Recensione dello spettacolo REGINE DI CARTONE – di Marina Pizzi – regia Silvio Giordani

TEATRO MARCONI, dal 7 al 17 Novembre 2024

Chissà perché alla fine dello spettacolo – andato in scena ieri sera dal palco del Teatro Marconi – viene quasi da invidiare le tre barbone in scena. 

Che strano. Ma perché? Che cosa hanno in più?

Sanno entrare in relazione tra di loro, pur essendo molto diverse.

Sanno ascoltare e interessarsi davvero l’una dell’altra.

Sanno aiutarsi a vicenda nel decifrare la vita. 

Insomma: sono la testimonianza di una comunità ben riuscita. 

E quando arrivano ad esserne consapevoli anche loro, concordemente scelgono di strappare l’ultimo gruzzolo di soldi. 

Mirella Mazzeranghi (Tonta), Angiola Baggi (Regina), Maria Cristina Gionta (Ruvida)

(ph. Tommaso Le Pera)

Uno spettacolo che è una carezza in uno schiaffo (il testo è di Marina Pizzi, la regia di Silvio Giordani) : condizione necessaria per spingerci a riflettere. A non passare oltre. 

In fondo non sono mica persone così diverse da noi: sono intelligenti, belle, simpatiche. Brillanti, nonostante la polvere che le ricopre. E, come noi, insicure. 

Ma più sfortunate, perché abbandonate e lasciate ai margini: fuori dalla vita sociale “ufficiale”, fuori dalla loro famiglia di origine. A loro è toccata in sorte la realizzazione della paura che assilla tutti noi: rimanere soli dopo una disgrazia, un errore, una disavventura. Essere abbandonati. Per sempre. 

Marina Pizzi, l’autrice, scrive un testo davvero fascinoso: dapprima ti sequestra l’attenzione trascinandoti in una realtà surreale, quasi da teatro dell’assurdo. Tanto che le due barbone in scena, Regina e Tonta, ricordano quella tensione di “ansia, freddo buio e vuoto” anche di Vladimiro ed Estragone (“Aspettando Godot” di S. Beckett).

Mirella Mazzeranghi (Tonta), Angiola Baggi (Regina)

(ph. Tommaso Le Pera)

Poi però il loro Godot arriva, anche se non se ne rendono conto subito: è Ruvida. E’ lei quella che desidera più intensamente realizzare una nuova famiglia e quindi un’autentica comunità: una polis. 

Una realtà aggregativa con valori specifici e comuni, dove i componenti desiderano il bene comune della collettività stessa. Perché si sentono parte integrante ed insostituibile della comunità. A tal punto da applicare i principi della fratellanza a quelli della collettività extra-familiare. Nasce così un piccolo popolo unito, forte e vigoroso, che si riconosce nella comunità e si prende cura della stessa. 

E sembra alludere all’estinzione di questo tipo di popolo l’incipit con cui Regina (un’Angiola Baggi di una luminosa raffinatezza fantasmatica) apre lo spettacolo, quando dice: “Dov’è finito? Non può essere scomparso…”. “E’ una barbarie con i fiocchi” – aggiungerà Tonta. E ancora Regina: “mi piacerebbe cambiare odore”.  

Perché se avere un odore significa avere un’identità, volerlo cambiare allude ad un desiderio di evoluzione. Anche Tonta desidera qualcosa di simile (una dolcissima e acuta Mirella Mazzeranghi che al di là del suo definirsi campata in aria come un anacoluto è invece assai consapevole): lei ama i nastri e i lacci. Rossi. Ama i legami, ciò che unisce. Ma che può anche soffocare. Come purtroppo è successo a lei. Eppure vale sempre la pena riprovare, ricominciare.

Maria Cristina Gionta (Ruvida), Mirella Mazzeranghi (Tonta), Angiola Baggi (Regina)

(ph. Tommaso Le Pera)

Anzitutto restituendo il giusto potere alla “parola”: prima magia nelle mani dell’uomo. E’ la bellezza del racconto. E del raccontarsi: “non ho più nessuno da chiamare” – confida Regina a Tonta. Ma inaspettatamente nella loro dualità si fa spazio un terzo elemento. Lei è più giovane, più propositiva, solo apparentemente aggressiva: è Ruvida (una Maria Cristina Gionta efficacemente graffiante). 

“Colazione, pranzo o cena qui?” – è il suo modo di presentarsi, di chiedere permesso, di dare un ordine alla tentazione del disordine. Le altre due sono sospettose, sono tentate a chiudersi tra loro appoggiandosi l’una sull’altra. Ma poi Tonta ricorda a Regina che non è efficace “appoggiarsi” a qualcuno, perché se poi quel qualcuno si sposta, si cade e si resta soli. Meglio imparare a contare su se stessi pur stando insieme. E allora con un balzo Ruvida – tenendo a bada il suo fare felino: “Insieme qualsiasi cosa si affronta meglio, no?”.

