Secondo una leggenda cosmologica araba il Bahamuth sarebbe uno dei sostegni del mondo. Nello specifico è un pesce colossale che regge sulla propria schiena un gigantesco toro che, a sua volta, sostiene un’enorme pietra di rubino, la quale fa da pedana per un angelo di dimensioni tali da reggere sulle proprie spalle il mondo. Il Bahamuth è immerso in un lago che non ha nessun supporto se non oscurità, e non è noto cosa ci sia al di sotto dell’oscurità.
Cosa può essere oggi quel qualcosa che sostiene il mondo?
Può essere la nostra relazione con l’Arte, nelle sue varie forme.
Relazione-sostegno, specchio per creative esplorazioni: capace di stimolare continui nuovi equilibri, necessari a farci carico del peso esistenziale. Senza, senza una relazione-sostegno tra Uomo e Arte, sprofonderemmo nel buio.
Assaggi di questa teoria, ieri sera l’acuto estro del duo Mastrella-Rezza ci ha ripetutamente proposto: in vari momenti dello spettacolo, infatti, siamo stati lasciati senza il Bahamuth (senza il sostegno della nostra relazione con l’Arte). Sprofondati nel buio, nel silenzio, nell’attesa, nell’ignoto.
E ci siamo affannati: un continuo tossire, quasi a chiederci mutuo soccorso; un irrefrenabile istinto a ridere, per vincere l’imbarazzo e migliorare il tono dell’umore, già preda dell’ansia.
Lasciati soli nell’oscurità e nell’ignoto tendiamo infatti a perderci, a scivolare giù: a non trovare un orientamento, un efficace sostegno per riemergere. Stabilendo connessioni con l’Arte invece riusciamo a fare del buio un nutrimento e quindi l’origine di una spinta verso un nuovo inizio.
Ecco allora che lo spettacolo “Bahamuth” di Antonio Rezza – liberamente associato al “Manuale di zoologia fantastica” di J.L. Borges e M. Guerrero – è “partorito” ed ospitato da un habitat, immaginato demiurgicamente da Flavia Mastrella, riflettente un’umanità sganciata, disconnessa dalla relazione con l’Arte. Un’umanità che, avendo abdicato al mantenere in vita questo nesso per lasciarsi sedurre da spinte narcisistiche, rivela tratti (e analogie) di fantastica bestialità.
Lo stesso Borges sosteneva che “I mostri nascono per combinazione di elementi di esseri reali, e le possibilità dell’arte combinatoria sono quasi infinite”.
Come il manuale borgesiano, “Bahamuth” di Rezza-Mastrella è ambientato in una sorta di giardino, la cui fauna è composta da variazioni di umanità, combinata con caratteristiche animali.
Come nelcentauro si coniugano cavallo e uomo, nel minotauro toro e uomo, l’infinita possibilità combinatoria fa sì che dal sagace estro di Rezza prendano vita personalità ibride come, ad esempio, l’uomo-gallo-cane, che sceglie di vivere simulando una paralisi, per il gusto di vedersi servito ad ogni squillo di campanella e ad ogni voglia capricciosa.
Di fantastica bellezza è l’occasione di essere resi partecipi al prendere vita in Rezza di questa creatura, attraverso una continua metamorfosi del suo respiro. Che progressivamente diviene una mistura di suoni arcaici, i quali solo alla fine si costringono ad entrare nei principi della logica, divenendo una forma di comunicazione comprensibile al nostro codice linguistico.
Da questo crogiolo di combinazioni alchemiche, prende vita in Rezza anche il personaggio del nanetto, e ancora il signor Porfirio e la sua signora, la donna in-cinta, l’uomo a cucù: tutti gravitanti intorno a quell’habitat delle meraviglie edificato da Flavia Mastrella. Così irreale, eppure così disponibile ad essere descritto come fosse reale.
Uno spettacolo geniale, fruibile a vari livelli, portatore di un messaggio che oggi, più che mai, abbiamo bisogno di non dimenticare. Un inno alla vita e al suo habitat, dove nessuno si fa da solo, né si salva da solo.
E’ rimanendo nel vibrante flusso relazionale con l’Arte che riusciamo a fare del “nostro peggio” (dei nostri aridi individualismi) occasione di vita creativa, fertile, produttiva, gratificante. Umana: perché animata dal gusto e dal desiderio di conoscere e quindi di imparare. Insieme. Continuamente.
Non a caso (forse) Antonio Rezza dichiara di non aver (mai) scritto questo ed altri suoi spettacoli. Perché nulla vive davvero, se viene fermato, chiuso.
Manolo Muoio, Antonio Rezza, Neilson Bispo Dos Santos
“Chi va là?” – sembrano voler continuare a dire quelle minuscole transenne in proscenio che dovrebbero difendere il Castello di Elsinore: quello che entrando in sala immaginiamo dietro il sipario chiuso. Ma queste transenne bassissime, scopriremo non poter proteggere nulla.
Si limitano quindi solo a veicolare un avviso: “attenzione, pericolo !”.
Ma si sa, dietro ad ogni pericolo si nasconde anche una luce.
“Il male è inattaccabile…e ci osserva come una spia…si può solo fingere”.
E’ la voce oracolare di Filippo Timi a tuonare questo proemio. E ci avverte di come contro il male inattaccabile si può solo opporre la forza creativa del plasmare, del dare forma, dell’ornare, dell’inventare, del contraffare. Del “fingere”, appunto.
L’assunto base da cui parte il regista Timi è quello per cui “nessuno è innocente”.
Fare il male, infatti, è un istinto che riceviamo tutti, per natura, a corredo del nostro venire al mondo. L’amore no: l’amore lo si può solo imparare.
Fare il male si rivela anche piacevole e liberatorio: è l’espletamento di un istinto naturale. Come è riuscita a confessarci, in bilico tra incredulità consapevole e comicità tragica l’irresistibile Gertrude della Mascino. Che qui, nell’adattamento di Timi, ci si dà – naturalmente erotica e innocentemente felice – nel rivelare come il giorno che “ha ucciso” sia stato il più felice della sua vita. Soddisfare un istinto è un automatismo che non implica un responsabile uso della libertà. E’ un semplice e feroce meccanismo naturale.
Marina Rocco , Elena Lietti, Filippo Timi , Lucia Mascino
Cifra dello spettacolo è infatti il far emergere in superficie, dal celebre testo shakesperiano, la tragica condizione ontologica con la quale veniamo gettati al mondo: corredati da un solido istinto alla sopraffazione. Ai protagonismi.
Una tragedia, questa, che Timi sceglie di versare nelle orecchie del pubblico attraverso la sua declinazione comica: perché ogni tragedia ha in sé anche qualcosa di terribilmente comico. Un funerale è anche una festa; una sarabanda può rivelarsi la possibile variazione di un valzer.
