LA BANALITA’ DELL’ AMORE – regia Piero Maccarinelli

TEATRO INDIA

dal 6 al 18 Maggio 2025

“Sì, sono ancora viva!” 

L’amore – che sia quello verso una persona, che sia quello verso il sapere – può essere boicottato: ostacolato e isolato. Ma chi ama può scoprire di sentirsi libero, nel continuare comunque ad amare. 

Perché spesso il riconoscimento che ci affanniamo a suscitare nell’altro fuori da noi, può essere condiviso con l’altro che è in noi. Come, con commovente bellezza, approdiamo a percepire metaforicamente nella scena finale dello spettacolo. 

Quando cioè quell’insistente desiderare una sigaretta – che attraversa con sapienza narrativa e registica come un fil rouge tutto lo spettacolo – trova un’inaspettata realizzazione attraverso la sigaretta offerta alla 69enne storica della politica Hannah Arendt da un’altra Hannah Arendt: quella diciottenne. Che a suo tempo “fu iniziata” a questo piacere dolce-amaro dal suo amato professore di filosofia Martin Heidegger

E’ una nuova consapevolezza, quella attuale, un nuovo inizio, una gioia, una vitalità – che non possiamo non leggere sia sul volto dell’una che attraverso le spalle dell’altra – e che sembra voler essere il coronamento di quel “sì, sono ancora viva” con cui si apre lo spettacolo. 

Claudio Di Palma (Heidegger) – Anita Bartolucci (Hannah Arendt 69enne) – Mersilia Sokoli (Hannah Arend 18enne) – Giulio Pranno (Raphael Mendelsohn e Michael Ben Shaked)

Una brillante 69enne Hannah Arendt in convalescenza da un infarto, accetta di affrontare un’intervista propostagli da un giovane israeliano relativamente al suo famoso saggio La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme” (1963): un diario sulle sedute del processo a Adolf Eichmann a cui lei partecipò in qualità di inviata del settimanale The New Yorker

Vale la pena ricordare che dal dibattimento in aula la Arendt ricava l’idea che il male perpetrato da Eichmann – come dalla maggior parte dei tedeschi che si resero corresponsabili dell’Olocausto – non deriva da un’indole maligna ben radicata nell’anima (come sostenne nel suo Le origini del totalitarismo del 1951) quanto piuttosto da una completa inconsapevolezza di cosa significassero le proprie azioni. Da qui il titolo “La banalità del male”; da qui le pesanti polemiche di tutto il mondo ebraico su questa sua opinione.

La Arendt – qui in Maccarinelli un elegantemente vibrante Anita Bartolucci in un efficacissimo tailleur chanel bluoltremare e camicetta di un impudentemente gradevole raso fuxia  –  coglie in questa intervista un’ottima opportunità per chiarire le sue posizioni. E, contro ogni prescrizione medica, all’indomani del ritorno a casa dall’ospedale, si rende disponibile ad affrontare l’intervista, attraverso la quale spera ardentemente di porre fine al “boicottaggio” nei suoi confronti.

Succede però qualcosa di diverso.

Piero Maccarinelli porta in scena il bel testo di Savyon Liebrecht (2010) sottolineandone, con la sua calibratissima regia, quel gioco di simmetrie e asimmetrie vitali, che rende la narrazione (e la vita) così avvincente. 

La coreografia prossemica ne è una visualizzazione eloquentissima, che fa della metafora erotica una propedeutica, o meglio un’educazione sentimentale, alla passione politica. 

A rendere così complessa la relazione tra Hannah Arendt e Martin Heidegger (un efficace Claudio Di Palma, romanticamente asciutto) non è solo un’asimmetria politico-religiosa, quanto un’asimmetria relazionale.

Chi ama davvero non ha bisogno di simmetrie: non ha bisogno di essere amato almeno quanto lui/lei ama l’altro. Non ha bisogno solo di “approfittare” delle circostanze del momento per trovare “la propria autenticità” e per “salvarsi dalla solitudine”. Non è solo “determinato” e “fedele a se stesso”. 

