Recensione dello spettacolo LA CASA NOVA di Carlo Goldoni – regia di Piero Maccarinelli

TEATRO INDIA, dal 14 al 24 Marzo 2024 –

“  Ti piace “  ?

E’ la frase che, forse, meglio racconta questa commedia del Goldoni – così perfettamente equilibrata ed elegante – che ruota intorno alle vicende di Anzoletto (uno Iacopo Nestori dalla multiforme sensibilità) : un uomo “nuovo”, continuamente alla ricerca di conferme al suo operare. Lui così insicuro, così “nuovo” nel gestire un patrimonio, nel dare forma ad una casa “nuova”. Così borghese, sebbene da poco arricchito, eppure così in buona fede. 

E si sente come lo sguardo del Goldoni ami dipingerlo con tenerezza. E Gianluca Sbicca (a cui è affidata la cura dei costumi di questo spettacolo) vestirlo di verde : il colore dell’abbondanza. Ma anche del fluire costante di ciò che ci arriva.

Il regista Piero Maccarinelli

Ma “Ti piace?” – come con estro ha saputo cogliere il regista Piero Maccarinelli – è una frase simbolo anche del nostro tempo, così abitato dai social network. Anche noi ci costruiamo una “nuova casa”, una nuova immagine, soprattutto in risposta ai “Mi piace” di chi ci legge, di chi ci guarda, di chi ci invidia. 

E non ci accorgiamo, come Anzoletto, di dare forma ad un mondo dove – sebbene crediamo di essere noi l’attrazione – in realtà sono gli altri ad attrarci. Con il loro consenso. 

Un magnetismo perverso che l’impianto scenico di Maccarinelli riproduce fascinosamente.  Una scena, la sua, dagli echi iconografici hopperiani che riesce a far sentire lo spettatore al tempo stesso dentro e fuori dal racconto. 

Un realismo emblema della paradossale solitudine dell’uomo: ieri come oggi.  Come l’acuta cameriera Lucietta (una Mersilia Sokoli ricca di quella preziosa forza, di quell’eros, che riesce a tenere uniti elementi diversi e talora contrastanti) ci confessa: prima si poteva “ciancolare”, ora invece sembra di essere state sepolte. Prima lei e la sua signora Meneghina avevano “i morosi”, ora qua “tutte e due senza un ca”. E forse non a caso Gianluca Sbicca la veste dell’austerità del nero, che però la sua forza vitale (metafora di un ceto sociale ancora autenticamente sano) tende a limitare, ad accorciare, a modellare.

Perché “il nuovo” non è automaticamente sinonimo di avanzamento, di apprezzamento, di realizzazione, di felicità, come la mentalità piccolo borghese immaginava e l’attuale ideologia capitalistica da un po’ vorrebbe farci credere. 

Perché il nuovo è tale – come direbbe Massimo Recalcati – in quanto “piega dello stesso”. Dietro al “sempre nuovo” è in agguato infatti la stessa insoddisfazione che stagna nel “già conosciuto”. E così facendo, il presente si svuota di senso perché lo si lega ad un futuro destinato a non realizzarsi mai: irraggiungibile, perché fondato sulla natura insaziabile del desiderio. Altrui. 

Le insicurezze di Anzoletto, seppure proprie di un uomo appartenente ad un diverso periodo storico, riusciamo a sentircele vicine. Vicinissime. Perché come a lui, anche a noi capita di restare incastrati nel desiderare sempre e solo quello che non abbiamo. Liquidi.

Ecco allora che anche sulla scena, vira alla subdola tonalità del verde-stagno la luce ( il cui disegno è curato da Javier Delle Monache) sulla maxi parete del fondo, la cui “fluidità” spaventa – quasi fosse la tela bianca di un artista – tante le possibilità che potrebbe ospitare. E si arriva così a scoprire che quella parete che “sembrava” avere la solidità di un muro capace di ospitare un maxi-televisore led si rivela in tutta l’impalpabilità di un velo. E mette a nudo la curiosità e il piacere voyeristico di chi abita al piano di sopra, proprio come fossero dietro ad uno schermo digitale.

E scoprono così che Anzoletto si trova costretto, per compiacere la sua neo-moglie che lo ha scelto credendo che fosse ciò che non è, ad un trasloco in un appartamento al di là delle sue possibilità. Non tanto e non solo economiche, quanto piuttosto “identitarie”: anche lui “fluido” nel non aver consapevolezza dei propri desideri. Della propria identità.

