Un taglio di luce l’annuncia, quasi come in un quadro del Caravaggio.
La sua è un’autentica vocazione: una dedizione senza riserve, solida, appassionata, trasformatrice, rara. Persino assurda.
Ci siamo riuniti a cerchio “segnando” – come in un rito – uno spazio sacro sul palco, all’interno del quale abbiamo desiderato e chiesto che si manifestasse lei: una testimonianza vitale, carismatica, di caratura eccezionale, alla quale chiedere direzione, consiglio, ispirazione.
Ecco allora che Giovanna arriva come un’epifania. E avanza tra noi. Ma non di moto proprio: il suo è più che un camminare un essere camminata da qualcuno o da qualcosa. Un essere attirata, calamitata, da una forza d’attrazione.
Mersilia Sokoli è la Giovanna D’Arco di Luca De Fusco
(foto Claudia Pajewski)
Complici il netto disegnarsi della luce e il dolce incedere ossessivo delle note (composte da Antonio di Pofi), questa magnifica visione ci guida dentro di noi per condurci fuori, fino a contattare e ad esplorare una insolita consapevolezza.
Sì, il fulgente poema della Spaziani ci confida un’inedita versione del finale della storia di Giovanna D’Arco. Ma c’è molto di più.
E “il più resta da dire”.
Maria Luisa Spaziani
La stessa Spaziani, ha saputo rimanere in ascolto a lungo, prima che un opportuno vuoto tagliasse quel troppo pieno che stava ospitando. Fino a che non fosse pronto a dare alla luce un varco, dal quale potesse prendesse forma questo testo. Efficace proprio perché pieno, anche, di quei necessari spazi dove “il più” può continuare a dire. Proprio attraverso di noi.
Mersilia Sokoli è la Giovanna D’Arco di Luca De Fusco
A questa affascinante consapevolezza sembra opportunamente ispirarsi anche l’interpretazione di Mersilia Sokoli, dalla carismatica natura narrativa. Perché è nei varchi che s’impongono nei suoi brevi momenti di silenzio – come in quelli necessari a certe deglutizioni, o a certe torsioni degli occhi prima ancora che del corpo – che ci arriva tutta la fascinazione delle parole. Perché in lei, come nella Spaziani, anche quello che tace, parla.
Mersilia Sokoli è la Giovanna D’Arco di Luca De Fusco
(foto Claudia Pajewski)
Al termine del rito, e dopo aver applaudito gratitudine alla Giovanna d’Arco di Mersila Sokoli diretta sapientemente da Luca De Fusco, veniva quasi istintivo – forse favorito dalla nostra magica disposizione sul palco – desiderare cercare lo sguardo di qualcuno dei presenti. E scoprirvi, forse come nel proprio, tracce di un varco dal quale qualcosa era riuscito a palesarsi.
Perché, forse, c’è una Giovanna in ciascuno di noi. Una meravigliosa creatura, una poesia.
Mersilia Sokoli è la Giovanna D’Arco di Luca De Fusco
“Sono intorno a noi, in mezzo a noi. In molti casi siamo noi …”
Con un prologo che potrebbe essere anche un epilogo, l’estro del regista Andrea Baracco con acuta provocazione sceglie di orientare il pubblico in sala disorientandolo. Sì, quella che va in scena è una finzione; ma anche no.
Il regista Andrea Baracco
Se è vero – come è vero- che ciò che può l’animo umano è questione che ci riguarda tutti indistintamente, allora ha senso permettersi di additare qualcuno ? In che rapporto sono il vero con il falso ? È proprio vero che il dolore sia così inutile ?
In un’evocativa scena indistintamente bianca (curata da Marta Crisolini Malatesta), che allude alla Venezia del ‘500 ma non solo, prende vita quella dinamica così tragicamente umana da sorprendere in trappola molti dei protagonisti in scena: quella di cosa arriviamo a fare quando sentiamo che ci viene a mancare il riconoscimento del nostro ruolo sociale ed esistenziale.
Per Iago è la sua mancata promozione, che vede ingiustamente favorito Cassio; per Roderigo è l’amore per Desdemona, che quest’ultima ricambia però verso Otello; per Brabanzio è il non essere più riconoscito nel ruolo di padre da una figlia risolutamente incline a riconoscere rispetto a un padre ma di più ad un marito e obbedienza a nessuno; per Otello è il lacerante sospetto di perdere la propria virilità e il proprio valore sociale a seguito del supposto tradimento di Desdemona. Una sensazione che può diventare umanamente insopportabile: un po’ un “essere presi a calci come asini che non servono più”.