Filippo Timi è Amleto – Elena Lietti è Ofelia
E nel farlo Timi denota carisma, dimostrando di saper “fingere”. Lo fa servendosi di allusioni esplicite, di metafore e ammiccamenti tratti dal mondo pop della pubblicità, dei cartoni animati, della musica leggera. Insomma dalla nostra “grande madre” televisiva.
Noi del pubblico si gode: la tesi di Timi funziona. E’ scientificamente provata.
Timi, oltre che istrionico attore e regista poeticamente gotico, si dà anche come profondo autore dell’adattamento del testo shakespeariano. Geniali i suoi monologhi: come quello in cui dà voce al racconto (“in diretta”) poeticamente “organico” della descrizione del metamorfico passaggio di Ofelia alla morte. Calibratissima la scelta del regista nell’individuare proprio nell’ingenua eleganza metafisica di Elena Lietti l’interprete della sua Ofelia.
Filippo Timi è Amleto – Elena Lietti è Ofelia
Arguti e commoventi i monologhi legati alla doppia partitura di un’incandescente Lucia Mascino. Nel ruolo di “un’attrice” ci regala un’acuta e brillante traduzione – in un triviale linguaggio dei segni – della tronfia e stantia declamazione attoriale del suo collega attore: un polimorfico Gabriele Brunelli, generosamente versatile nell’ardimentosa multipartitura affidatagli da Timi.
Lucia Mascino qui è l’Attrice – Gabriele Brunelli qui è l’ Attore
Nel ruolo di Gertrude invece, come segnalato sopra, la Mascino ci sorprende con l’accorato monologo-confessione sulla sua (e nostra) perversa modalità acrobatica di umani “motociclisti senza casco”. Condizione esistenziale iconograficamente ben sintetizzata in quella postura impudentemente aperta di Gertrude inscritta nel trono, che allude con grottesca esasperazione anche al leonardiano “Uomo vitruviano”.
Lucia Mascino è Gertrude
E poi quella lunare partitura per l’estrosa Marina Rocco: lei, l’altro lato della luna dell’Amleto padre. Lei, il suo fantasma: Timi, meta-teatralmente la fa apparire a noi del pubblico prima ancora che alle guardie, teoricamente deputate a proteggere il castello. Perché lei è un fantasma che soffre del continuo vagare, senza trovare una meta (un parcheggio): rischiando di non essere visto e quindi creduto.
Marina Rocco è il fantasma del padre di Amleto
E’ un fantasma che sogna di vincere il riconoscimento come miglior attore protagonista, a ricompensa (e vendetta) di ciò che “pare” aver fatto e che gli sia stato fatto. E alla fine, in un parossistico spasmo di piacevole dolore, raggiungerà la sua meta (il suo parcheggio): sarà visto e creduto. E vincerà. Ma nella vita come nel teatro non esistono “parcheggi”: tutto è fluido. Anche ciò che “pare” così chiaramente stabile. Tanto che il fantasma ci confesserà, in chiusura, che ora che “ha vinto” ha smarrito la via verso casa.
Marina Rocco è il fantasma del padre di Amleto
Timi è un sapiente creatore di atmosfere: ha fiuto nello scovarle tra i sottotesti della tradizione e sa restituirle allo spettatore, che vi si ritrova immediatamente immerso. Scegliendo a quale livello di profondità lasciarsi calare in quei suoi paesaggi subacquei, onirico-visionari. Dove tutto quello che non è, è.
Filippo Timi Amleto, Gabriele Brunelli qui lo zio Claudio, Marina Rocco il fantasma del padre di Amleto
Sono regioni della nostra psiche, quelle che lui ha urgenza di condividere con il pubblico, dove il principio di causa-effetto e quello di identità e di non contraddizione non si dimostrano efficaci nel provare a descrivere ciò che lì accade. Funziona meglio invece quel “vedere aperto e in continuo movimento” dove tutto confluisce e si mescola: come in un quadro di Hieronymus Bosch.
Filippo Tipi è Amleto – Gabriele Brunelli qui è Francesco, la guardia
E’ l’epifania di quell’assaggio di dionisiaco che ci rivela a noi stessi e ci imbarazza; ci fa ridere perché ci provoca ancora una punta di pudore. Cadono le maschere che abbiamo scelto anche noi di indossare (e di far indossare) e ne vanno in scena di altre, di nuove.
Sono realtà fantasmatiche e insieme carnalissime, sono simboli, metafore, allegorie, figure retoriche. Dove i voli valgono come le cadute; le acrobazie come le bassezze; i colpi di genio come le trivialità.
Filippo Timi è Amleto
Qui, in questi paesaggi inconsci, Timi va a cercare il suo Amleto: l’Amleto che non resta bloccato tra le regole della razionalità logica ma che si muove in una razionalità diversa, molteplice, tremendamente libera. Dove a parlare è ciò che non può essere detto.
Improprio è separare una realtà dall’altra: Timi infatti non alza barriere murate ma “a barre”, dove le due regioni della nostra psiche possono ancora comunicare. Una quarta parete osmotica, la sua, dove nessuno è davvero in gabbia.
Parole di gioia per il rientro in Italia della giornalista Cecilia Sala il Presidente della Fondazione del Teatro di Roma Francesco Siciliano ha desiderato condividere con il pubblico presente ieri sera al Teatro Argentina, in occasione della prima dello spettacolo che inaugura la programmazione dell’anno 2025: “Tre modi per non morire – Baudelaire, Dante, i Greci” con Toni Servillo, tratto dai testi dello scrittore e traduttore Giuseppe Montesano.
Con piacevole sorpresa, prendendo posto in sala, il pubblico non ha potuto non apprezzare la cura dell’essere accolto in una platea rinnovata, capace di offrire un’esperienza di partecipazione ancor più coinvolgente. Un gesto di attenzione per preservare e valorizzare un patrimonio irrinunciabile com’è quello rappresentato dal Teatro: “un luogo aperto, dove la verità non ha paura di mostrarsi”. In tutta la sua complessità. Come i Greci ci hanno insegnato, ci ricorda un fulgido Toni Servillo.
Proprio loro che hanno inventato un pensiero che si fa veicolo di ”un’immaginazione attiva” capace di tenere insieme, come passi di un’unica danza, le dualità esistenziali di corpo-mente, bene-male, uomo-mondo. Una danza, i cui cambi di passo sono resi da Toni Servillo con quel fervore ieratico che attraversa i suoi “ma …”. Così come certi suoi “quando ….” e alcuni “se…”. E che fanno di lui, colui che, al pari dei Greci, riesce a sostenere lo sguardo sul come la nostra umanità tende ad essere travolta dall’infelicità e dalla miseria. Ontologicamente in bilico su un piano inclinato: condizione esistenziale efficacemente resa dalla “lingua di scena” sulla quale è costretto a muoversi l’uomo-Servillo.
