
Quanto ci piace “vederci chiaro” nelle esperienze della vita?
Quanto è importante raggiungere questa condizione per poter alimentare in noi la sensazione di tenere tutto sotto controllo?

Fabio Condemi
Lo sguardo registico di Fabio Condemi intorno alla poetica di Roberto Bõlano sembra venirci incontro su questa esigenza esistenziale, che più o meno tutti ci accumuna.
E con la complicità artistica di Fabio Cherstich – che ne cura le scene, la drammaturgia delle immagini e i costumi – ci immerge fin da subito in un habitat minimalista, frammentato e iper controllato che si avvale della sinergia delle temperature offerte dalle tecniche cinematografiche.

Infatti, non solo in proscenio campeggia una macchina per la ripresa, ma la rappresentazione che si dà sulla scena viene riprodotta in diretta su un maxi schermo. Così da avere la possibilità di “leggere” la narrazione attraverso (almeno) altri due diversi sguardi: uno in primo piano e l’altro in campo medio-lungo. E laddove necessario anche in soggettiva, per entrare ancora di più nel punto di vista del personaggio. E perché “leggere è sempre più importante che scrivere”.

Rigorosamente “a vista” sono i contributi della drammaturgia delle luci e delle ombre. Affascinanti, calibratissimi effetti sanno rendere efficacemente il movimento emotivo, così come il muoversi nello spazio e nel tempo.
Ma, al di là di ogni lettura, il mistero connaturato alla vita resta, resiste. Sfugge all’umano controllo. E si dà in tutte le sue contraddizioni.
Ecco allora che da questo impianto dalla lucidità vivisezionante Condemi lascia emergere quello sguardo insieme feroce e lirico proprio del corpus poetico di Bõlano. E lo fa intrecciando quattro testi: Consigli di un discepolo di Jim Morrison a un fanatico di Joyce; 2666; Puttane assassine e Chiamate telefoniche. Dove – con acuto taglio registico – svela e cela il labirintico darsi di quelle che sono le ossessioni e i temi ricorrenti del grande autore cileno: la letteratura, la violenza, l’amore e il sesso.

Dove il bene e il male, la legge e la sua evasione, il deforme e il quotidiano, la storia e la letteratura, la realtà e la finzione, il comico e il tragico, il gioco e l’agonia si mescolano, si sovrappongono, si nascondono, per poi riemergere. Mostrando così ogni sfaccettatura, ogni possibilità: senza remore, senza paura, mettendo al centro di ogni cosa il linguaggio, la fantasia.
Perché così è la vita.
“La violenza, la vera violenza, non si può fuggire, o almeno non possiamo farlo noi, nati in America latina negli anni Cinquanta, noi che avevamo una ventina d’anni quando morì Salvador Allende”.

E’ questo tipo di mistero che interessa molto Bõlano. E la verità che rincorre è quella che prende forma dalla costruzione del suono delle frasi. A lui interessa l’inafferrabile, il punto in cui l’onirico incrocia il reale, l’attimo in cui la vita è attraversata dall’incubo e subito dopo raggiunta da un attimo di dolcezza.
Gli attori sulla scena – Anna Bisciari, Lorenzo Ciambrelli, Federico Fiocchetti, Vincenzo Grassi, Sofia Panizzi, Eros Pascale – sanno rendere con vibrante espressività e generosa accoglienza i personaggi di Bõlano, così complessi e insieme così necessariamente incompleti, per riuscire ad essere pronti a dare forma ad altre possibilità. E’ la violenza delle cose inespresse, delle realtà eventuali.

Uno spettacolo potentemente crepuscolare che ci permette di addentrarci nella mente pirotecnica di uno dei più grandi autori del Novecento, che ci rivela che proprio nel mistero, nel non sapere, nel non comprendere, c’è tutto quello che occorre per andare avanti.

Recensione di Sonia Remoli