(ph. Claudia Pajewski)

Ma anche flessibile: disponibile a scusarsi, ad esempio. Cosa che Heidegger con riesce mai a fare con lei, chiuso com’è entro confini costantemente minacciati. E quindi così impegnato a difendersi, da non riuscire a non fare del sapere uno strumento di manipolazione; da non riuscire ad aprirsi autenticamente alla scoperta del 2: della relazione.

Allo stesso tempo, l’amore è quella spaventosa forza irrazionale che può rendere “stupida” e banale anche una studentessa estremamente intelligente (qui, la Harendt 18enne è una Mersilia Sokoli che incantevolmente si lascia sedurre e seduce, assecondando la morbida gentilezza glamour dei suoi abiti dall’inebriante allure cromatico. La cura dei costumi è affidata a  Zaira De Vincentiis).

(ph. Claudia Pajewski)

Dice la Harendt (18enne):

Mentre ero seduta davanti alla porta chiusa del tuo ufficio ho scoperto improvvisamente una cosa. Ho scoperto che una studentessa brillante e una stupida possono comportarsi nello stesso modo.

HEIDEGGER: In che modo? 

HANNAH: Irrazionale

E ancora:

 “… sono spaventata da questa irrazionalità, dal modo in cui riesci ad annullarmi, a dominarmi, a insegnarmi consapevolmente a soffrire e a essere persino grata di questa sofferenza. Avrei dovuto chiederti di andartene nel momento in cui hai pronunciato la parola “giudeo” ma ecco, sono ancora qui, in attesa di un tuo abbraccio”.

(ph. Claudia Pajewski)

La banalità dell’amore quindi – rispetto alla banalità del male – non esclude una consapevolezza razionale, ma non per questo si riesce o si ha voglia di resistervi, ci confida la Harendt.

Tra l’obbedire ciecamente a un capo politico e il lasciarsi guidare da Eros c’è  qualcosa di simile: il senso di quel torpore, di quell’incantamento che soggioga.

Il regista Piero Maccarinelli

Maccarinelli fa entrare negli occhi dello spettatore un tempo e uno spazio a scacchiera in cui l’occasione di un’intervista con un enigmatico studente (un appassionato Giulio Pranno)  porta la Arendt non solo a ricordare, ma a dare un nuovo valore alle scelte del passato. Perché il passato chiede sempre di essere ri-letto. Ogni volta.

Ed è di seducente bellezza il modo in cui sulla scena (curata da Carlo De Marino) Maccarinelli isoli osmoticamente le diverse aree della scacchiera del tempo. Dove è la luce a muovere le pedine dei collegamenti extra temporali (la cura del disegno luci è di Javier Delle Monache).

Uno spettacolo, questo di Piero Maccarinelli , che intriga i sensi, la mente e il cuore e che racconta delle contraddizioni dell’animo umano con accurata accoglienza, avvolgendole nella drammaturgia musicale di Antonio Di Pofi.

Claudio Di Palma (Heidegger) – Anita Bartolucci (Hannah Arendt 69enne) – Mersilia Sokoli (Hannah Arend 18enne) – Giulio Pranno (Raphael Mendelsohn e Michael Ben Shaked)


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo I GIGANTI DELLA MONTAGNA di Luigi Pirandello – regia di Marcello Amici –

GIARDINO DELLA BASILICA DI SANT’ALESSIO ALL’ AVENTINO, 25 Luglio 2024

Professore, lei è un poeta e non ha paura delle parole. Questo è morire” – disse il medico al malato Luigi Pirandello.

Ed è così che la “fine” annunciata di Pirandello prende forma “agli orli” con “l’inizio” della lavorazione di quest’ultima opera.

