Recensione HO PAURA TORERO – regia Claudio Longhi

TEATRO ARGENTINA

dal 3 al 17 Aprile 2025

Assomiglia a un colpo di Stato l’amore?

La Fata dell’angolo si lascia capovolgere il cuore – e la soffitta – di fronte alla “collana di perle” del sorriso di Carlos. Che, invece, si lascia bruciare dalla passione irresistibile per il suo Cile da liberare.

Lino Guanciale è la Fata dell’Angolo – Francesco Centorame è Carlos

Era l’11 settembre del 1973 quando a Santiago del Cile si verificò un colpo di Stato, che portò al rovesciamento del governo democraticamente eletto e presieduto da Salvador Allende, a favore di una una giunta militare guidata da Augusto Pinochet che prese il potere.

Claudio Longhi

Lo spettacolo di Claudio Longhi – che si avvale della trasposizione teatrale di Alejando Tantanian all’omonimo romanzo di Pedro Lemebel, tradotto da M.L. Cortaldo e da Giuseppe Mainolfi e del cui spettacolo Lino Guanciale è dramaturg oltre che interprete assieme a Daniele Cavone Felicioni, Francesco Centorame, Michele Dell’Utri, Diana Manea, Mario Pirrello, Sara Putignano, Giulia Trivero – si apre diffondendo nell’aria, e “ricamandolo” sulle tende-sipario, l’ultimo discorso del Presidente Salvador Allende durante le ore di resistenza a La Moneda, la residenza ufficiale del Presidente della Repubblica del Cile. “Che lo sappiano, che lo sentano, che se lo mettano in testa: lascerò La Moneda nel momento in cui porterò a termine il mandato che il popolo mi ha dato, difenderò questa rivoluzione cilena e difenderò il Governo perchè è il mandato che il popolo mi ha affidato”.

Nello specifico quella che apre lo spettacolo è l’ultima parte del discorso di Allende: quella pronunciata intorno alle ore 9:30 del mattino dell’11 settembre 1973, quando le forze aeree stanno bombardando anche le antenne di Radio Magallanes, dopo aver bombardato quelle di Radio Corporatiòn. 

Prima di essere messo a tacere Salvador Allende affida allora alla radio il suo ultimo messaggio: quell’appassionata testimonianza di desiderio di giustizia che influenzerà la futura coscienza del Paese.

Anche per Salvador Allende l’amore per il popolo cileno – e per la giustizia del popolo in generale  – assunse le sembianze si un colpo di Stato. “Sicuramente Radio Magallanes sarà zittita e il metallo tranquillo della mia voce non vi giungerà più. Non importa. Continuerete a sentirla. Starò sempre insieme a voi”.

Le forze di Allende resistettero fino alle 13:45, quando le unità speciali alla fine presero d’assalto il palazzo. Alle 14:00 si udì l’ultimo sparo: Allende si era dato la morte col fucile dell’amico cubano Fidel Castro. Vedendo il corpo, il generale Palácios, uno dei leader golpisti, avvertì il quartier generale della Guarnigione di Santiago: “Missione compiuta. Moneda presa. Presidente morto”. Con queste funeste parole iniziarono 17 anni di feroce dittaturaquella di Augusto Pinochet.

La narrazione del romanzo di Pedro Lemebel è ambientata nel Cile del settembre 1986 quando, alla vigilia dell’anniversario del colpo di stato del Generale Pinochet, il Paese è in grande subbuglio. Un Cile fragile, esasperato da più di un decennio di dittatura, che non dimentica l’assassinio di Allende, la morte di Neruda, la repressione di ogni opposizione, i desaparecidos, la continua crisi economica, l’isolamento internazionale. 

Un Paese però “vigile alla mobilitazione”, come lo aveva invitato a rimanere Allende nel suo ultimo discorso. Come lui, “lottatore sociale”.

Perché “il processo sociale non scomparirà se scompare un dirigente. Potrà ritardare, potrà prolungarsi, ma alla fine non potrà fermarsi”. Perché “la storia non si ferma né con la repressione né con il crimine”. Perché “L’umanità avanza verso la conquista di una vita migliore”.

“Queste sono le mie ultime parole e sono certo che il mio sacrificio non sarà invano, sono certo che, almeno, sarà una lezione morale che castigherà la fellonia, la codardia e il tradimento” (Salvador Allende).

In questo stato di alta tensione sociale del 1986, la narrazione della storia personale di Carlos e Fata, viene contrappuntata a quella di un’altra coppia: quella di Pinochet e di sua moglie  Lucía Hiriart. Anche Claudio Longhi, come Pedro Lemebel,  ne restituisce tutta la bellezza di due accattivanti linee narrativo-melodiche simultanee e giustapposte che si estendono, al di là delle diverse dinamiche erotiche, alla complessità del genere umano e dei rapporti interpersonali.

Oppresso da una moglie in preda ad un’eccessiva loquacità e mordace verso le abitudini private del marito, nonché tormentato da traumi infantili, Pinochet era solito in quegli anni andare e venire dal proprio ‘retiro’ di Cajón del Maipo, che domina Santiago dall’alto. Anche qui, sulla scena curata da Guia Buzzi, in sinergia con il disegno luci di Max Mugnai, il visual design di Riccardo Frati e i 
travestimenti musicali di Davide Fasulo

L’incisiva e straniante musicalità vocale – autoritaria e flemmatica – di Mario Pirrello, interprete del dittatore cileno, ben si accorda per opportuna giustapposizione con quella stridulmente rauca della Lucía di Sara Putignano, elegante rapace in chanel.

Sara Putignano è Lucía Hiriart – Mario Pirrello è Augusto Pinochet

Ed è davvero efficace come Gianluca Sbicca, a cui è affidata la cura dei costumi, sottolinei il carattere emergente del personaggio di Lucía – che anche prossemicamente fatica a restare “seduta a fianco” del dittatore – attraverso i suoi abiti: quei tailleur chanel  – simbolo delle donne della borghesia chic, indipendente, moderna – declinati in sempre nuovi colori e nuove trame in tweed. Tessuto fino a quel momento riservato all’abbigliamento maschile. 

E così, proprio grazie a questo sapiente gioco narrativo e musicale delle due coppie, di fronte alla mortificante relazione della coppia costituita da Lucía Hiriart e Augusto Pinochet si staglia la bellezza vaporosa della prossemica dei corteggiamenti tra la maliziosamente garbata Fata e il “suo” Carlos dei “poi ti spiego”. 

(ph. Masiar Pasquali)

La Fata di Lino Guanciale brilla in credibilissima leggiadria, dalle sincere sfumature sensuali.

Lei, travestito passionale e canterino, ricamatrice dei quartieri alti, come farfalla sa svolazzare intorno al fiore del suo amore, dal quale riceve una nuova iniezione di vitalità per le sue membra e per il suo cuore, oramai intorpiditi. Da autentica amante, poi, sa lasciarsi sedurre – più che preoccupare – dall’alone di mistero di cui Carlos ama ammantarsi.

Lei che ha bisogno di chiudere gli occhi per riaversi da tanta inaspettata felicità, sa che nulla nella vita può essere perfetto e quindi a nulla vale farsi preda della rabbia, o del rancore. Ad esempio, per le improvvise fughe del suo amato, del quale sente – fino a rimanerne contagiata – la bruciante passione per la politica. Il Carlos di Francesco Centorame esprime, infatti, tutta l’affascinante e impaziente passionalità di un giovane patriota, che dà forma ad un microcosmo clandestino. Proprio lì, nell’insospettabile soffitta della Fata dell’angolo, per riuscire ad evitare le conseguenze della repressione.

Carlos si rivelerà associato al Fronte Patriottico Manuel Rodríguez:  un’associazione clandestina di stampo rivoluzionario, dall’ideologia marxista-leninista e con lo scopo di ribaltare la dittatura militare di Augusto Pinochet. Questa organizzazione inizialmente costituiva l’apparato militare del Partito Comunista cileno, e con il suo appoggio svolgeva diverse azioni contro la dittatura, talvolta con l’uso delle armi in forma di “guerriglia urbana”. Ma il movimento venne poi considerato a stampo terroristico e questo provocò la separazione dal Partico Comunista. 

«Gli sbirri di qui e i terroristi di là, quel Fronte patriottico non so cosa, e tutte le pene di quella povera gente a cui avevano ammazzato un familiare. Immancabilmente, quell’argomento riusciva a commuoverla, quando ascoltava le testimonianze radiofoniche ricamando lenzuola per la gente ricca, con rose senza spine» (da “Ho paura torero” di Pedro Lemebel).

