Recensione dello spettacolo UNA RELAZIONE PER UN’ACCADEMIA di Franz Kafka – interpretato e diretto da Tommaso Ragno

TEATRO ARGOT STUDIO, dal 21 al 23 Novembre 2024 –

Ieri sera l’Accademia del Teatro Argot Studio ha ospitato Pietro il Rosso: la scimmia che in 5 anni ha raggiunto un livello d’intelligenza di un uomo medio.

Per la sua relazione è stato predisposto uno spazio, abitato da una struttura geometrica, che non manca di alludere al gusto e alla funzionalità di un verticale intreccio vegetativo di foresta. Una splendida metafora della tensione che abita ancora l’ospite della serata. Tensione suggellata da due linee di neon, che ricreano parzialmente una struttura contenitiva.

L’entrata in sala dell’ospite è stata preceduta da un servitore in livrea a lui dedicato, incaricato della cura del luogo e dell’ospite.

Ma ecco che si odono passi. Uditivamente, e poi visivamente, l’andamento risulta insolito, quasi baldanzoso: una compensazione del ritmo e del gesto della brachiazione.

Il servitore, quasi un servo di scena, lo aiuta nel togliersi il cappotto e il cappello ma Pietro il Rosso, nonostante la tensione al contegno geometrico, appare vagamente disorientato e maldestro. Più volte gli cadono cose dalle mani. E, dopo aver misurato e verificato lo spazio che lo sta ospitando, si rassicura estraendo dalla sua cartella una banana. E’ un rituale: basta guardarla e toccarla. 

Ora può estrarre i fogli della relazione. E con l’agilità di un balzo, sale sullo sgabello e si aggrappa al leggio, come ad un ramo.

Tommaso Ragno è Pietro il Rosso

Inforca gli occhiali: le sue prime parole “Illustri Signori …” escono incertamente, come conservando un’eco di quel disorientamento appena rivissuto. Ma è un attimo. Con uno scatto si alza in piedi sullo sgabello e la voce sale per proseguire e ringraziare. Il suo, ora, è un andamento di lettura che procede (quasi provocatoriamente) come quello di un bambino delle scuole elementari: a comando. Ma poi, quando arriva il punto in cui dice che noi Accademici gli abbiamo chiesto una relazione sulla sua precedente vita di scimmia, tutto cambia. Si ferma. E, tremante, si toglie gli occhiali dicendo: “non mi è possibile”. Colpo di scena.

Adesso, per tentare di spiegare non ha bisogno di leggere, tanto che socchiude gli occhi come trasportato da un senso di ricordo. Dal quale, però, non riesce ad attingere informazioni: è un periodo della sua vita come rimosso, nel momento in cui – ferito e catturato – ha preso la decisione di “tradirlo”, fuggendo verso un altro sapore di libertà. 

In questo senso una “relazione” intesa come “resoconto di informazioni” non gli è possibile. Può invece, “entrando in relazione con noi”, raccontarci di come ha imparato ad entrare in relazione con gli uomini. 

Una relazione “utile” ma non “fertile”: pur avendo condiviso insieme esperienze di vita, gli uomini che ha incontrato si sono sempre mantenuti “a distanza dalla barriera” tra le loro diverse nature. E, anche lui, non è mai stato davvero attratto dal loro modo di stare al mondo.

Ma, consapevole che una vita da scimmia non gli sarebbe più stata possibile, realizza (“calcola”) che non gli resta che fuggire alla scoperta di una vita da uomo. Il segreto per riuscirci – ci confida – è stato quello di eliminare progressivamente dalla propria natura “ogni ostinazione”: segreto di ogni relazione umana. Ed è curiosamente provocatorio come Kafka ci inviti a prendere lezioni da una ex scimmia, per capire “come si diventa un uomo”.

Quello che Pietro il Rosso ha imparato per dovere, per necessità (“mi sono piegato”), nel nostro stare al mondo può essere la magia dell’incontrarsi e del contaminarsi vicendevolmente con l’altro. Con uno sguardo. Con una stretta di mano. Con un bacio.