Geniale ed effervescente, in equilibrio tra  tradizione e tradimento, l’adattamento del testo del Goldoni da parte di Paolo Malaguti – che ne ha curato anche la traduzione – raffinatamente punteggiato dalle musiche composte da Antonio Di Pofi.

Del “quotidiano parlare” della lingua veneziana del Settecento mantiene la succulenza del sentore di una fragranza calda e sinuosa, che ben si lega sinergicamente alle movenze di una scena così contemporanea. E’ una lingua che sa raccontare anche il nostro reale: una lingua materica, così voluttuosa da sconfinare a tratti nel metafisico.

La consapevole interpretazione, così ricca in calviniana leggerezza, propria dei 10 giovani attori e attrici diplomati all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’AmicoLorenzo Ciambrelli, Edoardo De Padova, Alessio Del Mastro, Sofia Ferrari, Irene Giancontieri, Andreea Giuglea,
Ilaria Martinelli, Gabriele Pizzurro, Gianluca Scaccia
– si coniuga mirabilmente con “la rustega” e fertile sapienza di Stefano Santospago nei panni di un magnifico zio Cristofolo.

Stefano Santospago (zio Cristofolo)

E nonostante gli innumerevoli errori alimentati dalla ricerca di un continuo e asfissiante piacere agli altri (“cosa dirà la gente?”), la morale di Goldoni – attualissima anche oggi – c’insegna che c’è sempre qualcosa di bello che si salva nel passaggio dal vecchio al nuovo. E – come direbbe l’Alessandro Baricco de “I barbari” – questo qualcosa non è tanto ciò che abbiamo tenuto al riparo dai tempi ma “ciò che abbiamo lasciato mutare perché ridiventasse sé stesso, in un tempo nuovo”. 

Lo spettacolo, da non perdere, è in scena al Teatro India fino al 24 Marzo p.v.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo L’ ALBERGO DEI POVERI di Maksim Gor’kij – regia di Massimo Popolizio –

TEATRO ARGENTINA, dal 9 Febbraio al 3 Marzo 2024 –

Trova accampamento, in un plumbeo alloggio di tavole e materassi, una comunità di esseri umani emarginati (la cura delle scene è di Marco Rossi e di Francesca Sgariboldi; i costumi di Gianluca Sbicca).

Qui (quasi) tutto racconta uno squallore affollato e miserevole, terra fertile per il crimine, la violenza e l’ignoranza. 

Miracolosamente però convivono in questo “organismo avvelenato” – nonostante la prassi di mettere a tacere la coscienza con la vodka – la passione per la lettura e l’urgenza di imparare parole nuove. Per tentare, quasi inconsapevolmente, di trovare i modi per dire l’assurdo dello stare al mondo.

Perché nuove parole danno vita a nuovi pensieri. E in effetti, l’attività che affascina di più questa disperata comunità, oltre al gusto atavico per la sopraffazione, è il produrre e l’ascoltare racconti. Quella modalità cioè di stare “insieme” al mondo che tenta di dare forme al caos esistenziale, tenendo in vita ciò che rischia di venir dimenticato, o cancellato. 

La regia esalta mirabilmente questa coralità – che si può dare solo attraverso “tutte” le singole individualità – fino a farne un autentico elogio. Ne scaturisce un ensemble di musicalità visiva ed uditiva di magnifica armonia. 

E forse è proprio questo il messaggio più prezioso che accompagna lo spettatore anche fuori dal teatro: stare insieme raccontandoci ed ascoltandoci ci salva. 

Ci salva un umanesimo che può farsi spazio in questa vita al di la’ della tentazione fortissima a sopraffarci. Perchè il male è più atavico del bene e ci costituisce come esseri umani. Ma l’amore, che non riceviamo per natura, s’impara. Si può imparare anche attraverso l’arte della parola. 

Al di là di un dio distratto o indifferente alle nostre sorti, in noi si può rintracciare una spiritualità che nasce dal mettere insieme tutte le nostre singolarità. Si può fare. E il teatro non smette di ricordarcelo.