Viola Marietti (clown), Federica Fracassi (Iago) e Federica Fresco (Bianca)
Baracco nella sua messa in scena – sinergica alla traduzione e alla drammaturgia curate da Letizia Russo – onora l’eredità dello Shakespeare fine conoscitore, anzi “inventore” dell’umano, come lo definì Harold Bloom: nessuno prima di lui, infatti, ha saputo intercettare e tradurre attraverso l’esercizio del linguaggio e del pensiero le sfumature caratteriali di così tante inclinazioni umane.
E anche qui, in questa tragedia, Shakespeare ci rivela quante forme diverse può assumere la medesima dinamica psicologica nella quale restano incastrati vari personaggi. Tra loro, Iago è l’unico a mettere in campo una reazione più complessa, più maleficamente raffinata. Pur essendo abitato dall’ossessione del suo odio per il Moro, dimostra non solo di gestire magnificamente la sua ansia – così da non cadere preda dei cattivi consigli della fretta – ma soprattutto è l’unico a riuscire a non prendere le distanze dal suo nemico, perversamente escogitando il modo di continuare a servirlo servendo in verità solo se stesso. Un mettersi a servizio, il suo, non dell’amore, della stima e del rispetto verso il suo superiore ma esclusivamente del proprio personale odio, tremendamente vendicativo, nei suoi confronti.
Viola Marietti (clown), Ilaria Genatiempo (Otello) e Federica Fracassi (Iago)
Il taglio registico scelto da Baracco è tale da andare oltre “la questione del genere”: in scena fa salire solo interpreti femminili proprio per rendere manifesto come tali dinamiche più che essere legate a un genere sono la risultanza di sempre nuove combinazioni e dosaggi del maschile e del femminile, che costituzionalmente abitano la psiche di ognuno di noi.
L’effetto sullo spettatore è decisamente spiazzante come è naturale che sia, abituati e viziati qual siamo ad avere solo uno sguardo sull’argomento. E intenzione (dichiarata) del regista Baracco è proprio quella di saggiare le nostre certezze, metterle alla prova, verificarle. Suscitare in noi la fertilità del dubbio e far sì che ci accompagni come saggio consigliere dello stare al mondo. Per vedere oltre le apparenze, per cogliere le meravigliose e tragiche sfumature della nostra natura.
ph Gianluca Pantaleo
Federica Fracassi è mirabilmente “a servizio” dello Iago di Baracco: ci restituisce tutto il godimento – che arriva fino all’eccitazione parossistica – del subdolo celarsi per avvelenare e così manipolare chi ancora non conosce se stesso. Metereologicamente divina nel tessere trame narrative come piogge piuttosto che come tempeste, si manifesta “terapeutica” come l’oracolo di Delfi.
Federica Fracassi è Iago
E autenticamente proprio così vogliono essere i personaggi shakespeariani, nelle cui vene scorre il male assieme al bene; il tragico assieme al comico; il dolore assieme alla terapia. È l’incantesimo della scrittura shakespeariana che Baracco riesce a esplicitare, a rendere fruibile. Perché – come sottolineava Harold Bloom – Shakespeare è un drammaturgo analitico e molto subdolo e man mano che procede nella sua carriera, quello che intende dire al pubblico supera di gran lunga quanto invece è contenuto nei versi.
Cristiana Tramparulo (Desdemona) e Ilaria Genatiempo (Otello)
Davvero suggestiva poi la scelta registica di ambientare lo spettacolo in una scena poeticamente “vaga”, universale, e portare tutto il sapore, gli odori e i suoni della Venezia della seconda metà del ‘500 dentro i personaggi, dove le donne ad esempio godono di uno status particolare, unico nel mondo di quel periodo. Shakespeare ne viene a conoscenza leggendo il libro di viaggio di Thomas Coryat “Crudezze” scoprendo così donne dal temperamento consapevole e provocante che alla maggiore età potevano rinunciare alla patria potestà, aprire attività commerciali e pochi anni più tardi laurearsi. Donne curiose, esultanti per quel cosmo agitato e imperscrutabile che era la Venezia del ‘500 e così ben descritto nel testo di Giuseppe Manfridi “Shakespeare family”.
