmiro Togliatti (interpretato da Luca Di Giovanni) è un affascinante intellettuale, rigidamente solitario.
In tutti si sente che sono delle menti decisamente eccezionali. E gli interpreti in scena riescono a renderne liricamente tutta la loro insolita bellezza.
Si chiedono l’un l’altro da quale Paese vengono, loro da sempre esuli dalle loro origini.
Ma attraverso il desiderio di raccontarsi, stimolato dalle diverse occasioni sensoriali, ognuno scopre di non essere solo nella propria diversità ma anche parte di un tutto, di una comunità. “Mi ha fatto bene conoscerti” – si dicono.
L’autrice Roberta Calandra
Nelle “note di sala ” dell’autrice Roberta Calandra e della regista Valentina Ghetti si invita noi del pubblico a osservare scientificamente queste loro reazioni ai diversi stimoli. Ma è impossibile: c’è in loro una poesia che seduce e ti porta a stare “con” loro. Ed è bellissimo. E doloroso.
TEATRO ARGENTINA, dal 26 Novembre al 22 Dicembre 2024
E’ una commossa e spietata analisi dei nostri tempi, quella di cui Gabriele Lavia ci fa dono.
Il suo penetrante sguardo registico-attoriale indaga forse la più complessa delle tragedie shakespeariane, che non smette di raccontarci.
Una regia, la sua, che si dà con l’acutezza che fertilmente accompagna un’indagine semeiotica, che studia i sintomi e i segni della degenerazione in cui può incorrere la natura umana, intesa sia come physis che come psyché.
Ma soprattutto, questa di Lavia, è un’indagine che si appassiona a capire come giungere ad una possibile diagnosi. La cui cura, ci arriva attraverso accorati “a parte”, di spudorata bellezza.
Gabriele Lavia
“La bufera è qui !”: questa la sensazione fotografica che Lavia fa entrare negli occhi dello spettatore al momento dell’entrata in sala. E’ l’insinuarsi della tempesta, molto prima del suo effettivo scatenarsi. Una scena, dove regna la decadenza: quella del regno di Lear, certo, ma anche delle coscienze.
Una scena, luogo non solo fisico ma anche della psiche, dove le sedie tutte rovesciate ci parlano della perdita della loro funzione logica: quella di sorreggere, di accogliere, di far accomodare. Che cosa? Valori, costumi etici.
Dov’è finita l’arte dell’accoglienza dello straniero, del diverso da noi? Dove viene fatto sedere “il bastardo”, il povero ridotto a verme, la figlia sincera, l’amico leale?
L’inconsistenza delle apparenze, dell’ipocrisia, dell’egoismo, del narcisismo – “sintomi” del diffuso prevalere dell’istinto alla sopraffazione – non necessitano della funzione fisica ed etica delle sedie.
Ed è così che Gabriele Lavia inizia a seminare indizi nei nostri occhi, per dirci che è già in atto una tempesta che ha neutralizzato ciò che le sedie rappresentano, rovesciandole: rendendole inutili.
Non a caso lo spettacolo si apre con il Matto che esce da un baule: un luogo che accoglie, proteggendo o celando. Un luogo che conserva, che ricorda. Funzioni proprie della nostra zona inconscia della psiche, che si avvale di un linguaggio diverso da quello fondato sui principi della logica ma altrettanto colto, raffinato, creativamente enigmatico.
E’ il linguaggio sapientemente folle del Matto, che si traduce in musica e in canto. Al pianoforte: oggetto di scena pressocché immancabile in Lavia, quale specchio dell’anima che ci parla della continua ricerca dell’essere umano a esprimersi e a connettersi con gli altri.
Accanto al pianoforte prendono forma molte scene dello spettacolo: uno specchio nel quale a volte si osa guardarsi, mentre altre volte invece lo si preferisce infrangere. Specchio a cui qui allude un motivetto musicale, che poi tornerà come un pungolo in particolari scene dello spettacolo.
Su queste note-prologo entrano in scena, quasi un flusso di coscienza, tutti gli attori “nudi”: in un casual total black contemporaneo. A vista, poi, “indossano” il loro personaggio: variazioni di un robone (un ampio soprabito lungo fino ai piedi) rigorosamente sempre aperto: disponibile ad accogliere ogni evento, in un’imprevedibile risposta emotiva.
Un altro “segno” di tempesta immanente che Lavia ci fa “vedere con le orecchie” è l’insistere dei “tuoni”: onde di pressione provocata dalla reazione-fulmine di un personaggio, che può manifestarsi con un colpo secco e forte, oppure con un rombo basso e prolungato.
