L’AMORE NON LO VEDE NESSUNO – regia Piero Maccarinelli

– SPOLETO FESTIVAL DEI DUE MONDI 2025 –

27 Giugno – 13 Luglio 2025

CHIESA DEI SANTI SIMONE E GIUDA

11 Luglio 2025

L’avvincente bellezza de L’amore non lo vede nessuno di Giovanni Grasso – regia Piero Maccarinelli – conquista il pubblico del Festival dei Due Mondi di Spoleto 2025, invitato a godere dello spettacolo nella splendida essenzialitá della Chiesa dei Santi Simone e Giuda (edificata dai francescani dal 1254).

Al cospetto della bellezza descritta e inscritta in un tal luogo, lo spettatore non può non restare profondamente affascinato. 

Chiesa dei Santi Simone e Giuda a Spoleto

Come puó l’amore verso un’altra persona essere qualcosa di grave?
Da dove viene l’amore?


E come mai l’amore, pur tingendosi di atmosfere enigmatiche, di allegrezze crepuscolari, di annebbiamenti deliranti, resta una promessa d’aurora?

Giá dal prendere posto in sala, l’impianto scenico – curato da Piero Maccarinelli in collaborazione artistica con Fabiana Di Marco – induce lo spettatore ad adattare la vista ad una luminositá altra: fascinosamente intima, oscuramente psicologica.

Luminositá che nel corso dello spettacolo si dà in continue transizioni di assolvenze e dissolvenze – la cui cura é affidata a Javier Delle Monache – imbevute nelle raffinate e inquietanti composizioni musicali di Antonio Di Pofi.

Stefania Rocca é Silvia

Le coordinate spaziali del romanzo di Giovanni Grasso sono qui registicamente restituite attraverso due spazi fisici (un bar e un interno domestico) metafora di differenti aree della psiche della protagonista: Silvia, una Stefania Rocca dal fascino lunare; brillante e livida, terrea e vagamente irreale. E’ lei che, all’indomani dell’improvvisa morte della giovane sorella, avverte l’irrefrenabile esigenza di indagare sulla vita di Federica, avvolta in un enigmatico mistero da quando si trasferí dal piccolo paesino di provincia a Milano.

Silvia, inconsapevolmente, si trova – a seguito di questo evento traumatico – a scendere nelle profonditá misteriose della psiche non solo della sorella, ma anche di se stessa. E nelle sue ricerche si muoverá tra lo spazio sconosciuto di un bar – dove finirá per riflettersi nello sguardo narrativo di un misterioso P. – e lo spazio apparentemente familiare di un interno domestico (di casa sua), dove Silvia crede di rifugiarsi. Restando, in veritá, continuamente solleticata dallo sguardo, da vibrante detective, dell’amica Eugenia.

Stefania Rocca (Silvia) – Giovanni Crippa (P.)

Attraverso un intrigante gioco di domande con il misterioso sconosciuto P., intravisto al funerale della sorella (un irresistibile Giovanni Crippa, luminoso nella restituzione delle sue fragilitá) e con la poliedrica e fertile amica Eugenia (una solida ed emotivamente sfaccettata Franca Penone) Silvia si ritrova introdotta in una potente ritualità oracolare dove, chiedendo di sapere dell’altro, si arriva a conoscere se stessi.

Le simboliche coordinate spaziali del bar e del soggiorno della casa di Silvia sono poi immerse, dalla regia di Maccarinelli, in una particolare temporalitá scandita da un rituale trasformativo, efficacemente reso attraverso repentine assolvenze e morbide dissolvenze.

Stefania Rocca

La scelta di tali coordinate temporali – al di lá della funzione tecnica di passaggio da una scena all’altra –  si dà quale sensuale transizione di contrastanti stati emozionali, che si rivelano nella loro splendida e oscura coesistenza. 

Transizioni, ovvero progressive forme di consapevolezza interiore, ben visualizzate anche attraverso un seducente disegno prossemico. Nonché attraverso un graduale “cambiar pelle” della protagonista. La quale, apparentemente sempre piú intrigata dal racconto della vita misteriosa della sorella, vediamo riaccendersi in una nuova femminilitá cromatica, sia vocale che posturale. Un vero mutamento e arricchimento del suo habitus (modo di essere), completato da una loquace trasformazione delle scelte d’abbigliamento (la cura dei costumi é di Gianluca Sbicca).

Piero Maccarinelli , il regista

Far “coesistere” le nostre differenti spinte interiori (conscie e inconscie) significa infatti saper accogliere e tenere insieme, preferibilmente in amicizia, qualcosa di contrastante – ma proprio in quanto tale fecondo – che istintivamente invece vorremmo ricondurre all’univocacitá e all’esclusivitá. Per questo la complessa tensione a gestire la dualità propria del rapporto amoroso, ma anche del rapporto fraterno, e del relazionarsi con l’altro in generale, rischia facilmente di sfociare in manomissioni emotive e atteggiamenti manipolatori. 

E’ quello che accade a Silvia. Ma è anche quello che precedentemente era accaduto a sua sorella Federica e a P. Ognuno con il proprio vissuto personale, ognuno con un enigma esistenziale da sciogliere, da decifrare, da interiorizzare. Nell’attesa di imparare ad accettare se stessi, e poi gli altri, nel bene e nel male. Senza pretendere di conoscere tutta la verità.

Stefania Rocca



Non a caso fin da piccoli veniamo indirizzati verso il “gioco”: splendida metafora dell’imparare a tenere insieme il nostro “io” con quello degli altri, attraverso il rispetto di determinate regole. E non a caso, da grandi, continuiamo “a giocare” allacciando “patti”: come qui P. propone a Silvia, avendolo in qualche modo scoperto con Federica. 

Il “patto”, ancor più del “gioco”, richiede fiducia nell’altro e la fiducia è fondamentale per dare vita a una dualità che possa moltiplicarsi in una vera e propria comunità. Senza fiducia, infatti, non può esistere nessuna forma di socialità. E sebbene, per natura, l’uomo venga corredato alla nascita con un istinto alla sopraffazione per riuscire a sopravvivere, per vivere occorre imparare a fidarsi dell’altro.

