Recensione di SABATO, DOMENICA e LUNEDI – regia Luca De Fusco

– Commedia in tre atti di Eduardo De Filippo –

TEATRO ARGENTINA

dal 25 Novembre 2025 al 4 Gennaio 2026

“Sì, ma ci vuole coraggio”.

Con queste parole Eduardo De Filippo decide di farci conoscere il titolo del romanzo che zia Memé sta scrivendo con l’aiuto del Dott. Cefercola.

Eduardo De Filippo

Memé – scissa tra una maternità iperprotettiva e una femminilità d’avanguardia – è donna che non si accontenta rassegnata e soddisfatta. Piuttosto è alla continua ricerca di conoscere se stessa, per un bisogno irrinunciabile di sentirsi viva, piena di entusiasmo. 

Il suo romanzo è infatti una sorta di autobiografia che si propone di trasformare il caos “dei ricordi, delle impressioni, delle delusioni, delle rinunzie” in una narrazione. Stimolando così in lei un processo interiore di autoconsapevolezza tale da permetterle di dare un senso alla propria esistenza, ridefinire la propria identità, elaborare il passato e connettersi più profondamente con sé stessa e con gli altri.

E’ lei, zia Memé (qui una sapientemente umana Anita Bartolucci) il punto di riferimento della famiglia, quando si tratta di capire come meglio relazionarsi l’uno all’altro.

La zia dichiara infatti che, sebbene nella sua vita inevitabilmente ci siano state delle rinunce, “la mia vita è stata una vita felice, o per lo meno ho fatto tutto il possibile per farla essere come volevo io”.

Quindi, a qualche livello, Eduardo De Filippo ci sta dicendo che si può essere felici, “sì, ma ci vuole coraggio”.

Teresa Saponangelo (Rosa Priore) – Claudio Di Palma (Peppino Priore)

Perché ci vuole coraggio per aprirsi fino a fare “esodo” dal nostro egoismo, per diventare “prossimo” dell’altro. Superando le barriere dell’incomunicabilità e della diffidenza.

Coraggio che sfugge, a volte, a Peppino (qui un luminosamente inquieto Claudio De Palma). Il quale nei momenti in cui tenta di entrare in relazione con qualcuno, soprattutto con sua moglie Rosa (qui una Teresa Saponangelo di vertiginosa bellezza), si sente “invaso” da immaginifiche presenze. Tanto da reagire sentendo l’urgenza ossessiva di “chiudere gli occhi” a tutte le finestre. Come a tenere fuori tutti gli sguardi su di lui.

Ci vuole coraggio allora anche a restare in ascolto dell’altro per la sua unicità, fatta di fragilità. Entrare in relazione significa infatti farsi luogo di creazione di significato. Luogo che trascende la semplice connessione, per trasformarsi in un percorso di cura reciproca, di scoperta di sé e quindi di superamento del proprio egoismo. 

Rossella De Martino(Virginia, cameriera), Paolo Serra (Luigi Ianniello), Teresa Saponangelo (Rosa Priore)

(ph. Tommaso Le Pera)

E poi ci vuole coraggio anche a tirar fuori “le amarezze” o, ancor meglio, a discuterne con l’altro non appena si palesino. Al di là dell’angoscia di essere esclusi dal suo sguardo e dalle sue attenzioni. Senza reagire solo in difesa, ma anche in avanscoperta. Aprendosi all’intimità di un dialogo: “Noi – dirà Peppino sul finale a sua moglie Rosa – io e te, siamo stati tanti anni insieme, abbiamo fatto tre figli, e non siamo riusciti a raggiungere quell’intimità che ti fa dire pane al pane, vino al vino”. 

Il coraggio di cui ci parla Eduardo si relaziona con la paura, che può essere saggia, e diventa l’intervento umano che supera l’istinto. Perché qualcosa di luminoso lo chiede, da dentro di noi.

Luca De Fusco

(ph. Tommaso Le Pera)

Profondamente acuta la scelta registica di Luca De Fusco di valorizzare questa tensione tra dentro e fuori, tra conosciuto e sconosciuto, tra sè e altro da sè, visualizzandola attraverso lo spazio scenico -fisico e metaforico- del balcone. 

Uno spazio che rappresenta il confine tra pubblico e privato: un elemento di transizione tra interno ed esterno, tra passato e futuro. Che funge da specchio per le emozioni e le aspirazioni umane: dalla celebrazione dell’amore romantico, alla rappresentazione della malinconia esistenziale. La cura delle scene e dei costumi è di Marta Crisolini Malatesta.

(ph. Tommaso Le Pera)

Icastica la scena di apertura dello spettacolo con i protagonisti – tranne Rosa e Virginia intente nel laboratorio alchemico della cucina – prossemicamente “in relazione” sulla soglia del balcone di casa Priore. Chi immergendosi, chi sfuggendo, la luce surreale del proprio sé più intimo e inconscio (la cura della drammaturgia delle luci è di Gigi Saccomandi). Tutti sotto un cielo azzurro, abitato da nuvole che parlano di impermanenza, di trasformazione, di mutevolezza. Ma anche di libertà.