Ed è di strabiliante bellezza come questo Pietro il Rosso di Tommaso Ragno sappia sottolineare poeticamente certi passaggi della relazione: elevandosi ora ad un allure metafisico-ieratico, ora invece ad uno spleen spudoratamente animalesco, balzando giù dallo sgabello verso di noi. 

E poi c’è il suo respiro: l’inspirazione è sempre silenziosa ma l’inspirazione invece si sente, proprio là dove serve. E ci arriva tutta la tempesta di un’entità che si muove tra minaccia e piacere.

E ancora, la rabbia del nome ricevuto in sorte: un nome che non lo identifica, che lo riduce a qualcosa di insignificante come una lieve ferita al viso. Anche qui Kafka è tremendo: rende consapevole di una finezza esistenziale una ex scimmia, quando noi umani spesso neanche ci facciamo caso al nostro “essere fatti dagli altri”. 

Ma non è tutto: Kafka desidera – proprio attraverso questo racconto – renderci consapevoli di come nonostante ciò – nonostante cioè siano gli altri a darci un nome, a immaginarci, a educarci, a trasmetterci i loro desideri – ognuno di noi, proprio come Pietro il Rosso, può fare qualcosa di proprio di quello che di lui hanno fatto gli altri. Qui è la misura della nostra libertà. Un po’ quella “via di fuga” di cui lui ci parla continuamente.

Via di fuga impossibile da raggiungere senza il secondo segreto: se il primo era quello dell’eliminare “ogni ostinazione” dalla propria natura, il secondo è quello di “osservare” molto bene gli uomini. Con calma. Prestare loro attenzione: dedicare loro tempo, per rimanerne contagiato. 

Nella circolarità di un rituale, la relazione giunge al termine e si conclude con un’anticipazione di ciò che accadrà in albergo, dove una piccola scimpanzè semi addestrata lo sta aspettando. 

Il cui sguardo, se incontrato di mattino – ci confida Pietro il Rosso – diventa inquietante come uno specchio: c’è qualcosa in esso che va al di là della possibilità offerta dal linguaggio. Ma che su di esso spinge. Ed è un qualcosa che può solo essere visto: un animale addestrato e confuso. 

Proprio come quello che Tommaso Ragno ha mirabilmente cercato di renderci visivamente attraverso quel disorientamento maldestro di cui era preda, prima che iniziasse la relazione, il suo Pietro il Rosso.

“Ma non si dica che non ne è valsa la pena”- conclude il Relatore.

Ed è proprio così: tentare di entrare in relazione con un altro, inteso come qualcosa di diverso dalla nostra natura, è ciò che dà più sapore al nostro stare al mondo.

Tommaso Ragno


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo NOTTUARI ispirato alle opere di Thomas Ligotti – regia di Fabio Condemi –

TEATRO INDIA, dal 22 Febbraio al 5 marzo 2023 –

È un elegante ed asettico agglomerato di “baracche” la scena di un bianco abbacinante, scelta dal poliedrico Fabio Cherstich per ambientare i “Nottuari” dell’intuitivo Fabio Condemi. Ricorda un po’ anche l’agglomerato pensato da Jaques Tati per “Mon oncle“: qui da Condemi però esiste solo la coordinata orizzontale.

La scena ideata da Fabio Cherstich per lo spettacolo “Nottuari” di Fabio Condemi

Anche l’associazione a un cimitero di lussuosi loculi non è da escludere: qui sono gli stessi defunti ad inventarsi qualcosa per essere ricordati.

Una scena dello spettacolo “Nottuari” di Fabio Condemi

Ma non è difficile immaginare la scena anche come un dispiegarsi di locali museali, dove le presenze simil umane sembrano addetti che ivi lavorano, o corpi raccolti e conservati per installazioni. Temporanee.

Una scena dello spettacolo “Nottuari” di Fabio Condemi

Le porte, vie di una im-possibile comunicazione, sono di varia natura: cigolanti, scorrevolissime oppure “tende-quadro” che si aprono come Lucio Fontana fa con le sue tele. Un addetto-guida ci propone un esperimento sul funzionamento della coscienza: tema dell’esperimento, ma anche di tutto lo spettacolo, una possibile anatomia dello sguardo.