Stefania Rocca e Giovanni Crippa



Fidarsi soprattutto del “diverso” da noi, di ciò che essendo così “straniero” sembra avere l’odore del nemico. Ma lo “straniero” è un ospite che chiede di essere accolto in noi. Lo scopre P. quando quella sua intransigenza verso gli incerti e i peccatori, arriva a viverla sulla propria pelle, nel momento in cui la vita gli mette Federica sulla sua strada.

Lo stesso “vissuto” della location scelta per mandare in scena le prime repliche di questo spettacolo – la Chiesa dei Santi Simone e Giuda – incarna perfettamente la spinta ad accogliere le diverse ospitalità trasformanti, che sono solite abitare la vita: oltre che chiesa é stata infatti caserma e parte del convitto per gli orfani dei dipendenti statali. Ed ora é spazio espositivo e spazio teatrale.

Ma anche il Festival dei Due Mondi di Spoleto é una fulgida testimonianza dell’apertura alle diversitá, essendosi originato dal desiderio di Giancarlo Menotti di far dialogare la diversitá del mondo culturale europeo con quella del mondo culturale americano.



Effetto allora di questo accattivante testo di Giovanni Grasso – sapientemente restituito dalla regia di Piero Maccarinelli – è quello di catturare lo sguardo emozionale dello spettatore, sospingendolo a continuare a dedicare tempo a interrogarsi non solo sull’enigma che lega i personaggi del romanzo ma anche, a qualche livello, sull’enigma della propria esistenza. 



Perché la Vita è un enigma, così come ognuno di noi è un enigma. 
Perché anche l’Amore è un enigma e così é la Morte: lo stesso necrologio che P. dedica a Federica ha la struttura di un enigma. 

E l’enigma, da sempre, chiede di essere decifrato. Chiede una vita di indagini su se stessi, attraverso la lente dello sguardo dell’altro. 

E questo é il messaggio che serpeggia in tutto lo spettacolo: sebbene le separazioni, i confini, le regole e le definizioni abbiano l’effetto di risultarci così rassicuranti – perché ci illudono di fare ordine nel disordine che ci costituisce – è il riuscire a mantenere “la coesistenza” delle nostre contrastanti spinte interiori che ci realizza come esseri umani. Che ci permette di offrire e di ricevere fiducia.

Fino ad arrivare, magari, a fare esperienza anche dell’Amore: attraverso quello “sguardo” che gli amanti sanno scambiarsi. Unica occasione – sostiene Sant’Agostino – in cui epifanicamente si manifesta, pur non vedendosi, l’Amore. 

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Recensione di Sonia Remoli

LA BANALITA’ DELL’ AMORE – regia Piero Maccarinelli

TEATRO INDIA

dal 6 al 18 Maggio 2025

“Sì, sono ancora viva!” 

L’amore – che sia quello verso una persona, che sia quello verso il sapere – può essere boicottato: ostacolato e isolato. Ma chi ama può scoprire di sentirsi libero, nel continuare comunque ad amare. 

Perché spesso il riconoscimento che ci affanniamo a suscitare nell’altro fuori da noi, può essere condiviso con l’altro che è in noi. Come, con commovente bellezza, approdiamo a percepire metaforicamente nella scena finale dello spettacolo. 

Quando cioè quell’insistente desiderare una sigaretta – che attraversa con sapienza narrativa e registica come un fil rouge tutto lo spettacolo – trova un’inaspettata realizzazione attraverso la sigaretta offerta alla 69enne storica della politica Hannah Arendt da un’altra Hannah Arendt: quella diciottenne. Che a suo tempo “fu iniziata” a questo piacere dolce-amaro dal suo amato professore di filosofia Martin Heidegger

E’ una nuova consapevolezza, quella attuale, un nuovo inizio, una gioia, una vitalità – che non possiamo non leggere sia sul volto dell’una che attraverso le spalle dell’altra – e che sembra voler essere il coronamento di quel “sì, sono ancora viva” con cui si apre lo spettacolo. 

Claudio Di Palma (Heidegger) – Anita Bartolucci (Hannah Arendt 69enne) – Mersilia Sokoli (Hannah Arend 18enne) – Giulio Pranno (Raphael Mendelsohn e Michael Ben Shaked)

Una brillante 69enne Hannah Arendt in convalescenza da un infarto, accetta di affrontare un’intervista propostagli da un giovane israeliano relativamente al suo famoso saggio La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme” (1963): un diario sulle sedute del processo a Adolf Eichmann a cui lei partecipò in qualità di inviata del settimanale The New Yorker

Vale la pena ricordare che dal dibattimento in aula la Arendt ricava l’idea che il male perpetrato da Eichmann – come dalla maggior parte dei tedeschi che si resero corresponsabili dell’Olocausto – non deriva da un’indole maligna ben radicata nell’anima (come sostenne nel suo Le origini del totalitarismo del 1951) quanto piuttosto da una completa inconsapevolezza di cosa significassero le proprie azioni. Da qui il titolo “La banalità del male”; da qui le pesanti polemiche di tutto il mondo ebraico su questa sua opinione.

La Arendt – qui in Maccarinelli un elegantemente vibrante Anita Bartolucci in un efficacissimo tailleur chanel bluoltremare e camicetta di un impudentemente gradevole raso fuxia  –  coglie in questa intervista un’ottima opportunità per chiarire le sue posizioni. E, contro ogni prescrizione medica, all’indomani del ritorno a casa dall’ospedale, si rende disponibile ad affrontare l’intervista, attraverso la quale spera ardentemente di porre fine al “boicottaggio” nei suoi confronti.

Succede però qualcosa di diverso.

Piero Maccarinelli porta in scena il bel testo di Savyon Liebrecht (2010) sottolineandone, con la sua calibratissima regia, quel gioco di simmetrie e asimmetrie vitali, che rende la narrazione (e la vita) così avvincente. 

La coreografia prossemica ne è una visualizzazione eloquentissima, che fa della metafora erotica una propedeutica, o meglio un’educazione sentimentale, alla passione politica. 