La gestazione de “I Giganti della Montagna” inizia dalla rielaborazione del primo atto de I fantasmi (pubblicato nel dicembre del ’31 sulla Nuova Antologia) seguita alla rielaborazione del secondo atto (pubblicato nel novembre del ’34 sulla rivista Quadrante). Sopravvenendo poi la morte e non riuscendo Pirandello a scrivere per esteso il terzo atto, lo traccia schematicamente al figlio Stefano.

Una vera e propria opera-testamento, quindi, questa de “I Giganti della Montagna”; un’eredità necessaria, da lasciare a chi desidererà farsi testimone di un particolare modo di intendere l’Arte e la Vita.  

Ingresso al giardino dalla navata destra della Basilica di Sant’Alessio

E difatti “I Giganti della Montagna” è inserita nella terza e ultima delle sezioni in cui sono state classificate le opere di Pirandello – “Il Teatro dei Miti” – con il titolo di “Il Mito dell’Arte”.  

Ma che cos’è un “mito” per Pirandello ? 

E’ una favola, una narrazione fantastica tramandata oralmente o in forma scritta, con valore simbolico. Narrazione che costituisce un’affascinante spiegazione di fenomeni naturali, sociali, culturali e trascendentali.

Qui ad esempio il tema dei “Giganti” si riallaccia al mito dell’antica Grecia, dove si parla dei Giganti come di coloro che – nati dalla Terra e dal sangue dell’evirato Urano – costituiscono un popolo selvaggio e criminale affine, sebbene più forte, alla stirpe umana e, come questa, mortale.  

Pirandello allude ai rappresentanti del potere politico ed industriale del suo tempo: coloro che “con l’esercizio della forza” stanno trasformando il mondo con grandi opere. Nate però unicamente dall’esaltazione del potere della razionalità, che finisce per inaridire e poi censurare lo sviluppo della parte più creativa della psiche umana: quella legata al nostro linguaggio inconscio, fucina dell’Arte.

Le sorti del Teatro, in tale contesto, preoccupano non poco Pirandello: privato del valore politico-sociale-culturale, il Teatro viene svalutato dal potere vigente a (innocuo) intrattenimento da dopo lavoro, perdendo così quella preziosa funzione artistica, educatrice dell’animo umano. 

Ed è attraverso il pubblico costituito dai servi dei giganti della montagna che Pirandello ci parla proprio della deriva in cui sfocia l’essere umano diseducato alla ricerca della bellezza e privato della capacità ad usare creativamente la parola.

Infatti, a chi ha perso l’abilità a usare le parole per esprimere le emozioni del proprio dissenso, non resta che manifestarlo attraverso la violenza dei gesti. 

E in un crescente disappunto per la conclusione dell’acclamato momento di evasione offerto dalle gag comiche e il conseguente inizio della rappresentazione de “Il figlio cambiato”, il pubblico con inaudita ferocia – resa con poesia di plastica suggestione dalla regia di Marcello Amici – fa a pezzi (e quindi divide) ciò che la bellezza unisce, accogliendola in sé: la meraviglia della diversità. 

Una scena dello spettacolo “I giganti della montagna” regia di Marcello Amici

Ecco allora che contro questa mortifera deriva separatista, Pirandello ci invita a riassaporare il gusto di una realtà altra, legata all’espressione di quel linguaggio proprio della zona della nostra psiche più inconsciamente libera e quindi fertilmente creativa. E che – nonostante i vari tentativi di censura – comunque entra in scena in noi ogni notte, grazie all’ospitalità onirica.

Un linguaggio, quindi, che ci costituisce e che non può essere censurato: pena la perdita della più vitale libertà d’espressione della nostra natura. “Siamo della materia di cui son fatti i sogni – ci ricorda Shakespeare – e la nostra piccola vita è circondata da un sogno” ( “La Tempesta”, Scena I, Atto IV).  

Ed è importante allora non allontanare lo sguardo dalla testimonianza di un uomo e di un intellettuale che, seppur in procinto di congedarsi dalla vita e consapevole della crisi dei costumi dell’epoca in cui è immerso, sente l’urgenza di stimolare ancora nuovi inizi. Dei quali noi possiamo e dobbiamo essere eredi. 