La scena ideata da Fabio Cherstich per lo spettacolo “Nottuari” di Fabio Condemi

Etimologicamente “guardare” significa “osservare” solo nell’accezione transitiva. In quella intransitiva significa anche “guardarsi alle spalle, difendersi”. Quindi lo sguardo è oggettivamente sia una soggettiva “apertura” che una soggettiva “chiusura”. E quindi è solo la soggettività dello sguardo a dare vita oggettivamente ad una possibile relazione tra “il bello” e “l’orrore”. Tra ciò che è “mondo” e ciò che è “immondo”. L’ uno è contenuto nell’altro.

Paul Rubens, Medusa (1617)

È il mito di Medusa a parlarcene e a rivelarci che allo sguardo umano piace indugiare anche nell’orrido, nell’immondo. Tale è tutto ciò che ci circonda: la natura stessa. Per questo, la più autentica condizione vitale umana risulta quella della depressione: quella dell’essere schiacciati da ciò che vediamo.

Michelangelo Merisi detto Caravaggio, Medusa, 1598

Tragico diventa “avvicinarsi troppo”. I nostri occhi sono una tragica tentazione. Il nostro corpo non obbedisce al nostro controllo. Non siamo noi a sognare: siamo sognati. I sogni si nutrono di noi come fanno i parassiti. I nostri sogni sono i vermi della testa di Medusa. E ci rapiscono la possibilità di essere “angeli, puri, calmi ed eterni”. Il mondo ci risulta sconosciuto, inaccessibile, non manipolabile. Regna l’incomunicabilità. La nausea. Vivere è insopportabile.

Fabio Condemi, il regista di “Nottuari”

Il rigore inventivo del giovane e talentuoso regista Fabio Condemi ci regala un viaggio dove regna sovrana la sensazione del riuscire ad intravedere il baratro. Il suo è un modo di creare per intuizioni, libere associazioni, viaggi onirici. Interessantissima la sua scelta di ispirarsi alle opere di Thomas Ligotti, definito dal Washington Post «il segreto meglio custodito» della letteratura horror contemporanea, dove l’umanità è tormentata da un panico cosmico generato dalla coscienza, che ci svela quanto sia terribile essere vivi.

Thomas Ligotti

Condemi riesce nel tentativo di mettere in scena di Ligotti anche la sua narrazione sui generis, costituita da riflessioni sparse di una serie indistinguibile di voci narranti. Appunti. Uniche modalità per poter parlare del mondo infero in cui abitiamo, dove nessun rito, nessuna separazione, nessuna regolamentazione di alterità ci separa dal caos.

A Ligotti non interessa la storia, né la Storia: i suoi racconti avvengono in uno spazio virtuale e metafisico, le sue figure sono cavie da laboratorio prive di qualsiasi personalità psicologicamente connotata. Come in Kafka e in Beckett non c’è narrazione ma situazione, non ci sono personaggi ma figure, non c’è evento ma teatro.

Rappresentazione dell’indicibile e sospensione della cronologia: il mondo dentro di noi e il mondo fuori di noi non coincidono. Non si dà nessun senso se non nella nostra (personale e limitata) interpretazione del mondo, di cui l’universo fa tranquillamente a meno.

Gli attori: Carolina Ellero, Francesco Pennacchia e Julien Lambert.

Il regista Fabio Condemi e lo scenografo Fabio Cherstich


Recensione di Sonia Remoli

Sottobanco

TEATRO GOLDEN, dal 21 Settembre al 2 Ottobre 2022 –

“Quanto gli metti a Cardini?” – ovvero: come si riconosce un talento? E come si valorizza?

In questo spettacolo il regista Claudio Boccaccini, con lo stile che lo contraddistingue e che fa della luce uno speciale contrappunto alla narrazione, sceglie di parlarci delle condizioni in cui versa la scuola. Non solo quella degli anni ’90, descritta nel romanzo di Domenico Starnone “Sottobanco” (1992), a cui lo spettacolo si ispira.