A rendere così complessa la relazione tra Hannah Arendt e Martin Heidegger (un efficace Claudio Di Palma, romanticamente asciutto) non è solo un’asimmetria politico-religiosa, quanto un’asimmetria relazionale.

Chi ama davvero non ha bisogno di simmetrie: non ha bisogno di essere amato almeno quanto lui/lei ama l’altro. Non ha bisogno solo di “approfittare” delle circostanze del momento per trovare “la propria autenticità” e per “salvarsi dalla solitudine”. Non è solo “determinato” e “fedele a se stesso”. 

(ph. Claudia Pajewski)

Ma anche flessibile: disponibile a scusarsi, ad esempio. Cosa che Heidegger con riesce mai a fare con lei, chiuso com’è entro confini costantemente minacciati. E quindi così impegnato a difendersi, da non riuscire a non fare del sapere uno strumento di manipolazione; da non riuscire ad aprirsi autenticamente alla scoperta del 2: della relazione.

Allo stesso tempo, l’amore è quella spaventosa forza irrazionale che può rendere “stupida” e banale anche una studentessa estremamente intelligente (qui, la Harendt 18enne è una Mersilia Sokoli che incantevolmente si lascia sedurre e seduce, assecondando la morbida gentilezza glamour dei suoi abiti dall’inebriante allure cromatico. La cura dei costumi è affidata a  Zaira De Vincentiis).

(ph. Claudia Pajewski)

Dice la Harendt (18enne):

Mentre ero seduta davanti alla porta chiusa del tuo ufficio ho scoperto improvvisamente una cosa. Ho scoperto che una studentessa brillante e una stupida possono comportarsi nello stesso modo.

HEIDEGGER: In che modo? 

HANNAH: Irrazionale

E ancora:

 “… sono spaventata da questa irrazionalità, dal modo in cui riesci ad annullarmi, a dominarmi, a insegnarmi consapevolmente a soffrire e a essere persino grata di questa sofferenza. Avrei dovuto chiederti di andartene nel momento in cui hai pronunciato la parola “giudeo” ma ecco, sono ancora qui, in attesa di un tuo abbraccio”.

(ph. Claudia Pajewski)

La banalità dell’amore quindi – rispetto alla banalità del male – non esclude una consapevolezza razionale, ma non per questo si riesce o si ha voglia di resistervi, ci confida la Harendt.

Tra l’obbedire ciecamente a un capo politico e il lasciarsi guidare da Eros c’è  qualcosa di simile: il senso di quel torpore, di quell’incantamento che soggioga.

Il regista Piero Maccarinelli

Maccarinelli fa entrare negli occhi dello spettatore un tempo e uno spazio a scacchiera in cui l’occasione di un’intervista con un enigmatico studente (un appassionato Giulio Pranno)  porta la Arendt non solo a ricordare, ma a dare un nuovo valore alle scelte del passato. Perché il passato chiede sempre di essere ri-letto. Ogni volta.

Ed è di seducente bellezza il modo in cui sulla scena (curata da Carlo De Marino) Maccarinelli isoli osmoticamente le diverse aree della scacchiera del tempo. Dove è la luce a muovere le pedine dei collegamenti extra temporali (la cura del disegno luci è di Javier Delle Monache).

Uno spettacolo, questo di Piero Maccarinelli , che intriga i sensi, la mente e il cuore e che racconta delle contraddizioni dell’animo umano con accurata accoglienza, avvolgendole nella drammaturgia musicale di Antonio Di Pofi.

Claudio Di Palma (Heidegger) – Anita Bartolucci (Hannah Arendt 69enne) – Mersilia Sokoli (Hannah Arend 18enne) – Giulio Pranno (Raphael Mendelsohn e Michael Ben Shaked)


Recensione di Sonia Remoli

I FUNERALI DI CORRAO di Emilio Isgrò – Rassegna di drammaturgia contemporanea “Parole d’autore”

GNAMC

GALLERIA NAZIONALE D’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA

20 Marzo 2025

Nella meravigliosa architettura di luce della Sala delle colonne della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, nella serata del 20 Marzo u.s. ha avuto luogo il primo incontro della Rassegna di drammaturgia contemporanea “Parole d’autore”. Rassegna nata dalla passione per la drammaturgia del regista teatrale e direttore artistico Piero Maccarinelli e prodotta dalla Compagnia Orsini, in collaborazione con SIAE.

Una proposta che individua nella drammaturgia contemporanea quel ponte capace di dare vita ad un osservatorio attivo di pubblico partecipe, stimolo e confronto tra le diverse espressioni del fare teatro oggi.

Renata Cristina Mazzantini


 
Ad aprire la serata – dedicata all’artista, scrittore e poeta Emilio Isgrò, celebre per il linguaggio artistico della “Cancellatura” – è stata la Direttrice della Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea Renata Cristina Mazzantini. 

Emilio Isgrò è infatti l’Artista protagonista della GNAMC per questo anno e a lui la Galleria dedica una serie di incontri, unitamente all’esposizione di una selezione significativa delle sue opere.

La figura di Isgrò è stata selezionata per l’anno 2024-2025 in occasione dei sessant’anni della “Cancellatura”: un gesto artistico radicale che ha rivoluzionato il linguaggio dell’arte a livello internazionale.


Renata Cristina Mazzantini, Guido Talarico , Emilio Isgrò

Ma – come acutamente definito dal Presidente della Fondazione Teatro di Roma, Francesco Siciliano – Emilio Isgrò è “una creatura rinascimentale”: un artista nel senso più vasto della parola, dall’inclinazione pluridisciplinare. 

Francesco Siciliano

E tra le numerose iniziative culturali Isgrò amò impegnarsi anche nelle “Orestiadi” di Gibellina, al fine di celebrare la rifondazione della città e segnare l’alba di un destino tutto da riscrivere. Ed così che sulle rovine della distrutta Gibellina – novella Troia e immaginario Palazzo degli Atridi – Ludovico Corrao propone la recita dell’Orestea proprio nel ‘siciliano poetico’ ideato da Emilio Isgrò.
 
