Recensione dello spettacolo HYBRIS di Flavia Mastrella e Antonio Rezza

TEATRO VASCELLO, dal 3 al 14 Gennaio 2024 –

“Dio è morto”:  l’idea di Dio non è più fonte di alcun codice morale o teleologico. Così, rotto il principale cardine della cristianità, scomparso l’ordine divino che sorreggeva la società cristiana, tutto cade nel caos nichilistico.

Da qui sembra prendere avvio la feroce genialità dello spettacolo di Antonio Rezza e Flavia Mastrella: l’ hybris – l’orgogliosa superbia che porta l’uomo a ribellarsi contro l’ordine costituito sia divino che umano –  fa sì che protagonista dello spettacolo sia un tracotante che si crede Dio e che come lui simuli di morire e di risorgere. Ma si tratta, ordinariamente, di un passaggio dal sonno al risveglio.

L’habitat in cui è immersa questa specie umana è solipsisticamente tecnologico. A presidio del “letto-sepolcro”  del tracotante ci sono sua madre (un’affascinante e subdola Maria Grazia Sughi) seduta su una poltroncina da ufficio con ruote, un uomo, una donna e un simulatore ginnico di passeggiata immobile.

Anche i codici di comunicazione si sono moltiplicati: i principi della logica sono saltati (il letto può essere un sepolcro ma anche una porta) e con essi l’illusione di intendersi. Per sopravvivere vige, in purezza, l’istinto alla sopraffazione e l’abolizione dei tabù del vivere civile.

Scardinata da tutto il resto, il tracotante esibisce come uno scettro – e contemporaneamente vi si aggrappa come ad un’ancora – la porta divelta. La sua è una continua ricerca ossessivo-compulsiva di essere protagonista per dominare il vuoto esistenziale. E gli altri: stranieri da manipolare (in scena come un autentico ensemble Ivan Bellavista, Manolo Muoio, Chiara Petrini, Enzo di Norcia, Antonella Rizzo, Daniele Cavaioli e con la partecipazione straordinaria di Maria Teresa Sughi). La sua porta diventa allora anche un’arma per tagliare fuori ciò che ci risulta straniero.

Perché la libertà è inebriante quanto angosciante.  E gli uomini, staccati da qualcuno che a posto loro fa ordine, come se la cavano a gestisce il vuoto errante offerto dalla libertà? Che “gioco sacro” occorrerà inventarsi ora ?  Come si fa a capire ciò che è dentro e ciò che è fuori? Un confine può ancora essere anche un punto d’incontro? Meglio l’amicizia o la manipolazione ? Quanto è facile scivolare nell’ipocrisia? Come si fa a “gustarsi” l’attesa dell’ignoto senza incorrere nella violenza, che brutalmente ti fa capire però se sei “dentro o fuori”? Perché “è la curiosità che ti buggera”. 

E la famiglia? È davvero un nido accogliente e rassicurante?  O il luogo delle ombre? E l’amore? Si divora compulsivamente senza dare valore all’identità. Anzi protegge ed eccita rimuovere per far sì che, perversamente, con la stessa persona “ogni volta sia come la prima volta”. Finendo per confondere la realtà e le proiezioni mentali.

Con energizzante ferocia Antonio Rezza ci scuote e ci percuote. Veste e si spoglia di tutte le nostre ipocrisie. E noi del pubblico ridiamo: velenosi e avvelenati. Sul confine tra il compiacimento e l’imbarazzo. 

Rezza sa, con acume, trovare e cogliere – senza subordinarsi ad un precedente testo scritto ma lasciandosi di volta in volta scrivere dai vuoti dell’habitat e dalla sinergia, inclusi i suoi ammanchi, con gli attori e con il pubblico – i tempi e le temperature giuste per scatenare il riso. Le sue sono feroci iperboli, acrobazie logiche, linguistiche e performative che arrivano a scavalcare il senso anche dei gesti e delle prospettive associate. Fino a sfondare tutto. Anche il confine con il pubblico. Ed è contagio. Anche tattile.

È un far teatro civile involontario, per frammenti dissacranti e dissacratori. Necessario.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI di Sigmund Freud – di e con Stefano Massini

TEATRO ARGENTINA, dal 5 al 21 Dicembre 2023

Conoscere se stessi è da sempre un’esigenza che tende a prendere le sembianze di un desiderio segreto: fatica ad esprimersi manifestamente, tanto è “proibito” il contenuto del desiderare. 

Acutamente allora Stefano Massini, che con questo spettacolo sceglie di mettere in scena le dinamiche oniriche della nostra psiche, fa aprire la rappresentazione proprio a lui: il Desiderio.

Eccolo: sbuca da un lato del palco/psiche e attraversa con passo sinuoso il proscenio, per poi appostarsi in un altro lato. E’ un’affascinante donna. Veste un abito dalle nuove linee fluide proprie dello stile Liberty. Ed è  tinto di mistero e di passione (i costumi e le maschere sono curati da Elena Bianchini).

Ci irretisce: ci porta dalla sua parte, ci seduce.  Complice la sua voce insinuosa, solleticante, pungente e ossessiva: quella che ci sta traducendo il suo violino (Rachele Innocenti sulle note di Enrico Fink). E che risuonerà ancora, serpeggiando, lungo la messinscena.

Tutto si mescola, tutto si trasforma, all’interno delle nostre emozioni, delle nostre pulsioni, della nostra memoria: oltre ad avvertirlo, lo vediamo rappresentato sulla scena. Il caos che abita i sogni è visualizzato anche da una proiezione tridimensionale sul fondale: fondo del nostro sguardo interiore (le scene, curate da Marco Rossi, riproducono opere pittoriche di Walter Sardonini).

Uno sguardo spesso in bilico tra la nostra tentazione a tarparlo e quella a guardare, solleticati proprio dalla sua enigmaticità. Qui visualizzata da fiotti di fumo intrisi di ambigui richiami, musicati dal trombone e dalle tastiere di Saverio Zacchei e dalle chitarre di Damiano Terzoni . Sempre sulle note di Enrico Fink.

ph Filippo Manzini

“C’è qualcosa di terribile e al tempo stesso splendido nell’attimo in cui decidiamo di guardarci dentro”: con queste parole  Stefano Massini commenta l’entrata in scena del Desiderio e le sensazioni da esso provocate.

Quando riusciamo ad avvicinarci alla “geografia” più autentica di noi stessi, così tumultuosa e disordinata, così accattivante e lacerante, qualcosa ci tenta però ad allontanarcene. Un dubbio ci attanaglia: “ma poi gli altri cosa diranno di me?”.