E di questa torbida luminosità umana il Teatro, non solo greco, vuole e deve continuare a parlarci, per consentirci di guardarci allo specchio. Concetto, questo, sul quale viene concertata con sublime efficacia la drammaturgia del disegno luci (curato da Claudio De Pace), nonché quella del disegno musicale.
Perché solo riuscendo a guardare in faccia le nostre mostruosità esistenziali, saremo in grado di ricavarne una consapevolezza poietica: capace di dare vita cioè alla bellezza creativa, che ci è stata donata come un fuoco. E che chiede di essere continuamente “riattizzato” per poter produrre fecondamente poesia: da condividere insieme, “come pezzi di pane”.
Perché è così che la vita può essere educata a preferire il gusto per la costruzione e la condivisione di “un nostro”, piuttosto che di “un mio”. Come ci insegna anche il mito platonico della caverna, rievocato da un Toni Servillo denso in fervore, abile nel disporre di quel giusto mezzo che permette di raffinare un discorso senza renderlo meno comprensibile.
Perché è di vitale importanza non lasciarsi infatuare da quelle ombre che, come subdoli fantasmi, ci trattengono a rimanere dentro la caverna: isolati e chiusi in noi stessi. Apparentemente al sicuro ma in verità assediati dal peggiore dei mali: la noia.
Vita è invece uscire dalla zona di confort della caverna – luogo che acutamente l’autore Giuseppe Montesano attualizza nel suo dialogo immaginario con Baudelaire attraverso il ricorso a quell’espressione spesso di eccessiva tutela, che a tutti risulta così familiare, qual è quella del “è per il tuo bene” – per toccare e lasciarsi toccare dalla compassione bruciante per l’Altro.
Con il quale non dobbiamo lasciare che si interrompa un fertile dialogo, perché vita é che la bellezza possa anche scontrarsi con la cruda realtà, come s’infiamma nel farsi testimonianza il Servillo-Baudelaire.
Perché ognuno di noi è “una moltitudine” e non un egocentrico “io”. Ma siamo spesso, come possiamo scoprire specchiandoci nell’esperienza esistenziale di Dante, “un’aiuola che ci fa tanto feroci”. Sebbene cioè resi partecipi di una realtà di bellezza, spesso preferiamo ridurre questa condivisione ad una trappola per topi, dove ciascuno vive “contro”, e non “con”, l’altro. Dove trova spazio solo l’egoismo insaziabile che scatena la guerra di tutti contro tutti.
Dove una subdola ferocia ci porta egoisticamente a guardare solo al nostro misero spazio della caverna, o ad essere “ignavi”: tiepidi, fino all’indifferenza totale alla partecipazione, al coraggio. Scegliendo di non fare né il bene, né il male. “La loro indifferenza impaurita è imperdonabile” – ci ricorda Dante – tanto che a costoro viene negata la morte, dono riservato solo a chi ha vissuto spendendosi per un bene comune.
Meglio allora – si sporge a dire Dante – un Ulisse che ha errato mettendo in pericolo la propria vita alla ricerca della virtù e della conoscenza. Meglio chi, come lui, si spinge verso l’ignoto, verso il nuovo. Come coloro che, nel cuore dell’Inferno, abitano un’aiuola “di tenere labbra”: quelle degli amanti. Dante si scopre a non riuscire a condannarli. E sviene. Come preda di una metamorfosi interiore. Che lo porterà alle soglie del paradiso, fino alle “stelle”. Ma non è, il suo, un arrivo: piuttosto un invito a una nuova rilettura. A un nuovo viaggio. Perché la forza dell’amore, della partecipazione, della relazione, è una forza che ci abita e che ci spinge a fare di ogni arrivo una possibile nuova partenza.
Quella di Toni Servillo si rivela un’interpretazione fiammeggiante, capace di appiccare fertile fuoco creativo sullo spettatore. Così come la sinergia di testi che dà forma a questo adattamento sortisce l’effetto provocatorio e insieme balsamico di un attuale “conosci te stesso”. Un accorato invito, quello dell’autore Giuseppe Montesano, a non smettere di interrogarci su chi davvero siamo, specchiandoci nel confronto con le vite altrui – qui, quelle di Charles Baudelaire, di Dante Alighieri e dei Greci – così da trovare una risposta, “un riflesso di conoscenza, un invito al coraggio”. E giungere, con partecipazione commossa, a riscoprirci “uomini”. Capaci, se insieme, di fare della nostra mostruosa finitudine una ricchezza in continua trasformazione.
Uno spettacolo prezioso per inaugurare un Nuovo anno di possibilità, da esplorare lasciandosi toccare da quegli attimi “capaci di far apparire il nuovo, che capovolge le parvenze del mondo”.
E’ il canto della continua meraviglia di un giorno qualsiasi, dove la fantasia riesce a incontrarsi con la quotidianità. Fino a sintonizzarsi con essa.
E’ la magia che accompagna la ricerca dell’entrare in relazione con l’altro da noi, proprio lì: sul confine che vorrebbe separarci. Quel limite che può essere anche un favoloso luogo d’incontro. Di sintonia.
Quanto può rivelarsi avventuroso “un riparo”, un luogo rassicurante e protetto come la propria camera?
Quante occasioni di rapimento entusiasmante vi si possono incontrare? Sono nascoste tutte lì: ai bordi. In attesa di essere trovate. E poi esplorate, fino a farsi trascinare dalla loro magia.
Condizione necessaria per l’avverarsi di questi continui miracoli quotidiani è il lasciarsi cogliere dalla meraviglia: qualità dell’occhio e del cuore capace di coinvolgere una persona nella sua interezza, totalizzandola. E facendole intuire, con complicità, il suo posto nel mondo.
La meraviglia è una luce che nasce dal buio, dal silenzio così come dal tumulto. Nasce dai vortici del vento, dall’opacità della nebbia, dallo scatenamento delle tensioni che precedono un temporale.
Nasce nell’orecchio, prima ancora che nell’occhio.
Nasce dal rendersi “permeabili” allo scambio osmotico del confine tra la realtà e la fantasia, tra il mondo della logica e quello dell’illogico.
Nasce dal lasciare aperte “le porte e le finestre” dei nostri confini epidermici, permettendo di essere “attratti” da altre forze (da altre mani) che permettono ad esempio ad un oggetto di essere tante cose e non una sola.
La meraviglia nasce dal restare stregati dalla Luna. Da “Luz de luna”.
La meraviglia è una magia che può incantarci al di là delle parole, al di là dei codici logico-linguistici che definiscono le identità (gli oggetti, le persone, gli animali) separandole dalla ricchezza delle loro contraddizioni, dal loro essere tante cose insieme.