L’artista era ieri sera presente in sala per presenziare alla rappresentazione del suo poemetto “I funerali di Corrao”, un omaggio all’indimenticabile amico e mitico sindaco di Gibellina, in rappresentanza del quale era presente in sala la figlia Francesca. E molti altri personaggi del mondo dell’arte.


Piero Maccarinelli


Ed è così che dalla raffinata regia di Piero Maccarinelli ha preso vita nella serata del 20 Marzo u.s. – in un insolito riallestimento della Lounge delle Colonne – un’elegante messa in scena del testo di Isgró “I funerali di Corrao”. 

“Perché un allestimento museale – sostiene la direttrice Mazzantini – funziona se raggiunge il pubblico, mettendolo nelle condizioni migliori per entrare in contatto con l’opera d’arte. Perché l’allestimento museale è esso stesso una messa in scena che può svelare i significati sottesi dell’opera e saper creare emozioni e ricordi”. 

Francesca Benedetti, Mariano Rigillo, Anna Nogara, Barbara Eramo, Stefano Saletti

E cosí é accaduto: la versatilità dello spazio della Sala delle Colonne ha veicolato un fluido coinvolgimento alla fruizione della rappresentazione teatrale, punteggiata dalla metafisica malinconia del canto di Barbara Eramo e dalla musica al bouzuki di Stefano Saletti

Appassionati dallo studio e dalla diffusione della musica e della cultura mediterranea, le proposte musicali dei due artisti trovano la piú efficace espressione di sincretismo linguistico ed etico nella “lingua sabir”: la lingua franca parlata fino all’inizio del secolo scorso dai pescatori, dai marinai e dai commercianti del Mediterraneo. 

Un’acuta scelta registica, quella che ha portato Maccarinelli a impreziosire la messa in scena teatrale con canti propri di questa lingua, che ci ricorda – coerentemente al tema del poemetto di Isgró – l’importanza del dialogo e dell’intessere relazioni civili e culturali. 

La Sicilia cancellata di Emilio Isgrò

Qualcosa di analogo si rintraccia nel fine ultimo dell’arte della “Cancellatura” di Isgró: uno scoprire, coprendo, il valore dei rapporti umani, fondato su una reale possibilità di comunicare e di preservare la parola per quando servirà. Perché “l’arte – sostiene Isgrò – è l’unica forma rimasta di educazione umana”.


Ma anche la vita e l’arte di Ludovico Corrao sono attraversate dalla stessa vocazione a riallacciare un dialogo tra le diverse culture mediterranee. Ne sono splendide testimonianze “Le Orestiadi” di Gibellina e il Museo delle Trame Mediterranee.

Ludovico Corrao



L’interpretazione drammaturgia del testo di Isgró “I funerali di Corrao” viene affidata da Maccarinelli ad attori del calibro di Francesca Benedetti, Anna Nogara, Mariano Rigillo, in passato protagonisti dell’Orestea di Isgrò al Cretto. 

Laddove del testo Rigillo segna il passo solenne del suono, unitamente al ritmo dell’incedere e Anna Logara ne fissa i concetti sinesteticamente con gli occhi, la Benedetti sembra ricamare tra loro punti di legame, dalla freschezza impetuosa di accenti. Ed é canto. Anzi concerto di identitá in dialogo. 

Una serata ricca in meraviglia che si è rivelata un inno a tutto tondo al potere drammaturgico del saper creare connessioni.

Il secondo appuntamento della Rassegna di Drammaturgia Contemporanea “Parole d’autore” – presentato dalla Fondazione Teatro di Roma – si è tenuto al Teatro Argentina ieri 24 Marzo u.s. ed è stato un omaggio ad uno dei più importanti protagonisti del teatro italiano: Massimo De Francovich, con “VISITA AL PADRE”, un inedito di Norm Foster. In scena anche Maximilian Nisi.


Francesca Benedetti, Mariano Rigillo, Anna Nogara, Barbara Eramo, Emilio Isgrò, Piero Maccarinelli, Stefano Saletti



Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA CASA NOVA di Carlo Goldoni – regia di Piero Maccarinelli

TEATRO INDIA, dal 14 al 24 Marzo 2024 –

“  Ti piace “  ?

E’ la frase che, forse, meglio racconta questa commedia del Goldoni – così perfettamente equilibrata ed elegante – che ruota intorno alle vicende di Anzoletto (uno Iacopo Nestori dalla multiforme sensibilità) : un uomo “nuovo”, continuamente alla ricerca di conferme al suo operare. Lui così insicuro, così “nuovo” nel gestire un patrimonio, nel dare forma ad una casa “nuova”. Così borghese, sebbene da poco arricchito, eppure così in buona fede. 

E si sente come lo sguardo del Goldoni ami dipingerlo con tenerezza. E Gianluca Sbicca (a cui è affidata la cura dei costumi di questo spettacolo) vestirlo di verde : il colore dell’abbondanza. Ma anche del fluire costante di ciò che ci arriva.

Il regista Piero Maccarinelli

Ma “Ti piace?” – come con estro ha saputo cogliere il regista Piero Maccarinelli – è una frase simbolo anche del nostro tempo, così abitato dai social network. Anche noi ci costruiamo una “nuova casa”, una nuova immagine, soprattutto in risposta ai “Mi piace” di chi ci legge, di chi ci guarda, di chi ci invidia. 

E non ci accorgiamo, come Anzoletto, di dare forma ad un mondo dove – sebbene crediamo di essere noi l’attrazione – in realtà sono gli altri ad attrarci. Con il loro consenso. 

Un magnetismo perverso che l’impianto scenico di Maccarinelli riproduce fascinosamente.  Una scena, la sua, dagli echi iconografici hopperiani che riesce a far sentire lo spettatore al tempo stesso dentro e fuori dal racconto. 

Un realismo emblema della paradossale solitudine dell’uomo: ieri come oggi.  Come l’acuta cameriera Lucietta (una Mersilia Sokoli ricca di quella preziosa forza, di quell’eros, che riesce a tenere uniti elementi diversi e talora contrastanti) ci confessa: prima si poteva “ciancolare”, ora invece sembra di essere state sepolte. Prima lei e la sua signora Meneghina avevano “i morosi”, ora qua “tutte e due senza un ca”. E forse non a caso Gianluca Sbicca la veste dell’austerità del nero, che però la sua forza vitale (metafora di un ceto sociale ancora autenticamente sano) tende a limitare, ad accorciare, a modellare.