Ce ne dona uno splendido esempio Massimo Popolizio con la sua scelta registica d’ensemble ma prima ancora Emanuele Trevi che nel curare la riduzione teatrale della drammaturgia originale dona accoglienza anche a delle inserzioni letterarie tratte dalla nostra contemporaneità.

Perchè questo rende preziosa la storia e quindi le opere del passato: tornare a rileggerle alla luce dei nuovi tempi, per riuscire ogni volta a tradurne qualcosa in più, qualcosa che prima risultava intraducibile. 

L’albergo dei poveri è un microcosmo di umanità dove ci si soccorre nei corpi e nelle anime, nonostante tutto. È un luogo plumbeo, sporco e violento eppure non privo di una speciale purezza d’animo: quella che si raggiunge conoscendo le tenebre ed emergendone, come dice Luka (personaggio di cui un radioso Massimo Popolizio ne veste la luce delle ombre).

L’albergo infatti accoglie anche lui, il più forestiero dei forestieri: si fermerà solo di passaggio, come un pellegrino. Ma come un pellegrino errante, in viaggio verso luoghi sacri, non a caso (forse) sceglierà di fermarsi a fare tappa proprio nella “sacralita” di questo dimenticato albergo, illuminando le ombre che lo costituiscono. E lasciando traccia di un nuovo possibile umanesimo al di là della disperazione.

La sua partenza, più che un facile abbandono può essere letta come un prezioso messaggio: che non salva affidarsi a singole individualità idealizzandole. Salva avere fiducia nella varietà preziosa e imperfetta del gruppo, della comunità. 

L’albergo è un luogo dove possono avvenire comunque ogni giorno piccoli miracoli d’amore, di riconoscimento, di attenzioni. La cura dei movimenti scenici (di Michele Abbondanzaza), la drammaturgia luminosa (di Luigi Biondi) e il particolare disegno alchemico del suono (di Alessandro Saviozzi) ci accompagnano nel riconoscerli: di potente bellezza estetica e spirituale alcuni momenti della narrazione che ricordano l’iconografia caravaggesca: da ‘I bari‘ a “La vocazione di San Matteo“. 

Unire le nostre fragilità non dimenticando la speciale unicità di ciascuno è la proposta estetica ed esistenziale di questo necessario lavoro.

Con piacere se ne trova traccia anche nel libretto di scena, dove in prima pagina trova accoglienza il nominare tutte la miriade di presenze artigianali che contribuiscono al risultato finale dello spettacolo.

A distanza dalla prima rappresentazione di questo testo del 1902 per la regia di Konstantin Sergeevič Stanislavskij e dalla successiva del 1947 con la quale si inaugurò l’elegia di questo nuovo titolo e la nascita del Piccolo Teatro di Milano ad opera  di Giorgio StrehlerPaolo Grassi e sua moglie Nina Vinchi Grassi, questa nuova edizione del 2024 curata drammaturgicamente da Emanuele Trevi e registicamente da Massimo Popolizio ha il potere di raccogliere – e insieme attualizzare – tutta la potenza dell’eredità del testo originale di Maksim Gor’kij .



Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL CASO KAUFMANN di Giovanni Grasso – regia di Piero Maccarinelli –

TEATRO PARIOLI, dal 25 al 29 Ottobre 2023 –

“La calunnia è un venticello/Un’auretta assai gentile/Che insensibile, sottile/Leggermente, dolcemente/Incomincia, incomincia a sussurrar.

Piano, piano, terra terra/Sottovoce, sibilando/Va scorrendo, va scorrendo/Va ronzando, va ronzando/Nell’orecchie della gente/S’introduce, s’introduce destramente/E le teste ed i cervelli/Fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo/lo schiamazzo va crescendo/Prende forza a poco a poco/Vola già di loco in loco/Sembra il tuono, la tempesta/Che nel sen della foresta/Va fischiando, brontolando,

E ti fa d’orror gelar…” (da “Il barbiere di Siviglia” di Gioachino Rossini)

Banalmente gelati d’orrore ci lascia infatti il proemio, affidato alla ex collaboratrice domestica di Leo Kaufmann (una Franca Penone maledettamente efficace nella sua dannata ipocrisia): una donna che, ancora dopo anni dall’esecuzione capitale del suo datore di lavoro, non riesce a provare rimorso per le conseguenze mortali che le sue calunnie, unite a quelle dei “bravi” cittadini del quartiere, hanno provocato.