Tutto lo spettacolo è una continua seduzione. E lo spettatore di qualsiasi età entra nel gioco narrativo che concerta il mondo del Circo con quello del Teatro e se ne lascia trasportare. Stregato dalla “luce della luna”, che fa saltare i confini della scena: tutto respira, tutto è permeabile, tutto è a vista. E’ la magia del “circo di creazione”, di cui questo spettacolo è un favoloso esempio.
I limiti sono aperti, fruibili. Tutto si muove, dondola, oscilla. E si lascia oscillare.
Anche il corpo della protagonista (una quotidiana e divina Fabiana Ruiz Diaz) diventa di una plasticità mimica stupefacente. Le sue esplorazioni, le sue acrobazie aeree sono sintonizzate con tutte le sfaccettature del suo vivere, dove gli oggetti della quotidianità si liberano della patina dell’ovvietà per divenire anche altro. In una continua esplorazione, in una continua creazione di possibilità.
Non esistono separazioni tra essere animati e inanimati. Tutto pulsa, tutto batte, tutte vive e vibra. Anche i piedi parlano un loro linguaggio e si lanciano in un corteggiamento. Cercano un incontro per entrare in relazione. E sintonizzarsi. Gli stessi corpi si fanno continuamente “veicolo” verso altri corpi. Ed è così che la fantasia si libra sulle ali di corde e mantegni, sapientemente manipolati da creature meravigliosamente ibride.
“Luz de luna” è uno spettacolo avvolto da una magia delicata, gentilmente contagiosa: in equilibrio tra spavento, eccitazione ed estasi.
“Luz de luna” è uno spettacolo cortese e stimolantemente ardito: che apre i nostri sensi e le nostre menti alla libertà. Non quella miope, bensì quella che sa guardare oltre se stessi. Quella che si può assaporare solo “insieme”.
“Luz de luna” è uno spettacolo “politico”, che incanta lo spettatore nel testimoniare come vi può essere libertà solo se fondata sul rispetto e sulla curiosa attenzione verso la diversità degli altri: affascinanti confini da esplorare, per allacciare una rete di collaborazioni spettacolari.
Sono un’amplificazione tridimensionale del loro significato.
Sono la sua eco.
Ma non solo: lui stesso si fa eco, distorce e si distorce, altera e si altera, deforma e si deforma, risuona ed è risuonato, è armonia e corrispondenza semantica. Si rende suono, si fa udire, si rende palese.
E’ un concerto.
“Volete ascoltarmi ?”.
Questo il suo esordio: la sua proposta.
La condizione affinché ci sia “teatro”.
La condizione affinché Jago possa esistere. Perché prestargli attenzione significa riconoscergli un’identità: la sua, quella autentica. Non come ha fatto Otello.
Si rivela a noi come ad un cielo abitato da stelle: noi spettatori.
Seducentemente si confida: sa come usare le attese, i vuoti. E nel farlo ci fornisce come delle inedite “note di regia”.
Perché Jago ha un autore, sì, ma poi si fa regista, attore e spettatore.
Entra in scena: la luce lo bagna appena, con sapienza inquietante.
Si muove di un moto sinuoso, scivoloso, strisciante, quasi una danza. Perché, per far scivolare le volontà dei suoi nemici portandole in un’altra direzione – la sua – lui stesso deve farsi corpo che si lascia plasmare dalla scivolosa seduzione dell’incertezza.
Ondeggia, s’avvita e si svita.
Ansima, difatti: la fatica è notevole ma solo così può temprarsi per resistere e vincere (forse), laddove le sue vittime si lasceranno sopraffare.
Solo così potrà dire: “io ero, sono e sarò”.
Indossa un lungo impermeabile: l’impermeabilità vuole essere la logica conseguenza del suo allenarsi ad essere fluido. Così da non lasciarsi permeare dalla paura, dalle raccomandazioni, dai sentimenti gentili.
Ed è così, in questo continuo processo che abita il suo sottosuolo inconscio, che lo Jago di Roberto Latini stupefacentemente “diviene e contiene” tutti i personaggi della tragedia.
E in un’epifania visivamente sonora, ci rende consapevoli di come loro, ciascuno a suo modo, “sono quello che non sono”.
Rivelazione resa particolarmente mirabile da Latini attraverso l’evocazione di un’immagine che riguarda Otello: “perché vi mordete le labbra – gli chiede sconcertata Desdemona pochi istanti prima di essere da lui uccisa – siete irriconoscibile”. E lui: “C’è una ragione”. Le labbra, qui in Latini, riescono a parlarci di un voler far altro di Otello, di cui resta solo una traccia in quel suo gesto di mordersi le labbra.
Perché “c’é una ragione” che non lo rende libero di essere libero.
Perché “c’è una ragione” che “lo costringe” ad essere libero, in un modo diverso da quello rivelato dal quel mordersi le labbra.
Perché i nostri gesti non coincidono con chi noi siamo, essendo noi un “poter essere”.
Dice infatti anche lo Jago di Latini: “E’ ancora presto. Sono in prova, sono in attesa di scegliere le parole”.
Anche lui, come noi, come i personaggi della tragedia, non è libero di essere libero. Siamo costretti a essere liberi: siamo costretti a scegliere.
Perché “c’è una ragione”: perché c’é sempre una ragione.
Su questa realtà ci illumina, come solo la luce del buio sa fare, lo “Jago” di Roberto Latini.
Una performance, la sua, dove la luce è gesto. E dove il gesto, così come la parola e il suono, incarnano la cifra del “verde”: il colore la cui definizione ha per lungo tempo predato la curiosità degli artisti, tanto indecifrabile si rivelava il suo essere mescolanza fluida.
Uno studio, un approfondimento, un’amplificazione, necessari.
Se è vero che i soldi possono condurci a perdere la percezione di noi stessi e del mondo, l’amore -ovvero quella forza generosa che tiene uniti in relazione elementi diversi – può avere la meglio sul desiderio conservativo dell’avarizia.
Questa una delle sensazioni che arrivano più pervasivamente allo spettatore, complice la traduzione e l’adattamento seducentemente calzanti alla nostra quotidianità di Letizia Russo, sinergicamente congiunti all’ avvincente sguardo registico di Luigi Saravo. Che ne cura (assieme a Lorenzo Russo Rainaldi) con efficace raffinatezza anche le scene, esaltate dalla cromoterapia luminosa di Aldo Mantovani e dal contrappunto sonoro e musicale del compositore Paolo Silvestri.