Perché “il nuovo” non è automaticamente sinonimo di avanzamento, di apprezzamento, di realizzazione, di felicità, come la mentalità piccolo borghese immaginava e l’attuale ideologia capitalistica da un po’ vorrebbe farci credere. 

Perché il nuovo è tale – come direbbe Massimo Recalcati – in quanto “piega dello stesso”. Dietro al “sempre nuovo” è in agguato infatti la stessa insoddisfazione che stagna nel “già conosciuto”. E così facendo, il presente si svuota di senso perché lo si lega ad un futuro destinato a non realizzarsi mai: irraggiungibile, perché fondato sulla natura insaziabile del desiderio. Altrui. 

Le insicurezze di Anzoletto, seppure proprie di un uomo appartenente ad un diverso periodo storico, riusciamo a sentircele vicine. Vicinissime. Perché come a lui, anche a noi capita di restare incastrati nel desiderare sempre e solo quello che non abbiamo. Liquidi.

Ecco allora che anche sulla scena, vira alla subdola tonalità del verde-stagno la luce ( il cui disegno è curato da Javier Delle Monache) sulla maxi parete del fondo, la cui “fluidità” spaventa – quasi fosse la tela bianca di un artista – tante le possibilità che potrebbe ospitare. E si arriva così a scoprire che quella parete che “sembrava” avere la solidità di un muro capace di ospitare un maxi-televisore led si rivela in tutta l’impalpabilità di un velo. E mette a nudo la curiosità e il piacere voyeristico di chi abita al piano di sopra, proprio come fossero dietro ad uno schermo digitale.

E scoprono così che Anzoletto si trova costretto, per compiacere la sua neo-moglie che lo ha scelto credendo che fosse ciò che non è, ad un trasloco in un appartamento al di là delle sue possibilità. Non tanto e non solo economiche, quanto piuttosto “identitarie”: anche lui “fluido” nel non aver consapevolezza dei propri desideri. Della propria identità.

Geniale ed effervescente, in equilibrio tra  tradizione e tradimento, l’adattamento del testo del Goldoni da parte di Paolo Malaguti – che ne ha curato anche la traduzione – raffinatamente punteggiato dalle musiche composte da Antonio Di Pofi.

Del “quotidiano parlare” della lingua veneziana del Settecento mantiene la succulenza del sentore di una fragranza calda e sinuosa, che ben si lega sinergicamente alle movenze di una scena così contemporanea. E’ una lingua che sa raccontare anche il nostro reale: una lingua materica, così voluttuosa da sconfinare a tratti nel metafisico.

La consapevole interpretazione, così ricca in calviniana leggerezza, propria dei 10 giovani attori e attrici diplomati all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’AmicoLorenzo Ciambrelli, Edoardo De Padova, Alessio Del Mastro, Sofia Ferrari, Irene Giancontieri, Andreea Giuglea,
Ilaria Martinelli, Gabriele Pizzurro, Gianluca Scaccia
– si coniuga mirabilmente con “la rustega” e fertile sapienza di Stefano Santospago nei panni di un magnifico zio Cristofolo.

Stefano Santospago (zio Cristofolo)

E nonostante gli innumerevoli errori alimentati dalla ricerca di un continuo e asfissiante piacere agli altri (“cosa dirà la gente?”), la morale di Goldoni – attualissima anche oggi – c’insegna che c’è sempre qualcosa di bello che si salva nel passaggio dal vecchio al nuovo. E – come direbbe l’Alessandro Baricco de “I barbari” – questo qualcosa non è tanto ciò che abbiamo tenuto al riparo dai tempi ma “ciò che abbiamo lasciato mutare perché ridiventasse sé stesso, in un tempo nuovo”. 

Lo spettacolo, da non perdere, è in scena al Teatro India fino al 24 Marzo p.v.


Recensione di Sonia Remoli

IL PREMIER di Giuseppe Manfridi – regia a cura di Piero Maccarinelli

TEATRO ARGENTINA, 12 Febbraio 2024

In occasione del terzo appuntamento della Rassegna promossa dal Teatro Parioli “LINGUA MADRE -Il teatro italiano non fa schifo – drammaturgua italiana a confronto tra commedia e dramma“, su gentile concessione del Teatro di Roma, il Teatro Argentina ha ospitato la rappresentazione del testo di Giuseppe Manfridi “Il Premier”. Sul palco un cast d’eccezione diretto da Piero Maccarinelli: Gabriele Lavia, Stefano Santospago, Galatea Ranzi, Duccio Camerini, Federica Di Martino e Mersila Sokoli.

Il drammaturgo Giuseppe Manfridi

Fin dalle prime battute – rese con la mirifica intimità di un flusso di coscienza dal Giovanni Cravero di Gabriele Lavia – la raffinata eleganza della scrittura di Giuseppe Manfridi inizia a diffondersi nell’aria e a solleticare l’immaginazione di chi ascolta . Tanto che al vivido entrare in battuta degli altri personaggi della vicenda - Stefano Santospago, Galatea Ranzi, Duccio Camerini, Federica Di Martino e Mersila Sokoli – lo spettatore si ritrova irrimediabilmente invischiato nel fascino della narrazione. 

È quello che può manifestarsi quando una preziosa drammaturgia si fonde sinergicamente alla plausibile voluttuosità di voci che sanno farsi corpo. E trovano la chiave per entrare ed aprire quel “non detto” – di cui è così ricca la drammaturgia di Manfridi – che si cela nelle aree della coscienza dove si vanno a depositare certe parole, certe immagini, certi dubbi, che il dialogo “aperto” non riesce ad accogliere. Ma che gli interpreti rendono rintracciabili quali micro-dettagli, ad esempio, all’interno della prossemica delle vocalità. Oppure facendo emergere quelle particolari manomissioni narrative che – interferendo con il discorso previsto – ne rivelano il discorso reale.