E così, troppo spesso, si torna ad indossare la nostra rassicurante (ma insoddisfacente) maschera sociale. Lo dice il “progresso”: se lo si segue, si è inseriti, accettati, protetti. Ma nonostante la nostra tensione a uniformarci, poi però pretendiamo costantemente l’attenzione degli altri.

ph Filippo Manzini

Urla quindi, e i morsi si fanno sentire,  la fame a dare nutrimento alle parti più  vere di noi: un ascolto che “noi” possiamo darci. Accettando l’invito del desiderio e quindi appassionandoci in una ricerca nelle buie profondità  di noi stessi. Perché – come la drammaturgia delle luci di Alfredo Piras sa sottolineare – solo dal buio può nascere e liberarsi l’emozione.

Quest’ invito rivoluzionario di Freud, viene raccolto da Massini che sceglie di farci dono - proprio attraverso il potere immaginifico e catartico della parola e del gesto attoriale – della consapevolezza di come la messinscena del sogno celi una messinscena sociale.

A testimoniare come la psicologia sia strettamente connessa alla socialità – e quindi come lo psicoanalista guardando nell’interiorità dei pazienti abbia restituito indietro anche il sentore dei mutamenti  sociali – è l’esigenza che si è  sentita, proprio a fine Ottocento, di coniare il termine “onirico”: l’irreale del surrealismo, della libera associazione, della visione ermetica che suggestiona e richiede interpretazione.

ph Filippo Manzini

Recentemente l’attenzione al ruolo “antropologico” dello psicoanalista è stata riaccesa anche dal testo di Massimo RecalcatiA pugni chiusi. Psicoanalisi del mondo contemporaneo“. Se quindi il ruolo dello psicoanalista non è confinato solo tra le pareti intime di una stanza e può e deve scendere in strada, anche il Teatro può farsi portavoce di questa missione sociale.

Vincente risulta la scelta di Stefano Massini di far incontrare il teatro di narrazione sul confine con la restituzione attoriale, mandando in scena le dinamiche oniriche della psiche umana attraverso il processo di osservazione interno ed esterno del neurologo e psicoanalista Sigmund Freud.

ph Filippo Manzini

Lo spettatore è coinvolto in un’immersione “a tutto tondo” nella quale accetta di viaggiare fuori e dentro di sé. Con disponibilità, senza necessariamente inquadrare nei principi della logica cosa stia avvenendo. È un incantesimo dove la parola, l’immagine e la musica sono le muse che ci guidano in questa avventura multiforme e multisensoriale. E finalmente riconosciamo attenzione a tutto ciò che ci rende unici. Irripetibili.

Ecco allora che Stefano Massini, a coronamento di un processo osmotico di attenzione tra interno ed esterno, a fine spettacolo sente l’esigenza di ringraziare – evocandoli con il loro nome e il loro cognome – tutti coloro che, parti necessarie di un tutto, hanno contribuito a dare forma a questo stupefacente viaggio.

Sulla Scena della Vita.

ph Marco Borrelli


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL CAVALIERE INESISTENTE di Italo Calvino – regia di Tommaso Capodanno

TEATRO INDIA, dal 4 al 17 Dicembre 2023 –

Troppo spesso “dorme sepolto in un campo di grano”, sopraffatto dall’istinto a dominarci l’uno sull’altro, fino a farci guerra. È quel tendere verso il desiderare, che sa fare di un certo senso di mancanza, proprio di noi umani, l’arte di individuare e quindi di poter esprimere la nostra unicità, il nostro talento. Regalandoci la “prova”, il senso, della nostra esistenza.

In una sorta di proemio, questa tensione vitale a desiderare prende forma attraverso un motivo musicale: un canto primordiale ricco in mancanze. Quasi una lallazione. Solo successivamente il motivo musicale, declinato in “variazioni”, torna in alcune situazioni chiave della storia prendendo la forma di parole dotate di quell’univocità propria dei principi della logica.

Francesca Astrei, Evelina Rosselli, Giulia Sucapane e Maria Chiara Bisceglia

In un geniale procedere per cerchi concentrici, le quattro interpreti del canto del proemio sono anche i personaggi stessi del romanzo – a loro affidati attraverso una triplice partitura per ognuna – abitati diversamente dalla presenza-assenza della tensione a desiderare. Ma non solo: a loro è affidata anche la voce narrante della storia, resa attraverso degli a-parte con lo spettatore. Una struttura decisamente convincente.

Nell’allontanarsi o nel sopprimere la tensione a desiderare, i personaggi di questo romanzo sentono di “non esistere” e ognuno a suo modo compensa questa “mancanza” con qualcosa di diverso.

Agilulfo con lo zelo “fascista” e con l’ordine maniacale. Che però non riesce a salvarlo quando in lui si insinua la mancanza di autostima, dono sociale. Socialità dalla quale lui dipende meccanicamente, attenendosi strettamente alle disposizioni. E se le disposizioni vengono meno è la fine, non avendo mai educato un suo spirito critico. Commovente, in questa scena, la capacità dell’interprete Evelina Rosselli a trasferire anche all’armatura il diverso respiro che abita Agilulfo, preda del terrifico dubbio sulla sua “etichetta” da cavaliere. Lui sa solo nozionisticamente che vivere significa “lasciare un’impronta particolare” sul mondo. E inoltre giustifica il suo “aver venduto” il proprio corpo e il proprio giudizio critico ad altri, con il fatto che chi un corpo e quindi “una capacità di sentire” ce l’ha non la utilizza.

Rambaldo preferisce l’ansia di vivere alla pace di chi è morto ma non sa gestirla. Compensa con la vendetta ma resta inerme – almeno inizialmente – di fronte alla follia più  grande, quella dell’amore.

Bradamante oscilla tra una compulsività nell’amare e una ricerca di rigore assoluto, che prima sublimerà – attraverso l’identità di Suor Teodora – con la scrittura, per poi imparare che vera bellezza è entrare “in relazione” con l’altro.

Gurdulù “è uno che c’è, ma che non sa d’esserci”: risponde meccanicamente all’istinto, quasi come un animale, confondendo se stesso con le cose che lo circondano .”Tutto è zuppa”: bellissima, in questa scena, l’espressività delle mani di Francesca Astrei.

“Un po’ è un macello, un po’ è un tran tran” – dice Bradamante – e chi “vince” ci riesce “per caso”, non per la capacità di “riuscire a riuscire”. Poi c’è l’armatura “a reggerli tutti dritti”.

Ma “imparare ad essere, si può… e la paura ha senso, se dietro c’è la vita che spinge !”.