Non a caso “Sabato, domenica e lunedì “ è una commedia che Eduardo inserisce nella “Cantata dei giorni dispari”: una raccolta di commedie – scritte dal 1945 al 1973 – dove i “giorni dispari” sono quelli negativi, quelli legati a ciò che resta della realtà sociale, dopo le distruzioni materiali e morali causate dalla guerra.  

E la prima forma di socialità ad essere analizzata è proprio quella della famiglia – specchio dei cambiamenti sociali – mostrando la frammentazione del nucleo patriarcale, i conflitti generazionali, il difficile rapporto tra padri e figli. Ed evidenziando come l’unità familiare possa sgretolarsi sotto il peso di tensioni individuali e sociali, riflesso anche del disagio di un’epoca. 

Qui in“Sabato, Domenica e Lunedì” Eduardo, con la sua sapiente cifra stilistica dolce-amara, lascia emergere dai toni della commedia temi di rilevanza sociale, come ad esempio il mito del lavoro e il suo efficientismo sterile, che finisce per svuotare e rendere gli uomini spaesati di fronte alla gestione del tempo libero. E ancora, la seduzione della pubblicità e la sua ipocrita fidelizzazione attraverso concorsi a premi. 

E poi la crisi dei padri, quasi infastiditi dalle scelte dei propri figli: dal farsi testimoni creativi – e quindi anche critici – dell’eredità paterna. Padri che fanno fatica “a saper tramontare , ovvero a lasciare spazio ai figli, ritirandosi dal centro della scena per permettere loro di crearsi una propria identità. Senza rimanere ingombranti.

(ph. Tommaso Le Pera)

Perché la famiglia è un pò come il ragù, sembra volerci dire Eduardo.

E’ una ritualità che si fonda sulla cura e sul saper attendere.

E’ un incontro sempre uguale e sempre nuovo da condividere. 

Teresa Saponangelo (Rosa Priore)

(ph. Tommaso Le Pera)

La lunga e lenta cottura del ragù è infatti metafora della cura e del tempo da dedicare alla relazione con l’altro. Un atto d’amore che non si dà una volta per tutte, ma che chiede di rinnovarsi continuamente. Ogni volta. Lo stesso termine “ragù” – derivando dal francese “ragoût” e a sua volta dal verbo “ragoûter” – significa “risvegliare l’appetito” o “ravvivare il gusto”. 

Non a caso Rosa sottolinea l’importanza di un ingrediente “scomodo” come la cipolla. Una pungente amarezza il cui segreto è  –  quando soffriggendo lentamente si consuma fino a creare intorno al pezzo di carne una specie di crosta nera – versarvi sopra il quantitativo necessario di vino bianco, cosicché la crosta si sciolga fino ad ottenere “quella sostanza dorata e caramellosa che si amalgama con la conserva di pomodoro. E si ottiene quella salsa densa e compatta che diventa di un colore palissandro scuro, quando il vero ragù è riuscito alla perfezione”. 

Claudio Di Palma (Peppino Priore)

(ph. Tommaso Le Pera)

Quell’amarezza inevitabile anche in una relazione di coppia, o familiare, che richiede di essere annaffiata da un generoso versare di parole a chiarimento. Per tirar fuori da questa amarezza quel caramello che poi si sposa magnificamente con la passionalità creativa.

E invece Rosa e Peppino è almeno da quattro mesi che si soffriggono nell’amarezza, senza versare neanche un filo di parole sull’accaduto. Ne risulta che Peppino ha perso il suo appetito, facendosi possedere dal “quel mostro dagli occhi verdi” della gelosia e lasciandosi “fare dalla Luna”, che “quando si avvicina troppo alla terra fa impazzire gli uomini”. E Rosa si sta caricando di rabbia, come una molla pronta a saltare fuori dalla scatola, che ancora la contiene, fino a spegnersi dolorosamente.

Al malcelato rancore che fatica a liquefarsi tra Rosa e Peppino e che finirà per far “attaccare” la loro relazione alle pareti del contenitore familiare, si somma una lunga “pippiatura”.

Mersilia Sokoli (Giulianella)

Una fase cioè di lentissima cottura delle “varie specie di carni”, rappresentata dall’esuberante vitalità inquieta dei figli e di un nonno tutti in bilico tra la tentazione a replicare l’imprinting familiare e la voglia di inserirsi nel futuro; la zia Memé che sublima la sua iper protezione verso il figlio con la passione per i libri e per l’emancipazione femminile;  la generosa espansività dei vicini di casa Ianniello; una cameriera con la croce di un fratello traumatizzato dagli orrori della guerra e uno zio che alla fragranza del ragù preferisce le tavole del teatro.

Teresa Saponangelo ((Rosa Priore) – Claudio Di Palma ( Peppino Priore)

Il regista De Fusco sa lasciar parlare il testo di Eduardo De Filippo in tutta la sua valenza carica di sfumature, restituendo ed interpretando quel “fermento contestatario, quell’anticipazione dell’avvento del divorzio in Italia, quell’apparente fusione di finti rapporti cordiali in una famiglia, in cui convivono i rappresentanti di tre generazioni” ( Eduardo De Filippo sul «Roma» del 7 maggio 1969).