Luigi Pirandello

Pirandello ci conduce infatti a tornare ad “immaginare” – qualità dell’animo che in periodi di iper-razionalismo e di iper-opportunismo si rischia di smarrire – restituendo spazio, e quindi attenzione, a luoghi come quello della Scalogna: dimensione da cui si lasciano abitare uomini e donne desiderosi di bellezza. 

Un’umanità ricca di diversità – concertate tra loro mantenendone le preziose peculiarità espressive – sensibili verso gli incanti rivelati dalla magia di un poeta: Cotrone, alter ego di Pirandello.

E allora, al di là del finale così drammatico – il dilaniamento della Poesia – un messaggio ulteriore si fa strada all’interno dell’opera, così come sempre all’interno del Teatro: non smettere mai di ritentare e quindi di rieducare alla bellezza. Consapevoli, sempre, che “come la scena priva di sostanza/ ora svanita/ tutto svanirà/ senza lasciare traccia” ( “La Tempesta”, Scena I, Atto IV).  Ma gli uomini – come amava ripetere Hannah Arendt – “anche se devono morire, non sono nati per morire, ma per incominciare”.

Ricca di spunti di riflessione è stata ieri sera la rappresentazione de “I Giganti della Montagna” portata in scena da Marcello Amici: interessante il lavoro di adattamento mirato a rendere ancor più fruibile da parte del pubblico l’esigenza, che tutti ci accomuna, di esprimerci anche attraverso un linguaggio inconscio, necessario per scoprire di quali altre esigenze siamo composti e alle quali è così utile e sano dare voce e spazio. L’unico linguaggio che ci permette di far cadere quelle maschere che, per la preoccupazione di essere accettati dalla società che ci vuole tutti “uniformi” e quindi “informi”, ci rendiamo disponibili ad indossare.  

Efficace il lavoro sulla comunicazione prossemica, così come quello sullo studio dei costumi.

Sulla scena, gli interpreti della compagnia La Bottega delle Maschere – Marcello Amici (Cotrone); Tiziana Narciso (Ilse); Fabio Galassi (Il Conte, suo marito); Mirella Martinelli (Diamante); Marco Bellizzi (Cromo); Gabriele Casali (Spizzi); Maurizio Sparano (Battaglia); Francesca Di Gaetani (Lumachi); Emilia Guariglia ( La Sgricia); Marco Tonetti (Quaqueo); Alice Zanoni (Duccia); Marco Sicari (Milordino); Beatrice Picariello (Mara-Mara); Alice Zanini (Maddalena) – restituiscono al pubblico, attraverso la credibilità e il sapore delle loro interpretazioni, la sensazione di un viaggio “sugli orli” della vita e della morte, della verità e della finzione, quale fascinosa avventura all’interno della complessità di un testo, così necessario allora ma forse ancor di più oggi. 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo UNA STORIA AL CONTRARIO di e con Elena Arvigo –

TEATRO INDIA, 7 e 8 Novembre 2023 –

La sua non è solo una narrazione: è un canto. La sua voce non si limita a far conoscere, a testimoniare. La sua voce è colma di suoni: di una varietà ricchissima. Modulati con regola e misura eppure così complici, così vicini. Intimi. A tratti, prossimi ad un dolce lamento. In altri momenti, simili ad una preghiera. Come quando Elena Arvigo, ovvero colei che “canta” la storia e quindi le gesta di Francesca De Sanctis – autrice dell’omonimo libro del quale lo spettacolo è una riduzione – legge e ripete passi della Lettera di Gramsci a suo fratello (Lettere dal carcere, 12 Settembre 1927). Non per mandarli a memoria, quanto piuttosto per scriverli nella sua carne. Perché ogni storia è la storia di un corpo.

La narrazione della Arvigo oltre ad essere un canto è infatti anche una danza. È ritmo: vocale e fisico, mimico e simbolico, dove unità e differenza riescono a convivere. E così la storia diventa una grande coreografia, che aspira alla leggerezza proprio mentre resta attratta dalla forza di gravità. 