Ilaria Genatiempo (Otello), Cristiana Tramparulo (Desdemona) e Francesca Farcomeni (Emilia)
Ricco in fascino e in efficacia il clown interpretato da Viola Marietti: sacro per le sue polarità e per le sue acrobatiche metamorfosi. Per il suo far ridere e far piangere: lui stesso un po’ pierrot di decadente bellezza bohémien. Dapprima quasi marionetta nelle mani di Iago, poi libero di esprimersi nella sua autentica natura.
Interessante anche la Bianca interpretata da Federica Fresco che porta in campo la tempestosa natura dell’eros e ricorda l’audacia nel mostrarsi delle donne dei pittori del ‘500 veneziano, dal Tiziano al Giorgione.
Giorgione, “Laura”, 1506
Baracco sceglie una recitazione in cui il corpo delle interpreti – di un’incantevole femmilità androgina – diventi linguaggio: quello proprio di ciascun personaggio. Corpi parlanti lingue e vissuti diversi tra loro. Eppure uguali. Corpi che traducono parlando agli occhi.
Nomi, ossessivamente, risuonano sulla scena. Quale migliore inizio poteva immaginare il regista Luca De Fusco per affrontare questo testo così meravigliosamente ostico di Luigi Pirandello ?
Luca De Fusco, regista dello spettacolo “Come tu mi vuoi”
I nomi propri, infatti, sono il miglior veicolo per affrontare il tema, così caro a Pirandello, delle molteplici identità che ci abitano. Perché pur definendosi “propri” i nostri nomi sono sempre decisi dagli altri. E soprattutto sono carichi delle “loro” aspettative. Il nostro nome proprio non è nostro, sfugge al nostro potere, alla nostra volontà. È un po’ come essere dei copioni scritti da altri.
Lucia Lavia (Elma) in una scena dello spettacolo “Come tu mi vuoi”
La protagonista di questo dramma, invece, un nome osa darselo autonomamente: Ignota. Più che un nome è una condizione, di cui è consapevole. Questa la sua vera identità: essere sconosciuta a se stessa e agli altri. Alcuni la chiamano Elma, altri Lucia. Da qui il senso del titolo: sono come tu mi vuoi. “Fammi tu, fammi tu, come tu mi vuoi ! “.
Lucia Lavia (Lucia Pieri) in una scena dello spettacolo “Come tu mi vuoi”
Non si sa quindi quale sia la vera identità della donna al centro della trama: è Elma, una lasciva ballerina da locali notturni, oppure Lucia Pieri, moglie borghese scomparsa nel nulla e ricercata dal marito Bruno? Intorno al dilemma ruotano i dialoghi della pièce, che approda a un amaro finale.
Lo smemorato di Collegno
Questo capolavoro della maturità del grande autore siciliano, può aver tratto ispirazione da un celebre fatto di cronaca, avvenuto in Italia alla fine degli anni ’20, quattro anni prima della stesura di questo testo: il caso giudiziario dello «smemorato di Collegno», ovvero l’ambigua questione dell’identità di un uomo, ricoverato nel manicomio di Collegno, che una famiglia rivendicava con il nome di Giulio Canella e un’altra con quello di Mario Bruneri. Pirandello però negò sempre che “Come tu mi vuoi” avesse preso spunto da quel rebus: amava sottolineare provocatoriamente che piuttosto è stata la cronaca a copiare il suo precedente lavoro “Così è (se vi pare)”, che si conclude con l’iconica frase della signora Frola: «io son colei che mi si crede».
Una scena dello spettacolo “Come tu mi vuoi” di Luca De Fusco
Un tasso di innovazione drammaturgica molto elevato porta il regista Luca De Fusco a inglobare una molteplicità di contributi nel linguaggio spurio e multi-sistemico del teatro . Questa la sua cifra stilistica perché questa per lui è la forza del Teatro. È il suo un teatro alla Robert Wilson, dove confluiscono fortemente influenze cinematografiche e dove protagonista indiscussa è la luce.