Tommaso Capodanno

Molto fluida e fertile la sinergia con la quale l’interessante taglio registico di Tommaso Capodanno si lega all’adattamento di Matilde D’Accardi, alla resa interpretativa delle attrici in scena – Francesca Astrei, Maria Chiara Bisceglia, Evelina Rosselli, Giulia Sucapane – e alla cura delle scene di Alessandra Solimene. Complice anche una drammaturgia delle luci che rende con efficacia poetica luci, ombre – e luci delle ombre – di ciascun personaggio. Molto suggestivo, soprattutto in alcuni momenti dello spettacolo, quel sapore proprio della drammaturgia del Teatro Povero di Monticchiello.

La coralità eterofonica delle interpreti brilla nel rendere le variazioni della “follia” delle parole e del ritmo del testo di Calvino. Guizzi, laddove emergono, sono accolti e messi a servizio, come chiede lo stile di un “ensemble”. Che trova la sua forza nel riuscire a rendere ciascuno, insostituibile parte di un tutto.

E il pubblico lo percepisce.

Perché così può essere il Teatro. Perché così può essere la Vita.

Soprattutto in questa nostra epoca così “miope”, in cui siamo tentati a lasciare in custodia altrui il porta occhiali con il nostro “sguardo”.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo GIUSTO di e con Rosario Lisma

TEATRO BASILICA, dal 14 al 17 Dicembre 2023 –

Che differenza c’è tra chi si isola – prendendo le distanze da tutto e da tutti – e chi invece è disposto a qualsiasi cosa pur di entrare a fare parte di un gruppo?

Nessuna: sono due posture esistenziali che esprimono, in maniera diversa, quanto sia difficile entrare in un’autentica relazione con l’Altro.

Dipinti di Gregorio Giannota (da Tapulin)

Un po’ come le balene osservate con metafisica ironia da Gregorio Giannotta: visualizzazioni di un mondo di contraddizioni e di compresenze non dirigibili, non prevedibili.

Qui, le opere di Giannotta dedicate specificamente alla narrazione di Lisma s’intrecciano ad essa quale drammaturgia iconografica. Sono contraddizioni sociali che ora si mescolano a improbabili personaggi, caricaturalmente avvolti in ruoli ed etichette.

Rosario Lisma (Giusto) e Gigliola (detta la Balena) - illustrazione di Gregorio Giannotta

E pensare che l’Altro è la nostra “condizione” esistenziale. Nessuno di noi può “farsi da solo”: per parlare di noi stessi, per definirci, necessariamente dobbiamo parlare degli altri.

Come fa Giusto, il protagonista principale del monologo  polifonico di Rosario Lisma: per raccontarci tutte le sue disavventure esistenziali, insomma per parlare di sé, non può prescindere dal parlarci della sua famiglia, dei suoi colleghi di lavoro, dei suoi coinquilini, dei suoi desideri segreti.

Anche il suo stesso nome, come quello di ognuno di noi, è un nome scelto da altri: i genitori. Che lo caricano di un destino fantasmatico fatto delle “loro” aspettative. Di più: qui il nome “Giusto” è un errore di comprensione – e quindi di traduzione – dell’impiegato dell’anagrafe. 

E quindi: chi è davvero Giusto? Chi siamo noi al di là  dei desideri con cui i nostri genitori ci hanno messo al mondo? Qual è la nostra libertà ? Quanto può essere affascinante scoprirlo?

E’ così affascinante da portarci ad avere la consapevolezza di dire ” non lo so”: non so chi voglio essere. Laddove infatti “avere le idee chiare” sembra essere l’unico lasciapassare capace di traghettarci verso l’avere successo nella vita, tutti in verità – come accade anche a Giusto – ad un certo punto della nostra vita scopriamo che non siamo  più così sicuri di cosa vogliamo essere. Di cosa significhi davvero “essere realizzati”. Di cosa significhi essere “giusti”. Di come questo “disegno” cambi nel tempo i suoi profili.

Nel momento in cui facciamo esperienza di lasciarci andare per entrare in relazione con qualcuno e permettiamo ai nostri confini di essere porosi e non impermeabili, allora scopriamo che è  proprio l’Altro a rivelarsi decisamente prezioso per aiutarci a conoscere noi stessi.

Deve però crearsi un incontro “erotico”, come direbbe Massimo Recalcati: non una sottomissione. Bensì un venire a contatto con qualcuno che riesca a “tradurci” qualcosa di estremamente autentico di noi che fino a quel momento ci risultava incomprensibile, come una lingua straniera.

Giusto è, come spesso accade, così poco incline a rendere meno impermeabili i propri confini – così da poter riuscire ad integrarsi, con sana curiosità, nel mondo degli altri – da aver bisogno di una spinta “chimica”. Ma solo inizialmente: poi, avendo scoperto che i propri confini oltre che separarci dagli altri possono essere un luogo dove potersi incontrare, resterà piacevolmente affascinato dal dubbio di non sapere più chi veramente lui sia. E poter così, finalmente, iniziare a desiderare desiderare.

Rosario Lisma ha la capacità rara di scrivere e poi interpretare con fresca eleganza poetica.

Con provocante tenerezza ci parla di noi e di come può essere attraente vivere insieme agli altri, nonostante tutte le nostre fragilità e le nostre paure, vestite da altere sicurezze.

Un solletico il suo che oltre ad essere un invito alla socialità è anche un invito politico.

E questo deve e può fare con successo il Teatro. Come quello di Rosario Lisma.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo AMLETO di e con Michele Sinisi

TEATRO STUDIO ARGOT, dal 14 al 17 Dicembre 2023 –

Un coro di grilli abita questa riscrittura dell’ “Amleto” di Michele Sinisi: animali considerati i “cantori della luna”, malinconici per eccellenza. Perché è sulla particolare malinconia di Amleto che Sinisi vuole portare la nostra attenzione: una malinconia struggente e furiosa .


È un Amleto che ricorda un Pierrot.  E di questa maschera della Commedia dell’Arte ha un po’ dello Zanni astuto che si caccia sempre nei guai. Possiede poi l’espressività del Pierrot divenuto muto, grazie alla rivisitazione della maschera apportata dal mimo Jean-Gaspard Debureau (1796-1846). E infine è  suo anche un certo carattere bohemien: quello che Pierrot assunse con Adolphe Willette (1857-1926). Un Pierrot nero simbolo del poeta irriverente, perseguitato dalla sventura e vendicatore delle ingiustizie della società.

E con un’ invettiva esistenziale inizia la narrazione dell’ “Amleto” di Sinisi: “… perché si fanno traffici di guerre? Perché ci sono carpentieri che non distinguono la domenica dal resto della settimana? …Chi è che può dirmelo?”. Sono questi i suoi dubbi atroci, consapevole che l’istinto alla sopraffazione ci abita per natura ( “Siamo tutti furfanti immatricolati” ) e la nostra aspirazione alla libertà in verità ci spaventa terribilmente ( “La coscienza ci rende tutti codardi ” ).