Se infatti l’avaro è colui che desidera ardentemente ma che poi non è capace di condividere né di essere generoso (e Ugo Dighero ce ne dona uno stupefacente interpretazione), il desiderare amoroso ci parla d’altro: ci parla di “quell’essere governati da quel dolce potere” che conduce quasi a dimenticare se stessi a favore della “relazione”. Ci parla di quel timore di amare troppo – perché non egoisticamente autoreferenziato, né condizionato dal giudizio degli altri – che si palesa solo fuori dalla bolla amorosa. “Quel dolce potere” di cui ci parla qui Elisa (Elisabetta Mazzullo) ma soprattutto Valerio (Fabio Barone) che, come dal primo incontro, continua a salvare dalle onde del destino la sua amata, rendendosi disponibile ad esplorare nuove identità di se stesso.
Qualcosa di ben diverso dal conquistare l’altro “compiacendolo”: un piacere relativo, non assoluto.
E non così distante dall’ambiguo piacere di condividere i nostri selfie: quell’illusione con la quale ci specchiamo, credendo di poter cogliere narcisisticamente l’attimo fuggente.
Decisamente di altra stoffa è “il trasporto all’ aver cura”: una declinazione del desiderare generoso, che nessuno qui può non notare, ad esempio, in Marianna (Rebecca Redaelli). Anche Arpagone ne rimane conquistato, ma ancora una volta solo egoisticamente.
La sua psiche è resa opportunamente da una scena che ne evidenzia i rigidi confini, attraverso mura con le quali l’Avaro delimita esternamente l’infinitezza avventurosa del bosco (metafora della vita) e internamente il sottosuolo del proprio inconscio, riducendolo ad una botola custode del suo unico desiderare conservativo monetario. Resta indifeso però l’Avaro contro l’invasione di ricorrenti allucinazioni di antichi cori “infantili” sull’ambiguo prezzo del “bene”, che lo spingono a trattenere più che ad investire. Immolandosi inconsapevolmente sull’altare del dio denaro, confuso con il “bene”.
Mobili, invece, si plasmano gli spazi in cui tentano di trovare espressione le relazioni umane (molto interessante anche il lavoro sulla prossemica). Spazi a volte resi rassicurantemente troppo limpidi, fino ad una trasparenza che esclude il rischio del con-tatto. E che tanto ci ricorda la rassicurante trasparenza dei nostri schermi tecnologici, spesso solo apparentemente differenti dalle mura di laterizi.
L’avarizia è una “maledizione” – confida Cleonte (Stefano Dilauro) a sua sorella Elisa – che va “spezzata”, disinnescata, traducendola in un desiderio personale fertile, capace cioè di generare autentici frutti, da condividere. Generosamente. Perché – come sosteneva Gilles Deleuze – non c’è niente di peggio che vivere il sogno di un altro, anziché il proprio.
I figli di Arpagone, a differenza del proprio padre, sanno che il desiderio è ossigeno vitale – e che in quanto vitale è spaesante, non rassicurante. E che si cresce solo quando le certezze acquisite vacillano: quando ciò che nel tempo ha reso forte e rigido il nostro “io” viene messo in discussione e chiede un’interpretazione critica personale.
Compiacere gli altri è più semplice: asseconda una nostra innata tensione alla conservazione protettiva. Per di più abdicare al nostro desiderio per realizzare quello di qualcuno a cui teniamo, ci rende amabili. Ma se questa tensione non viene integrata e resa produttiva restando fedeli al nostro desiderio, finiamo per inaridirci asciugando tutta la nostra linfa vitale. Non a caso Valerio dice ad Elisa che l’avarizia del padre rischia di “strangolarla”, così come sta strangolando lui stesso. Perché se è vero che la vita umana ha bisogno di “appartenenza”, è parimenti vero che ha bisogno anche di “erranza”.
Una regia – questa di Luigi Saravo su traduzione e adattamento di Letizia Russo – che trova il giusto equilibrio nel denunciare e nel farsi portavoce propositivo di una necessaria cura per la nostra “educazione sentimentale”.
Uno spettacolo che sa rendere onore alla tradizione, facendosi testimone di un sapere assimilato ma anche rielaborato con spirito critico. Tale da poter essere riproposto efficacemente in tutta la sua necessità contemporanea. Incantevole l’interpretazione di Ugo Dighero, forte della complice coralità di attori carichi di potente espressività, quali Mariangeles Torres, Fabio Barone, Stefano Dilauro, Cristian Giammarini, Paolo Li Volsi, Elisabetta Mazzullo, Rebecca Redaelli e lo stesso Luigi Saravo.
Un ”canto di Natale” che guarda anche i vuoti delle nostre esistenze: buchi nei quali si insinua una pericolosa tendenza nichilistica. E che siamo tentati, ipnotizzati dalle lusinghe di un’economia capitalistica, a riempire con “oggetti” . Che perdono assai velocemente il proprio valore, proprio per poter essere riacquistati in una nuova “versione”, più capace a renderci felici. Cioè tutti uguali. Senza personalità. Numeri di una massa indistinta, docile ad essere gestita da qualcun altro.
Ma c’è il Teatro a prendersi cura di noi: ridando valore al potere della “parola” e a quello dell’ “ascolto”. Poteri indispensabili per “realizzarci” con autentica soddisfazione: incuriosendoci a trovare di volta in volta la maniera più adeguata ad entrare “in relazione” con l’altro.
Che cosa rende una donna così insolita da risultare indecifrabile agli occhi di un uomo ?
La sua ingovernabilità: la donna è l’incarnazione della libertà, dell’estemporaneità, della volubilità.
Caratteristiche poco familiari alla psiche maschile, che per natura si muove con agio nelle categorie della “serialità” , del “fare squadra”.
E quindi se è vero che gli uomini tendono ad assomigliarsi fra loro, le donne sono dotate per natura di una psiche che le spinge invece ad essere ognuna “unica”, nella ricerca della propria espressione della categoria della libertà.
Ma non c’è niente di insormontabile: sarebbe sufficiente incuriosirsi l’un dell’altro divenendo “più elastici” verso le rispettive diversità. Questo il messaggio che fin dall’inizio del prologo lo spettacolo di Gabriela Alejandra Praticò non smette di veicolare. Perché la capacità a “rendersi duttili” è alla base della possibilità di “entrare in relazione” con l’altro: massima realizzazione della psiche umana. Maschile e Femminile.
Invece accade che laddove “la mente” femminile rischia di sfuggire alla decodifica maschile, il messaggio espresso dal suo “corpo” continui ad essere considerato inequivocabile. Certe fattezze non veicolano dubbi e un’impropria concezione della virilità finisce troppo spesso col degenerare in un’appropriazione indebita.