Gabriele Lavia

Cura e capacità interpretative necessarie in un testo dove il tema della gestione del potere risulta fondante assumendo così tante declinazioni, sia sul versante politico che relazionale.

Su tutte l’eccitazione irrinunciabile di Cravero a sentirsi dire da tutti “lo faccio” ma che per essere tale deve confrontarsi con la tensione a non farsi scoprire nella sua fragile natura vitrea. Perchè proprio da questa tensione – che lo avvicina pericolosamente alla morte – lui si rigenera. E così può, come in un perverso rituale di purificazione, ‘ri-candidarsi”: ritornare candido. E farsi rappresentare dallo slogan: “Cravero nonostante tutto”.

Il regista Piero Maccarinelli

Questa interessante Rassegna, promossa da Piero Maccarinelli, Lingua MadreIl teatro italiano non fa schifo – drammaturgua italiana a confronto tra commedia e dramma è dedicata alla drammaturgia contemporanea italiana rappresenta un’occasione per riflettere sul tema e rimuovere quegli ostacoli che impediscono una fruizione popolare della scrittura scenica di qualità, così come accade in molti altri Paesi. Un veicolo per realizzare un osservatorio attivo di pubblico partecipe, che sia da stimolo e confronto tra le diverse espressioni del fare teatro oggi.

L’ultimo appuntamento si terrà il 26 febbraio 2024 ore 21.00 – TEATRO PARIOLI –

L’ORA NOSTRA

di Sergio Pierattini

regia a cura di Piero Maccarinelli

personaggi e attori

Giada – Sandra Toffolatti

Mauro – Emanuele Salce

Milvia – Claudia Coli

Enrico – Francesco Bonomo

Oscar – Noli Sta Isabel

La morte improvvisa della proprietaria di un’importante azienda vinicola Toscana riunisce i due figli che da anni vivono uno, Mauro a Milano e l’altro, Giada, in Cina.

La natura dell’improvviso decesso non è chiara.  Quel giorno nell’azienda era presente solo Oscar, fedele tuttofare filippino della defunta.

Costretti da una bufera di neve a una convivenza forzata, nell’attesa che si possa celebrare il funerale, figli e i loro coniugi preparano l’organizzazione delle esequie in un crescendo di tensioni che assumono, con il passare delle ore, tinte tragicomiche.

I sospetti che iniziano a gravare sul domestico troveranno conferma nella scoperta del testamento e in una sconvolgente rivelazione.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo FARA’ GIORNO – regia di Piero Maccarinelli

TEATRO PARIOLI, dal 31 Gennaio all’ 11 febbraio 2024 –

L’evocativa drammaturgia di Rosa A. Menduni e Roberto De Giorgi portata in scena dalla calda sensibilità di Piero Maccarinelli dà vita ad uno spettacolo ironico, allegro, mordace ma anche delicato, tenero, commovente, plasmato da una vitale tensione verso il rispetto della dignità umana.

Il regista Piero Maccarinelli

È il racconto di un improbabile e folgorante incontro tra tre diverse modalità di stare al mondo, apparentemente inconciliabili ma intimamente capaci di essere attraversate da una fertile accoglienza. Un incontro di quelli capaci di rompere l’abituale scorrere del tempo: quelli dove niente è più come prima.

Alberto Onofrietti (Manuel), Antonello Fassari (Renato) e Alvia Reale (Aurora)

E’ l’incontro tra un anziano padre (un lirico Antonello Fassari) che, precedentemente partigiano e poi disilluso dagli ideali del comunismo, oramai rimasto solo in casa continua a trovare ispirazione e conforto in un microcosmo di libri; sua figlia (una densa ed enigmatica Alvia Reale) che, sentitasi tradita dal suo stesso padre, prende ampie distanze prossemiche ed affettive dallo stesso; e un teppistello fanaticamente tatuato di ideali politici di destra (un tormentato e splendidamente tempestoso Alberto Onofrietti) alla guida della propria vita, senza essenziali istruzioni per l’uso e senza r-assicurazioni affettive.

Antonello Fassari e Alberto Onofrietti

Ma se è vero – come è vero – che “una vita è i suoi libri“, citando il titolo di uno splendido libro di Massimo Recalcati, l’anziano Renato ha maturato una speciale predisposizione ad avvertire possibili e fertili confronti emotivi con gli altri. Perché nel leggere ci si accorge che il libro ci legge. E c’insegna che lo stesso attraversamento può avviene anche dall’incontro con gli esseri umani. Anche da quelli che sembrano così diversi da noi.

Molto efficace la costruzione dello spazio scenico – curato da Paola Comencini – modulato per accogliere occasioni d’incontro con i libri.

“Impariamo qualcosa di chi siamo dal libro che leggiamo, perché noi stessi in fondo siamo un libro che attende di essere letto”. 

E Renato lo sa e non a caso oltre alla sua testimonianza sceglie di lasciare in eredità al tempestoso Manuel un libro che ha accompagnato la sua vita ma che sente di non poter riuscire a terminare : “Guerra e pace” di Lev Tolstoj. Perchè per realizzarci come persone occorre amare la vita in tutte le sue sfaccettature, nel bene e nel male, in guerra e in pace. E lo stesso vale nei confronti di chi incontriamo: amare sempre la diversità dell’altro, così speciale proprio perché così diversa.

Alberto Onofrietti e Antonello Fassari

Ed è per questo che nell’accogliente microcosmo di Renato, che ha generosamente fatto spazio all’esuberanza -seppur ancora acefala- di Manuel, il ritratto di Antonio Gramsci può alternarsi a quello di Francesco Totti. Una fertile duttilità d’animo che non passera inosservata allo sguardo della figlia Aurora che, tornata dal padre dal quale si era isolata per 30 anni, avvertirà come la presenza di Manuel sia stata preziosa per predisporre suo padre ad un nuovo punto di vista sulle possibili deviazioni politiche giovanili. Un padre che ha imparato “a tradurre” la lingua dell’attuale impazienza giovanile.

E allora “farà giorno”.