L’arte del ricamo, alla quale fu avvicinata dalle sue amiche checche del quartiere della Recoleta – la Lupe, la Fabiola e la Rana – non rimase per Fata relegata all’atto pratico dell’ornare tele. Ma si trasformò in un’arte della punteggiatura e quindi di scrittura, capace di infiorettare una storia con dettagli, a volte anche poco veritieri, pur di renderla più interessante ed avvincente. Ne sono una prova le tele ricamate con le quali Fata veste le casse che accetta di ospitare in casa, regalando loro una nuova identità d’arredo.

Perché Fata è un inno al femminile, non tanto e non solo come genere, ma come preziosa componente creativa del nostro stare al mondo. Non a caso anche Salvator Allende nel suo ultimo discorso ringrazia innanzi tutto le donne del suo Cile: “Mi rivolgo a voi, soprattutto alla modesta donna della nostra terra, alla contadina che credette in noi, alla madre che seppe della nostra preoccupazione per i bambini”.

 “Ho paura, torero, ho paura che stasera il tuo sorriso svanisca” – cantavano artiste come Sara Montiel e Lola Flores. E con loro La Fata dell’angolo. Ma “La storia non si ferma né con la repressione né con il crimine…  Il processo sociale non scomparirà se scompare un dirigente. Potrà ritardare, potrà prolungarsi, ma alla fine non potrà fermarsi.  Mi appello a voi per dirvi di avere fede” (Salvator Allende).


Recensione di Sonia Remoli

Recensione LA PULCE NELL’ORECCHIO – regia Carmelo Rifici

TEATRO VASCELLO

dal 28 Marzo al 6 Aprile 2025


Un’idea alla quale non si riesce a smettere di pensare, essendo stato versato nelle nostre orecchie un sospetto per far sì che diventi un assillante dubbio, è quella che si è soliti definire “una pulce nell’orecchio”. Un’idea così disperatamente insinuante, da risultare simile all’effetto provocabile da una pulce che, una volta entrata nell’orecchio e muovendosi per uscirne, non fa altro che ricordare continuamente la propria fastidiosa presenza. 

Drammaturgicamente l’idea rappresenta un’occasione per costruire uno spassosissimo e super adrenalinico meccanismo tragicomico – e Georges Feydeau (1862-1921) ne era un grande maestro essendo, oltre che attore e drammaturgo, anche orologiaio, ingegnere, appassionato di matematica e del gioco degli scacchi. 

Georges Feydeau

Esistenzialmente rappresenta invece una dinamica relazionale, che sottende shakespearianamente alla conoscenza di una certa inclinazione tutta umana: quella alla sopraffazione. Inclinazione con la quale tutti veniamo, fin da subito, gettati al mondo. Per “sopravvivere”. 

Aprirsi a “vivere” – e quindi ad amare – è un passaggio esistenziale successivo, che richiede un desiderio e un impegno educativo verso l’arte di entrare “in relazione” con l’altro. Cercando sempre nuovi equilibri per non sopraffare e per non restare sopraffatti.

Ecco allora che il sospetto – generato dalla pulce nell’orecchio – rappresenta una postura esistenziale che ci parla del nostro istintivo difenderci dall’essere oggetto di “uno scacco” da parte dell’altro. Qui in questo testo, nello specifico, tutti sospettano di aver subito un tradimento. Perché, sebbene l’occasione nasca dal sospetto e dai relativi fraintendimenti riguardanti una singola coppia (Raimonda e Vittorio Emanuele) chi ne viene a conoscenza ne resta come contagiato “a specchio”, cadendo nella trappola del dubbio di esserne a sua volta oggetto.


“Essere traditi” è un trauma-tabù che ci mette decisamente in allarme. Nasce come un sospetto, che poi può gonfiarsi fino ad assumere connotazioni via via sempre più invadenti. 

Ma “tradire” è un impulso naturale ed istintivo.

Carmelo Rifici

Ed è questa la pulce che intende introdurci nell’orecchio il regista Carmelo Rifici, che insieme a Tindaro Granata ha curato la traduzione, l’adattamento e la drammaturgia di questo spettacolo: indirizzare la nostra attenzione sulla potenza difficilmente controllabile della nostra psiche.

Spettacolosa visualizzazione ne è la volutamente disorientante scenografia, solo apparentemente un tradimento allo stile del vaudeville tutto porte, armadi e letti sfatti alla Georges Feydeau. Qui, infatti, il regista Rifici chiede all’acuto estro di Guido Buganza di realizzare una scena aperta, destrutturata, proprio per poter essere disponibile a rendersi continuamente modulabile. Adattabile alle diverse esigenze che le aree della nostra psiche, come turbolenti condòmini di un hotel, reclamano. Divertentissimo, il sapiente gioco registico attraverso cui queste aree di volta in volta, a seconda delle situazioni emotive, vengono “abitate” dagli interpreti in scena. Una coralità attoriale dalla musicalità matematica assai efficace e trascinante. 

12 attori (alcuni chiamati a un doppio ruolo) donano infatti una vitalità folle a 15 personaggi che convivono in uno spazio franco: regno dell’equivoco, del doppio, di una babele di lingue e di difetti. E che non si capiscono quasi mai fra loro, ma proprio per questo si guardano con curiosità, si cercano, s’inseguono. 

Sono: Giusto CucchiariniAlfonso De VreeseGiulia Heathfield Di RenziUgo FioreTindaro GranataChristian La RosaMarta Malvestiti; Marco Mavaracchio; Francesca OssoAlberto PirazziniEmilia TiburziCarlotta Viscovo.

“Sono il primo a divertirmi quando posso sistemare faccia a faccia due personaggi che non dovrebbero mai incontrarsi. La comicità è la riflessione naturale di un dramma” – ci rivela Carmelo Rifici.

Al centro degli elementi modulari della scenografia, resta l’archetipo dell’armadio che – in una concatenazione di dinamiche surreali, che vanno al di là dei principi della logica (ovvero il principio di identità e di non contraddizione e il principio di causa-effetto) – può essere non solo un armadio ma anche una lavagna, una cabina telefonica e molto altro ancora. Insomma un crogiolo di soluzioni creative, proprie del linguaggio creativamente inconscio della nostra psiche. 

Una creatività fuori dall’ordinario che ci permette di non dimenticare come al di là di ogni ipocrisia sociale ed esistenziale (vedi un presunto controllo egoico sulle altre parti della nostra psiche) noi siamo in verità curiosissimi di provare e gustare tutto. Proprio come avviene nel teatro che va in scena ogni notte nei nostri sogni. Potenzialmente liberi da gabbie logiche e moralistiche.

E dalle pareti separatorie di porte, armadi, o compartimenti di altra natura. Come quella rappresentata dal palato, ad esempio: una parete che se forata non permette l’espressione fonetica delle consonanti. E Tindaro Granata nel ruolo di Camillo ci rende tutta la tenera disperazione di chi si sente un diverso e quindi “uno sconosciuto”: non a caso, qui in Rifici, prende sembianze che alludono a quelle di Charlot. Come lui è infatti un pò l’emblema dell’alienazione umana.

Ma è innegabile, anche, come il suo linguaggio “manchevole” sappia risultare – a chi lo ascolta con curiosa attenzione – comprensibile, seppure al di là delle “pareti” della logica. 

Rifici chiede inoltre ai propri attori di essere così accoglienti da offrire ospitalità alla multiforme natura del linguaggio, rendendone i colori più intraducibili verbalmente attraverso la musicalità seducentemente inquietante di strumenti musicali, in osmotico dialogo con la scena.  

Una scena che con sagacia elegantemente giocosa Guido Buganza immagina e realizza ispirandosi argutamente alla concezione scenica di Adolphe Appia (1862 – 1928), che scardinò il senso della messinscena, generando un’attenzione tutta nuova verso la componente emotiva del linguaggio scenico. Dove il regista non è più l’unico artefice della trasmissione del messaggio del testo letterario: anche la scenografia e la drammaturgia luminosa vi concorrono, andando al di là della precedente funzione esclusivamente realistica. 

Nasce così la nuova architettura del “palcoscenico plastico”, in cui i fondali e le quinte dipinte sono sostituite da praticabili posti su piani diversi e da scivoli che permettono all’attore  movimenti che rivelano plasticamente l’apparenza eternamente fluttuante del mondo fenomenico. Un teatro, il suo, non tanto della “rappresentazione” quanto della “relazione tra attore e spettatore”. Uno spazio sempre meno “edificio” ma sempre più “una questione di valori”: necessario strumento linguistico ed espressivo di un ritmo scenico.