Si rivolge a noi ma in realtà  è in colloquio con le parti di se stesso, tra loro in contraddizione. E poi è come se evocasse delle presenze assenti. Ma in fondo, cosa c’è di più presente di un’assenza?

Sono apparentemente seduti su sedie, i personaggi del testo originale che Sinisi ha eletto a protagonisti della sua riscrittura: sono Gertrude, Claudio, Ofelia, Laerte, Polonio e un attore.


Sono sedie spostate, gettate a terra, aperte e chiuse violentemente, rumorosamente: archetipi di rapporti umani problematici e irrisolti.  E ricordano un po’ quelle dei danz-attori di Café Muller, lo spettacolo-manifesto del Tanztheater di Pina Baush.


Ma alludono anche al chairwork: una modalità di lavoro esperienziale che utilizza le sedie e le loro possibili posizioni con una finalità terapeutica. Un’alternativa al lavoro della psicoanalisi: se questa infatti è incentrata intorno al potere terapeutico della “parola”, il chairwork lavora sul potere terapeutico dell’azione, invitando il soggetto a “mettere in scena” le parti di sé legate alle persone più coinvolte nel suo vissuto. Agire i loro ruoli conflittuali, lo conduce a rimettere insieme le loro parti.

Quindi, piuttosto che parlare “dei” suoi problemi, l’Amleto di Sinisi  parla “a” questi problemi”, interpretando tutti i “ruoli” più caldi e agghiaccianti del suo vissuto. “Sulle sedie”. Quasi come in un setting terapeutico.

Perché separarsi da qualcuno significa separarsi da una parte di noi: non si soffre solo per la separazione da quella determinata persona ma anche per il credere di aver perso quello che noi eravamo “con” quella persona. Nel bene e nel male.


La riscrittura di Sinisi è allora anche un appassionato ed accogliente tentativo di invitare Amleto ad un elaborazione dei suoi lutti. Lui che, colto da una furia maniacale, ha creduto di superare il dolore subito: attraverso la vendetta.

Ogni lutto chiede invece tempo e la capacità di stare nel dolore. E poi serve ricordare: riproiettare in sé e fuori di sé la narrazione che ci ha legato a chi non c’è più.

Qui Polonio è il teorico del “rapporto causa-difetto” e dell’artificio, inconsapevole che “darsi troppo da fare è pericoloso”. Laerte è colui che di fronte alla situazione fragile di Elsinore preferisce andarsene in Francia; Geltrude è una madre che si macchia di un duplice imperdonabile tradimento: la rabbia gelosa che assale Amleto è così insopportabile da dover essere sublimata attraverso il passaggio di Gertrude dal ruolo di carnefice a quello di vittima. L’allusione ad un amplesso tra sua madre e suo zio rimesso in scena attraverso le loro due sedie, è potentemente commovente. Suo zio Claudio è “la mano” della situazione. Ofelia è le sue pretese di innocenza. E poi lo spettro di suo padre: lui è un trasparente vaso di fiori, “violentato” dai suoi cari.


Questa è la verità dell’Amleto di Sinisi, che arriva attraverso un’intensa sublimazione a recuperare il rapporto (simbiotico) con la madre: “quel cuscino rosso” divenuto trono e trofeo di Claudio ora può tornare ad essere “il suo guanciale” per una buona notte.


Questa pulsante riscrittura dell’ “Amleto” shakespeariano di Michele Sinisi ci immerge in un necessario rito collettivo: accattivante e terapeutico. Perché – come aveva acutamente  intuito Harold Bloom – Shakespeare contiene tutto e tutti: i suoi drammi sono intessuti di pulsioni alle quali non possiamo resistere. E per questo motivo non siamo noi che li leggiamo ma piuttosto sono loro che ci leggono fino in fondo.


Michele Sinisi oltre a saper immaginare fino alla restituzione una riscrittura e uno sguardo che completa l’identità di un personaggio-cult della nostra esistenza, ci conduce con cruda poesia al coraggio di guardare anche dentro di noi. Con feroce misericordia.

Le multiformi identità della sua voce, i suoi tremendi silenzi e la sua potentissima espressività mimica creano un varco nello spettatore. Che accetta di essere anche protagonista.

Michele Sinisi


Recensione di Sonia Remoli

Incontro con TONI SERVILLO e FERRUCCIO MAROTTI su Eduardo: ultima lezione, ultimo spettacolo. Il punto di arrivo il punto di partenza

TEATRO ATENEO, 12 Dicembre 2023 –

Ieri, in un tiepido pomeriggio del dicembre romano, il Teatro Ateneo della Sapienza Università di Roma si è animato di uno speciale fervore per l’attesa della testimonianza di Toni Servillo sull’ultima lezione e l’ultimo spettacolo di Eduardo De Filippo: Il punto d’arrivo, il punto di partenza. Momenti indimenticabili della storia e della pedagogia del teatro, conservati con sacro rispetto grazie a un docufilm di Ferruccio Marotti.

Il Teatro Ateneo


Considerato l’erede spirituale di Eduardo, Servillo proprio qui al Teatro Ateneo portò in scena “Sabato, Domenica e Lunedì” e “Le voci di dentro”. E il suo lavoro convinse così  profondamente la vedova di Eduardo – invitata dall’acuto Ferruccio Mariotti che aveva avuto sentore di qualcosa di prodigioso – da concedere eccezionalmente i diritti dello spettacolo. 

Toni Servillo e Anna Bonaiuto in “Sabato, domenica e lunedì” di Toni Servillo


È ancora la cura appassionata di Ferruccio Marotti a fornire una contestualizzazione-rievocazione del docufilm rivelandoci l’occasione che ospitò l’ultima lezione e l’ultima esibizione di Eduardo: una residenza estiva del 1983 a Castel del Bosco, nei pressi di Montopoli in Val d’Arno, aperta agli studenti di tutte le università italiane.

Ferruccio Marotti

In quell’evento fu proprio Marotti a chiedere ad Eduardo De Filippo una sua illustrazione del legame tra tradizione e innovazione. Eduardo, così lieto della richiesta, vi aggiunse anche una dimostrazione pratica. E quindi oltre ad esporre e a commentare con raffinato carisma la sua “poetica del punto di arrivo e del punto di partenza”, ne diede anche un saggio: regalando una versione specialissima della celeberrima “scena del caffè”  contenuta in “Questi fantasmi” (1946).

Eduardo nella scena del caffè in “Questi fantasmi !” (1946)

Scena che solitamente si realizza nell’arco di  4 minuti ma che in questa occasione raggiunge un livello di “lievitazione” tale  da raggiungere il compimento nell’arco di ben 11 minuti. La sua partecipazione fu talmente coinvolta e coinvolgente che per la prima volta Eduardo perse il controllo. E si emozionò. A tal punto che il pace-maker che portava, mandò in tilt per un momento il radio-microfono.