Ma soprattutto la regia di De Fusco veicola efficacemente quella calda e pungente sensazione che, solo entrando in una “relazione” amorosa, due persone possono restare unite: non per il matrimonio e nemmeno per i figli.

Piuttosto per quel desiderare ancora una volta un nuovo inizio, che si genera quando l’esuberante amarezza trova un varco nell’intimità del dialogo: in “un affacciarsi”, che tiene l’altro negli occhi. Anche dopo che scompare alla vista.

Maria Cristina Gionta (Elena)

Lo spettacolo di De Fusco si avvale della complicità di un folto cast attoriale accordatissimo,

Teresa Saponangelo, Claudio Di Palma, Pasquale Aprile, Alessandro Balletta, Anita Bartolucci, Francesco Biscione, Paolo Cresta, Rossella De Martino, Renato De Simone, Antonio Elia, Maria Cristina Gionta, Gianluca Merolli, Domenico Moccia, Alessandra Pacifico Griffini, Paolo Serra, Mersilia Sokoli

che brilla e commuove nel restituire la sensazione di come noi umani – al di là delle più disparate differenze sociali e culturali – si vive tutti di attenzioni e di sguardi.

Altrimenti è come non esistere, è come essere invisibili.

“Ma mannaggia la morte fetente: ma perché la gente non capisce mai per conto suo quello che può essere il desiderio di una persona e l’accontenta subito, senza costringere questo disgraziato ad usare la forza per ottenere quello che gli spetterebbe di diritto?”.

Francesco Biscione (Antonio Piscopo, padre di Rosa)



Recensione di Sonia Remoli

EDIPO RE – adattamento e regia Luca De Fusco

TEATRO ROMANO DI OSTIA

dal 2 al 6 Luglio 2025

Travolgente successo al Teatro romano di Ostia per la prima dell’ Edipo re di Sofocle nell’adattamento e regia di Luca De Fusco, traduzione Gianni Garrera.

Luca De Fusco

(ph. Tommaso Le Pera)

Uno spettacolo con Luca Lazzareschi, Manuela Mandracchia, Paolo Serra, Francesco Biscione, Paolo Cresta, Alessandro Balletta – in prima nazionale dal 2 al 6 Luglio – che inaugura la prima edizione del Teatro Ostia Antica Festival- Il senso del passato.

Lo sguardo dello spettatore – incastonato nell’area Archeologica degli scavi e insieme solleticato dall’invitante brezza salata del ponentino romano- inizia a fare esperienza di quella ritualità propria del rapporto tra libertà e necessità, di cui il testo di Sofocle – qui tradotto dal filologo Gianni Garrera – ha cura di descriverci.

Emerge così, dal crepuscolo estivo, una scena sempre più ammiccante e notturna. Modulata in diversi livelli di scale, che ospitano presenze simboliche. Alludenti a identità segretamente celate sotto la formalità borghese di tre cappelli magrittiani e in una testa in gesso velata, sempre di magrittiana memoria, splendida allusione al rapporto dell’uomo con la conoscenza. 

Una scena essenziale e simbolica – curata dall’elegante estro scenografico di Marta Crisolini Malatesta, qui artefice anche dei costumi – che richiamandosi alle potenzialità dinamiche insite in una concezione scenica visionaria come quella di Adolphe Appia, va al di là della mera messa in scena di un testo letterario. E si apre al potere della luce come elemento visivo, capace di creare un’atmosfera: mutando assieme alle azioni e alle emozioni dell’attore. 

Concezione scenica efficacemente in sinergia con l’estetica surrealista magrittiana, in grado di insinuare dubbi su oggetti, paesaggi ed esperienze della più concreta e banale vita reale, proprio attraverso un maniacale realismo espressivo. Ne scaturisce così un paradosso dall’illusionismo onirico, perfetto per dare ospitalità alla tragedia dell’Edipo re, così come immaginata dallo sguardo registico di Luca De Fusco. 

Ecco allora che, furtivamente, lo spettatore si trova calamitato in un misterioso avvio, che coincide con l’introduzione a una dimensione altra. Attraverso un disegno luci atmosferico e narrativo – la cui cura è affidata a Gigi Saccomandi – entra in scena il linguaggio onirico/inconscio della luce insinuante delle ombre, accompagnato dalla misteriosa cromaticità di una tessitura drammaturgica al violino – le musiche sono di Ran Bagno – il cui virtuosismo, incarna quel quid di trascendentale, fascinoso e conturbante.

Complice una creazione video-scenografica che, come uno specchio, rimanda e visualizza surrealisticamente l’habitat inconscio della psiche dei personaggi  – le splendide creazioni video sono opera di Alessandro Papa – anche lo spettatore viene gettato nella situazione traumatica della carestia e della successiva peste, in cui è immersa Tebe. Edipo è il re, e a lui le varie aree della sua psiche, nonché la popolazione di Tebe, chiedono salvezza, liberazione.