Quel ritmo che, qui in Rifici, è immanente e trascendente il contesto teatrale – ricco com’è di riferimenti extratestuali quali “Tanto rumore per nulla” di Shakespeare, “I giganti della montagna” e “Sei personaggi in cerca d’autore” di Pirandello e ancora la Maieutica socratica.  E che diviene una denuncia giocosamente perspicace della nostra ipocrisia esistenziale, nonché del nostro impoverimento esperienziale su “ta erotika”: quelle “cose dell’amore”, di cui Socrate parla nel “Simposio” di Platone.

Affinché il nostro vivere soggettivo e civile sia sempre meno ossessionato da pretese di sicurezza protettiva: imparando a stare al mondo senza “bretelle”, insomma. Progressivamente meno sospettosi nell’investire tempo e risorse per “assicurare” l’altro.

Perché l’altro è uno sconosciuto sì, ma uno straniero che ci assomiglia, più di quanto immaginiamo. Decisamente prezioso per conoscere meglio noi stessi.

Perché “la primavera non è mai troppa”.

Ma soprattutto perché “nessuno muore mai veramente”.


Recensione di Sonia Remoli

VISITA AL PADRE di Norm Foster – Rassegna di drammaturgia contemporanea “Parole d’autore”

TEATRO ARGENTINA

24 Marzo 2025

Secondo irrinunciabile appuntamento della Rassegna di Drammaturgia Contemporanea “Parole d’autore”, quello della serata di ieri 24 Marzo. L’ideatore della Rassegna – il regista e direttore artistico Piero Maccarinelli – e la Fondazione del Teatro di Roma hanno proposto all’attenzione del pubblico del Teatro Argentina un testo inedito, attraverso la voce e il gesto di uno dei più importanti protagonisti del teatro contemporaneo: Massimo De Francovich

L’inedito era “Visita al padre”, un testo del più prolifico e rappresentato drammaturgo canadese contemporaneo: Norm Foster. Testo la cui traduzione e il relativo adattamento sono stati curati da Pino Tierno; la composizione delle musiche da Antonio Di Pofi; la regia da Piero Maccarinelli.

Norm Foster

Il pubblico romano ha risposto con generosità all’invito e, una volta in sala, si è lasciato coinvolgere intensamente dal testo in scena. Merito della raffinatissima e accattivante interpretazione di Massimo De Francovich, nel ruolo del padre. Di Maximilian Nisi, l’acuta efficacia di aver restituito i colori della carezzevole distanza di un figlio nei confronti del padre. 

La brillante ironia del testo riesce a contagiare fin da subito l’attenzione curiosa dello spettatore, nel momento in cui ne rivela, parallelamente, sfumature di cordiale ferocia. 

Sfumature che il padre interpretato da Massimo De Francovich rimanda allo spettatore con grande bellezza, attraverso impercettibili smorfie di vocalità onomatopeica che, ben indirizzate con ironia schietta, diventano strumento di sfida intelligente nei confronti del figlio.

Massimo De Francovich – Maximilian Lisi

I due interpreti, accordatissimi tra loro, hanno commosso il pubblico nel confessare poeticamente come lo scintillio dello loro punzecchiature  ironiche non fosse che uno schermo luminoso sulle celate solitudini di entrambi.

Quella narrata è infatti la storia di un uomo, “Un cuore gentile”, che si lascerà sorprendere da un gesto inaspettato. Un gesto che poi resterà “Inciso nella pietra”: né la moglie, né la figlia riusciranno a perdonarlo, tanto si inciderà nel loro cuore. Un gesto che solo il figlio darà prova di saper metabolizzare, al di là degli “Smarrimenti familiari”. 

Un figlio, quello di Maximilian Nisi, che cerca, e trova, quel desiderio capace di “saper vedere” alcune misteriose scelte del padre: le stesse che hanno fatto naufragare il rapporto con la moglie e con la figlia.

Un “vedere”, il suo, che si dà con l’accoglienza di “offrire uno sguardo”. E che, prescindendo dalla vista, riesce a cogliere quella che è stata “l’intenzione” paterna: custodire, preservare, prendersi cura. 

Massimo De Francovich

Ed è di sublime bellezza vedere questo figlio nutrire un interesse che va al di là dello scandalo: un interesse donato a qualcuno proprio in quanto fragile e imperfetto.

Lunghissimi gli applausi di riconoscente apprezzamento da parte del pubblico al termine della performance: un pubblico che non riusciva a lasciar andar via  Massimo De Francovich  e Maximilian Nisi.


L’evento si è inserito all’interno della Rassegna “Parole d’Autore”, un’iniziativa che prosegue il lavoro de “I Lunedì di Artisti Riuniti” e di “Lingua Madre”, dedicata alla drammaturgia contemporanea. Dopo il successo della scorsa stagione con “Il Premier” di Giuseppe Manfridi, la Rassegna ha proposto quest’anno, oltre a “Visita al padre”, anche l’appuntamento del 20 marzo alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea intitolato “I funerali di Corrao”. Un testo di Emilio Isgrò, artista dell’anno per la Galleria, dedicato alla figura del sindaco di Gibellina, protagonista della ricostruzione post-terremoto e ideatore del Cretto di Burri. Un evento promosso da Piero Maccarinelli con la Compagnia Umberto Orsini, in collaborazione con SIAE.



Recensione di Sonia Remoli

I FUNERALI DI CORRAO di Emilio Isgrò – Rassegna di drammaturgia contemporanea “Parole d’autore”

GNAMC

GALLERIA NAZIONALE D’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA

20 Marzo 2025

Nella meravigliosa architettura di luce della Sala delle colonne della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, nella serata del 20 Marzo u.s. ha avuto luogo il primo incontro della Rassegna di drammaturgia contemporanea “Parole d’autore”. Rassegna nata dalla passione per la drammaturgia del regista teatrale e direttore artistico Piero Maccarinelli e prodotta dalla Compagnia Orsini, in collaborazione con SIAE.

Una proposta che individua nella drammaturgia contemporanea quel ponte capace di dare vita ad un osservatorio attivo di pubblico partecipe, stimolo e confronto tra le diverse espressioni del fare teatro oggi.

Renata Cristina Mazzantini


 
Ad aprire la serata – dedicata all’artista, scrittore e poeta Emilio Isgrò, celebre per il linguaggio artistico della “Cancellatura” – è stata la Direttrice della Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea Renata Cristina Mazzantini. 

Emilio Isgrò è infatti l’Artista protagonista della GNAMC per questo anno e a lui la Galleria dedica una serie di incontri, unitamente all’esposizione di una selezione significativa delle sue opere.

La figura di Isgrò è stata selezionata per l’anno 2024-2025 in occasione dei sessant’anni della “Cancellatura”: un gesto artistico radicale che ha rivoluzionato il linguaggio dell’arte a livello internazionale.


Renata Cristina Mazzantini, Guido Talarico , Emilio Isgrò

Ma – come acutamente definito dal Presidente della Fondazione Teatro di Roma, Francesco Siciliano – Emilio Isgrò è “una creatura rinascimentale”: un artista nel senso più vasto della parola, dall’inclinazione pluridisciplinare. 

Francesco Siciliano

E tra le numerose iniziative culturali Isgrò amò impegnarsi anche nelle “Orestiadi” di Gibellina, al fine di celebrare la rifondazione della città e segnare l’alba di un destino tutto da riscrivere. Ed così che sulle rovine della distrutta Gibellina – novella Troia e immaginario Palazzo degli Atridi – Ludovico Corrao propone la recita dell’Orestea proprio nel ‘siciliano poetico’ ideato da Emilio Isgrò.
 
L’artista era ieri sera presente in sala per presenziare alla rappresentazione del suo poemetto “I funerali di Corrao”, un omaggio all’indimenticabile amico e mitico sindaco di Gibellina, in rappresentanza del quale era presente in sala la figlia Francesca. E molti altri personaggi del mondo dell’arte.


Piero Maccarinelli


Ed è così che dalla raffinata regia di Piero Maccarinelli ha preso vita nella serata del 20 Marzo u.s. – in un insolito riallestimento della Lounge delle Colonne – un’elegante messa in scena del testo di Isgró “I funerali di Corrao”. 

“Perché un allestimento museale – sostiene la direttrice Mazzantini – funziona se raggiunge il pubblico, mettendolo nelle condizioni migliori per entrare in contatto con l’opera d’arte. Perché l’allestimento museale è esso stesso una messa in scena che può svelare i significati sottesi dell’opera e saper creare emozioni e ricordi”. 