Ma la donna sa inventare continuamente nuovi “habiti” (modi di essere); sa indossare “tacchi su misura” per esplorare se stessa, come suggerito magnificamente dallo stesso nome che la compagnia ha scelto di darsi. E come non manca di ricordarci la vibrante interpretazione degli attori in scena: Lucia Ciardo, Floriana Corlito, Massimo Folgori, Elisa Mascia, Francesca Targa, Matilde Tursi. Una rievocazione di donne, la loro, che in diverse epoche storiche sono riuscite a fare dell’unicità della loro femminilità l’espressione originale della loro libertà. Nonostante siano dapprima passate attraverso la negazione del rispetto loro dovuto, o attraverso il mancato riconoscimento degli effettivi meriti delle loro capacità.
Uno spettacolo immersivo, che rompe continuamente la quarta parete e che – pur denunciando necessariamente atteggiamenti ancora impropri, ma perfezionabili attraverso un’accurata educazione sentimentale – emana una solidarietà, una complicità, un’umanità tali, da non escludere la possibilità di un prezioso coinvolgimento tra uomini e donne.
Uno spettacolo pulito, onesto, propositivo: energico e delicato, rispettoso e valorizzante, capace di “comunicare” attraverso un sapiente uso dei mezzi che il teatro mette a disposizione, senza indulgere nel “giudicare”.
Uno spettacolo che continua a solleticare il cuore e la mente dello spettatore, anche una volta usciti dal teatro.
Il sipario resta chiuso: il “Faust” non può essere rappresentato.
Se ne può parlare, però: Faust può essere analizzato, portando in scena quel che resta del suo condominio psichico. A noi in platea, il compito dell’ascolto terapeutico.
Obiettivo: evocare e rivivificare, attraverso la magia della parola, il diavolo (Mefistofele). Lui, oggi il grande assente, colui senza il quale il “Faust” non può essere rappresentato. Lui: il produttore, l’impresario. Lui, ora il ”rimosso”: colui nel quale nessuno più crede.
Leonardo Manzan
Questa volta Leonardo Manzan, sagace e mordace osservatore della realtà, immagina di portare in terapia il teatro: un teatro nel teatro dell’inconscio.
I protagonisti che manda in scena ricordano i pirandelliani personaggi non più in cerca d’autore, quanto di un produttore. Il loro linguaggio è pieno di figure retoriche, di metafore, di allegorie, di metonimie: di quell’enigmaticità colta e creativamente sporca, propria della lingua con cui si esprime il nostro mondo inconscio. Un mondo del quale non possiamo permetterci di fare a meno, pena il blocco creativo. E quindi la stasi generativa della realtà.
Un mondo che non va separato dal suo partner: la razionalità. Faust e Mefistofele hanno bisogno l’uno dell’altro: fertile è che tra loro ci sia un patto, una relazione dialettica. Ma Mefistofele è in crisi d’identità e l’autostima – come si sa – è un dono sociale. Che tira in causa anche noi, fruitori del teatro.
I personaggi di Manzan sono “satolli” di razionalità e carenti di vuoti creativi inconsci, necessari a far eruttare il desiderio. E non aria. Anche noi fruitori del teatro siamo un po’ satolli, un po’ indifferenti, e non a caso Manzan solletica il nostro desiderio ponendogli un fecondo limite: la barriera-transenna-censura delle postazioni dei personaggi in proscenio.
Ma soprattutto ci manca da morire l’apertura del sipario, che Manzan sceglie di tenere chiuso, privandoci del sogno. Regalandoci in cambio una mancanza che punge, che ci solletica, che solletica il nostro desiderio di azione, di cambiamento.
Noi uomini, come amava ripetere Hannah Arendt, non siamo fatti per morire ma per continuamente “incominciare”. E un modo per recuperare Mefistofele c’è: incominciando con il liberare l’opera-mondo del “Faust” da tutta l’articolazione monumentale con la quale è stata sapientemente costruita. E ripartire, come fece a suo tempo Goethe, dalla Favola del Faust.
Così come scenograficamente si riparte con un “avanspettacolo”: con un rito collettivo e terapeutico nel quale esce il troppo e si recupera l’essenziale.
Senza il diavolo non si va da nessuna parte: “siamo tutti troppo intelligenti per essere felici!”. L’indole umana vive infatti di antitesi, di contrasti, di contraddizioni vitali.
Ma cosa siamo disposti a fare per essere felici?
Uno spettacolo, questo di Leonardo Manzan – regista la cui cifra si identifica nel suo lavorare per estremi – che con entusiasmo e ironica spavalderia stimola una feconda crisi d’astinenza nello spettatore.
Uno spettacolo godibile attraverso vari livelli di lettura, perché la ricetta del suo “ragout” è variamente stratificata.
Uno spettacolo così curiosamente dirompente, da solleticare anche gli animi più atarassici, più satolli.
C’è qualcosa che rischia di essere spazzato via, di andare perduto.
C’è qualcosa che stiamo privando della sua “eccezionalità”, soppiantandolo con qualcosa di “utile”.
Ma cosa significa “utile”?
Diversamente dall’uso comune che siamo soliti attribuirle, la parola “utile” non allude tanto all’ “usare” e “all’essere usato”, quanto piuttosto al “rendere utile”.
Non si tratta quindi di una furbizia o di una sottomissione, quanto piuttosto di un’attività creativa. “Utile” non è solo una funzione economica ma anche un valore esistenziale, sociale e politico.
“Utile” è ciò che rende fertile qualcos’altro: la qualità della vita personale e comunitaria, ad esempio.
Ma come siamo arrivati a questo punto ?
Com’è che siamo arrivati a buttar via cose, pensando solo alla loro “utilità” economica?
Leonardo Lidi
Anche da queste domande si genera il “Progetto Čechov” di Leonardo Lidi: dalla sua urgenza di erede del passato, che desidera rendere onore alla tradizione. Per poi tradirla sapientemente, al fine di renderla vicina e d’ispirazione per il presente.
Un presente che, come ogni volta accade nei momenti di transizione, ci chiede di non sottrarci all’esigenza di rivalutare le nostre responsabilità, per poter affrontare fertilmente, insieme, i necessari cambiamenti.
Responsabilità vitali che il teatro da sempre – e con sempre nuove modalità – fotografa e racconta, mosso dall’urgenza di affrontarle.
Ecco allora che la penetrante sensibilità di Leonardo Lidi si mette al servizio di un’attiva presa di coscienza su come il passato – anche teatrale – può fornirci delle “utili “idee per affrontare periodi di particolare difficolta adattativa, che ciclicamente si presentano nel corso della storia.
“Il giardino dei ciliegi” regia di Leonardo Lidi
Quello che infatti accade ora ne “Il giardino dei ciliegi” è il risultato di qualcosa che si era già presentato ne “Il gabbiano” , che si era manifestato in “Zio Vanja” e che ora qui, nella terza opera della trilogia, produce i suoi effetti devastanti.