L’adattamento e la regia di Luca De Fusco partono da qui, per  concentrarsi sulla fragilità delle dinamiche conoscitive di Edipo, così simili alle nostre. Non a caso Freud fece della storia di Edipo il fulcro dell’esplorazione delle modalità psichiche umane. 

Luca Lazzareschi

L’Edipo di Luca Lazzareschi è magnifico nel suo darsi in una sventurata ostinazione, che però non smette mai di commuoverci. Perché ci appartiene intimamente. Ce ne parla la sua postura così solenne eppure così tormentata: tutta incentrata nella tensione tra il suo ergersi da sapiente, la sua falcata sicura e il suo modo poi di abbassare il capo, proprio di chi viene colto e avvolto dalla confusione e dal dubbio. E lui, anziché restare in questo tunnel di fertili incertezze tutte da esplorare, le scaccia per poi inevitabilmente imbattervisi inconsapevolmente. E poi c’è la sua vocalità: così chiara e piena di ritmo, sicura fino all’impertinenza. E poi arrendevole, mortifera e mortificante.

E ancora, atterrisce e affascina il relazionarsi chiuso di Edipo verso Creonte (qui un efficace Paolo Serra), con il quale non riesce ad allacciare un equilibrio di posizioni divergenti. Edipo è il primo detective nella storia del romanzo giallo – come la lettura registica di De Fusco sa sottolineare – ma la sua capacità di indagine è efficace solo formalmente: Edipo sa chiedere attraverso un editto, sa da chi può farsi aiutare per ricavare indizi dalle tracce, ma poi non ce la fa a scendere ad analizzare le loro profondità.  

Paolo Cresta (secondo Nunzio, secondo Corifeo) – Luca Lazzareschi (Edipo) – Alessandro Balletta (terzo Corifeo) – Francesco Biscione (primo Corifeo)

Incantevolmente struggente è la visualizzazione che di questo concetto ci offre la regia di De Fusco, quando sceglie di far prendere in mano ai tre Corifei (Francesco Biscione, Paolo Cresta, Alessandro Balletta) la testa di gesso velata. Per poi svelarla.

E’ una tendenza tutta umana, infatti, quella per cui ci si affanna nella curiosità insaziabile di sapere, per poi rimanere sorpresi nello scoprire che siamo capaci di sopportare solo piccole dosi della verità che ci si mostra.

Manuela Mandracchia (Giocasta) – Luca Lazzareschi (Edipo)

E’ l’effetto che ogni volta l’oracolo ha su coloro che a lui si rivolgono, come ad una sorta di arcaico psicoanalista, quando sono in una crisi tale che non sanno da dove cominciare a dipanare la nebbia dei dubbi. Ad esempio quando Edipo scopre di essere stato adottato: l’oracolo non risponde alla sua domanda su chi sono i suoi genitori biologici ma gli dice che è importante che lui consideri – e quindi metta in relazione con le sue aree psichiche migliori – anche la realtà che dentro di sé esiste una tendenza che lo spinge ad uccidere suo padre, per poi sostituirlo nel ruolo di marito con la madre. 

Ma Edipo è così turbato da non riflettere bene sul significato metaforico del consiglio. Lo prende invece alla lettera e crede che la cosa migliore sia sfuggire dai genitori adottivi. Così qui: quando Edipo manda Creonte a chiedere all’oracolo come fare per liberarsi dalla peste e poi ascolta il responso, inizia a fare fatica a rimanere concentrato sulle prime testimonianze. Perché sente che si sta avvicinando ad una verità grande, difficile da accogliere e da mettere in relazione con la propria autostima. Sente, che proprio nell’indagare, è se stesso che sta cercando. Ed è di straordinaria bellezza tragica. 

Luca Lazzareschi (Edipo, Tiresia, Servo di Laio, Nunzio)

L’acme del disagio si raggiunge con Tiresia – qui reso attraverso una seducente ed efficace proiezione video, che ne fa una creatura volatile che dondola imprigionata in una gabbia. Lui che era un esperto dell’ arte divinatoria analizzando il comportamento, il canto e la direzione del volo degli uccelli . Assai avvincente la sua vocalità: dalla musicalità cantilenante distorta, vagamente gracchiante eppure così divina. 

Nella profonda lettura di De Fusco anche Tiresia  – così come il Servo di Laio e il Nunzio, essendo coloro che a qualche livello conoscono la verità – divengono aree diverse della psiche di Edipo, le quali entrano in tensione con la prepotenza del suo ”io”. Che – come sosteneva Freud – “non è padrone in casa propria”. Infatti la tensione con l’area psichica rappresentata da Tiresia diviene così ingombrante, da far arrivare Edipo a sospettare un complotto contro di lui da parte dello stesso Tiresia e di Creonte.

Luca Lazzareschi (Edipo) – Manuela Madracchia (Giocasta)

Non lo convince a desistere dall’andare ciecamente avanti nella sua ricerca, neanche l’approccio di Giocasta (qui una suadente Manuela Mandracchia, meravigliosa nube cumuliforme), che versa nell’orecchio di Edipo il dubbio che in fondo gli oracoli non sono poi così puntuali. E che preferibile per lui sarebbe, scegliere “il meglio” piuttosto che “la verità”.