Una scena dello spettacolo “Come tu mi vuoi”di Luca De Fusco
In questo spettacolo, nello specifico, De Fusco sceglie di dare una lettura dei personaggi non caricaturale ma “esistenzialista”. Complici i preziosi contributi della nota scenografa Marta Crisolini Malatesta e del maestro della luce Gigi Saccomandi. Una tale appassionata sinergia dà vita ad una messa in scena portentosa, dove un telo “vela” la quarta parete per aprirla ad uno sguardo più intimo e conturbante: quello dei pensieri e delle emozioni più inconfessabili. Spudoratamente sezionati e ossessivamente replicati sulla “retina” dei nostri occhi.
Una scena dello spettacolo “Come tu mi vuoi”di Luca De Fusco
E moltiplicati serialmente da una scenografia di specchi, che come un ipnotico ventaglio ci allontana, in realtà avvicinandoci, le molteplici identità dei protagonisti. Scorre nello spettatore il ricordo della scenografia utilizzata nel 1948 da Orson Welles per “La signora di Shanghai”, così come la trasformazione dell’Ignota defuschiana in una dark lady, alla maniera in cui Welles volle trasformare Rita Hayworth. E ancora, il messaggio intrinseco del film, così vicino a questo testo pirandelliano: squali che divorano se stessi in un cupo mondo coinvolto in inesplicabili complotti. Un universo di inganni dominato dall’ambiguità delle persone e dei sentimenti.
Una scena dello spettacolo “Come tu mi vuoi”di Luca De Fusco
Il ruolo di prima attrice di questo capolavoro della maturità del grande autore siciliano viene affidato dal regista De Fusco a una delle stelle nascenti del panorama attoriale italiano: la giovane Lucia Lavia. Conosciuta per l’indefessa determinazione e per l’appassionato impegno, Lucia Lavia dimostra di continuare ad affinare le proprie capacità artistiche e la sua intelligenza teatrale, spaziando tra codici recitativi e drammaturgici differenti. La sua interpretazione risulta profondamente intensa: graffiante e insospettabilmente tenera; erotica e struggentemente malinconica. Una Femme fatale venata dalla tragicità di un Pierrot. La sua capacità di restituire una ricchezza di sfumature così umanamente eccessive, emoziona e commuove.
Lucia Lavia
Suoi affiatati compagni di scena si rivelano Francesco Biscione, Alessandra Pacifico, Paride Cicirello, Nicola Costa, Alessandro Balletta, Alessandra Costanzo, Bruno Torrisi, Pierluigi Corallo e Isabella Giacobbe.
Leggi l’intervista rilasciata al Corriere della Sera
IL RIFORMATORE DEL MONDO MINETTI Ritratto di un artista da vecchio Di Thomas Bernhard
Con GLAUCO MAURI, ROBERTO STURNO E con: FEDERICO BRUGNONE, STEFANIA MICHELI, ZOE ZOLFERINO, GIULIANO BRUZZESE
Regia Andrea Baracco Musiche Giacomo Vezzani , Vanja Sturno Scene e Costumi Marta Crisolini Malatesta Luci Umile Vainieri Foto di scena Manuela Giusto Produzione Compagnia Mauri-Sturno
Il poliedrico regista Andrea Baracco, sempre così interessato all’umanità che si nasconde dentro quei personaggi che sembrano meno predisposti ad accoglierla, è il curatore di questo interessantissimo progetto della Compagnia Mauri-Sturno “Interno Bernhard. Qui, lo spettatore, pur rischiando di essere fagocitato da insoliti esempi di umanità, coglie l’occasione di entrare a conoscere i loro “ambienti vitali”.
Andrea Baracco, il regista dello spettacolo “Interno Bernhard”
Nel primo dei due testi di Thomas Bernhard, immenso e irrinunciabile autore del Novecento non solo tedesco, ci troviamo al cospetto di un duplice paradosso umano: un intellettuale sceglie di ricevere in casa propria, rinunciando al plauso ufficiale, coloro che lo insigniranno della laurea honoris causa per aver scritto un Trattato su come poter salvare il mondo: eliminandone l’umanità.
Roberto Sturno e Stefania Micheli in una scena di “Interno Bernhard”
L’autore del Trattato (un efficacissimo Roberto Sturno), pur consapevole che l’insigne premio gli verrà conferito da chi in realtà non ha letto l’opera o non l’ha compresa (vista la paradossale soluzione proposta e teorizzata in essa) non rinuncia al piacere, e quindi a quella parvenza di calore, comunque insito nell’attesa di un’insolita cerimonia privata.