“Se le leggi erano ingiuste, io non lo so. Di certo non le ho fatte io. Le leggi, caro signore, le fanno i potenti: e noi poveracci, che sgobbiamo tutto il giorno, non possiamo far niente, se non ubbidire. Io caro signore, ho la coscienza a posto, ho fatto il mio dovere, ho rispettato le leggi”.

E così, banalmente appagata da una passiva sottomissione alle leggi razziali, si bea del suo essere una brava cittadina, sfoggiando disumane giustificazioni al suo “aver fatto la pelle” all’ebreo Kaufmann. Un po’ con lo stessa fierezza con la quale esibisce “la pelle fatta alla volpe” con la quale si adorna il busto (i costumi sono curati da Gianluca Sbicca). Come la moda del tempo, infatti “detta”.

Eppure nella natura umana l’odio viene prima dell’amore. La spinta alla sopraffazione è la spinta che preme in massima misura in noi.

L’ amore invece s’impara. Così come la generosità, la misericordia, la sana complicità e quindi il riconoscimento della diversità dell’altro. È una costruzione difficile ma possibile. L’umanità si guadagna, si può guadagnare, seppure la spinta alla violenza resti una forte tentazione.

Ed è questo il messaggio che arriva allo spettatore dalla narrazione così drammaticamente significativa dell’omonimo libro pluripremiato di Giovanni Grasso, messo in scena e sapientemente enfatizzato dalla sublime eleganza della regia cinematografica di Piero Maccarinelli. 

L’autore Giovanni Grasso

La stessa costruzione dello spazio scenico (curato da Domenico Franchi) sembra alludere all’ambiguità della natura umana: dove da un lato il male regna e spinge per natura, dall’altro il bene si fa strada attraverso un costante esercizio. Quello cioè a dar voce a quell’interiorizzazione della legge, che si realizza quando ci si avvicina alle regole con spirito critico e non con mera sottomissione. E gli splendidi interventi musicali di Antonio Di Pofi nonché il disegno luminoso di Cesare Agoni ne sottolineano l’ambivalente densità.

Erano felici il Sig. Kaufmann, ebreo, e la giovane figlia del suo amico Irene, ariana.

Erano felici perché non aderivano passivamente alle leggi razziali della Norimberga degli anni ’30. 

Erano felici perché in loro ancora riusciva a farsi strada la legge del desiderare: del piacere a costruire relazioni umane vive e vibranti. Nonostante tutto.

Viola Graziosi (Irene) e Franco Branciaroli (Leo)

Relazioni che riescono a sopravvivere nonostante tutta la miseria dell’odio. Infatti, seppur separati dalla calunnia e dall’orrore delle leggi razziali, Leo e Irene non smettono di pensarsi. Non smettono di continuare a vivere nella gratitudine del ricordo, senza cedere ad una paralisi nostalgica. L’ultimo desiderio di Leo sarà quello di mandare ancora un messaggio a Irene, condannata a quattro anni di lavori forzati, per farle sapere che a lei deve quegli attimi di felicità che hanno illuminato la sua esistenza.

Il regista Piero Maccarinelli

Contro la tossicità del regime nazista, la fertile sinergia tra il testo di Giovanni Grasso e la regia di Piero Maccarinelli, riescono ad evidenziare il prezioso intreccio di relazioni umane che si tesse tra la giovane Irene, l’anziano Leo e il cappellano del carcere che raccoglie l’ultimo desiderio di Leo e lo accompagna nelle ore che lo separano dalla morte. 

Franco Branciaroli (Leo)

Franco Branciaroli entra nell’anima di Kaufmann in primis attraverso la voce. È il suo un “dar voce” al personaggio e alla persona – il libro di Grasso è infatti liberamente ispirato ad una storia vera – che prende corpo mirabilmente in una voce dalla solennità epica. Che tende a “dilatarsi” al di là della costrizione delle barre della cella di sicurezza. Al di là dell’odio e della calunnia che lo circondano e che lo hanno assediato. Una voce che si fa strada come una melodia.

Una vittima lui sì, ma dal carisma di un eroe della più fulgida umanità. Di tremenda e lacerante bellezza, poi, il suo monologo finale che magnificamente chiude circolarmente l’immagine iniziale del suo sentirsi “ombra”: solo proiezione di un corpo.