Francesca Benedetti, Mariano Rigillo, Anna Nogara, Barbara Eramo, Stefano Saletti

E cosí é accaduto: la versatilità dello spazio della Sala delle Colonne ha veicolato un fluido coinvolgimento alla fruizione della rappresentazione teatrale, punteggiata dalla metafisica malinconia del canto di Barbara Eramo e dalla musica al bouzuki di Stefano Saletti

Appassionati dallo studio e dalla diffusione della musica e della cultura mediterranea, le proposte musicali dei due artisti trovano la piú efficace espressione di sincretismo linguistico ed etico nella “lingua sabir”: la lingua franca parlata fino all’inizio del secolo scorso dai pescatori, dai marinai e dai commercianti del Mediterraneo. 

Un’acuta scelta registica, quella che ha portato Maccarinelli a impreziosire la messa in scena teatrale con canti propri di questa lingua, che ci ricorda – coerentemente al tema del poemetto di Isgró – l’importanza del dialogo e dell’intessere relazioni civili e culturali. 

La Sicilia cancellata di Emilio Isgrò

Qualcosa di analogo si rintraccia nel fine ultimo dell’arte della “Cancellatura” di Isgró: uno scoprire, coprendo, il valore dei rapporti umani, fondato su una reale possibilità di comunicare e di preservare la parola per quando servirà. Perché “l’arte – sostiene Isgrò – è l’unica forma rimasta di educazione umana”.


Ma anche la vita e l’arte di Ludovico Corrao sono attraversate dalla stessa vocazione a riallacciare un dialogo tra le diverse culture mediterranee. Ne sono splendide testimonianze “Le Orestiadi” di Gibellina e il Museo delle Trame Mediterranee.

Ludovico Corrao



L’interpretazione drammaturgia del testo di Isgró “I funerali di Corrao” viene affidata da Maccarinelli ad attori del calibro di Francesca Benedetti, Anna Nogara, Mariano Rigillo, in passato protagonisti dell’Orestea di Isgrò al Cretto. 

Laddove del testo Rigillo segna il passo solenne del suono, unitamente al ritmo dell’incedere e Anna Logara ne fissa i concetti sinesteticamente con gli occhi, la Benedetti sembra ricamare tra loro punti di legame, dalla freschezza impetuosa di accenti. Ed é canto. Anzi concerto di identitá in dialogo. 

Una serata ricca in meraviglia che si è rivelata un inno a tutto tondo al potere drammaturgico del saper creare connessioni.

Il secondo appuntamento della Rassegna di Drammaturgia Contemporanea “Parole d’autore” – presentato dalla Fondazione Teatro di Roma – si è tenuto al Teatro Argentina ieri 24 Marzo u.s. ed è stato un omaggio ad uno dei più importanti protagonisti del teatro italiano: Massimo De Francovich, con “VISITA AL PADRE”, un inedito di Norm Foster. In scena anche Maximilian Nisi.


Francesca Benedetti, Mariano Rigillo, Anna Nogara, Barbara Eramo, Emilio Isgrò, Piero Maccarinelli, Stefano Saletti



Recensione di Sonia Remoli

Recensione BEHIND THE LIGHT – di e con Cristiana Morganti –

TEATRO VASCELLO

dal 21 al 23 Marzo 2025

Ma sarà proprio vero che “l’energia genera sempre energia” e che “non bisogna fermarsi mai”?


Cosa prende forma ad un certo punto della vita tra un “mi hanno insegnato” e un “mi manca” ?


Che uso si deve, o si può, fare delle proprie origini professionali e personali ? E che cosa significa trasmetterle ?

Insomma, cosa s’insinua “dietro la luce” di una danzatrice e di una donna di successo ?



Cristiana Morganti – performer di fama internazionale diplomata in danza classica e in danza contemporanea e formatasi per oltre un ventennio al Tanztheater Wuppertal Pina Bausch, approfondendo lo studio sulla voce e sulla ricerca teatrale con gli attori dell’Odin Teatret di Eugenio Barba – ci invita con ironica e provocante dissacrazione a “rompere” la quarta parete e a sintonizzarci sulla sua lunghezza d’onda. Concedendo libero corso a tutto ciò che abbiamo sacrificato per un determinato periodo della nostra vita e che ora ci va troppo stretto per riuscire a continuare a farlo.

Ma cosa si può fare – di creativo – di questo invadente disagio? 

(ph. Ilaria Costanzo)


Sorprendendoci continuamente, la Morganti ci tiene alla poltrona di sala tesi a spiccare il volo: ognuno il proprio. Un volo nuovo, un nuovo inizio: come è accaduto a lei, subito dopo che la vita l’ha scaraventata a terra.
Ma “stare a terra” può aprire a nuovi orizzonti, a nuovi desideri, che in parte tradiscono i precedenti e in parte se ne fanno personali – e quindi liberi – legami. 

E così, ad esempio, l’essenza dell’iconica sedia delle origini (vedi il Café Müller di Pina Bausch) resta ma prende le sembianze di una morbida, leggera, coloratissima, rimbalzante o sprofondante poltrona gonfiabile. 

(ph. Ilaria Costanzo)



Rosa fluo: un colore brillante, impossibile, impudente, energico.

Un colore che nel corso della performance la Morganti inizia anche progressivamente ad indossare e a fare suo, come un nuovo temperamento.

E che associa al nero: un colore in perenne espansione, pronto ad inghiottire tutto. Ma sebbene sia la traduzione dell’assenza di luce, nessun nero riesce ad esserne totalmente scevro.

Soprattutto per una donna e una professionista come la Morganti che, interrogandosi, scopre di non essere solo rigorosa ma anche curiosissima e quindi restia a scegliere rigidamente. Insofferente, ora, a fare tagli, sebbene una parte della sua psiche più sabotante la inviti a farlo.

E’ il suo gesto danzante così poetico a parlarcene, nel momento in cui lo vediamo reiteratamente geometrizzarsi in una chiusura, in un perimetro, in un limite che separa e non invita ad un prossimo nuovo incontro. 

Così come si rivela di lacerante ironica bellezza il suo modo di rendere creativo il dissidio tra fragilità e forza. Come quando, ad esempio, entra in relazione con uno dei dictat asfissianti della propria formazione, prima cercando di sublimarlo in un canto dalla luminosa ironia melodrammatica e poi – ancora non paga – rinunciando alle stesse parole per affidare lo scioglimento del disagio al dialogo tra l’espressività corporea e quella musicale.

(ph. Antonella Carrara)

Perché lei si riscopre golosa di vita, laddove la vita e la danza le hanno richiesto l’ascesi della rinuncia. Ma l’esplorazione del limite, non come separazione ma come soglia di dialogo con l’oltre, ora ha la meglio sulla sua mitica compostezza. Messa a dura prova anche da terremoti esistenziali.

Ecco allora che la sua parola diviene “ironica” perché – proprio come sosteneva Kierkegaard  – «L’ironia è la via; non la verità, ma la via». Perché l’ironia è come un mare, in cui ci si può tuffare per avere un «tonico refrigerio» quando l’aria è troppo pesante.

(ph. Ilaria Costanzo)

Concetti fascinosamente visualizzati attraverso gli originali e raffinati video di Connie Prantera e da una drammaturgia luminosa curata da Laurent P. Berger.

Una performance – questa di Cristiana Morganti affiancata alla regia da Gloria Paris – sorprendentemente spiazzante, sapientemente provocatoria, profondamente liberatoria, vibrantemente energizzante.

Anche per lo spettatore.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE – regia Valerio Binasco

TEATRO ARGENTINA

dal 19 al 30 Marzo 2025

“Portateci con voi”.

Questo oggi ci chiederebbero – secondo lo sguardo registico di Valerio Binasco – quei sei personaggi in cerca d’autore, che hanno sempre faticato a farsi capire. 

Il loro messaggio è così urgente che ci viene preannunciato già prendendo posto in sala: il sipario non è completamente chiuso ma lascia come una porta aperta sulla scena retrostante.  E al termine della rappresentazione, ugualmente, gli attori ne trattengono la chiusura completa.

E’ un messaggio dalla commovente bellezza. 

Un messaggio puntuale nel parlare di noi sempre, e in particolar modo oggi. Perché urla il nostro bisogno di essere guardati con appassionata curiosità da chi ci è simile, ma ancor di più da chi da noi differisce. Facendoci prossimi tra diversi. 