Acutamente Lidi già entrando in sala ci immerge in un’atmosfera scenica “barbarica”: qualcosa è passato a spazzare via quelle sedie che ne “Il gabbiano” erano allineate in fondo alla scena – in un dietro le quinte a vista – dove gli attori sedevano in attesa di entrare in scena.
Ora invece quello che lì era dietro (il futuro) è divenuto qui, ne “Il giardino dei ciliegi”, il presente. Ma gli attori, ognuno con il proprio ruolo e quindi con la propria responsabilità – proprio così come nella vita – hanno tardato ad agire. E ora quello che prima accoglieva la loro attesa è divenuto inaccogliente, visto che nessuno di loro ha considerato “utile” entrare in scena.
“Il gabbiano” regia di Leonardo Lidi
Quel presente che ne “Il gabbiano” era così aperto – e che veniva così ben rappresentato da una scena totalmente libera e quindi disponibile ad essere plasmata – già spaventava assai.
Perché è questo l’effetto che può farci la libertà: può non solo inebriarci ma anche angosciarci
“…Ti senti sola Con la tua libertà Ed è per questo Che tu Ritornerai…”
Lo spazio scenico, allora così ampio, era già un po’ troppo prudentemente vissuto. Ci si accalcava spesso tutti intorno a quella panchina, che ora ne “Il giardino dei ciliegi” scopriremo essere tornata sul fondo, laddove una volta erano le sedie degli attori in attesa di entrare e prendere il loro ruolo nella scena. Non solo teatrale. Per dare voce alla loro interpretazione del presente e quindi alla loro vocazione esistenziale.
“Zio Vanja” regia di Leonardo Lidi
Una prudenza che inizia a diventare terrore in “Zio Vanja” dove gli attori scelgono di muoversi in una scena presente, il cui sguardo è reso miope da un alto muro di legno. Sul quale si desidera aderire, quasi a restarne epidermicamente ed esistenzialmente incollati. Concedendosi giusto lo spazio per mantenere la postura seduta e quella eretta. E pochi passi di libertà.
Un presente “in campo corto”, dove ci si limita alla fisiologia del mangiare e del dormire. Ma soprattutto dove si beve molta vodka. Per mantenere ancora vivo un barlume di ardire in amore.
Ma continuando a restare paralizzati dalla libertà esplorativa offerta dal nuovo contesto storico in mutamento – quello tra 800 e 900 certo, ma così vicino anche al nostro – si finisce per ritrovarsi ancora in attesa di “debuttare”. Ancora alla prova. Anzi: ancora in attesa. Ma non c’è più nulla d’attendere, se non le conseguenze di una difficoltà sempre più atarassica ad affrontare i mutamenti.
Così facendo si finisce col perdere anche la preziosa relazione con la natura. Qui ne “Il giardino dei ciliegi” è impossibile non notare il trionfo della plastica sul legno. Un legno che resta solo come cielo di un passato che, come un deus ex macchina, a volte plana sul presente con le ali della nostalgia.
“Il giardino dei ciliegi” regia di Leonardo Lidi
“Il giardino dei ciliegi” regia di Leonardo Lidi
E quella plastica – apparentemente così economicamente “utile”, così fallace sinonimo di benessere e di democrazia dei consumi – arriva a contaminare anche i tessuti degli abiti di scena, seconda pelle di “habiti”, ovvero modi di fare e costumi etico-sociali. Laddove, infatti, ne “Il gabbiano” sopravviveva la preziosa naturalità del lino, che poi in “Zio Vanja” declina in cotone, qui ne “Il giardino dei ciliegi” diventa il trionfo del tessuto tecnico e quindi sintetico.
“Il gabbiano” regia di Leonardo Lidi
“Zio Vanja” regia di Leonardo Lidi
“Il giardino dei ciliegi” regia di Leonardo Lidi
Della stessa tragica involuzione Lidi ci rende partecipi anche attraverso il riflesso che questa produce sulla recitazione degli attori, sul loro diverso modo di esprimere lo stato di disagio.
Se infatti ne “Il gabbiano” il linguaggio espressivo conservava ancora una fertile malizia, che trovava una particolare forma musicale nei ritmi sostenuti – sebbene tentati dalla fuga nell’irrazionalità dell’assenza dei segni d’interpunzione, così come dei principi della logica- ; in “Zio Vanja” Lidi rende più perturbante l’incarnazione attoriale ed esistenziale spingendola verso un ondivago senso delle parole, esaltato per contrasto da una solida immobilità del corpo dell’attore, che si apre solo meccanicamente ad una rottura dei piani. Quasi burattini nelle mani del fato. Per poi arrivare qui, ne “Il giardino dei ciliegi”, ad assistere paradossalmente a come la paralisi d’azione abbia provocato una rottura quasi totale degli argini tra tragico e comico; tra riso e pianto; tra causa ed effetto. Anche la stessa arte medica ha perso la sua capacità terapeutica. E laddove la conoscenza di se stessi è maggiormente oscura, anche i generi si prestano a scivolare più fluidamente l’uno nell’altro.
“Il giardino dei ciliegi” regia di Leonardo Lidi
E così, quasi come un contrappasso, quella duttilità e quell’entusiasmo che di almeno un pizzico avrebbero potuto superare la paura dei cambiamenti, ora si scatenano in una fluidità indistinta. Che provoca, per reazione, il sorriso ma che, subito dopo, stringe la pancia dello spettatore in un giro di morsa.
Perché una Dunjasa che si ostina a rimanere giovane, rifiutando la responsabilità dei suoi anni racconta molto di noi, della nostra tendenza, ad esempio genitoriale, a farci complici dei nostri figli, più che loro testimoni del segreto di un sano desiderare.
Perché un Lopachin così subdolo ci ricorda il fare tipico da presentatore delle nostre amate televendite.
“Il giardino dei ciliegi” regia di Leonardo Lidi
Perché un First ridotto in sedia rotelle e a sua volta in sedia, ci parla di come anche noi oggi tendiamo a dimenticarci del nostro passato. E, così facendo, non possiamo se non condannarci a ripeterlo. Come provocatoriamente ci invita a cantare Lopachin:
“Ritornerai…
Ritroverai Tutte le cose che Tu non volevi Vedere intorno a te
E scoprirai Che nulla è cambiato
Che sono restato L’illuso di sempre…”
Perché la tensione a non modificarci è innata al nostro corredo genetico, orientato all’autoconservazione.
Perché ad affrontare con coraggio la libertà e i suoi mutamenti si impara. E solo poi, si può trasmetterla.