Toni Servillo


Da qui, il racconto della tradizione viene portato avanti attraverso la travolgente narrazione del suo devoto interprete Toni Servillo. Per lui il Maestro è un modello non solo di professionalità ma soprattutto di un particolar modo di stare al mondo. Un maestro pedagogo. Un’epifania che Servillo visse fin da piccolissimo quando s’incantava davanti al televisore guardando le opere di Eduardo: quell’universo umano che vedeva in scena era lo stesso che aveva in casa.

Una tensione pedagogica densamente riscontrabile anche nel docufilm “messo in salvo” dalla pregevole attenzione di Ferruccio  Marotti e molto vicina a quella da cui era abitato anche Louis Jouvet che gravitava, soprattutto dal 1934 al 1951, su un teatro omonimo: il Teatro Athénée di Parigi.

Entrambi nelle loro “poetiche” sono avvicinati da un certo sentire pedagogico fondato sul fare teatro rapiti dal “sentimento”:  una capacità di saper guardare “con l’anima nell’ora” . Spendendosi.  E poi, sedotti dalla “complessità”, abili a trovare “le parole” e il “modo” per dirla.  Per “trascriverla”.

In un avanzare tormentato, guidato da una continuità che non esclude la discontinuità. Dove ci può  essere un “tac, tic” perché proviene da una conoscenza profonda del “tic, tac”. E chi non lo fa “è un ladro”.

Ferruccio Marotti e Toni Servillo

Perché per Eduardo la morte (di un maestro) costituisce un punto di partenza (per gli allievi). È questa l’immortalità che ci è concessa. Unitamente alla capacità di “sognare”.

Perché “la vita che continua è la tradizione”.

Eduardo De Filippo

Un’eredità raccolta e portata avanti anche dallo stesso Teatro Ateneo: un prezioso avamposto sulla realtà e sulla tradizione. Perché questo è il Teatro: “uno sguardo prismatico sulla vita”.

Con grande successo giunge al termine così al Nuovo Teatro Ateneo la seconda edizione della rassegna – “L’attore e il performer: tradizione e ricerca. Memorie teatrali di fine millennio dall’Archivio Storico Audiovisivo del Centro Teatro Ateneo – Dipartimento di Storia Antropologia Religioni Arte Spettacolo – Sapienza Università di Roma. 

Una serie di eventi per recuperare, valorizzare e far conoscere il patrimonio dell’Archivio, guidato dalla direzione artistica di Ferruccio Marotti e dal coordinamento di Stefano Locatelli 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo QUESTA NON E’ CASA MIA di e con Giulia Trippetta

TEATRO BASILICA, dal 7 al 10 Dicembre 2023 –

Quando si diventa adulti ?

Che tipo di rito di formazione hanno attraversato i Millennial ? Su quale “terreno” sociale e politico sono cresciuti ?

Su queste domande ci interroga e ci invita a riflettere il graffiante monologo – scritto, diretto e interpretato dalla caleidoscopica Giulia Trippetta – fino a ieri in scena al Teatro Basilica.

Una generazione, la sua, apparentemente con il massimo delle opportunità. Ma vista più da vicino, che generazione è ? Di quali dubbi e di quali certezze si è nutrita?

Che futuro siamo stati in grado di offrire come Paese e cosa sono diventati i rappresentanti di questa generazione? Perché sono loro il nostro futuro più prossimo.

Giulia Trippetta

Con carismatica duttilità Giulia Trippetta dà forma ad una sua personalissima “narrazione di formazione” dove, parlando del proprio microcosmo, ci rimanda il riflesso del macrocosmo nel quale affondano le sue radici.

Un macrocosmo che ha perso la riconoscenza verso il valore sacro dell’unicità, della diversità irripetibile di ciascuna persona. Il paese di fantasia che tra finzione e realtà le dà i natali si chiama Fossoperduto: un “nome omen” dove “i fossi”, e quindi i confini personali, sono andati persi. Dove tutti si permettono di giudicare tutto, quasi fosse un nuovo perverso “cogito” : giudico quindi sono. 

Giulia Trippetta

E lei crede, e convive, con quello che le dicono le amiche e le sue parti interiori. Assediata, si lascia sabotare: lascia che gli altri, ma anche lei stessa, minino le sue mura. Ma l’autostima si sa: è un dono sociale; gli altri possono nutrirla.

Un giorno arriva la svolta: la recisione dei ponti. Seguiranno avventure e sventure, come avviene ad ogni “eroe” in formazione. Ma qualcosa non va: non ne nasce un’evoluzione, una vera formazione. Essere libera è ancora più difficile che essere sottomessa al giudizio degli altri. Cerca, ma non trova, quella capacità di desiderare sufficientemente solida per dare frutto. Oltre che per resistere.

Gioia Trippetta

Fino a che prepotentemente inizia a farsi spazio quell’insensibilità ai morsi di qualsiasi passione: “piuttosto che fare una cosa bene, meglio farne tante male “. Ma ciò che fa tanta paura fino a paralizzare può raggiungere anche la potenza improvvisa di un’energia soffocante. Nonostante tutto la protagonista non si arrende: non ha ancora capito in che direzione cercare quella che può essere “la sua casa” ma continua a cercare.

Soprattutto se stessa: chi è davvero, nel bene e nel male. E a regalarsi comunque rispetto: per il proprio corpo e per la propria interiorità. Consapevole, ora, che fuori di sé l’attende una società “liquida”: che non riesce più a trattenere e a dare densità e corpo a degli autentici valori. Se non quelli legati alla rivoluzione digitale: che avanza veloce senza curarsi delle difficoltà di adattamento delle menti umane.

Il risultato è che i 30enni di oggi sono i 18enni di un tempo: impantanati nel “dovrei”. E che non riuscendo ad orientarsi per capire “come si vive”, rischiano di marcire.

Così, protetti e avvolti nel limbo di una pellicola di domopak, in attesa di essere presi in considerazione, rischiano di fare muffa.

Teatro Basilica

Ma la muffa – come ricorda programmaticamente questa stagione del Teatro Basilica – è uno dei microorganismi più resistenti, in grado di sopravvivere anche nelle situazioni più avverse. È un fungo microscopico che aiuta la natura a decomporre ciò che è morto, per ridargli vita. In un passaggio dall’ordinario, allo straordinario.

Una prova attoriale, quella della 34enne Giulia Trippetta, davvero piena di “spezie”. Preziose. Più della “giada”.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo TRE SULL’ ALTALENA di Luigi Lunari – regia di Claudio Boccaccini

TEATRO DELLE MUSE, dal 6 al 10 Dicembre 2023 –

E’ qualcosa di nuovo: anche per questo la morte ci fa impressione.