Perché l’altro che è “fuori di noi” è lo specchio dell’altro che è “dentro di noi”: è quella nostra parte interiore che tendiamo a silenziare perché troppo diversa da un presunto sentire comune e quindi più difficile da essere compresa dagli altri.

Anche le luci di sala stanno lì e non scendono, quando la scena inizia a popolarsi. A ribadire l’esigenza che quei sei personaggi siano bagnati e abitino la luce della realtà e non solo quella della fantasia dell’autore. Loro sono tra noi. Loro sono in noi. Non possiamo non accoglierli, non possiamo non portarli con noi.

In questo senso il luogo della scena in cui avvengono le prove di teatro (la cura delle scene è di Guido Fiorato) può essere letto come metafora del teatro della nostra psiche, dove continuamente vanno in scena le prove del dialogo e della censura tra le nostre aree più logiche e quelle più creativamente libere. Un dialogo che prevede cambi d’ habitus (di modi di essere); pensieri da memorizzare facendoli propri; scenari di possibilità d’azione e di senso a cui dare continuamente accoglienza, ecc.

Una predisposizione di cui i giovani allievi di una possibile scuola di recitazione –  nello specifico qui quella del Teatro Stabile di Torino – sanno farsi vibranti interpreti: nel bene e nel male; con entusiasmo e con impacci di grazia. Come è naturale che sia. 

Lo stesso non si può dire, almeno inizialmente, per il Direttore di scena che – come lascia immaginare la sua malcelata insofferenza verso il modo di fare dell’assistente, così come il suo continuo bisogno di immobilità e di confini (che però luccichino) – si trova a vivere una fase crisi: di irrigidimento, di eccessivo controllo protettivo e quindi di sterile creatività. Una crisi che, come tutte le crisi, è occasione per entrare in ascolto di noi stessi, attraverso nuovi incontri. Provando a farne un uso fertile. 

E l’occasione non manca.

Infatti proprio mentre stanno mettendo in prova “Il giuoco delle parti” appaiono epifanicamente i “Sei personaggi in cerca d’autore”. Quasi come per evocazione di qualcosa che “risuona” e che aspetta solo che si crei un piccolo varco di comunicazione, per manifestarsi. Invadendo il confine di sigillata separazione e di messa in sicurezza. 

In verità, qui in Binasco, inizialmente sono quattro i personaggi in cerca d’autore: è un gesto di cura del regista e un dono d’attenzione per compensare, almeno in parte, quella mancanza d’attenzione verso i due figli piccoli ai quali non è stata precedentemente concessa, tanto da morire per incuria familiare.  Loro entreranno in scena successivamente e prenderanno corpo e anima in due giovani allievi della scuola di teatro.

Inconsapevolmente, accade allora che durante le prove de “Il giuoco delle parti” il Direttore di scena scelga di riapprofondire proprio delle scene le cui tematiche sono decisamente affini all’altra opera di Pirandello: quella dei “Sei personaggi in cerca d’autore”. E sarà proprio l’apertura appassionata verso queste tematiche a lasciare aperto un piccolo varco al loro ingresso. Proprio come la postura del sipario ci ha aiutato a visualizzare, prendendo posto insala.

Ne “Il giuoco delle parti” Silia, moglie di Leone e amante di Guido, si dispera per non sentirsi libera di desiderare e di essere desiderata. Suo marito, infatti, concedendole di essergli infedele – a patto di piccole ritualità quotidiane da ottemperare in ossequio agli occhi della gente – soffoca quella irresistibile esplosione del desiderio che si realizza solo quando si infrange un argine. Qualcosa di molto simile alla storia dell’Amalia dei “Sei personaggi in cerca d’autore”: lasciata totalmente libera dal marito di “intendersela” con il suo aiutante. Anzi, costretta. E: “Io soffoco, mi sento come in carcere” – dice la giovane interprete di Silia, alla prova. 

Il Direttore di scena, per rendere la sua interpretazione più credibile, le suggerisce di pensare a qualcuno che ha odiato pur amandolo.  E lei nel cercare in sé l’assurda mescolanza di questo sentimento, ricorda di provarlo verso suo padre, che l’ha abbandonata. Anche questo tema, così drammaticamente reale, non fa che far “risuonare” la storia del padre dei “Sei personaggi in cerca d’autore”.  

E lo stesso figlio legittimo dirà di “sentirsi in carcere”, tanto “non sa cosa fare di ciò che prova”. E non avendo le parole per dirlo, il suo disagio, rischierà di cadere vittima di questa mancata comunicazione tra le parti della sua personalità.

Rischio che il nostro stare al mondo sempre corre, in particolare in questo frangente storico, in cui si crede di poter risolvere ogni disagio con il denaro. Inseriti come siamo in una morsa capitalistica che ci invita a desiderare continuamente qualcosa di nuovo, realizzabile acquistando l’ultima versione di qualunque prodotto sul mercato.

E invece il desiderio, quello autentico, quello che ci fa vivere vibrantemente e con soddisfazione, non solo non è acquistabile ma richiede un provato equilibrio tra la tentazione ad avere tutto e ad essere tutto e la consapevolezza che il desiderio per potersi esprimere ha bisogno di essere alimentato dal confine al non tutto, segnato dall’interiorizzazione di una legge. 

La regia di Valerio Binasco si rivela di incandescente necessità in questo momento storico, in cui più che in altri periodi siamo disorientati.

La capacità di Binasco di rileggere il passato della tradizione e di darle voce fino a farla parlare laddove ancora non aveva avuto modo di esprimersi – o di esprimersi in una determinata modalità – è un’operazione culturale assai preziosa, che contribuisce a testimoniare la portata fertilmente tellurica di un’opera come i “Sei personaggi in cerca d’autore”.

Gli stessi personaggi, incarnandosi negli attori che Binasco ha selezionato e diretto in questa prospettiva, restituiscono quel qualcosa che ora ha l’opportunità di tornare ad avere la forza di brillare.

Oltre alla già menzionata efficacia della scelta caduta sull’impaziente entusiasmo dei giovani allievi dello Stabile di Torino – vivi in sensibile propositività – e sono Alessandro Ambrosi, Cecilia Bramati, Ilaria Campani, Maria Teresa Castello, Alice Fazzi, Samuele Finocchiaro, Christian Gaglione, Sara Gedeone, Francesco Halupca, Martina Montini, Greta Petronillo, Andrea Tartaglia, Maria Trenta -risulta davvero interessante l’interpretazione del padre del Binasco attore. 

Un padre con un determinato passato, ora fertilmente sedimentato e quindi aperto alla concertazione di possibili equilibri. Un padre che impara a fissare un limite sempre nuovo all’esuberanza vendicativa della figliastra (una tempestosamente magnifica Giordana Faggiano), un uomo che riconosce la sua “evaporazione” come marito (dell’arrendevole moglie di Sara Bertelà, commovente madre dal vigoroso istinto protettivo) e come padre di un figlio alienato, non solo prossemicamente dagli altri, ma intimamente da se stesso. Gli dà nerbo un interessante Giovanni Drago.

Ma il padre di Binasco dimostra di saper tessere relazioni anche con la vivace confusione esistenziale e professionale del Direttore di scena: un regista a cui Jurij Ferrini dona la capacità del saper attendere e del saper cogliere l’opportunità che questa sua fase di crisi gli sta offrendo.

Perché portare con noi “i nostri” personaggi in cerca di un autore – che spesso rivediamo a specchio in quelli degli altri – ci rende solidali.

E quindi più forti, perché creativamente liberi.


Recensione di Sonia Remoli

A COLPI D’ASCIA. UNA IRRITAZIONE – riduzione drammaturgica, regia e interpretazione Marco Sgrosso

TEATRO BASILICA

18 e 19 Marzo 2025

“Ma quanto siamo mostruosi ! “ – sembra volerci confessare, suo malgrado, Thomas Bernhard.

Tutti: è una postura anche dei deboli. La riceviamo a corredo, per natura, non appena gettati al mondo.

Questo testo avviluppante nel suo essere sferzante – e servito allo spettatore con irresistibile gustosità da Marco Sgrosso (attore, regista, pedagogo e co-fondatore assieme ad Elena Bucci della compagnia “Le belle bandiere”) e dal suo complice in musicalità Cristiano Arcelli (affermato sassofonista) – si apre e si chiude con un’innocente debolezza. 

Marco Sgrosso – Cristiano Arcelli

(ph. Luca Bolognese)

Ma così non è. Perché, paradossalmente, anche chi si tiene a distanza, e ben separato (come il protagonista), si scoprirà simile a coloro che depreca. Anche lui “coniuge” – diversamente coniugato – a loro: unito dallo stesso giogo, quello che ci porta ad essere per natura persone mostruose.