Eppure un corpo lui lo ha avuto davvero, almeno per un periodo: quello successivo all’incontro con Irene. Un incontro di una tale straordinaria umanità da rompere il normale corso del tempo abituale. “È apparsa” – dice lui. Quasi un’epifania. Il sangue torna a scorrergli nelle vene, la vita si riempie di sapori. Non è più dominata da un’inappetenza cupa e cruda. È splendida la resa interpretativa di questo fertile scambio di pensieri e di emozioni tra i due interpreti.

Viola Graziosi (Irene)

Viola Graziosi regala ad Irene una vitalità inebriante. Lei è l’incarnazione del desiderio vitale, produttivo, che porta ad esprimere il meglio di noi umani. Tutto in lei parla di curiosità. Una curiosità che dà frutto: che sublima la spinta a sopraffare l’altro attraverso la meraviglia e il rispetto per la diversità dell’altro. Incluse tutte le difficoltà dell’incontrarsi sul confine. Ma questo è il trionfo dell’essere “umani”. È il compimento del “conoscere se stessi”.

Graziano Piazza (il cappellano)

Una splendida umanità la sua, colta immediatamente anche dal cappellano: un Graziano Piazza che brilla in “sacralità”. Non è un semplice prete. È come il dio di un giudizio universale. Un dio che si commuove di ciò che siamo riusciti a fare con ciò di cui lui ci ha fatto. E insieme è un uomo che dona ascolto e regala attenzione alla controversa bellezza della natura umana. Di più: sceglie e promette di essere “testimone” dell’eredità di questa storia. Un personaggio di grande umanità e di profonda bellezza.

Il cast al completo

Molto accordati ed efficaci sulla scena anche Franca Penone, Piergiorgio Fasolo, Alessandro Albertin e Andrea Bonella.

Necessaria la scelta del Teatro Parioli di aprire ieri sera la stagione teatrale 2023/2024 con questo inno all’umanità, potente auspicio anche alla risoluzione delle conflittualità attuali.

Perché “l’indifferenza è peggio dell’odio”.

In sala il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ad onorare la bellezza incandescente dello spettacolo, oltre a numerose personalità del mondo politico. 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo UNO SGUARDO DAL PONTE di Arthur Miller – regia di Massimo Popolizio –

TEATRO ARGENTINA, dal 14 Marzo al 2 Aprile 2023 –

Cos’è, davvero, un uomo? 
Cosa possono le leggi del vivere civile nell’arginare l’essenza più “pura”, più autentica di un uomo?

È uno splendido adattamento shakespeariano quello realizzato da  Massimo Popolizio, interprete e regista di questo affascinante testo di Arthur Miller, che mette in luce quanto la natura umana possa rivelarsi insospettabilmente ambigua e contraddittoria: “una malerba soavemente delicata, di un profumo che dà gli spasimi “.  

Una scena dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” di e con Massimo Popolizio

L’attenta regia cinematografica scelta da Massimo Popolizio per “girare un film a teatro” sa dove e come seminare indizi: presagi ineluttabili, a specchio, che tengono sostenuto il tono della suspense. Eddie Carbone (il protagonista) riconoscerà, infatti, l’incendio della passione che lo abita, vedendolo “bruciare” negli altri; scoprirà che denunciare immigrati connazionali è una tentazione in cui anche lui può cadere ma soprattutto che ci si può ritrovare ad essere attratti irresistibilmente da ciò che non è “retto” , che sfugge ai canoni legali, che non è “regolare”.

Massimo Popolizio (Eddie Carbone) e Gaja Masciale (Catherine) in una scena dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” di e con Massimo Popolizio


Non a caso la scena (curata da Marco Rossi) è quasi costantemente plumbea, chiusa su se stessa: solo il “Caos” che domina la vita riuscirà a forzare il suo ostinato immobilismo. Il fondale è di un grigio lattiginoso, confuso, che proiettori da terra rendono variamente inquietante, o ambiguamente misterioso, anche nei momenti meno tenebrosi. E poi c’è lui: il ponte di Brooklyn, reso attraverso tre diversi campi cinematografici: corto, medio e lungo. Quel ponte, in teoria collegamento solo verso il meglio, in pratica si rivela “sospensione esistenziale”: varco attraverso il quale la tragedia può entrare nella vita umana sorprendendoci inermi. E poi attraversarla, rompendo i “nostri” progetti, per costruirne altri. Apparentemente solo suoi.