E così Edipo impara, e noi con lui, che nessuno in quanto “figlio” può essere padrone delle proprie origini. Tutti noi, sosteneva Jacques Lacan, veniamo al mondo “a mollo nel linguaggio dell’altro”. E il nostro primo “altro” sono i nostri genitori, dai quali Edipo non eredita altro se non un abbandono e un (mancato) infanticidio. Eredità che ripeterà, non accettando di “conoscere se stesso” nel bene e nel male, così come di non poter conoscere tutto. Tra l’altro, sostenere massicce dosi di verità non è affatto semplice: Jung diceva ai suoi pazienti psicotici che “è bene non aprire tutte le porte: quello che può uscire, rischia di catturare la mente senza restituirla”. 

Ma se è vero che per Edipo, e per noi umani, fare esperienza di “libertà” significa conoscere se stessi nel bene e nel male ed accettarsi, dietro ad Edipo c’è anche “il destino” che parte dalla violenza subita da suo padre da parte dei Dioscuri di Tebe e poi a sua volta ripetuta da Laio su Crisippo. 

E’ per questo che l’oracolo dice a Laio che, se avrà un figlio, ne verrà ucciso e diverrà lui marito a sua madre. E Laio anziché decifrare questo messaggio metaforico, pensa di evitarne gli effetti dapprima proteggendo i suoi rapporti e poi consegnando il neonato affinché venga ucciso. Edipo sopravviverà e quando, scoprendo di essere un figlio adottato ne andrà a chiedere informazioni all’oracolo, lui stesso cadrà nello stesso errore di non decifrare l’oracolo ma di sfuggirne gli effetti interpretandolo letteralmente. E così, sconvolgendo i rapporti “sociali” di parentela, Edipo – che aveva risolto l’enigma della Sfinge – finirà per darà origine lui ad altri enigmi, del tipo: “chi è colui che ha un padre che è anche un suocero? Chi è colui che ha una madre che è anche una moglie? Chi è colui che ha fratelli anche come figli? Tanto che, nelle “Fenicie”, Seneca mette in scena un Edipo vecchio e disperato a cui fa dire: “Se io da qui raccontassi ciò che ho fatto della mia famiglia, proporrei enigmi più inestricabili di quelli della sfinge”. 

(ph. Claudia Pajewski)

Accattivante lo sguardo registico di Luca De Fusco nel suo scegliere di indagare, fino a visualizzare negli occhi dello spettatore ciò che Edipo tende ad allontanare da sè.  

Lui stesso, il regista, un detective nel consultare e interrogare il passato.

Scoprendo di essere capace di cura e di responsabilità nel presente e nel futuro, così da tenere alta la consapevolezza di chi siamo, da dove veniamo e fino a dove abbiamo la possibilità di spingerci.

Per non perdere niente di ciò di cui è fatta la nostra vita. Niente e nessuno. 

Da questo sguardo di cura sul passato che si riflette sul presente, prende forma anche il desiderio della realizzazione del Teatro Ostia Antica Festival-Il senso del passato: il Festival che a Roma ancora non c’era e che è stato fortemente immaginato da Luca De Fusco – ci confida Il Presidente della Fondazione Teatro di Roma Francesco Siciliano nel suo discorso di apertura, alla prima di “Edipo re”. Un nuovo inizio a cui la comunità romana ha risposto con grande entusiasmo.


Dopo i grandi successi dei primi due appuntamenti

“’Antigone di Mendelssohn” direttore Francesco Lanzillotta 

e

“Edipo re” per l’adattamento e la regia di Luca De Fusco

il Teatro Ostia Antica Festival – Il senso del passato

prosegue con

“Antigone” di Jean Anouilh per l’adattamento e la regia di Roberto Latini. 

il 18 e il 19 Luglio 2025


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo GUERRA E PACE – di Lev Tolstoj – adattamento di Gianni Garrera e Luca De Fusco – regia Luca De Fusco

TEATRO ARGENTINA, dal 4 al 23 Febbraio 2025

Si accede nell’opera-mondo “Guerra e Pace” di Lev Tolstoj rispondendo all’invito della famosa Anna Pàvlovna Scherer, damigella d’onore e familiare dell’imperatrice Maria Feòdorovna. Qui, nella regia di Luca De Fusco, una Pamela Villoresi ricca in vivace profondità e generosa di slanci appassionati.

Così facendo si coglie l’occasione di essere introdotti, grazie alla sua influenza (una grippe al di là del male di “una” stagione) in ambienti (esistenziali) davvero irrinunciabili: da lei sfilano le diverse declinazioni del nostro stare al mondo. 

Pamela Villoresi – Paolo Serra

(ph. Rosellina Garbo)

Dove, a ben guardare, la guerra e la pace, il bene e il male, l’amore e l’odio, non sono poi così distanti. Anzi, si direbbe, difficilmente separabili. Anche in pace, infatti, la vita spinge i personaggi a gettarsi in tali imprese, che poco hanno da invidiare a quelle che si svolgono sul campo di battaglia. 