Per poi trasformarla in una pubblica denuncia della perdita di confidenza degli umani con gli elementi della natura. Nessuno “vive”: ci si limita a trovare bello “esistere”. Tirare avanti. Per questa tragicomica consapevolezza, “il riformatore” preferisce isolarsi nel suo microcosmo mentale, oltre che fisico: un asfittico e opprimente ambiente plumbeo, quasi una cappellina cimiteriale sul cui trono/sepolcro campeggia un uomo vivo e morto, profondamente sensibile e solitario. Dove non è più tollerata aria “nuova” ed è ritenuto avvilente dover sprecare di prima mattina la parola “fuori”.
Qui, anche il tempo sembra aver trovato una misurazione autonoma: sono scritte parietali dove lo spostarsi di un raggio di luce fa da lancetta digitale. “Il riformatore” del caos non vive-sepolto in solitaria: viene accudito da una donna, con la quale è in continua opposizione: quasi un’urgenza per poter accendere una qualche scintilla vitale. Per fare entrare calore: oltre che con i soliti pediluvi.
Perché tutto gli rovina lo stomaco: la cucina, la filosofia e la politica. È un’ossessione di assoluto quella che sovrasta l’ineluttabile imperfezione dell’esistenza, per Thomas Bernhard. E che tramuta la commedia in tragedia. E viceversa. Non resta, quindi, che concepire la vita come un acrobatico esercizio di resistenza artistica.
Roberto Sturno e Glauco Mauri in una scena di “Interno Bernhard”
Suonando “all’interno Minetti””, lo spettatore viene apparentemente accolto nella apparentemente calda hall di un hotel. Dove, Minetti (un trascendentale Glauco Mauri), ormai attore vecchio e disincantato, arriva in un 31 dicembre. Da trent’anni viaggia per teatri con la sua inseparabile valigia, dove custodisce la maschera di Re Lear. Anche nella hall di questo hotel, Minetti si confronterà con due giovani donne che ricordano in qualche modo le due figlie di Re Lear.
Glauco Mauri in una scena di “Interno Bernhard”
Ma in verità la hall è (anche) il foyer di un teatro dove Minetti attende di essere convocato, anche questa sera del 31, per andare in scena con il suo personaggio. Il direttore del teatro non arriverà ma l’occasione dell’attesa sarà colmata da un racconto ammaliato e ammaliante sull’arte dell’attore. Una sorta di insolita lectio magistralis, dove “l’interno” fisico lascia penetrare quello mentale in un gioco di scambi, dove i personaggi del teatro osmoticamente passano nel foyer/hall e gli ospiti dell’hotel penetrano sul palco. Perché questa è l’arte di vivere: un’arte mai disgiunta dalla paura. Dove si va sempre cauti nella direzione opposta alla meta.
“Siamo venuti per niente, perché per niente si va -direbbe De Gregori- e il sipario è calato già su questa vita che tanto pulita non è, che ricorda il colore di certe lenzuola di certi hotel”. Lo spettatore pretende di essere divertito e l’attore è tentato di assecondarlo. E invece no: va turbato. L’attore è inquietudine. L’attore deve terrificare.
Glauco Mauri in una scena di “Interno Bernhard”
E intanto il direttore del teatro non arriva. Ma “più aspetti, più diventi bello” – dice Minetti. Qualcosa accadrà. Qualcosa di terrificante ma indubbiamente necessario. Che collega spettacolarmente e narrativamente le due facce (“Il riformatore del mondo” e “Minetti”) dello stesso “interno”.
Andrea Baracco, Glauco Mauri e Roberto Sturno
“Il direttore del teatro” arriverà: agli applausi. Lunghissimi. E, così come gli attori, sembra dirci: “Eccomi qua, sono venuto a vedere lo strano effetto che fa. La mia faccia nei vostri occhi…”.
Nell’affascinante e cosmopolita Venezia del Cinquecento tutto può coesistere. Per sua stessa natura è città di terra e insieme di mare; è politicamente gestita da un governo misto (Doge, Senato, Gran Consiglio); è porta d’Oriente e insieme potenza d’Occidente; è disseminata da chiese cattoliche eppure è anche protestante; è conservatrice ma anche tollerante.