Massimo Popolizio (Eddie Carbone) e Michele Nani (Avv. Alfieri) in una scena dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” di e con Massimo Popolizio

Uno non può sapere ciò che scoprirà“- ci ricorda l’avvocato Alfieri (un inconsapevole Iago, reso da un efficace Michele Nani), unico personaggio del presente a cui viene affidata la funzione, da coro greco, di narratore e commentatore esterno della vicenda, che l’arguta regia di Popolizio trasforma in un lungo flashback.

Gaja Masciale (Catherine) in una scena dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” di e con Massimo Popolizio

Inaspettate le caratterizzazioni delle due figure femminili: Beatrice ( la moglie di Eddie) e Catherine  (la figlioccia). Intraprendenti ed emancipate. Una scelta, questa del regista Popolizio, coraggiosa ma geniale.

Valentina Sperli (Beatrice Carbone) e Gaja Masciale (Catherine) in una scena dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” di e con Massimo Popolizio

Catherine, un po’ come una Lolita in bilico tra nostalgica fanciullezza e prorompente  femminilità, abbraccia lo zio a cavalcioni e condivide con lui le sue prime seduzioni di donna: il nuovo ammiccante colore di capelli rosso rame; la gonna corta e di un tessuto così generosamente disposto a tirarsi indietro da assecondare i suoi ancheggiamenti, ma soprattutto le nuove scarpe col tacco, che con un guizzo di femminilità, modificano la sua postura. È  portentosa Gaja Masciale: ancora un po’ goffa come sa esserlo una bambina e insieme abitata da quella irruente sensualità di giovane donna, posseduta dal ritmo pulsante della vita.

Una scena dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” di e con Massimo Popolizio

E poi Beatrice, la moglie di Eddie: una Valentina Sperli divina nel suo essere donna anche se di una femminilità diversa, propria dei suoi anni. Una donna che sa educare all’apertura, all’ebrezza della vita e che ha ancora fiuto e quindi annusa il pericolo di chi sta invadendo il suo territorio. Una donna che con classe graffiante reclama il marito e la loro intimità. Che sa parlare entrando in un vero rapporto dialettico con il suo uomo, il cui folle amore però “lo soffia il cielo”.

Valentina Sperli (Beatrice Carbone) in una scena dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” di e con Massimo Popolizio

Massimo Popolizio è un Eddie Carbone densissimo e insieme trascinante. Immanente e trascendente. Un uomo che con “eleganza” ci trasmette la pesante imprevedibilità del vivere.

Massimo Popolizio (Eddie Carbone)

E’ simpatico, spiritoso, ironico ma anche responsabile e ponderato. È sinceramente affettuoso: come uno zio può esserlo. Però scopre, e noi con lui, che è anche altro: qualcosa difficile da riconoscere ma soprattutto difficile da contenere. Una smania di “avere” ciò che la legge del vivere civile ordina che non si può avere. Una strana “inquietudine” che lo possiede come un corpo esterno: quella che lo Iago shakespeariano chiamava “il mostro dagli occhi verdi”: la gelosia. Qui anche vagamente incestuosa.

Massimo Popolizio (Eddie Carbone)

E se non c’è modo di arginarla attraverso le leggi, non resta che tentare l’intentabile, il proibito: ciò che lui stesso, razionalmente, aveva definito deprecabile quando a farlo erano stati gli altri. Un incendio il suo, che lo possiede ineluttabilmente e propagandosi brucia anche gli altri. Ed è così vero Massimo Popolizio nell’interpretare questa umanissima difficoltà, che non riusciamo a non comprenderlo, schierandoci dalla sua parte. Come un vero personaggio shakespeariano.

Il cast dello spettacolo “Uno sguardo dal ponte” al completo

Fidati complici di scena sono tutti gli altri interpreti ancora non citati: Raffaele Esposito (Marco), Lorenzo Grilli (Rodolfo), Felice Montecorvino (Tony), Marco Mavaracchio (Agente), Gabriele Brunelli (Agente) e Marco Parià (Louis).

I costumi, curatissimi quanto efficaci, sono di Gianluca Sbicca.


Recensione di Sonia Remoli