L’adattamento efficacemente evocativo di Gianni Garrera (filologo e traduttore, in Italia lo studioso di riferimento di Søren Kierkegaarde) e Luca De Fusco (regista teatrale, direttore teatrale e direttore artistico), che dello spettacolo cura con rigoroso fascino anche la regia, restituisce allo spettatore tutta la vibrante inquietudine del testo tolstojano. Che si declina nelle diverse posture esistenziali dei protagonisti, riflesso degli scenari in cui sono immerse. 

Luca De Fusco

Inquietudine che assai persuasivamente è sottolineata da un premonitore motivo musicale al violino (le musiche sono curate da Ran Bagno), che ricorre per tutto lo spettacolo e che introduce ad un clima di insinuante sospensione emotiva. “Si può forse rimanere tranquilli nella nostra epoca, quando si ha del sentimento?” – si chiede Annette.

Un lampadario di cristalli di maestosa bellezza, che ha perso la sua funzione logica e il suo naturale punto di ancoraggio sfidante la forza di gravità, è ora sconfitto a terra, di lato al palco. Immediata visualizzazione scenografica del buio di una condizione psicologica che abita i personaggi, una volta divelti quei punti di riferimento che la vita, soprattutto nei periodi di guerra, ci sottrae. 

(ph. Rosellina Garbo)

Un buio che assai sapientemente la drammaturgia del disegno luci (curata da Gigi Saccomandi) lascia essere preda della luminosità di ombre, tali da insinuarsi e popolare la scena (anche luogo della mente) di miraggi e di speranze. Spesso proiezione di inganni, che velano la mente e il cuore, seducentemente stimolati nello spettatore dalle creazioni video, curate da Alessandro Papa.

Così quello che era il salotto scintillante di San Pietroburgo è ora immerso nel buio. E abitato da rovine. Sulle quali ci si può sedere ma dalle quali si possono anche trarre preziosi insegnamenti esistenziali. 

Per far sì che questo accada, Tolstoj – come acutamente colto nell’adattamento e nel lavoro di regia – ci fa entrare in relazione con un’umanità spesso disposta ad esporre se stessa ad un “divenir-rovina”. Esperendo su se stessa gli effetti malinconici, derivanti dallo scoprire che il proprio statuto soggettivo possiede la consistenza “di ciò che resta” di una dissoluzione. Il prodotto cioè di una magnifica sinergia di contraddizioni che ci rende “umani”. Una “forma” di vita, a rischio costante dell’informe, con cui la vita concreta si articola e diviene. 

Uno stare “sul confine” non solo bellico, ma anche ontologico ed etico, reso suggestivamente dalle scelte scenografiche di Marta Crisolini Malatesta (sua la cura anche dei costumi) e dall’appassionata interpretazione degli interpreti – Pamela Villoresi, Federico Vanni, Paolo Serra, Giacinto Palmarini, Alessandra Pacifico Griffini, Raffaele Esposito, Francesco Biscione, Eleonora De Luca, Mersilia Sokoli, Lucia Cammalleri – intrepidi testimoni di multiformi posture vitali, dalle quali tutti possiamo essere abitati. Una coreografia esistenziale disegnata con un’elegante ed efficace prossemica da Monica Codena.

Opportunamente, il palco è abitato da una scalinata, i cui gradini collegano diversi piani posti verticalmente e immersi in una forza unidirezionale: la forza di gravità. Materializzazione di un collegamento tra potenzialità diverse, che consentono un passaggio in accordo o in opposizione con la forza unidirezionale. Una splendida visualizzazione simbolica – questa identificata nelle potenzialità espressive della scala da Marta Crisolini Malatesta – delle varie possibilità di stare al mondo che ci sono concesse (vedi i diversi piani), per riuscire a fare di ciò che subiamo dal destino che ci tocca in sorte (la forza di gravità), qualcosa di nostro, di personale, di unico.

ph © rosellina garbo

Cifra dello spettacolo di Luca De Fusco è anche la rappresentazione dell’affresco di possibilità di cui i giovani – ognuno con la propria personalità – possono farsi originali artefici. Passando attraverso sempre nuove consapevolezze, figlie di disillusioni che non paralizzano l’azione ma che si aprono con coraggio alla fluidità dell’esserci. 

Un attraversamento di consapevolezze che non esclude la magnetica attrazione per la guerra: veniamo al mondo dotati dell’istinto alla sopraffazione e non a caso il primo gesto della storia di cui ci parlano i testi biblici è un gesto fratricida. 

Perché la violenza è l’illusione di poter arrivare velocemente all’obiettivo, senza avventurarsi nelle tortuosità della parola, della mediazione.

ph © rosellina garbo

Ma soprattutto perché la vita umana è caratterizzata da due movimenti: per un verso l’uomo si apre all’altro attraverso un grido di aiuto ma contemporaneamente si chiude ad esso in quanto avvertito come minaccia. Vivere è allora la difficile conciliazione tra il sentire di aver bisogno dell’altro e il non volere rinunciare ad essere e ad avere tutto. 