Al netto dei problemi di gestione, la scuola allora come oggi continua ad essere attraversata da una divisione che ne evidenzia due anime: quella che si affida alle valutazioni quantitative, che tendono ad uniformare gli studenti ad uno standard (Foucault la chiamava la “scuola dispositivo”) e quella attenta alla scoperta e alla valorizzazione delle preziose differenze che identificano ciascun studente (la scuola, invocata, ad esempio, dal coro dei bambini nel video “The Wall” dei Pink Floyd).

Qui, nello spettacolo, la sagacia porta Boccaccini a costruire una trama narrativa sotterranea, affiorante attraverso la particolare interpretazione attoriale, dove ad essere pizzicate con tatto sono le corde del riso assieme a quelle della riflessione: amara, a volte, ma anche costruttiva e quindi propositiva. Nello specifico, Boccaccini mette in scena la cosiddetta “scuola dispositivo” affidando ad un irreprensibile “in totem” Paolo Perinelli la poetica ipocrisia del Preside; ad una maledettamente affascinante Silvia Brogi la frustrazione della Prof. Mortillaro; ad un intrigante e viscido Riccardo Bàrbera l’opportunismo del Prof. Cirrotta ; all’irresistibile risata di Marina Vitolo, l’invidia della Prof. Alinovi; e ad un avvincentemente inavvicinabile Enoch Marrella, la religiosa falsità del Prof. Mattozzi . L’anima scolastica, invece, più sensibilmente aperta alla valorizzazione delle diversità degli studenti è affidata all’interpretazione di una strepitosa Gaia De Laurentiis (l’effervescente Prof. Baccalauro) e all’appassionata persuasività di Felice Della Corte, l’attento Prof.Cozzolino per il quale non c’è studente che non abbia qualche qualità.

Al di là delle fragilità umane degli stessi professori, ciò che il regista Boccaccini riesce a far serpeggiare con acume, e qui il teatro diventa strumento sociale e politico di irrinunciabile valore, è l’idea di una scuola dove “infilare un errore dietro l’altro significa essere creativi”. Una scuola, quindi, dove poter apprendere a desiderare: condizione base per permettere a ciascun allievo di scoprire il proprio talento. Soprattutto in questo particolare periodo storico, dove si assiste ad un’eclissi della spinta a desiderare tra le nuove generazioni, accendere il desiderio, e quindi la vita, diventa essenziale.

Perché, come non si stanca di ribadire il Prof. Cozzolino, uno studente come Cardini, caratterizzato da una serie di difficoltà legate alla ricerca della propria identità, non può essere valutato con lo stesso criterio con cui si valuta, ad esempio, l’impeccabile allieva Solofra Sonia. C’è un fascino misterioso insito nell’insegnamento così come c’è una richiesta di essere affascinati nell’apprendimento: “Non abbiamo saputo prendere Cardini dal verso giusto” riconoscerà l’accurata Prof. Baccalauro.

La scuola, così come i libri, sono luoghi dell’apertura, della pluralità dei linguaggi, dell’osmosi. Per enfatizzare questo messaggio, il Teatro Golden, attraverso un’iniziativa davvero preziosa, ha lanciato la campagna di sensibilizzazione “Libri in via di estinzione. Salvali grazie a Sottobanco”. Per tutto il periodo della messa in scena dello spettacolo (ovvero fino al 2 ottobre p.v.) ci si potrà scambiare con il proprio vicino di poltrona un libro, per scongiurarne estinzione.

Jorge Mendez Blake – El Castillo – 2007

La potenza di un libro può incrinare la rigidità e l’asfissia creata da atteggiamenti di separazione e di discriminazione. Il desiderio ha bisogno di libertà per esprimersi. Ce lo ricorda anche l’installazione “El Castillo” di Jorge Mendez Blake (2007) la quale, basandosi sulla convinzione che la scrittura è di per sé una costruzione e la lettura una forma di creazione, trasforma l’astrazione letteraria in spazio, dando così una dimensione fisica all’azione del leggere. Un muro può cadere, quindi, perché irrimediabilmente minato alla base dalla forza delle parole e dai valori di convivenza civile, che la Letteratura e il Teatro non smettono di metterci a disposizione ogni giorno.