“Tuoni” che non raccontano semplicemente un fenomeno naturale ma che ci rammemorano il mistero della natura, attraverso quella notte nera e quel nulla che smarrisce. E al quale si è tentati di reagire con un “dal nulla non deriva nulla”.
E poi, c’è anche quel teatrino “gettato” là, da un lato della scena: “un segnale” di cui intrigantemente la regia di Lavia si servirà per denunciare una finzione da teatro nel teatro.
E ancora: quel telo-fondale la cui clandestinità è garantita precariamente dai mantegni a cui tentano di stringersi le corde. E che quando si lasciano andare rivelano la cruda e poetica spietatezza della realtà celata. Cadono i veli delle ipocrisie, dei pregiudizi, delle narcisistiche pretese ma è come se si manifestasse epifanicamente anche qualcosa di “sacro”. E’ la luce e l’energia che si propagano, quasi come una preghiera, nei momenti di più alto pathos. Come il riavvicinamento tra Lear e Cordelia nella nudità spenta di quei ventilatori, che prima avevano gonfiato una tempesta e che ora sono testimoni inconsapevoli quasi di una rinnovata “natività”, tale è la gratitudine tra padre e figlia.
Così com’é di struggente bellezza “sacra” la scena del desiderio suicidario di Gloucester, intuito dal figlio Tom che, in un amorevole inganno, ricerca e trova l’altezza della sedia che può tollerare l’idea della messa in scena (terapeutica) di un suicidio apparente. E’ quel sano concetto del “correggere l’altro” che nasce per un suo bene. E non per il proprio: pretesa che invece celava l’invito al correggersi di Lear a Cordelia, di fronte all’ambiguo tentativo della figlia di esprimere a parole ciò che invece si dà nella sua autenticità solo nei gesti. L’amore.
Ma prima dell’amore – che s’impara – viene la violenza, di cui invece s’impregna il nostro venire al mondo, all’insegna dell’istinto alla sopraffazione. Una violenza che può abitare i padri così come i figli: sapientemente “pulp” è la resa registica della scena di massima crudeltà, dove l’estirpazione degli occhi dal volto di Gloucester trova compimento in un capovolgimento della sedia, sulla quale viene legato in un rituale di dionisiaca perversione erotica. Declinazione di quella pulsione di morte, in cui è tentato a degenerare il nostro inconscio.
E poi il respiro, che si fa passo. E che parla di una sofferenza dell’anima, oltre che del corpo: commovente il passo-respiro-anima che denuda Lear, ma anche Gloucester. E i figli: le falcate “da cinghiale” assatanato delle due sorelle, così come la spavalda codardia di Edmund o l’arcaico camminare a quattro zampe dell’ Edgard-Tom. Quest’ultimo di un’insostenibile bellezza bestiale.
Mirifico il lavoro sulla voce di Lear: Lavia contatta e restituisce all’orecchio e al cuore dello spettatore tutta l’umidità della sua rabbia. Prima ancora di riuscire a trovare un varco attraverso gli occhi, il suo pianto infatti si manifesta ribollendogli in gola.
E ci arriva tutta la difficoltà di un padre a “saper tramontare”, ad eclissarsi, avendo egli rinunciato alla sua valenza simbolica di “padre-legge”: un peso di cui, ieri come oggi, i padri tendono “a sgravarsi”.
Ma venendo meno l’autorità di chi è deputato a porre un limite al “desiderio di essere tutto” dei figli, può succedere che i figli – se non si perdono – siano perversamente loro stessi destinati ad essere genitori dei loro padri.
E’ quello che vediamo rappresentato in Cordelia, in Edgard ma anche in Kent, autentico servitore e amico di Lear. Persone che nella loro giovane esistenza hanno colto la precarietà della natura umana così come il valore miracoloso della compassione e del perdono. Con questa consapevolezza, riescono a vivere il potere come un incarico: una responsabilità che grava e che non va scambiata con un punto di arrivo. Né con una presunzione di eternità. Piuttosto un’eredità da sostenere con gratitudine e creatività morale: imparando a rinunciare – o riuscendo a far buon uso – del superfluo.
Al termine dello spettacolo ci si scopre così coinvolti nella rappresentazione, che si fa fatica ad uscire da questa bolla onirica che tremendamente continua ad incantarci. E’ la difficoltà che si sperimenta quando a mala voglia si cerca di uscir via da un sogno. Istanti di sublime silenzio dai quali scaturisce e si scatena un formidabile applauso.