Lui però, il protagonista, è  anche “libero” e quindi capace di “mettersi in salvo”. Perché desideroso di trovare respiro a questa “irritante” e soffocante inclinazione, attraverso la scrittura.

“… e intanto correvo, come fuggendo da un incubo, correvo, correvo sempre più velocemente… e pensavo, mentre correvo, che le persone che ho sempre odiato e odio adesso e sempre odierò le maledico ma non posso fare a meno di amarle…e mentre correvo pensavo su questa cena artistica io scriverò, pensavo…non importa che cosa, solo subito, pensavo, subito e immediatamente, prima che sia troppo tardi…”

Eh sì, è davvero difficile entrare autenticamente in relazione con l’altro, investendo la propria libertà e il proprio tempo per sperimentare equilibri sempre nuovi con chi ci è diverso. Non a caso questo è il tema che acutamente il Teatro Basilica ha scelto di coniugare e declinare quest’anno all’interno della programmazione teatrale  2024-2025 intitolata “Persone”, ricordando come il padre della medicina Ippocrate invitasse i suoi pazienti – per conoscere meglio se stessi e quindi per relazionarsi meglio con gli altri – “ad allontanarsi dalla vita quotidiana” prescrivendo loro, oltre al riposo e al digiuno, di vedere almeno tre tragedie e una commedia.

Anche qui in “A colpi d’ascia. Una irritazione” di T. Bernhard, il protagonista da più di venti anni ha provato a “tenersi a distanza” dal mondo dall’ipocrisia di quegli artisti e intellettuali viennesi, soliti riunirsi in un’atroce mondanità. Così come prova, senza riuscirci, a declinare il recente invito dei coniugi Auersberger. E poi, pentitosi ferocemente, prova ancora a tenersi a distanza dal convivio del dopo teatro.

Ma lo fa morbidamente accolto nella sua Bergère, come su un trono. Da dove – apparentemente defilato ma in verità protagonista, com’è la natura stessa della poltrona con la quale entra in simbiosi – non fa che ridursi alla stessa ipocrisia di quegli ipocriti, che critica in quanto tali.

E’ il sax di Cristiano Arcelli ad aiutarci ad entrare ancor più in relazione con il protagonista di questo romanzo. Perché il sax è un’estensione dell’anima ed é sua la capacità di suonare bene sia da solista che in un ensemble. Lo stesso si può dire dell’estensione interpretativa di Marco Sgrosso che pur restituendo la verve egoica del protagonista, ce ne rende insieme la miriade di “variazioni”, proprie del suo (e nostro) condominio psichico.

(ph. Paolo Cortesi)

Sgrosso fa un uso potentemente inquieto degli occhi, a cui lega un efficacissimo e morboso gusto ad assaporare tutti i più reconditi sapori del disgusto, di cui possono essere farcite onomatopeicamente  (e non solo) le parole. Irresistibile, ad esempio, l’insostenibile scioglievolezza del sottotesto insito nel costrutto “bosco d’alto fusto a colpi d’ascia”. 

Ma l’essenza del personaggio di Sgrosso è opportunamente rigida. E solo perifericamente lo abita un brio furiosamente scattante. Tutto in lui recita: finanche i capelli. E’ lui il gallo del pollaio: ce ne parla anche la drammaturgia del disegno luci (curata da Loredana Oddone). E la stessa prossemica.

E ancora il sassofono: strumento meravigliosamente imperfetto. Come la condizione umana, che secondo Bernahard rischia l’autodistruzione se si prefigge un ideale di “perfezione”. “Ogni cosa è ridicola, se paragonata alla morte” – fu il suo commento quando ricevette un premio nazionale nel 1968. Confrontarsi con qualcuno migliore di noi può essere una tragedia: può rendere troppo vulnerabile la nostra intima natura di “soccombenti”.

 “Non necessariamente dobbiamo essere dei geni per poter essere unici al mondo” – fa dire Bernhard al narratore de “Il soccombente”: il primo volume dedicato all’arte della musica della Trilogia delle arti, di cui “A colpi d’ascia. Una irritazione” è il secondo (dedicato all’arte del teatro) e “Antichi maestri” il terzo, dedicato all’arte della pittura. 

Il nostro essere imperfetti è infatti un tema che avviluppa moltissimo Bernhard e che esplora in tutte le sue variazioni, passandole allo spietato vaglio della razionalità.

Quelle persone credono, poiché si sono fatte un nome e hanno ricevuto molti premi e pubblicato molti libri e venduto quadri a molti musei e pubblicato i loro libri presso le migliori case editrici e sistemato i loro quadri nei migliori musei, poiché questo Stato disgustoso ha concesso loro tutti i possibili premi e ha appeso al loro petto ogni possibile medaglia e decorazione, quelle persone credono per questo di essere diventate qualcuno, e invece, pensavo, non sono diventate nessuno”.

O anche:

“…E una simile persona ha il coraggio di sostenere come se niente fosse che lei scrive meglio di quella Virginia Woolf che io, da quando ho cominciato a riflettere sulla letteratura, ammiro e considero la prima di tutte le scrittrici al mondo”.

Il suo feroce odio verso tutti coloro che credono di essere diventati, o di poter diventare, “qualcuno” ci parla di quanto sia importante per Bernhard capire dove trovare comunque una sua personale “identità”.

Una possibile risposta può essere rintracciata nel suo stile di scrittura, che è lo specchio del suo particolare, e quindi unico, modo di stare al mondo: uno stile che si basa sull’ossessione del ritmo quasi maniacale che è la riproposizione del suo ritmo esistenziale. Vitale, anche se è un respirare che si dà in una continua ripetizione di concetti che produce l’effetto di un andamento a spirale, piuttosto che quello di una consequenzialità lineare. Ma la consequenzialità implica “legami”, o almeno “relazioni”, dai quali Bernhard si tiene accuratamente alla larga, traumatizzato com’è dalla sua origine.  Un’origine che vive non tanto nel passato ma nel presente, nell’istante che fugge.

E seppure il mondo risulti così orrendo e le ruminazioni della mente non lascino spazio ad alcun ottimismo, i meccanismi trovati da Bernhard per esprimere il disastro in cui viviamo sono davvero esilaranti.


Uno spettacolo questo di e con Marco Sgrosso che fin da subito, nonostante la complessità dello stile di Bernhard, è riuscito ad avviluppare l’attenzione e il gusto dello spettatore. Che si è poi scatenato avviluppando, a su volta, Marco Sgrosso e Cristiano Arcelli in  un lunghissimo applauso. 


Recensione di Sonia Remoli

MOBY DICK ALLA PROVA – uno spettacolo di Elio De Capitani

TEATRO VASCELLO

dall’11 al 16 Marzo 2025

Con il suo “Moby Dick alla prova” il regista Elio De Capitani ci dona un’intensa testimonianza di teatro civile. Manda in scena “la prova” di una vocazione alla militanza, che si manifesta nella tensione a concertare non solo il lavoro ma soprattutto lo stare al mondo di una eterogenea comunità. Sul ritmo musicalmente flessibile del respiro di un canto. 

Elio De Capitani

Ne sono una stupefacente dimostrazione di bellezza i canti che abitano appassionatamente la scena – i cui cori sono diretti da Francesca Breschi – e che sono accurate rielaborazioni degli sea shanties: antichi canti marinareschi usati assai efficacemente per accompagnare il lavoro coordinato di gruppo. 

Erano infatti forme musicali dal testo “flessibile” e quindi “disponibile” ad entrare in accordo con le “diverse” mansioni richieste per il funzionamento della nave. Canti che qui, a loro volta, si ritrovano accompagnati, o contrappuntati, da un’orchestra di accenti ritmici, frutto di varie modalità di percussione dei piedi o degli stessi oggetti di lavoro. Ed è pura bellezza.

Angelo Di Genio è Ismaele

Il nostro essere gettati al mondo è fratello a quello di Ismaele (qui un intenso Angelo Di Genio): abbiamo tutti un destino da erranti, da nomadi, sebbene sempre in bilico tra un confortevole desiderio di sicurezza, a terra (che rischia però di deprimerci) e una misteriosa attrazione verso l’apertura avventurosa, in mare (nella quale possiamo perderci). 

Un destino da erranti, specchio del nostro difficile rapporto con la libertà. Che da un lato ci inebria e dall’altro ci angoscia. Che da un lato ci tenta a dominare sugli altri e dall’altro ci fa sentire piccoli e impauriti. Fino a paralizzarci, preferendo consegnare la nostra libertà nelle mani di qualcun altro.