Jorge Mendez Blake – El Castillo – 2007 (dettaglio)

Recensione dello spettacolo LA METAMORFOSI di Franz Kafka – adattamento e regia di Giorgio Barberio Corsetti –

TEATRO ARGENTINA, 5 – 27 febbraio 2022 –

Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale

La metamorfosi
di Franz Kafka
Mondadori Libri, traduzione di Ervino Pocar –
adattamento e regia Giorgio Barberio Corsetti
con Michelangelo Dalisi, Roberto Rustioni, Sara Putignano / Gea Martire –
Anna Chiara Colombo, Giovanni Prosperi, Francesca Astrei, Dario Caccuri –

Due scritte campeggiano sui muri  della casa di Gregor Samsa: “MONDO” (su una parete del soggiorno, dove vive e si arrocca la famiglia) e  “IMMONDO”  (su una parete della camera da letto, dove viene confinato Gregor, l’uomo-insetto). Ma è davvero possibile dividere il genere umano attraverso queste due categorie? Tra chi è “mondo” (cioè ordinato) perché si crede depurato da tutti gli aspetti che creano disordine nella vita e chi invece è “in-mondo” (cioè non-ordinato) e dagli “ordinati” viene additato come repellente, perché diverso da loro e per questo meritevole di essere emarginato? E coloro che si ritengono “mondi” (ordinati e ordinari) lo sono davvero? A cosa serve essere “mondi”, ammesso che ciò si possa davvero concretizzare? 

Lo spettacolo prende avvio creando, al buio, un’atmosfera magico-onirica, preludio alla metamorfosi di Gregor da uomo a bestia (insetto). In scena una camera da letto che ricorda, soprattutto nella costruzione, il dipinto “La camera di Vincent van Gogh ad Arles”, senonché qui la luce, ma soprattutto le ombre, vengono opportunamente giocate sui toni misteriosi del blu cobalto, capaci di donare un carattere fosco e sospetto all’ambiente.

Scopriamo fin da subito che ciascun personaggio è insieme anche voce narrante di se stesso: soluzione che sorprende e diverte. Così come una roteante scenografia regala, di scena in scena, novanta gradi di spazi-tempi diversi e ben legati tra loro.

Merito anche degli interpreti, che riescono a infondere una profonda leggerezza (non ultimo attraverso una continua rottura dei piani d’azione) ad una situazione dominata e bloccata dal disgusto verso il protagonista (un Michelangelo Dalisi, polimorfico per posture fisiche e vocali).

Accogliere i cambiamenti, si sa, non è cosa facile  per gli umani, che per loro natura tendono ad essere molto abitudinari. Troppo, forse, se questa tendenza non riesce a dare spazio anche a eventuali variazioni, proprie di personalità attirate dalla profondità dell’umano.

Che non si accontentano di rimanere in superficie (come i più) ma che anelano a scoprire la propria speciale diversità, inseguendo così una personale realizzazione interiore. Per avvicinarsi alla quale, occorre togliere (qui sì mondare) tutto ciò che sembra importante ma che in realtà è superfluo, perché deviante dalla conoscenza profonda di se stessi. Cosa che inconsciamente Gregor già sapeva, quando soleva dedicare il suo tempo libero ad intagliare il legno: un’arte che consiste appunto nella sapiente rimozione di materia da altra materia, al fine di ricavarne un’opera d’arte. I familiari credono (e in un primo momento anche lo stesso Gregor) che l’essere arrivato a ricoprire il ruolo di commesso viaggiatore sia il massimo della sua realizzazione.

Invece il viaggio potrebbe continuare ma non più come commesso (cioè come subalterno) bensì come imprenditore di se stesso, sotto nuove “forme”. Ma non è semplice. E ascoltare, dal violino della sua amata sorella, l’aria di Händel “Lascia ch’io pianga” è solo l’inizio della fine per Gregor che, piangendo la dura sorte, se ne va, sospirando la libertà.


Recensione di Sonia Remoli