Ma siamo sicuri che sia davvero una cosa nuova, “al di là” della vita?

Non altaleniamo forse costantemente tra gli alti e bassi “nella” vita ?

Non sarà che quando l’oscillazione ci turba, ci viene da chiudere gli occhi per non vedere? E siamo tentati di chiedere ad un altro di guardare e di dirci cosa fare?

Perché un po’ di morte c’è sempre: è quel senso di ignoto ingovernabile che ci fa morire di paura. C’è tutti i giorni. E allora per non “starci dentro” chiediamo cosa fare a qualcun altro: a un “ipse dixit” religioso, militare o filosofico. Così da “sentire senza avvertire”. 

E pensare, che avere paura è in linea con la nostra natura: è quello che Gian Battista Vico chiamava “avvertire con turbamento”. 

Allora cosa si può fare?

Intanto possiamo – come consiglia il geniale autore della commedia Luigi Lunari – non complicare maggiormente la situazione pretendendo di venire alla luce percorrendo vie ancora più strette. Tipo, ostinarsi a “voler capire”: un atteggiamento che ci illude di poter tenere tutto sotto controllo ma soprattutto ci fa credere di poter escludere la morte dalla vita. “Capire” ci fa sentire al sicuro. Anche dal giudizio degli altri. Ma poi “quando usciamo dal bagno” rischiamo di non essere soddisfatti. Insomma, per il piacere di liberarsi occorre allentare i lacci del controllo.

Luigi Lunari

Questa inebriante commedia di Luigi Lunari, scritta nel 1990, tradotta in ventisei lingue e correntemente rappresentata in tutto il mondo, non è una commedia comica, come lui non mancava di ripetere. Sebbene provochi il riso.

Piuttosto gode del favore di riuscire a ricollegarci con una dimensione pre-linguistica, che ci permette di accedere agli enigmi della vita “senza forzare la serratura” con i principi della logica: quello di causa-effetto e quello di non-contraddizione. 

Claudio Boccaccini

Il personaggio femminile che il regista Claudio Boccaccini individua e caratterizza intorno a Caterina Gramaglia ne è un luminoso esempio. Lei ha la rara capacità di portare in scena qualcosa di prodigioso: la manifestazione di un’entità così fisica da accedere ad una realtà al di là della fisica. Tutto in lei – pur essendo (anche) disarmonico, oscuro e vagamente terrifico – affascina e fa fare un passo indietro. Come di fronte ad un’entità ancestrale. Ha trovato, inoltre, una resa vocale così metafisicamente “idraulica” da lasciare lo spettatore spiazzato tra il serio, il faceto e il sacro. 

Caterina Gramaglia

Ed è proprio questa la chiave magica non solo di lettura e resa del testo – come il regista Boccaccini ha dimostrato di cogliere per poter restituire allo spettatore – ma anche la chiave di accesso alla vita, secondo Lunari.

Quella dimensione pre-linguistica, al di là dei principi della logica, che si manifesta attraverso quel tipo di risata che non è solo una reazione fisiologica di maggiore irrorazione vascolare e nervosa, quanto un arcaico modo di entrare in contatto con i misteri che la logica chiamerebbe assurdità.

Massima aspirazione di Luigi Lunari era infatti quella di riuscire, attraverso le sue opere, nel tentativo di aiutare lo spettatore “a far pace” con l’idea della morte. Che in lui non prende mai toni tragico-nichilistici. Piuttosto quelli di una fraterna presenza che “vigila” su ciascuno verso la serena accettazione del fine vita.

E in effetti Lunari riesce a trovare quella specialissima modalità di accoglienza, tale da riuscire a farci sentire consolati. Che però, lungi dall’indurci alla rassegnazione, ci fa invece sprizzare quel pizzico di coraggio in più. Quel tanto che riesce ad essere efficace affinché il desiderio di fare qualcosa, superi la paura di realizzarlo.

Massimiliano Buzzanca

Il ritmo riprodotto dagli efficaci attori in scena Massimiliano Buzzanca, Stefano Scaramuzzino e Claudio Scaramuzzino – diretti dalla capacità d’ascolto musicale di Claudio Boccaccini – è tale che l’altalenarsi tra impennate di velocità ed estatici rallentamenti, regali allo spettatore sensazioni di esaltante vertigine. Quasi un’ebbrezza.

Stefano Scaramuzzino

Un risultato che non è solo merito di un consapevole muoversi all’interno delle tecniche attoriali. C’è di più: c’è il raggiungimento di una musicalità che si percepisce attraverso l’ascolto esterno ed interno. I tre attori in scena oltre ad essere tecnicamente efficaci sanno regalare a ciascun personaggio “il sapore” di tre diverse modalità di stare al mondo. E s’avvitano vorticosamente fra loro in un crescendo e in uno scemando decisamente trascinante. Lunari raccontava che, per lasciarsi guidare nella coloritura a tutto tondo dei tre personaggi, durante la stesura immaginava che ad interpretarli fossero Walter Matthau, Jack Lemmon e Woody Allen.

Claudio Scaramuzzino

Acutamente poi Claudio Boccaccini ha saputo sottolineate quanto fosse decisivo restituire la sensazione che le domande comunque prevalgano sulle risposte e che spesso quelle più enigmatiche si risolvano in battute di spirito. Uno “spirito” fuori dalla comune comicità, che scaturisce dall’ insolita capacità di Lunari di unire sinergicamente alla scrittura drammaturgica quella musicale: Lunari aveva studiato infatti composizione, contrappunto, armonia e direzione d’orchestra.

Ecco allora che il regista Boccaccini, in sintonia con questa stratificazione linguistico-musicale, sceglie quale cornice iconografica ai diversi momenti della drammaturgia, l’altalenante dondolio proprio del swing jazz.

E in accordo a tale genere musicale imposta il tipo di restituzione attoriale: gli interpreti in scena dimostrano infatti di disporre ciascuno di un proprio “swing”, di una propria espressività comunicativa.  

Uno spettacolo dal portamento ritmico e stilistico davvero interessante.

In scena al Teatro delle Muse fino a domenica 10 dicembre p.v.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL DELITTO DI VIA DELL’ORSINA di Eugène Labiche – regia di Andrée Ruth Shammah –

TEATRO AMBRA JOVINELLI, dal 6 al 17 Dicembre 2023 –

Dopo la luminosa accoglienza ricevuta alla Festa del Cinema di Roma 2023 con il docufilm “Scarrozzanti e spiritelli”, è approdato ieri a Roma il primo dei quattro spettacoli che la produzione del Teatro Franco Parenti di Milano ha portato in scena dal palco dell’Ambra Jovinelli: “Il delitto di via dell’ Orsina”.