Alvia Reale e Alberto Onofrietti

E, seppur solo per un attimo, si scopriranno – proprio come ne “I tre moschettieri” di Alexandre Dumas, primo libro letto voracemente da Manuel – “tutti per uno, e uno per tutti !”. 

E allora al di là dei duelli di parole e di silenzi, resta e vince l’acuta tolleranza verso un’onesta carenza morale e una nobile guitteria, quando queste arrivano a fiorire in generoso altruismo.

Uno spettacolo importante e necessario.


Antonello Fassari, Alvia Reale, Alberto Onofrietti 

FARÀ GIORNO 

commedia in due atti di Rosa A. Menduni e Roberto De Giorgi

regia Piero Maccarinelli

scene Paola Comencini

musiche Antonio Di Pofi 

produzione Teatro Franco Parenti 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL CASO KAUFMANN di Giovanni Grasso – regia di Piero Maccarinelli –

TEATRO PARIOLI, dal 25 al 29 Ottobre 2023 –

“La calunnia è un venticello/Un’auretta assai gentile/Che insensibile, sottile/Leggermente, dolcemente/Incomincia, incomincia a sussurrar.

Piano, piano, terra terra/Sottovoce, sibilando/Va scorrendo, va scorrendo/Va ronzando, va ronzando/Nell’orecchie della gente/S’introduce, s’introduce destramente/E le teste ed i cervelli/Fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo/lo schiamazzo va crescendo/Prende forza a poco a poco/Vola già di loco in loco/Sembra il tuono, la tempesta/Che nel sen della foresta/Va fischiando, brontolando,

E ti fa d’orror gelar…” (da “Il barbiere di Siviglia” di Gioachino Rossini)

Banalmente gelati d’orrore ci lascia infatti il proemio, affidato alla ex collaboratrice domestica di Leo Kaufmann (una Franca Penone maledettamente efficace nella sua dannata ipocrisia): una donna che, ancora dopo anni dall’esecuzione capitale del suo datore di lavoro, non riesce a provare rimorso per le conseguenze mortali che le sue calunnie, unite a quelle dei “bravi” cittadini del quartiere, hanno provocato.

“Se le leggi erano ingiuste, io non lo so. Di certo non le ho fatte io. Le leggi, caro signore, le fanno i potenti: e noi poveracci, che sgobbiamo tutto il giorno, non possiamo far niente, se non ubbidire. Io caro signore, ho la coscienza a posto, ho fatto il mio dovere, ho rispettato le leggi”.

E così, banalmente appagata da una passiva sottomissione alle leggi razziali, si bea del suo essere una brava cittadina, sfoggiando disumane giustificazioni al suo “aver fatto la pelle” all’ebreo Kaufmann. Un po’ con lo stessa fierezza con la quale esibisce “la pelle fatta alla volpe” con la quale si adorna il busto (i costumi sono curati da Gianluca Sbicca). Come la moda del tempo, infatti “detta”.

Eppure nella natura umana l’odio viene prima dell’amore. La spinta alla sopraffazione è la spinta che preme in massima misura in noi.

L’ amore invece s’impara. Così come la generosità, la misericordia, la sana complicità e quindi il riconoscimento della diversità dell’altro. È una costruzione difficile ma possibile. L’umanità si guadagna, si può guadagnare, seppure la spinta alla violenza resti una forte tentazione.

Ed è questo il messaggio che arriva allo spettatore dalla narrazione così drammaticamente significativa dell’omonimo libro pluripremiato di Giovanni Grasso, messo in scena e sapientemente enfatizzato dalla sublime eleganza della regia cinematografica di Piero Maccarinelli. 

L’autore Giovanni Grasso

La stessa costruzione dello spazio scenico (curato da Domenico Franchi) sembra alludere all’ambiguità della natura umana: dove da un lato il male regna e spinge per natura, dall’altro il bene si fa strada attraverso un costante esercizio. Quello cioè a dar voce a quell’interiorizzazione della legge, che si realizza quando ci si avvicina alle regole con spirito critico e non con mera sottomissione. E gli splendidi interventi musicali di Antonio Di Pofi nonché il disegno luminoso di Cesare Agoni ne sottolineano l’ambivalente densità.

Erano felici il Sig. Kaufmann, ebreo, e la giovane figlia del suo amico Irene, ariana.

Erano felici perché non aderivano passivamente alle leggi razziali della Norimberga degli anni ’30. 

Erano felici perché in loro ancora riusciva a farsi strada la legge del desiderare: del piacere a costruire relazioni umane vive e vibranti. Nonostante tutto.

Viola Graziosi (Irene) e Franco Branciaroli (Leo)

Relazioni che riescono a sopravvivere nonostante tutta la miseria dell’odio. Infatti, seppur separati dalla calunnia e dall’orrore delle leggi razziali, Leo e Irene non smettono di pensarsi. Non smettono di continuare a vivere nella gratitudine del ricordo, senza cedere ad una paralisi nostalgica. L’ultimo desiderio di Leo sarà quello di mandare ancora un messaggio a Irene, condannata a quattro anni di lavori forzati, per farle sapere che a lei deve quegli attimi di felicità che hanno illuminato la sua esistenza.

Il regista Piero Maccarinelli

Contro la tossicità del regime nazista, la fertile sinergia tra il testo di Giovanni Grasso e la regia di Piero Maccarinelli, riescono ad evidenziare il prezioso intreccio di relazioni umane che si tesse tra la giovane Irene, l’anziano Leo e il cappellano del carcere che raccoglie l’ultimo desiderio di Leo e lo accompagna nelle ore che lo separano dalla morte. 

Franco Branciaroli (Leo)

Franco Branciaroli entra nell’anima di Kaufmann in primis attraverso la voce. È il suo un “dar voce” al personaggio e alla persona – il libro di Grasso è infatti liberamente ispirato ad una storia vera – che prende corpo mirabilmente in una voce dalla solennità epica. Che tende a “dilatarsi” al di là della costrizione delle barre della cella di sicurezza. Al di là dell’odio e della calunnia che lo circondano e che lo hanno assediato. Una voce che si fa strada come una melodia.