Elio De Capitani qui è il Capitano Achab

Perché come Ismaele sappiamo poco di noi stessi: per un periodo della nostra vita sono stati altri a darci un nome e un’identità, ma nel restante periodo che ci è concesso di restare al mondo, sta a noi voler scoprire chi siamo e fare qualcosa di nostro di quello che altri hanno iniziato a fare di noi.

Il “Moby Dick alla prova” di Elio De Capitani è la testimonianza di un invito “a provare” a vivere, guidati da un sogno da realizzare. Insieme. Nonostante e grazie alle nostre differenze. Grati per la “gioia di prepararlo”. Per la gioia di mettersi “in prova” e “alla prova”. Al di là della sicurezza di riuscire a portarlo in porto, così come inizialmente immaginato. Permettendoci, cioè, di esplorare tutti i cambi di rotta che durante la navigazione si presenteranno, in quanto inaspettate e fertili occasioni a cui prestare ascolto. E cercando di non farci tentare, come è accaduto al Capitano Achab, dall’ossessione a seguire ciecamente solo il nostro egoistico sentire: a volere e ad essere tutto.

La ciurma del Pequod (la cura dei costumi è di Ferdinando Bruni)

La bellezza di questo spettacolo sta proprio nel modo di restituire allo spettatore quei continui e necessari “tagli” propri di un lavoro comune in fieri, in prova. Individuando i momenti in cui saper lasciare spazio all’altro da noi: che sia il sentire di un nostro simile, l’incontro con un’esperienza inaspettata, un momento di riflessione, un cambio di rotta. 

Come esemplificato, ad esempio, da quel fulgente avanzare del capocomico De Capitani che, come coltello, separa le due file di tavoli e rende incandescente la sensazione dell’urgenza di dare vita a una biforcazione del cammino fino ad allora avviato dalla compagnia. Separando (in realtà solo apparentemente) le prove in corso del “Re Lear” di Shakespeare, per passare ad una nuova (e complementare) prova: quella del “Moby Dick alla prova”, appunto.

Una bellezza del “tagliare” che si completa con la capacità a saper “lanciare ponti”. Concetto quest’ultimo efficacemente visualizzato dal regista De Capitani attraverso la scelta di versare nell’orecchio, oltre che nell’occhio, dello spettatore quella “stabilità all’accordatura” offerta dal timbro chiaro e penetrante dell’oboe. Magnificamente suonato dal vivo dall’eclettico musicista, qui anche baleniere, Mario Arcari.

La versatilità e la capacità espressiva dell’oboe nasce infatti da una felice combinazione tra abilità tecnica, resistenza fisica e sensibilità musicale, metafora di un particolare modo di stare al mondo: un modo di appassionarsi a conoscere se stessi (nel bene e nel male) per potersi aprire all’ascolto del diverso da sé. Diventando così anche punto di riferimento per l’altro.

Elio De Capitani (Achab) – Enzo Curcurù (Stupp) – Mario Arcari (baleniere all’oboe) – Cristina Crippa (direttrice di scena/narratore/cambusiere) – Alessandro Lussiana (Elia e Tashtego)

Dall’intrigante bellezza rock sono poi “i ponti” gettati dall’affascinante stare in scena (e al mondo) della direttrice di scena/narratore Cristina (Crippa), storica fondatrice del Teatro Elfo Puccini. La sua capacità di “legare” nasce dal seguire “la prova” stando un passo indietro: seduta al suo tavolino rosso, inscritto in uno spazio dalla “sacralità” circolare. Lei autentica custode dello spettacolo, oltre che della cambusa.

Insomma, un adattamento registico e drammaturgico – la traduzione prevalentemente in versi sciolti dal romanzo di Herman Melville è della poetessa Cristina Viti – davvero interessante. Cifra dell’unione fra il singolo e il mondo e quindi invito alla partecipazione e al coinvolgimento. Senza interesse infatti l’uomo non si avvicina e non si arpiona alla sua realtà, quale nodo solido di una rete. 

Una rete di cui si fanno magnifici testimoni gli interpreti sulla scena: con Elio De Capitani, Cristina Crippa, Angelo Di Genio, Marco Bonadei, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Massimo Somaglino, Michele Costabile, Giulia Viana, Vincenzo Zampa.

Splendida dimostrazione di quel teatro “totalizzante” tanto amato da Gigi Dall’Aglio, al quale lo spettacolo è dedicato. E verso il quale Elio De Capitani non manca di gettare un ponte.

Si può dire che “ponte” sia la parola chiave intorno alla quale, a più livelli, gravita lo spettacolo. Che infatti attesta la sua efficacia, ad esempio, nel rendersi un ponte trans-generazionale capace di attraversare trasversalmente le tre generazioni di interpreti in scena. Ma anche quelle in platea.

Un ponte, ancora, tra la realtà sapientemente scarna della scena shakespeariana e la fantasia dello spettatore. E poi, tra contenente e contenuto: nel momento in cui la scena diviene il più favoloso degli “oggetti” di scena . Una magia anche “umanamente” preziosa, proprio perché fatta “con quello che c’è”. Senza presunzioni.

Decisamente uno spettacolo pieno di fascino, questo “Moby Dick alla prova” di Elio De Capitani: ben edificato e insieme così ricco in spontaneità, da riuscire a trasferire allo spettatore il magnetismo della gioia con cui è stato messo in prova.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione IL GOLEM – di Juan Mayorga – regia Jacopo Gassmann

TEATRO INDIA

dall’11 al 23 Marzo 2025

Cosa ci spaventa di più’ ?

Essere malati e non poter essere curati? – sembra chiederci questo testo dalla bellezza ombrosamente tagliente di Juan Mayorga.

C’è qualcos’altro che deve spaventarci, ci avverte Mayorga. 

Juan Mayorga

Soprattutto perché tendiamo a sottovalutarlo: il pericolo terribile che si insinua in noi quando perdiamo di vista il potere delle parole. 

Perché le parole non servono solo “per intendersi”, come crede Felicia, la donna che nello spettacolo farebbe di tutto (come noi, d’altronde) pur di assicurare un trattamento terapeutico a suo marito, malato. 

Perché in un possibile futuro ci potrebbe “venir detto” – proprio come qui nel testo di Mayorga – che il governo si riserverà di provvedere alla cura solo di certe malattie e non di altre.

Elena Bucci (Salinas) – Monica Piseddu (Felicia)

(ph. Laura Farneti)

E allora, presi in trappola e saccheggiati da sciacalli – che invece ben conoscono il potere delle parole – potremmo credere, colti dalla disperazione, nell’efficacia di trattamenti alternativi. Pagabili non con il denaro ma con qualcosa di molto più prezioso: la disponibilità a perdere il nostro potere sulle parole. E quindi su noi stessi. Perché le nostre parole costituiscono la nostra identità. 

Ritrovandoci, così, senza alcun potere. Deboli e soli. Consegnati alle loro mani, interessate a renderci ciò che desiderano fare di noi: servitori. 

E saremo la nuova versione degli antichi “golem“: creature fatte di materia informe, perfette da plasmare a piacimento altrui. Informi perché senza parole proprie. E quindi senza pensieri e senza opinioni proprie, che sole ci danno una forma e quindi un’identità. E quindi un potere. 

Saremo, così, creature alle quali si potranno mettere in bocca parole specifiche, il cui potere altri sceglieranno, perché capace di renderci fedeli servitori dei loro interessi.

Jacopo Gassmann

La potente bellezza della scenografia – pensata con acuta visionarietà da Jacopo Gassmann, realizzata con maestria da Gregorio Zurla, scolpita con un sapiente uso delle ombre da Gianni Staropoli, moltiplicata e allucinata dalle proiezioni di Lorenzo Letizia e immersa in un’elettrica suspence sonora da Giorgia Mascia – ce ne parla fin da subito: oscure strutture specchianti sono montate creando apparentemente un punto di fuga: una soluzione. Ma non è quello che sembra. E la possibilità di fuga si rivelerà un modo per stringere all’angolo la coppia protagonista della storia. E predarla. 

Magnifica visualizzazione, la scena, di come le parole possono creare realtà che potrebbero nuocerci, sebbene chi ne conosce il potere sceglie di farle passare come parole salvifiche.

