Io ed Elena

TEATRO TRASTEVERE, dall’11 al 13 Maggio 2023 –

Una madre, che ha ben poco di materno (una Donatella Busini che brilla in presenza scenica) ha dato vita ad una figlia, Elena, come un corpo irritante crea “la perla” e penetra la protezione ossea dell’ostrica senza poter essere espulso.

Donatella Busini (la madre) e Ornella Lorenzano (Elena, la figlia)

La perla è un trauma che si è trasformato in un gioiello raro e prezioso: Elena (un’incantevole Ornella Lorenzano ) il cui habitus così pieno di grazia tanto ricorda “La ragazza con l’orecchino di perla” di Vermeer, e che un po’ come quest’ultima è il simbolo della “riuscita”. Quella cioè di coloro che portano con dignità le loro sofferenze esibendole come perle, come se le lacrime del dolore si fossero trasformate in un quid d’insolita bellezza.

Johannes Vermeer (1665-1666) “La ragazza con l’orecchino di perla”

Questa gemma, la perla, simboleggia la capacità autocurativa della Psiche di fronte ad un’invasione dolorosa. È il prodotto dell’incontro tra agente invasore e invaso. L’anima può curare se stessa. Anche se affetta da una ” disgregazione del sé”. Ed è un mistero osservare quel segreto che è Psiche, che tende così spesso a nascondersi.

Ornella Lorenzano e Donatella Busini in una scena dello spettacolo “Io ed Elena” di Mauro Toscanelli

Quasi parti della personalità umana, la scena ripropone una parte sommersa, sottostante il palco (l’Es) e una parte emersa (l’Io e il Super Io) sul palco. Elena “abita” quasi esclusivamente piani inclinati, dal precario equilibrio; la madre spazi apparentemente stabili ma a ben guardare inclini a perdere la prepotente stabilità.

Donatella Busini in una scena dello spettacolo “Io e Elena” di Mauro Toscanelli

Sono spazi-altari di un’effimera bellezza da cui la madre non riesce a liberarsi, imprigionata com’è dentro questa ossessione per l’apparire. Pur consapevole della differenza che intercorre tra la foto che si inserisce in un profilo social e la realtà, continua ad accontentarsi di occasioni che in realtà, lunghi dall’essere veri incontri, si rivelano delusioni, a volte anche molto dolorose.

Ornella Lorenzano in una scena dello spettacolo “Io e Elena” di Mauro Toscanelli

Tenuta a distanza da una mamma che si aggrappa al narcisismo per riuscire a non crollare nella depressione, Elena trova consolazione attraverso le carezze (rubate) dai pennelli da trucco soliti accarezzare la pelle di sua mamma. Ma soprattutto la sua àncora immaginaria è rappresentata da un’amica fisica e metafisica: Blanche, un busto in pezza privo di braccia e gambe, “reincarnazione” della Blanche DuBois di “Un tram che si chiama desiderio” di Tennessee Williams.

Usignolo

Le parla e la pettina, quasi a voler riordinare i suoi pensieri, quasi a voler sciogliere i nodi che li imprigionano. Quasi a voler sciogliere e liberare i propri di capelli, imprigionati dentro una cuffia-turbante. Come farebbe un usignolo con il suo canto. Anche lui, non particolarmente socievole, canta al riparo da sguardi indiscreti e si intrattiene volentieri alla luce lunare. Si narra sia il custode degli incanti, degli amori nascosti e pericolosi. E che la sua dolce melodia sia un potente strumento di comunicazione capace di attirare l’amore attraverso l’amore. E così accadrà anche ad Elena e alla sua mamma.

Mauro Toscanelli, il regista

Dalla sinergica sensibilità del regista Mauro Toscanelli e dell’autrice Donatella Busini, prende vita, complice anche un’attenta drammaturgia musicale, uno spettacolo terapeutico che predispone e conduce con profonda gentilezza lo spettatore nei meandri della psiche umana e delle dinamiche tra una madre e una figlia.