Filmati e proiezioni da Sylvano Bussotti, RARA (film) 1968/ 1970)
nell’edizione restaurata dalla Cineteca Nazionale di Bologna
Grande emozione ieri sera al Teatro Vascello per la Prima rappresentazione assoluta in forma teatrale dell’Operina monodanza in un atto di notte di Sylvano Bussotti “Syro Sadun Settimino o il trionfo della Grande Eugenia”.
Sylvano Bussotti fu Accademico Effettivo dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ma anche compositore e artista dalla tempra spiccatamente poliedrica. Era noto infatti anche come pittore, poeta, romanziere, regista teatrale e cinematografico, attore, cantante, scenografo, costumista e direttore artistico di vari teatri italiani (ricordiamo la Fenice di Venezia, il Festival Puccini di Torre del Lago, la Biennale Musica).
Sylvano Bussotti
Un lavoro quello del “Syro Sadun Settimino” che dai primi anni ’70 del Novecento non ha trovato ospitalità in alcun Teatro, a causa della scabrosa partitura teatrale. Nel 1974 riesce a vedere la luce – ma solo in forma di concerto – a Royan, in Francia. Poi cala di nuovo il buio su questo lavoro.
Ora, a tre anni dalla morte del suo autore (1931-2021), il Festival di Nuova Consonanza – alla sua 61 edizione – decide di proporre la messa in scena teatrale di questo lavoro al Teatro Vascello che -cogliendone tutta la preziosa visionarietà – decide di farlo venire alla luce scenica il 25 Novembre di quest’anno.
Un anno dal valore potentemente simbolico, in quanto segna “i 50 anni di r(e)sistenza” e di continua sperimentazione del Teatro di Giancarlo Nanni e di Manuela Kustermann. Un Teatro, il loro, che da sempre si nutre d’immaginario e che lo restituisce in spettacoli che riescano a solleticare il linguaggio inconscio di giovani e di adulti.
Dacia Maraini
Ecco allora che Dacia Maraini, alla quale Bussotti alla fine degli anni ‘60 aveva commissionato il testo per voce recitante, rimette mano al testo riuscendo ad esaltarne ancor più la profonda liricità.
Testo che in questa indimenticabile occasione è stato recitato dalla stessa Manuela Kustermann, amica storica di Bussotti: una creatura che continua a far sua la magia dello stupore di chi sa incantarsi di fronte al mondo e di questo incanto, incantare.
La partitura di danza e la coreografia sono state affidate al performer, coreografo e creatore transdisciplinare Carlo Massari, la cui cifra stilistica gravita intorno alla ricerca di nuovi linguaggi performativi, approfondendo l’ibridazione e la commistione tra le diverse discipline artistiche.
Alla formazione dell’Evo Ensemble diretto da Virginia Guidi è affidata la fascinosa partitura del Coro.
Il M° Marcello Panni
Al M° Marcello Panni, attuale decano di Nuova Consonanza e “direttore d’orchestra di fiducia” di Luciano Pavarotti, nonché protagonista di importanti collaborazioni con Berio, Bussotti, Cage, Feldman, Glass – è affidata la direzione dell’orchestra Roma Sinfonietta, di cui cura anche la suggestiva mise en espace. Panni era sul podio anche mezzo secolo fa con Bussotti quando l’opera vide la luce solo in forma concertistica a Royan.
In occasione dello spettacolo di Lunedì 25 Novembre, domenica 24 nella Sala Cinema di Palazzo Esposizioni Roma, il pubblico è stato invitato alla proiezione del documentario “Bussotti par lui-même” (1976, 74′) di Carlo Piccardi. Sono intervenuti Rocco Quaglia, Marcello Panni e Daniela Tortora i quali hanno mirabilmente evidenziato la crucialità di questo documento autobiografico che racchiude la memoria e suggerisce le prospettive inaugurate dal genio di Bussotti. Ripercorrere l’opera di Bussotti infatti non si esaurisce in un atto classificatorio, sia pur esteso ed approfondito dai ripensamenti critici, ma si dà come un procedimento attivo e costruttivo, in cui i dati singoli si lasciano carpire in significati nuovi, svelando essenze mutevoli e contradditorie.
Rocco Quaglia, Daniela Tortora, Marcello Panni
Si arriva così alla sera del 25 Novembre: sera della Prima rappresentazione assoluta in forma teatrale di “Syro Sadun Settimino”. Ad introdurla, una presentazione curata da Alessandro Mastropietro, che ha coinvolto in fertile dialogo Dacia Maraini, Marcello Panni e Rocco Quaglia, coreografo, ballerino, collaboratore e compagno di una vita di Bussotti.