La splendida occasione offerta al pubblico romano nasce dal desiderio della Direttrice artistica e Regista Andrée Ruth Shammah di condividere anche con la Capitale i “50 anni di vita” dell’eclettico Teatro di via Pier Lombardo 14. 

Andrée Routh Shammah

Da una fusione creativa tra la briosa vaporosità di un vaudeville e il cupo magnetismo di un noir, prende forma “Il delitto di via dell’Orsina”: la riscrittura drammaturgica – dal fascino alchemico – de “L’affaire de la rue de Lourcine” (1857) di Eugène Marin Labiche

Eugène Marin Labiche

Uno spettacolo che è in tournée da tre anni e che quindi è stato attraversato dal trauma del Covid 19. Ma che deve la sua geniale singolarità proprio all’oscurità emotiva che ha caratterizzato quell’indimenticabile periodo. E la sagoma in proscenio, raffigurante un attore che è restato chiuso per lungo tempo dentro la sua stessa valigia, sembra parlarcene.

Un evento, il trauma del Covid, che ci ha colti al buio, inermi – nel sonno, come avviene ai due protagonisti principali in scena – senza le risorse necessarie per affrontarlo. Una “poca luce” rivelatasi invece necessaria alla Shammah per valutare “i colori” che si sarebbero mostrati nel corso della lavorazione drammaturgica fino alla “tempera”, con la quale decidere la giusta flessibilità della materia.

Antonello Fassari e Massimo Dapporto

Perché quello della pandemia è stato un trauma che ci ha fatto sperimentare sulla nostra pelle come nessuno si può salvare da solo: che non siamo fatti per vivere isolati. Ma contemporaneamente, e paradossalmente, abbiamo vissuto anche la drammatica consapevolezza che l’Altro, oltre ad essere imprescindibile per il nostro stare al mondo, può essere un nemico, uno straniero.

Riflessioni, queste, che con dosata leggerezza s’intrecciano come ulteriori fili nella trama del tessuto dell’opera della Shammah, contribuendo al confezionamento dell’ “habitus” di questo speciale adattamento.

Ne avvertiamo l’eco nella nuova ambientazione storica della vicenda: i primi anni del Novecento, quelli che precedono il futuro “virus” del fascismo. Ma altri echi arrivano anche dentro la dimensione microcosmica legata al ciclico passaggio – ma non per questo meno traumatico – di consegne generazionali.

L’avvicendarsi dei due servi, il giovane (Christian Pradella) e il vecchio (un sempre poetico Andrea Soffiantini) che sta ultimando i suoi quarant’ anni di onorato servizio, sembra fondarsi soprattutto sulla capacità a saper “strofinare via” questo trauma: “A monsieur piace star bene, è il suo senso della vita”.

Ma in testa, nella memoria, resta comunque “un buco nero”, uno strappo : come quello reso attraverso la carta da parati di un fondale (la cui cura è affidata a Rinaldo Rinaldi), parte di una scena che riproduce metaforicamente non solo un interno borghese ma anche la condizione emotiva dei protagonisti (le scene, costruite presso il laboratorio del Teatro Franco Parenti e FM Scenografia, sono curate da Margherita Palli). Una “copertura”, quella della carta da parati, che viene meno parlandoci di un’autentica vulnerabilità.

Interventi drammaturgici decisamente efficaci, guidati da un giusto equilibrio tra tradizione e tradimento e inseriti all’interno di un’operazione culturale nata dalla consapevolezza di essere stati anche noi traghettati in un passaggio storico epocale ancora da metabolizzare. 

Il prodotto della lavorazione in cui si è calata la Shammah ci arriva allora con la grazia tempestosa di un dono: una narrazione compassatamente gioiosa ma seducentemente noir, attraverso la quale avvertiamo la coscienza di essere protagonisti di una di quelle fasi di transizione che fanno della vita, la vita. Ma che il Teatro sa aiutarci ad affrontare con coraggio: senza farci sopraffare dallo spettro del fallimento, né da quello del giudizio altrui.

Perché ciò che ci accomuna tutti è proprio la predisposizione a fallire.

A fare la differenza, invece, è ciò che riusciamo a fare dell’errore. Quanto riusciamo a renderlo fertile. 

In scena i due ex compagni del collegio Labadoni, oltre a condividere una complicità goliardica, si ritrovano ad essere sodali anche nell’architettare soprusi. Pur di non sostenere il buio del dubbio (che li avrebbe resi più attenti a valutare tutti gli elementi della situazione) e pur di non assumersi la responsabilità dell’accaduto e il conseguente fallimento momentaneo del loro status sociale (qualora fossero state confermate tutte le prove della loro responsabilità nel delitto di via dell’Orsina).

Un autentico perdere i punti di riferimento esteriori ed interiori, il loro. Un tono che, goliardicamente, forse si può recuperare con qualche sorso di curaçao.

Ma ecco che ombre interiori iniziano a palesarsi: sono ombre/sagome di un nuovo sapore magrittiano (tratte dalle opere di Paolo Ventura) che s’insinuano anche sulla scena. E che possono prendere la forma di un’inconscia confessione ad alta voce nel sonno, come capita al cugino Potardo (un efficace Marco Balbi).

Perché così è la natura umana: l’istinto alla sopraffazione è in noi il più arcaico e quindi il più potente. Lo ereditiamo tutti per natura. A differenza dell’amore (e quindi della compassione e del rispetto) che invece è tutto da imparare nel corso della nostra esistenza. 

La declinazione di questi contenuti nel brio, opportunamente non esasperato, e nella gioia del vadeville è anche un modo per onorare “lo spirito”, oltre che “i meccanismi”, delle opere di Labiche del secondo periodo.

In esse è racchiuso uno sguardo diverso, più profondo – ma mai giudicante – sul modo di vivere della borghesia, a cui lo stesso Labiche apparteneva e al cui nuovo orizzonte era stato formato già ai tempi del Liceo Condorcet.

Uno spirito d’osservazione capace di leggere penetrantemente nell’animo umano e attraverso il quale l’autore esprime delle idee molto sottili.

È ricco questo borghese, o quantomeno benestante: una ricchezza che spesso però diviene terreno fertile per coltivare il fiore della stupidità. Infatti pur avendo vissuto molto, sembra non aver imparato nulla dalla vita: le sue poche esperienze si convertono inevitabilmente in aforismi o formule prive di un autentico significato: ” l’appetito vien mangiando, l’oblio non pensando”.

Un uomo che si presta a cadere negli “equivoci” anche perché lui stesso, in qualche modo, “equivoco”: uno che si impegna ad essere “scambiato” per essere altro da sé. 