Una vittima lui sì, ma dal carisma di un eroe della più fulgida umanità. Di tremenda e lacerante bellezza, poi, il suo monologo finale che magnificamente chiude circolarmente l’immagine iniziale del suo sentirsi “ombra”: solo proiezione di un corpo.

Eppure un corpo lui lo ha avuto davvero, almeno per un periodo: quello successivo all’incontro con Irene. Un incontro di una tale straordinaria umanità da rompere il normale corso del tempo abituale. “È apparsa” – dice lui. Quasi un’epifania. Il sangue torna a scorrergli nelle vene, la vita si riempie di sapori. Non è più dominata da un’inappetenza cupa e cruda. È splendida la resa interpretativa di questo fertile scambio di pensieri e di emozioni tra i due interpreti.

Viola Graziosi (Irene)

Viola Graziosi regala ad Irene una vitalità inebriante. Lei è l’incarnazione del desiderio vitale, produttivo, che porta ad esprimere il meglio di noi umani. Tutto in lei parla di curiosità. Una curiosità che dà frutto: che sublima la spinta a sopraffare l’altro attraverso la meraviglia e il rispetto per la diversità dell’altro. Incluse tutte le difficoltà dell’incontrarsi sul confine. Ma questo è il trionfo dell’essere “umani”. È il compimento del “conoscere se stessi”.

Graziano Piazza (il cappellano)

Una splendida umanità la sua, colta immediatamente anche dal cappellano: un Graziano Piazza che brilla in “sacralità”. Non è un semplice prete. È come il dio di un giudizio universale. Un dio che si commuove di ciò che siamo riusciti a fare con ciò di cui lui ci ha fatto. E insieme è un uomo che dona ascolto e regala attenzione alla controversa bellezza della natura umana. Di più: sceglie e promette di essere “testimone” dell’eredità di questa storia. Un personaggio di grande umanità e di profonda bellezza.

Il cast al completo

Molto accordati ed efficaci sulla scena anche Franca Penone, Piergiorgio Fasolo, Alessandro Albertin e Andrea Bonella.

Necessaria la scelta del Teatro Parioli di aprire ieri sera la stagione teatrale 2023/2024 con questo inno all’umanità, potente auspicio anche alla risoluzione delle conflittualità attuali.

Perché “l’indifferenza è peggio dell’odio”.

In sala il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ad onorare la bellezza incandescente dello spettacolo, oltre a numerose personalità del mondo politico. 


Recensione di Sonia Remoli

Agnello di Dio

TEATRO PARIOLI, dall’11 al 15 Gennaio 2023 –

Uno spettacolo sulla vocazione a desiderare.

Sul prurito provocato da certi dubbi riguardo il “chi siamo” e  sul che “cosa desideriamo” davvero. Fuori da ogni condizionamento esterno. A cosa siamo “chiamati?”. Qual è il nostro talento? Perché tutti ne abbiamo uno: è una certezza. 

Fausto Cabra (il padre) e Alessandro Bandini (il figlio) in una scena dello spettacolo “Agnello di Dio”

La vocazione ad “osservare”, ad esempio, è il talento di Daniele Mencarelli, autore di questa sua prima drammaturgia ma già da tempo scrittore di successo e vincitore, tra gli altri,  anche del Premio Strega Giovani 2020. Proprio questa vocazione lo porta a calare nella realtà quotidiana interrogativi chiave sul nostro modo di stare al mondo. In questo testo, fluidamente denso, l’autore ci porta a mettere a fuoco tematiche che, per natura, siamo portati a preferire tacere. 

Daniele Mencarelli, autore del testo dello spettacolo “Agnello di Dio” di Piero Maccarinelli

Che cosa si nasconde dietro il desiderio di un ragazzo di diciotto anni di voler mettere al rogo tutto ciò che gli è stato insegnato, così da sentirsi finalmente libero?  Ma libero da cosa?  Sia il padre, convocato con il figlio in Presidenza, sia la Rappresentante scolastica, sollecitano domande alle cui risposte poi reagiscono con disincanto. Piuttosto minimizzano. Non riescono ad entrare in empatia con il disagio del ragazzo. Come mai? Forse perché, più coinvolti di quanto lascino trasparire, gli interrogativi sollevati dal ragazzo hanno pungolato anche i loro 18 anni scegliendo però di non ascoltarli? E ora, forse, proprio questo evento porta a riaprire una ferita che ci si illudeva di aver dimenticato.

Viola Graziosi (la Preside) e Alessandro Bandini (il figlio) in una scena dello spettacolo “Agnello di Dio”

La raffinata regia di Piero Maccarinelli sa valorizzare ciò che nel testo chiede luce, rispettandone le ombre. All’ingresso del pubblico, il sipario è già aperto e la scena ci si offre al buio, in tutta la sua ambiguità, bagnata solamente dalle luci di sala. Poi le posizioni s’invertono: ora noi del pubblico accettiamo di lasciarci avvolgere dalle nostre ombre così da permettere l’arrivo della luce su ciò che si lascerà svelare sulla scena. Anche le note del magnificamente scarno “Miserere” composto dal celebre Maestro Antonio di Pofi ci invitano  a partecipare, a comprendere e a perdonare.

Piero Maccarinelli: il regista dello spettacolo “Agnello di Dio”

In un ufficio particolarmente elegante e stiloso, la Preside di una prestigiosa scuola cattolica paritaria (una Viola Graziosi che sa come lasciar trapelare le contraddizioni del suo personaggio lasciando che a parlare le diverse lingue siano le mani, la voce e lo sguardo) convoca un padre yuppie ( lo interpreta in tutte le sue sfaccettature il talentuoso Fausto Cabra) accompagnato dal figlio diciottenne, allievo della scuola (un intenso Alessandro Bandini). Le tensioni dell’ incontro saranno continuamente sospese dall’entrata in campo di Suor Cristiana (una deliziosamente musicale Ola Cavagna).

Viola Graziosi (la Preside) con Ola Cavagna (Suor Cristiana) in una scena dello spettacolo “Agnello di Dio”

Lo spettacolo si chiude circolarmente con le note del “Miserere” del Maestro Antonio di Pofi, suggellando una chiusura spiazzante. Un’autentica prova di “maturità”.