Condizione esistenziale di cui facciamo esperienza non solo in guerra ma anche in pace: in amore ad esempio. E tutte le volte che ci si educa e ci si impegna ad entrare autenticamente in relazione con l’altro da noi: il diverso da noi. 

ph © rosellina garbo

Di questo ambiguo sentire i giovani dello spettacolo si fanno commoventi interpreti: partendo da Pierre Bezuchov, passando per il principe Andrej Bolkonskij, fino alle meravigliose e dilanianti testimonianze di giovani donne, quali Mar’ja Bolkònskaja e Nataša Rostova.

Una restituzione del testo tolstojano questa di Luca De Fusco che riesce a tradurre – con un ritmo ricco in suspense – i frammenti d’inquietudine che attraversano la sovrapposizione e l’intreccio dei piani di lettura di un’opera-mondo qual è “Guerra e pace”.

Pamela Villoresi, Marsilia Sokoli, Eleonora De Luca

(ph. rosellina garbo)

Splendido il darsi ora epifanico, ora inconscio, ora fluido, ora rapsodico di questa inquietudine esistenziale, attraverso passaggi montati “a schiaffo. Quasi come se si stesse sfogliando il libro di “Guerra e Pace”.

(ph. Claudia Pajewski)


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo GIOVANNA D’ARCO – di Maria Luisa Spaziani – regia Luca De Fusco

TEATRO TORLONIA, dal 3 al 13 Ottobre 2024

Un taglio di luce l’annuncia, quasi come in un quadro del Caravaggio.

La sua è un’autentica vocazione: una dedizione senza riserve, solida, appassionata, trasformatrice, rara. Persino assurda.

Ci siamo riuniti a cerchio “segnando” – come in un rito – uno spazio sacro sul palco, all’interno del quale abbiamo desiderato e chiesto che si manifestasse lei: una testimonianza vitale, carismatica, di caratura eccezionale, alla quale chiedere direzione, consiglio, ispirazione.

Ecco allora che Giovanna arriva come un’epifania.  E avanza tra noi. Ma non di moto proprio: il suo è più che un camminare un essere camminata da qualcuno o da qualcosa. Un essere attirata, calamitata, da una forza d’attrazione. 

Mersilia Sokoli è la Giovanna D’Arco di Luca De Fusco

(foto Claudia Pajewski)

Complici il netto disegnarsi della luce e il dolce incedere ossessivo delle note (composte da Antonio di Pofi), questa magnifica visione ci guida dentro di noi per condurci fuori, fino a contattare e ad esplorare una insolita consapevolezza.

Sì, il fulgente poema della Spaziani ci confida un’inedita versione del finale della storia di Giovanna D’Arco. Ma c’è molto di più.

E “il più resta da dire”. 

Maria Luisa Spaziani

La stessa Spaziani, ha saputo rimanere in ascolto a lungo, prima che un opportuno vuoto tagliasse quel troppo pieno che stava ospitando. Fino a che non fosse pronto a dare alla luce un varco, dal quale potesse prendesse forma questo testo. Efficace proprio perché pieno, anche, di quei necessari spazi dove “il più” può continuare a dire. Proprio attraverso di noi.

Mersilia Sokoli è la Giovanna D’Arco di Luca De Fusco

A questa affascinante consapevolezza sembra opportunamente ispirarsi anche l’interpretazione di Mersilia Sokoli, dalla carismatica natura narrativa. Perché è nei varchi che s’impongono nei suoi brevi momenti di silenzio – come in quelli necessari a certe deglutizioni, o a certe torsioni degli occhi prima ancora che del corpo – che ci arriva tutta la fascinazione delle parole. Perché in lei, come nella Spaziani, anche quello che tace, parla.

Mersilia Sokoli è la Giovanna D’Arco di Luca De Fusco

(foto Claudia Pajewski)

Al termine del rito, e dopo aver applaudito gratitudine alla Giovanna d’Arco di Mersila Sokoli diretta sapientemente da Luca De Fusco, veniva quasi istintivo – forse favorito dalla nostra magica disposizione sul palco – desiderare cercare lo sguardo di qualcuno dei presenti. E scoprirvi, forse come nel proprio, tracce di un varco dal quale qualcosa era riuscito a palesarsi. 

Perché, forse, c’è una Giovanna in ciascuno di noi. Una meravigliosa creatura, una poesia.

Mersilia Sokoli è la Giovanna D’Arco di Luca De Fusco

Luca De Fusco


Recensione di Sonia Remoli

Come tu mi vuoi

TEATRO QUIRINO, dal 14 al 19 Febbraio 2023 –

Elma ! Lucia ! Lucia ! Elma ! Elma ! Lucia !

Nomi, ossessivamente, risuonano sulla scena. Quale migliore inizio poteva immaginare il regista Luca De Fusco per affrontare questo testo così meravigliosamente ostico di Luigi Pirandello ?

Luca De Fusco, regista dello spettacolo “Come tu mi vuoi”

I nomi propri, infatti, sono il miglior veicolo per affrontare il tema, così caro a Pirandello, delle molteplici identità che ci abitano. Perché pur definendosi “propri” i nostri nomi sono sempre decisi dagli altri. E soprattutto sono carichi delle “loro” aspettative. Il nostro nome proprio non è nostro, sfugge al nostro potere, alla nostra volontà. È un po’ come essere dei copioni scritti da altri.