Massimo Dapporto e Antonello Fassari

Massimo Dapporto (Zancopè) e Antonello Fassari (Mistenghi) sono due “simpatiche canaglie” alle quali, come nell’intento di Labiche, si tende a perdonare tutto. O quasi.

Portano perfettamente a compimento quel brio di soluzioni sceniche, che tien luogo a delle soluzioni interiori: non le sostituisce, ma ce le fa volentieri dimenticare.

Complice il sublimare i momenti d’empasse nel canto e nel ballo (nei quali, con un loro stile, sanno davvero brillare). Le musiche originali, eseguite da una piccola orchestra – pianoforte, clarinetto e flauto – sono di Alessandro Nidi.

Dapporto è di un’eleganza irresistibile, almeno quanto la mirabile capacità a tradurre i suoi pensieri attraverso il gesto e la voce. Pensieri che scorrono nella mente parallelamente alla loro visualizzazione attraverso l’espediente di un piccolo sipario mobile.

Fassari è straordinariamente morbido e insieme grossolano. La Shammah lo fa brillare, proprio come amava fare Labiche, con un accessorio stravagante che ne accentua la sua goffaggine.

Susanna Marcomeni (Norina, la moglie di Zancopè) è inappuntabile: precisa ed efficace. Lieve e piena di grazia. Una “passerottina” – come ama vezzeggiarla suo marito – che indossa abitini “dal piumaggio” aranciato che mutano tonalità parallelamente alle sue emozioni, ai suoi dubbi. Fino a raggiungere i toni dell’entusiasmo del rosso ( i costumi sono curati da Nicoletta Ceccolini e realizzati presso la sartoria del Teatro Franco Parenti, diretta da Simona Dandoni).

La cura della drammaturgia delle luci è affidata a Camilla Piccioni

Con questo spettacolo Andrée Ruth Shammah dimostra di conoscere l’arte alchemica di sottrarre parti del mondo materiale alla tirannia del tempo, restituendoci appieno la descrizione di quale libertà è concessa alla natura umana, qui sulla Terra. 

Una libertà racchiusa nella frase di commiato che mette in bocca al vecchio servo: “Ruba ogni giorno un po’. Io l’ho sempre fatto. Con eleganza”.

Un rubare che al di là del significato letterale vuol essere un invito, che è poi l’ontologia del Teatro, a saper entrare in relazione con l’Altro. Riconoscendogli ciò che noi (ancora) non abbiamo e divenendo così eredi di un’umanità condivisa, che ci rende “liberi”. Davvero.


Recensione di Sonia Remoli

Incontro con LINO MUSELLA – ciclo di incontri “Artigiani di una tradizione vivente” –

EX VETRERIE SCIARRA, 4 Dicembre 2023 –

A testimonianza di come i fili della tradizione s’intessano preziosamente all’interno della trama dell’ habitus attoriale, ieri nell’Aula Levi delle ExVetrerie Sciarra si è avuta l’opportunità di ascoltare – grazie al ciclo di incontri “Artigiani di una tradizione vivente” organizzati da Sapienza Università di Roma – l’affascinante racconto che Lino Musella ha fatto della sua personale esperienza.

Attraverso un appassionante dialogo con Guido Di Palma e con il pubblico presente in sala, Musella ha rievocato i suoi inizi da 15enne affamato di qualcosa di ancora ignoto.

Iniziato il suo apprendistato da tecnico, macchinista e servo di scena presso il Teatro Politeama di Napoli, qualcosa arriva a nutrire quel vuoto. Sono questi gli anni in cui lavorando ma soprattutto guardando gli attori sul palco – di sera in sera, di stagione in stagione, anche durante i festival estivi – ha l’opportunità impagabile di lasciare che la sua fame misteriosa prenda tutte le possibili forme prima di individuarne una in particolare, più invitante delle altre.

Lino Musella

Quando rivela al Direttore di scena al quale era stato affidato che lui ora sa di voler fare teatro, si sente rispondere che il teatro “ora è tutto finito. Non restano che macerie”. Ma i morsi della fame sono autentici e queste parole non riescono a fargli perdere l’appetito: inizia così il suo recuperare “i mattoni buoni” dalle macerie, per avviare una costruzione.

Si guarda tutto di Eduardo De Filippo: ossessivamente. E fa suo l’imperativo categorico di Eduardo: “La vita che continua è la tradizione”.

Per diverse estati riesce a frequentare una settimana di residenza all’Odin Teatret: un’esigenza la sua più di rapportarsi con il “luogo” che con “la modalità attoriale”.

Lino Musella

Successivamente, dopo tre anni da “ragazzo di bottega” al Politeama, a 18 anni si sposta a Roma per frequentare quei fascinosi luoghi “off” che erano le “cantine” .

Va a Milano per frequentare il corso di regia alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi.

Diplomatosi, rientra a Napoli e qui frequenta le avanguardie, tra cui Leo De Berardinis, Guido Di Palma, Annibale Ruccello.

Prende forma allora uno stile che si fonda su uno sguardo totalmente affidato all’istinto, alla sensazione senza rielaborazione.

Ne nasce uno stile che si nutre di “dissociazione”, di pericolo, di rischio, di voglia di cadere: un’esigenza interiore, oltre che professionale di nuovi equilibri sempre da cercare e quindi continuamente da perdere. Per poterne ricercare ancora. E ancora.

Una vocazione attoriale che ha trovato ospitalità e nutrimento in un vuoto, che urla senza tregua l’esigenza vitale di essere alimentato con una continua tensione.


Con Lino Musella termina il ciclo di incontri Artigiani di una tradizione vivente nell’ambito del progetto Le lacrime della Duse – Il patrimonio immateriale dell’attore.

Il progetto – di grande valore artistico – nato per recuperare l’antica cultura artigiana del teatro che punta a preservare e valorizzare il patrimonio immateriale dei saperi teatrali, dopo il primo ciclo di formazione teatrale e drammaturgica per giovani attori under 35 curata da Glauco Mauri, ha inaugurato il secondo step dedicato agli “Artigiani della tradizione vivente”, un ciclo di incontri con grandi attori e attrici della tradizione teatrale condotti da Guido Di Palma. Gli appuntamenti hanno ospitato Umberto Orsini, Isa Danieli. Gabriele Lavia, Alessandro Serra, Mimmo Cuticchio e Lino Musella.

Le lacrime della Duse. Il patrimonio immateriale dell’attore, curato dalla Compagnia Mauri Sturno, è un progetto finanziato dal MIC ed ha coinvolto l’Università di Roma La Sapienza che fornisce il supporto logistico e una consulenza culturale attraverso il CREA – Nuovo teatro Ateneo e il progetto “Per un teatro necessario – Residenze didattiche universitarie” della Sapienza Università di Roma, diretto dal Prof. Guido di Palma.