Woody Neri (Ismaele) – Monica Piseddu (Felicia) – Elena Bucci (Salinas)

(ph. Laura Farneti)

Il potere comunicativo della parola, quello cioè che attribuisce alla parola un unico significato – fissato per convenzione in base ai principi della logica – é utile per capirsi. Ma solo superficialmente. Per avvicinarsi alla verità occorre conoscere invece il potere plurivalente delle parole. Un potere magico, generativo, che se conosciuto solo dall’altro potrebbe nuocerci, in quanto la nostra ignoranza ci impedirebbe di smascherarlo. E quindi di difenderci.

Monica Piseddu (Felicia) – Woody Neri (Ismaele)

(ph. Laura Farneti)

Perché scegliendo le parole si sceglie, si genera e si dà forma ad una realtà. Per questo motivo la parola e la magia sono da sempre così legate. Un consapevole ed esperto uso della parola ha un impatto formidabile sulla vita umana: migliore è il nostro uso delle parole, migliore sarà il nostro potere sulla realtà.

Solo per fare un esempio: Robert Levy, antropologo statunitense che negli anni ‘50 condusse degli studi sull’alto tasso di suicidi che affliggeva Thaiti, scoprì che nella cultura e nella lingua thaitiana non esisteva la concezione del dolore, fuorché quello fisico. Davanti al dolore interiore allora, per il quale non avevano parole per esprimerlo, i thaitiani si suicidavano. 

Monica Piseddu (Felicia) – Woody Neri (Ismaele)

(ph. Laura Farneti)

Qui nello spettacolo di Jacopo Gassman, Felicia viene avvicinata da Salinas, una donna misteriosa, che fa parte di una strana organizzazione sanitaria. Da giorni sta studiando il modo di predarla spiando i suoi modi di fare, perché i suoi modi sono il risultato delle parole che lei sceglie per definirsi. Da essi, dai suoi gesti, dalle sue scelte – solo apparentemente banalissime come ad esempio quella di scegliere di bere della birra analcolica in un bicchiere di plastica – può risalire alla maniera in cui far presa su di lei, convincendola subdolamente a collaborare. 

Sapientemente, e generosamente, la regia di Jacopo Gassmann permette allo spettatore di cogliere questi piccoli dettagli – fondamentali per poter avvicinarsi al testo di Juan Mayorga e funzionali per cogliere la “sincerità” della comunicazione – attraverso un accurato uso della prossemica. Oltre alla parola, infatti, un altro elemento che parla molto di noi è quello in cui scegliamo di metterci in rapporto con l’altro nello spazio. 

Monica Piseddu (Felicia)Woody Neri (Ismaele)

(ph. Laura Farneti)

Incantevolmente perverso è il modo di porsi della Salinas di Elena Bucci. Lei non si dà quasi mai nella chiarezza della frontalità: si pone sempre “di taglio” rispetto all’interlocutore, perché la sua parola è un taglio. Lei non guarda quasi mai negli occhi: parla come ad occhi chiusi, tutta presa dal piacere cangiante delle parole che sceglie, quasi pregustandone l’effetto sull’altro. 

Di lacerante bellezza la Felicia di Monica Piseddu: il suo generoso modo di darsi nell’ingenuità della non conoscenza delle parole e di lasciarsi quindi attraversare con perversa necessità dal maligno fascino di chi questo potere lo conosce e lo usa per sottomettere l’altro, punge gli occhi e il cuore dello spettatore. Perché è capitato almeno una volta anche a noi di esserci infilati in situazioni simili e inconsapevolmente ci siamo resi “golem” di qualcun altro. Il suo monito a chiusura dello spettacolo si incide nello spettatore con il caritatevole graffio del suo sguardo. E ci accompagna. Anche fuori dal teatro.

Inquietante e commovente poter “leggere” nell’Ismaele di Woody Neri tutto il percorso attraversato dall’umano che – progressivamente svuotato di personalità come uno “zombi” – arriva ad essere riempito dalla volontà dell’altro, proprio come un “golem”. Trasformandosi, così, da inconsapevole vittima a carnefice atarassico.

Questo di Jacopo Gassmann è uno spettacolo che avvince come un thriller esoterico, ricco di quella densa e labirintica suspence, che intriga e fa riflettere.

Questo di Jacopo Gassmann è uno spettacolo necessario.


Recensione di Sonia Remoli

Serata teatrale SHAKESPEARE SUL TITANIC – un libro di Giuseppe Manfridi

TEATRO BASILICA

11 Marzo 2025

“Nulla finisce tutto s’interrompe” : è il pensiero che ispira l’estetica di Giuseppe Manfridi, uno dei massimi drammaturghi italiani, autore di commedie rappresentate in tutto il mondo. 

Con questo stesso pensiero Manfridi “suggella transitoriamente” l’ultima pagina della sua nuova creatura editoriale: il testo in due volumi “Shakespeare sul  Titanic” (Edizioni Efesto), presentato ieri sera al Teatro Basilica di Roma.

E quale luogo poteva meglio incarnare questo pensiero estetico – “nulla finisce tutto s’interrompe” – se non quel centro d’accoglienza culturale, porto d’incontri imprevedibili, qual è il Teatro Basilica, che nasce proprio sulle fondamenta di una basilica “interrotta” ? Difronte all’area in cui sorgeva la più antica basilica romana, oggi occupata dalla basilica manierista di San Giovanni in Laterano. 

Lì, da anni, si era “interrotta” anche la gestione di un teatro. Riavviata e ricostruita poi come Teatro Basilica grazie all’entusiasmo e all’impegno dell’attrice Daniela Giovanetti, del regista Alessandro Di Murro, del collettivo Gruppo della Creta, di un team di artisti e tecnici. E con la collaborazione di Antonio Calenda. 

Un perfetto binomio d’intenti, quindi, quello tra l’estetica di Giuseppe Manfridi e la filosofia del Teatro Basilica: un magnifico intreccio di volontà e traiettorie, che amplia una comunità. I responsabili del Teatro Basilica, infatti, si sono fatti compagni di viaggio di questa nuova avventura, che ieri sera è stata festeggiata tra amici e che ora prenderà il largo.

Un viaggio nel viaggio: “Shakespeare sul Titanic” è esso stesso un libro-viaggio, che permette al lettore di navigare lungo rotte inaspettate, che ci parlano di un insolito Shakespeare. Ma è anche un libro che sa far scegliere al lettore quando fermarsi a largo: per lasciarsi andare a meditazioni filosofiche sulla giovinezza, ad esempio. Sul nulla, magari. Oppure lasciandosi trascinare da quello “sporgersi“ proprio della propalazione, che trova  terreno fertile anche in quella “teologica laica” chiamata Letteratura.

Un viaggio, questo “Shakespeare sul Titanic”, che è quindi una somma di imprevedibili viaggi. Anche perché l’orizzonte d’esplorazione è tale da ravvisare in ogni partenza sempre qualcosa che l’ha preceduta; così come in ogni approdo non la fine di un viaggio. Ma ancora uno “sporgersi” oltre.

Concetto-metafora splendidamente visualizzato da quella prua del Titanic e da quel balcone di Verona – installazioni dell’artista Antonella Rebecchini – che ieri sera hanno agito il palco del Teatro Basilica assieme ai tre compagni di viaggio di Manfridi, rappresentanza del Teatro Basilica: Antonio Calenda – tra i più prolifici registi italiani nonché supervisore artistico del Teatro Basilica; Daniela Giovanetti e Alessandro Di Murro co-fondatori del Teatro Basilica oltre che, rispettivamente, attrice e regista.

“Shakespeare sul Titanic” viaggerà nel tempo e nello spazio onorando antiche rotte e sperimentandone di nuove, grazie all’elegantissima versione cartacea alla quale se ne affianca una tecnologica, scaricabile dal sito della casa editrice Edizioni Efesto. Una preziosa occasione di lettura ma anche di scoperte, di curiosità inedite, di legami insospettabili, di approfondimenti, di ricerche. E ancora: i primi 100 acquirenti della versione cartacea riceveranno i due volumi che costituiscono l’opera in un prezioso cofanetto, confezionato artigianalmente da Alessandro Scura.

Il sapiente e accattivante racconto di Manfridi sulla genesi dell’opera – gravitante intorno alle rievocazioni delle forme assunte nel tempo dalla storia di Romeo e Giulietta – è stato gradevolmente intervallato da un’appassionata presentazione del regista Antonio Calenda e da un’intrigante lettura dell’attrice Daniela Giovanetti, che con la sua interpretazione ha cesellato alcuni passi dell’opera di Manfridi.

Una serata piena di gioia, quella di ieri, che forse – come sostiene Giuseppe Manfridi – è iniziata già prima e che proseguirà “sporgendosi” oltre noi.


Recensione di Sonia Remoli