Opera vincitrice:

Concorso letterario “Anima Mundi” 2020 e “Lago Gerundo” 2020

Opera finalista:

Concorso letterario “Ernesto Calindri” 2020 – sezione Donna

Opera menzionata al merito

come miglior dramma:

Teatro dei Marsi di Avezzano

Diario licenzioso di una cameriera

TEATROSOPHIA, 11 – 13 novembre 2022 –

E’ in una stazione, luogo dove s’incontrano vite (e metafora della vita che, come un treno, sfreccia tra paure, sogni e desideri) che noi incontriamo Célestine (un’ammaliante e profonda Giovanna Lombardi).

Lei è (apparentemente) l’unica protagonista del “Diario licenzioso di una cameriera”: emozionante adattamento del regista Gianni De Feo della pièce del rinomato drammaturgo Mario Moretti, che a sua volta adattò dal testo originale di Octave Mirbeau “Journal d’une femme de chambre“. 

Seduta, ma cangiante come i colori dei cieli dolci e piovosi della Normandia, Célestine aspetta di arrivare alla sua nuova destinazione lavorativa, al suo nuovo destino. È di una bellezza austera e sensuale: sembra uscita da un manifesto di Toulouse Lautrec (i costumi sono di Roberto Rinaldi).

Henri de Toulouse Lautrec, Divan Japonais – 1893-

Quando inizia a rivolgerci la parola siamo invasi dalla sua malizia. Ci arriva dalla sua voce golosa; dal suo corpo che si offre e si cela; dalla sua bocca così morbida e umida; dal suo tatto così avido di superfici da esporare.

Una scena del “Diario licenzioso di una cameriera ” di Gianni De Feo

E dai suoi gesti così in simbiosi con la musica. Ma sono i suoi occhi a stregarti e a portarti via con lei. Dovunque il suo capriccio decida di andare. Occhi che proiettano paure, eccitazioni, gioie. Occhi che sanno parlare anche in quei silenzi così potentemente densi. Nella malìa della sua narrazione, Célestine denuncia l’ipocrisia dei suoi datori di lavoro, appartenenti a quella borghesia che ostenta “case linde e pinte dietro facce disgustose”.

Una scena del “Diario licenzioso di una cameriera ” di Gianni De Feo

Lei presta servizio come cameriera e si descrive in una maniera che potrebbe farla risultare un’opportunista. Lo è. Anche. Ma non solo. Il suo non è un mero scambio di servizi. Lei “sa guardare”. Non solo con gli occhi ma anche con la mente. E con il cuore.

Una scena del “Diario licenzioso di una cameriera ” di Gianni De Feo

Ha la capacità di visualizzare anticipando gli eventi che la coinvolgono e poi la prontezza di sincronizzarvisi. Per questo quando ci parla degli uomini e delle donne che ha incontrato, lei “scatta” veri e propri “ritratti” umani. Non si accontenta di lavorare per vivere. Vuole “sentire”, piuttosto, cosa significa vivere. In quanti modi si può vivere. Quanto può essere seducentemente contraddittoria la vita.

Una scena del “Diario licenzioso di una cameriera ” di Gianni De Feo

Come può accadere di essere attratti dalla violenza che si mischia alla protezione e dalla malattia che è anche fonte zampillante di vita?

Eppure accade, se non ci si ferma sulla soglia delle ipocrite classificazioni borghesi. Perché se si ha davvero fame di vita, non si può non riconoscere che il bene non si dà mai disgiunto nettamente dal male. Giudicare non ha più senso, allora. E non è più vero, come aveva dichiarato inizialmente, che lei sia impenetrabile: che nulla la meravigli. Lei sa di essere “una donna che fa sangue”, che ha bisogno di sedurre e di essere sedotta. Sa che la sua luce è data dalle sue ombre e non teme di rivelarle, quando anche l’altro le fa dono di ciò che non ha.

Questo adattamento del “Diario licenzioso di una cameriera” di Gianni De Feo è uno spettacolo magnetico: un inaspettato viaggio emozionale . Merito di una regia curatissima, introspettiva e raffinatamente sfacciata. Le scene (di Roberto Rinaldi) sono semplici ma efficaci pennellate di ottimo gusto e il disegno luci, unito alla complicità delle scelte musicali, fonte diegetica: alcuni momenti sono costruiti su immagini scritte con la luce.