Mastropietro inizia con il disvelare cosa si celi dietro al lunghissimo ed enigmatico titolo che Bussotti ha amato attribuire a questa sua opera. La parola “Syro” consta della somma delle iniziali dei nomi dell’autore e di un suo amico: Sy(lvano) – Ro(mano); “Sadun” è il nome del pittore Piero Sadun, a cui è dedicato uno dei pezzi vocali dell’opera.
L’ispirazione arriva dall’ ”Histoire du soldat” di Stravinskij (1918), un classico del periodo. Ma poi Bussotti va molto oltre: ai sette elementi d’orchesta (da qui “settimino”) Bussotti aggiunge un pianoforte, duplica le percussioni, introduce un coro, un dicitore, nonché una coreografia più articolata. Così come articolata è la sua scrittura musicale, che s’insinua negli interstizi della parole e che a qualche livello fa del clarinetto l’io narrante.
Il sottotitolo esplicativo “Il trionfo della Grande Eugenia” introduce invece l’argomento dell’opera. La “Grande Eugene”, piccolo cabaret parigino portato a rapida notorietà dall’abile conduzione del coreografo e pittore Franz Salieri, è il centro della vicenda. In questo locale notturno frequentato da travestiti si ritrova infatti il protagonista, la cui storia viene rievocata partendo dalla sua nascita prematura: di sette mesi appunto.
La Maraini – celebre esponente del teatro di sperimentazione – interviene per raccontare come Bussotti le chiese un testo lirico, narrato in prima persona, espressione di una particolare duttilità di sentire: capace di muoversi tra le maglie del maschile e lo scatenamento proprio del femminile. Pulsioni così vibrantemente coesistenti nell’indole del giovane protagonista.
Rocco Quaglia aiuta invece lo spettatore ad entrare nella fenomenologia dell’opera, rivelando ad esempio che l’ occasione fu data da un giovane di nome Michel, nato di sette mesi, in una famiglia di clavicembalisti.
Marcello Panni ci confida con luminosa emozione che riprendere questa opera di Bussotti era un suo grande desiderio, che finalmente questa sera raggiungerà il suo compimento.
L’Operina alterna – con sorprendente originalità – parlato, cori a cappella, balletto e un ensemble strumentale su una scenografia mobile di filmati e proiezioni da “Rara”, film di Sylvano Bussotti (1968-1970) nell’edizione restaurata dalla Cineteca di Bologna.
L’attenta partecipazione degli spettatori in sala alla pluri sollecitazione fisica e psichica dell’opera, dimostra la capacità di Bussotti ad aprire la sua densità creativa in un movimento che riesce a coinvolge un pubblico vasto ed eterogeneo, attraverso differenti possibilità di accesso al fatto musicale.
Ed è così che ci arriva la consapevolezza gioiosa di un giovane venuto al mondo in una modalità diversa. Ma comunque leale, degna di onore: onesta. Commovente il suo stupore di sentirsi ricco e lussureggiante come uno smeraldo: una pietra che parla di rinascita, crescita spirituale, rigenerazione, speranza. Una pienezza, un’armonia, che però in quanto tale scandalizza e che quindi va falciata, spennata, resa incapace di spiccare un suo volo.
Ma la sua sarà una duttile resistenza, nonostante l’immanente fragilità che lo rende predabile. Insistente sarà, la sua duplice tensione al maschile e al femminile che riesce ad esprimersi virtuosamente nella danza. Calda come la terra che lo ha generato, una “terra d’agosto che sa di coito”. Non a caso nasce di sette mesi: sospinto da una gioia eccessiva. E dall’urgenza di ballare, per esprimersi pienamente. Laddove tutti lo vorrebbero “sedentario e musone”.
Una tensione visualizzata da quella lirica dialettica che s’instaura cinematograficamente, ma non solo, tra il suo aprirsi all’avventura del mare e l’essere trattenuto dalla terra, che affonda, come su sabbia, i suoi slanci. E che contribuisce a disorientarlo al pensiero di scegliere – e quindi di rinunciare – ad una parte di sé, così essenziale.
Una tensione caratteristica dell’opera e della personalità di Bussotti: quel sistema di contraddizioni in continua espansione che fa delle relazioni e dei nessi, qualcosa che può essere colto nel suo complesso.
Qualcosa che lo spettatore è catturato a decifrare a vari livelli, divenendo protagonista di un’esperienza di straordinaria bellezza.
Assistere a questa Prima rappresentazione assoluta in forma teatrale del “Syro Sadun Settimino o il Trionfo della Grande Eugenia” è stato un grande dono.