Oltre che canto e danza la narrazione è una giostra: una struttura girevole nella quale occupare un posto. Accanto agli altri. Un intrattenimento, uno spettacolo vitale carico di confusione turbinante, dove non è semplice trovare di volta in volta equilibri sempre nuovi. In bilico tra sogni e precarietà; tra l’entusiasmo del colore rosso e la chiusura del colore nero, che assorbe luce anziché rifletterla. Colori che danno forma alla scena, metafora dei diversi “habiti” della psiche della protagonista. Spesso “frullati” dal vortice alimentato da sfere girevoli ai piedi di elementi apparentemente stabili. 

Elena Arvigo in una scena dello spettacolo “Una storia al contrario”

Ma soprattutto la narrazione è una sacra testimonianza, un atto di impegno civile ed esistenziale.

È la storia di come il microcosmo professionale ed esistenziale della giornalista Francesca De Sanctis si dilati attraversando gli estremi del fondersi e del distaccarsi dal macrocosmo del settore giornalistico, per arrivare a conquistare progressivamente “il suo libero uso del proprio”, come amava sostenere Friedrich Holderling.

È la storia di una donna che sente urgente l’esigenza di testimoniarci quanto sia complesso – ma non impossibile – imparare a relazionarsi con l’Altro da noi: la famiglia, il mondo del lavoro, i colleghi, il concetto di giustizia e quello di meritocrazia.

È la storia dell’odissea di una ghiandola, il timo, che regola la nostra capacità di difenderci dagli altri, dall’esterno. Come un angelo custode o uno spirito guida, il timo ha la potenza di accompagnarci nel dosare la giusta quantità di difesa da mettere in campo, costruendo confini vitali che ci proteggano senza isolarci. E senza lasciarci invadere.

È la storia dei ” nonostante tutto”, delle avversità cioè che possono diventare preziose per conoscerci meglio. Per realizzarci, non solo e non tanto nel lavoro ma nell’arte di vivere.

È la storia dei traumi che sconvolgono la vita di ciascuno di noi – le varie “storie al contrario” – che ci trovano senza le adeguate risorse per fronteggiarli. Ma solo sul momento: un sano desiderio di ricominciare, di trovare nuovi inizi in ogni fine, ci salva sempre.

Perché noi esseri umani, anche se dobbiamo morire, non siamo fatti – come sosteneva Hannah Arendt – per morire ma per continui nuovi inizi. E come lo stesso fondatore del giornale l’ “Unità”, Antonio Gramsci, non si stancava di ripetere: “Mi sono convinto che anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio (Lettere dal carcere,12 Settembre 1927).

È la storia delle “pagine bianche”: quelle della sana protesta dei giornalisti dell’ “Unità” ma anche quelle della vita. Perché il vuoto, come era solito dire Furio Colombo, a volte è la condizione necessaria per poter sprigionare il desiderio creativo di scrivere una nuova storia. Un nuovo inizio.

La giornalista Francesca De Sanctis

Una sacra testimonianza civile ed esistenziale – quella della giornalista De Sanctis – la cui voce cerca luce, visibilità. Come le scene -luoghi della sua mente- non mancano di sottolineare: una luce che “grida” il bisogno di essere vista e ascoltata. Perché ciò che è accaduto a lei, giovane e solerte donna, non è successo solo a lei.

Ecco allora che il Teatro – e in particolare il centro di drammaturgia del Teatro delle Donne, con la sua speciale vocazione ad essere spirito critico a tutela della condizione femminile – si rivela il luogo che riesce a soddisfare l’urgenza del dare adeguato spazio al testimoniare. E quindi anche al volo di una farfalla: una donna “rapita” in una scatola rossa che ora, dopo un percorso di autoconoscenza, torna rigenerata a volare. Nuovamente. Di un volo consapevolmente libero.


Recensione di Sonia Remoli