“Il giardino dei ciliegi” regia di Leonardo Lidi
Ma Lidi inserisce anche un alito di speranza. E lo fa, ad esempio, quando sceglie di ambientare la festa da ballo in un’atmosfera di denuncia e di ribellione, quale quella espressa dalla musica rap. Un genere e una filosofia che abbracciano elementi del rock, dell’elettronica e del jazz, dando vita a nuovi stili e a suoni unici.
Perchè questo di Leonardo Lidi è il compimento di una trilogia capace di “rendersi utile e di renderci utili ”. Grazie al suo spingerci verso una presa di coscienza : quella che precede l’audacia di difendere i valori che ci rendono creativamente umani; quella che ci stimola a cercare in noi e nella vita qualcosa di “utile”, cioè di creativamente interessante.
Perché quando scopriamo qualcosa che ci interessa scopriamo un legame “utile”, qualcosa che ci avvicina a qualcosa, o a qualcuno.
Perché l’interesse è la cifra dell’unione fra noi e tutto il mondo intorno.
Ed è un invito alla partecipazione e al coinvolgimento.
Applausi per “Il giardino dei ciliegi” di Leonardo Lidi
Senza interesse ci si accontenta di vivere in una squallida torre d’avorio, capaci solo di osservazioni distanti e distorte, evitando di calarsi davvero nella realtà per rendersi nodo solido di una rete.
Coerentemente il Teatro di Leonardo Lidi si dà come un teatro di attori inclini a riconoscere preferibile un desiderio di crescita e di testimonianza collettivo, piuttosto che miopemente individuale. Un teatro e uno stile di vita sociale e politico dove ciascuno è consapevole di splendere in quanto parte irrinunciabile di un tutto.
Un Teatro che non smette di divertire, pur non proponendosi mai come un teatro “innocuo”.
Sicuramente qualcosa che ci racconta visceralmente del nostro essere misteriosamente umani. Qualcosa che ha l’irresistibile afrore dell’arcaico sopraffare. Ma anche qualcosa della simbiotica tensione alla completezza, propria di una dimensione mitica. Quell’unità platonica che rendeva gli uomini simili a dei.
Ma quanto, di divino, noi umani siamo capaci a esprimere, a godere, a tollerare?
Quanto il nostro corpo finito riesce ad arginare quella scintilla divina, che tutti ci abita?
Qual è il nostro desiderio più profondo, più viscerale, più erotico ?
Quello di essere guardati, forse.
Perché essere guardati, con continua curiosità, ci fa esistere.
Perché guardare è intrigante non meno dell’essere guardati.
Perché ciò che davvero appaga costantemente la nostra folle scintilla divina, costretta a bruciare dentro i confini di un corpo, è il cimentarsi nell’apprendere l’arte di intessere una partitura di vuoti e di pieni epidermici. E’ l’arte di entrare in relazione con l’altro.
Andrea Baracco
Anche di questo ci parla la bellezza spietata di “Interno Abbado”, un testo di Andrea Baracco sul mistero di essere umani. Un testo che, oltre ad essere cucito sartorialmente come un noir, ci parla hegelianamente di come non ci sia niente di più profondo di quello che appare in superficie.
La cute in superficie e l’Io in profondità raccontano la stessa storia di assorbimento e di termoregolazione.
La cute in superficie e l’Io in profondità rappresentano un complesso àmbito di separazione-unione-comunicazione: con se stessi e con il resto del mondo.
La cute in superficie e l’Io in profondità rivelano i segreti l’una dell’altro: quei segreti sprofondati nel nostro inconscio, spesso propri del vissuto di un organismo, che soffre da così tanto tempo da non poterlo più nascondere.
Baracco cura callidamente anche la regia dello spettacolo e individua in Giandomenico Cupaiuolo l’interprete capace di incarnare e, a qualche livello, sublimare “la summa” delle esistenze interne ed esterne, che abitano questo racconto. Così come il nostro essere gettati al mondo.
Giandomenico Cupaiuolo
Il regista con elegante e tagliente acutezza si avvale poi di un’estensione fisica e metafisica alla “summa” delle esistenze del racconto: il suono di un particolare strumento musicale e la presenza scenica del suo interprete Edoardo Petretti.
Edoardo Petretti
Uno strumento musicale, la fisarmonica, che accende e infiamma l’anima. Ma che da sempre è considerato un pò troppo “pop” e quindi scarsamente preso in considerazione dai compositori classici (fatta eccezione per Čajkovskij , Verdi e pochi altri).
In verità, la fisarmonica è “uno strumento-orchestra” pieno di imprevedibili possibilità. Perfetto, anzi speciale, per questo testo di Baracco che è, tra le altre mille cose, anche un racconto sull’imprevedibilità umana.
Imprevedibilità resa con sapiente follia da un Giandomenico Cupaiuolo che si fa lui stesso “strumento musicale”. Il suo apparato respiratorio, quasi come un mantice, cerca e trova un respiro che riesce a far vibrare la scala delle “voci” delle sue esistenze.
Un respiro che si origina da una sorta di gocciolio: un suono indecifrabile, arcaico, magicamente animalesco ma non lontano da uno schioccare di lingua umano. E che poi si sviluppa attraverso la ricerca di una contrazione e di una apertura estensiva, necessari ad estrarre il potenziale sonoro dalle voci esistenziali che abitano “la summa” dei suoi personaggi. Ne parlano visivamente le sue spalle: “mantice nostalgico, amaramente umano, che tanto ha dell’animale triste…” per dirlo alla G. G.Marquez.
L’ampiezza di registro e di voci utilizzabili, unita ad una grande duttilità nelle dinamiche, nei modi di attacco e di articolazione del suono, fanno delle sue spalle un fulcro di sublime espressività timbrica e ritmica.
L’estro registico di Andrea Baracco è tale da rendere “strumento musicale” un corpo umano e “corpo umano” uno strumento musicale. Lo spettatore ne riceve in dono un incredibile senso di avventura, riccamente denso del brivido della scoperta.
Che cosa sappiamo in fondo di noi?
Siamo più o meno consapevoli di impiegare spesso tutta una vita a tenere a bada certi nostri inquieti slanci “interni”, attraverso “rassicuranti” rituali tra il sacro e il profano (come argutamente suggerisce la messa in scena del regista Baracco). Ma il lavoro di contenimento di una vita può rompere gli argini senza preavviso. E rivelare racconti stupefacenti di noi stessi.
Quel “the dark side of the moon” che può manifestarsi epifanicamente, ad esempio, quando quel certo nostro amore scompare come spuma tra le onde. E, di quello che è stato, non resta nulla nell’aria a ricordarci che siamo amabili perché siamo stati amati.
Quel “the dark side of the moon” che denuda un “interno”, fisico e psichico, imprevedibile. Sguardi e attenzioni, mancati o subiti, che qui ci si illude follemente di recuperare attraverso i mille occhi della pelle dell’altro.