Paolo Valerio, il regista di questo adattamento de “Il mercante di Venezia”
Scenograficamente il sipario si apre su un’imponente struttura muraria: aperta ma insieme esclusiva (le scene sono di Marta Crisolini Malatesta). Dal 1516, infatti, la Serenissima decide di raccogliere tutti gli ebrei stabilitisi a Venezia in un’isola nella parrocchia di San Girolamo, a Cannaregio: luogo facilmente isolabile dal resto della città. E anche lo Shylock di Paolo Valerio esce da un luogo aperto ma separato dalla zona del proscenio, dove si muovono gli altri personaggi, veneziani.
Piergiorgio Fasolo è Antonio: il mercante di Venezia di questo adattamento
Antonio, ad esempio: mercante e uomo della Venezia del Cinquecento, “fotografato” nel suo essere consapevolmente impotente di fronte alla maledettamente affascinante precarietà della vita. Il suo capitale economico poggia sull’acqua, quindi sul più instabile dei sostegni, così come il suo “investimento” d’amore è tutto ed esclusivamente puntato su un uomo, Bassanio. Questi, oscillando non meno dell’acqua del mare, lo ricambia ma insieme lo coinvolge nell’aiutarlo a conquistare la donna di cui si è innamorato: Porzia. Bassanio ha bisogno di soldi per raggiungere la sua amata; soldi di cui Antonio non dispone sul momento ma che, pur di soddisfare il desiderio ondivago di Bassanio, non indugia a chiedere in prestito, venendo a patti addirittura con il peggiore dei suoi nemici: l’ebreo usuraio Shylock.
La scena cult de “Il mercante di Venezia”
Quest’ultimo, invece, poco incline alle oscillazioni della vita, ne approfitta per saldare la sua vendetta personale e culturale in maniera tragicamente definitiva: se per qualche motivo i soldi prestati non fossero restituiti, in cambio lui avrà diritto ad una libbra della carne di Antonio, tagliata laddove meglio Shylock crederà. E sarà proprio quell’instabilità legata al mare che farà affondare le navi di Antonio, cosicché lui si troverà davvero nella situazione di cedere, per amore e insieme in ottemperanza al capriccioso contratto dell’usuraio Shylock, una libbra della sua carne.
Senonché a salvarlo sarà proprio l’arguzia della sua “rivale in amore” Porzia, l’altro amore di Bassanio, che darà prova a Shylock di come anche la stabilità di un contratto può diventare ondivaga, instabile. L’usuraio farà un passo indietro, mosso dalla ricerca di un ultimo residuo di stabilità. Ma sarà ancora una scelta sbagliata, perché l’effervescente e mutevole vita della Venezia del Cinquecento, e non solo, predilige uomini inclini a “sbilanciarsi”, a perdere l’equilibrio pur di arrivare ad assaporare davvero il fuggevole sapore della vita. La bilancia di Shylock diventa allora il simbolo dell’impossibilità di rincorrere il “giusto” peso delle scelte. Concetto declinato molto suggestivamente nei contributi musicali di Antonio di Pofi, celebre e raffinatissimo compositore.
Franco Branciaroli, lo Scylock di questo adattamento de “Il mercante di Venezia”
Lo Shylock di Paolo Valerio è un mirabile Franco Branciaroli che si cala nel ruolo facendosi guidare dalla meraviglia per questo essere umano, anche quando sprofonda nelle scelte più perverse. Lo spettatore può così odiare fino al ribrezzo il personaggio ma anche coglierne l’umana ostinazione, dettata da una potentemente fragile insicurezza. Fino ad arrivare a non vergognarsi nel momento in cui scopre di immedesimarvisi. Almeno un po’.
Franco Branciaroli ha la fortuna di avvalersi della complice professionalità degli attori in scena: tutti efficacissimi.
Come in una palingenesi dei fini, arguto risulta il “nuovo” finale immaginato dal regista Paolo Valerio per questo adattamento de “Il mercante di Venezia”.
Molto persuasivo il modo di rendere la compresenza delle scene; acutissima la scelta di utilizzare i proiettori come oggetti di scena; poeticamente suggestiva la scena finale dell’attesa del ritorno a Bellamonte.
Un particolare omaggio poi ai costumi femminili, che rendono, anche visivamente, l’idea del ruolo “speciale” che la donna del Cinquecento aveva solo a Venezia (i costumi sono di Stefano Nicolao).
Qui l’intervista Paolo Valerio, regista di questo adattamento de “Il mercante di Venezia”