Lucia Lavia (Elma) in una scena dello spettacolo “Come tu mi vuoi”

La protagonista di questo dramma, invece, un nome osa darselo autonomamente: Ignota. Più che un nome è una condizione, di cui è consapevole. Questa la sua vera identità: essere sconosciuta a se stessa e agli altri. Alcuni la chiamano Elma, altri Lucia. Da qui il senso del titolo: sono come tu mi vuoi. “Fammi tu, fammi tu, come tu mi vuoi ! “.

Lucia Lavia (Lucia Pieri) in una scena dello spettacolo “Come tu mi vuoi”

Non si sa quindi quale sia la vera identità della donna al centro della trama: è Elma, una lasciva ballerina da locali notturni, oppure Lucia Pieri, moglie borghese scomparsa nel nulla e ricercata dal marito Bruno? Intorno al dilemma ruotano i dialoghi della pièce, che approda a un amaro finale.

Lo smemorato di Collegno

Questo capolavoro della maturità del grande autore siciliano, può aver tratto ispirazione da un celebre fatto di cronaca, avvenuto in Italia alla fine degli anni ’20, quattro anni prima della stesura di questo testo: il caso giudiziario dello «smemorato di Collegno», ovvero l’ambigua questione dell’identità di un uomo, ricoverato nel manicomio di Collegno, che una famiglia rivendicava con il nome di Giulio Canella e un’altra con quello di Mario Bruneri. Pirandello però negò sempre che “Come tu mi vuoi” avesse preso spunto da quel rebus: amava sottolineare provocatoriamente che piuttosto è stata la cronaca a copiare il suo precedente lavoro “Così è (se vi pare)”, che si conclude con l’iconica frase della signora Frola: «io son colei che mi si crede».

Una scena dello spettacolo “Come tu mi vuoi” di Luca De Fusco

Un tasso di innovazione drammaturgica molto elevato porta il regista Luca De Fusco a inglobare una molteplicità di contributi nel linguaggio spurio e multi-sistemico del teatro . Questa la sua cifra stilistica perché questa per lui è la forza del Teatro. È il suo un teatro alla Robert Wilson, dove confluiscono fortemente influenze cinematografiche e dove protagonista indiscussa è la luce.

Una scena dello spettacolo “Come tu mi vuoi” di Luca De Fusco

In questo spettacolo, nello specifico, De Fusco sceglie di dare una lettura dei personaggi non caricaturale ma “esistenzialista”. Complici i preziosi contributi della nota scenografa Marta Crisolini Malatesta e del maestro della luce Gigi Saccomandi. Una tale appassionata sinergia dà vita ad una messa in scena portentosa, dove un telo “vela” la quarta parete per aprirla ad uno sguardo più intimo e conturbante: quello dei pensieri e delle emozioni più inconfessabili. Spudoratamente sezionati e ossessivamente replicati sulla “retina” dei nostri occhi.

Una scena dello spettacolo “Come tu mi vuoi” di Luca De Fusco

E moltiplicati serialmente da una scenografia di specchi, che come un ipnotico ventaglio ci allontana, in realtà avvicinandoci, le molteplici identità dei protagonisti. Scorre nello spettatore il ricordo della scenografia utilizzata nel 1948 da Orson Welles per “La signora di Shanghai”, così come la trasformazione dell’Ignota defuschiana in una dark lady, alla maniera in cui Welles volle trasformare Rita Hayworth. E ancora, il messaggio intrinseco del film, così vicino a questo testo pirandelliano: squali che divorano se stessi in un cupo mondo coinvolto in inesplicabili complotti. Un universo di inganni dominato dall’ambiguità delle persone e dei sentimenti.

Una scena dello spettacolo “Come tu mi vuoi” di Luca De Fusco

Il ruolo di prima attrice di questo capolavoro della maturità del grande autore siciliano viene affidato dal regista De Fusco a una delle stelle nascenti del panorama attoriale italiano: la giovane Lucia Lavia. Conosciuta per l’indefessa determinazione e per l’appassionato impegno, Lucia Lavia dimostra di continuare ad affinare le proprie capacità artistiche e la sua intelligenza teatrale, spaziando tra codici recitativi e drammaturgici differenti. La sua interpretazione risulta profondamente intensa: graffiante e insospettabilmente tenera; erotica e struggentemente malinconica. Una Femme fatale venata dalla tragicità di un Pierrot. La sua capacità di restituire una ricchezza di sfumature così umanamente eccessive, emoziona e commuove.

Lucia Lavia

Suoi affiatati compagni di scena si rivelano Francesco Biscione, Alessandra Pacifico, Paride Cicirello, Nicola Costa, Alessandro Balletta, Alessandra Costanzo, Bruno Torrisi, Pierluigi Corallo e Isabella Giacobbe.

Leggi l’intervista rilasciata al Corriere della Sera

Leggi l’intervista rilasciata a Repubblica