Mirella Mazzeranghi (Tonta), Maria Cristina Gionta (Ruvida), Angiola Baggi (Regina)

(ph. Tommaso Le Pera)

Ed è sorprendente vedere come partendo da un piccolo nucleo si possa fondare una comunità su basi “solide”.

E il tema della “solidarietà” chiama in causa, oltre alla nostra educazione sentimentale, anche le nostre conoscenze di geometria.

Se infatti la “solidarietà” si fonda sul sostegno reciproco, in geometria ogni parte di un “solido” é tale perché tenuta salda da tutte le altre. Quando non ci curiamo di qualcuno in difficoltà, generiamo una faglia nel solido, che tale non è più. E’ l’aiuto reciproco il cemento del corpo in cui viviamo. Perché “una società solidale” è “una società solida”.

La sapiente e audace regia di Silvio Giordani porta in scena un tema scomodo, affrontato con quella giusta dose di mistero e di ironia, tale da predisporre lo spettatore ad un ascolto più denso.

Quindi solido.

E’ in scena al Teatro Marconi fino al 17 Novembre 2024.

Mirella Mazzeranghi, Maria Cristina Gionta, Angiola Baggi


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo DAIMON 4.0 – Identità in download – scritto da Maria Grazia Aurilio e Tiziana Sensi – regia Tiziana Sensi

TEATRO MARCONI, 30 Ottobre 2024 –

Per realizzarci davvero dobbiamo perderci; dobbiamo cioè scoprire e lasciarci guidare dal nostro daimon. 

Nel linguaggio comune siamo soliti dire: “Per cosa sei portato ?”. Ecco, il daimon è questo: ciò da cui siamo portati. Un’attitudine, un talento: qualcosa che ci rende speciali, diversi, unici. E ci fa stare bene con noi stessi. Ci realizza.

Nessuno è privo di daimon. Ma occorre cercarlo. E poi lasciarlo libero di esprimersi. E seguirlo. Come in una danza.

E’ quello che appassionatamente  la caleidoscopica Tiziana Sensi ha cercato di farci “sentire” ieri sera. E il bersaglio è stato centrato. 

“Sono così eccitata che mi sono persa”: con credibile naturalezza, in più occasioni nel corso della sua performance, la Sensi si è lasciata guidare da alcuni complici del suo daimon: Caterina, Flavio… . E allo spettatore arriva quella fresca autenticità che ti fa “credere” a quello che lei dice.  E decidi di seguirla: perché seguendo lei, arrivi dentro te stesso. E ti ritrovi. E ti conosci un po’ di più.

E’ qualcosa di diametralmente opposto ad una subdola manipolazione: perché la parola teatrale è generosa, è altruistica, è senza secondi fini. 

Perché il Teatro è epidermico: si è prossimi, si è in presenza. 

Ci si guarda negli occhi, a Teatro, ma non da dietro uno schermo. 

Ci si annusa. E l’olfatto è il nostro cervello più antico, ancestrale. E non mente. 

La Sensi frequentemente nel corso dello spettacolo sente l’esigenza di chiedere alla regia che si alzino le luci sulla platea: anche lei ha bisogno di vederci e di annusarci, al di là dello schermo delle ombre che necessariamente cade sul pubblico. 

A lei non importa la perfezione: lei è disposta a correre il rischio di interrompere ripetutamente lo spettacolo per saggiare le nostre reazioni. Ma in verità non è un’interruzione: è un dono quello che lei ci sta facendo. Cercando la nostra attenzione, ci offre la propria. Non le interessa “ballare da sola”: è “il passo a due” quello che vuole. E’ la relazione che cerca di costruire con noi, al di là di ogni egoico narcisismo.

La sua è l’espressione del fascino di essere umani: in bilico tra fragilità ed eccellenza. Quell’eccellenza che ci regala l’unicità del nostro daimon. 

Qualcosa di diametralmente diverso dalla perfezione “verticale” a cui ci fa credere di poter raggiungere il mondo dei social.  Quella magia di luci, di filtri, di fallaci proiezioni di una maestosità onnipotente, con cui la Sensi-Social apre lo spettacolo. E ci si presenta con un fascino da sortilegio in un prologo di sublime bellezza .

Tutta la drammaturgia (un lavoro a quattro mani tra Maria Grazia Aurilio – psicologa, psicoterapeuta – e la stessa Sensi) sa fondere la luminosità della narrazione all’austerità dei dati scientifici, che la Sensi porta in scena a testimonianza di ciò che, con eleganza preoccupata, porta all’attenzione dello spettatore.

E’ un particolare teatro di narrazione il suo che dà ospitalità ad ogni colore del proprio condominio vocale. Ne risulta un personaggio polimorfico, che racchiude in sé una pluralità di individualità.

Partendo dalla ricerca del suo personale daimon, Tiziana Sensi – in un continuo confronto temporale tra passato e presente – piuttosto che demonizzare l’era digitale avverte l’esigenza di tentare di recuperare ciò che di prezioso è andato perso.

Ad esempio, un’equilibrata considerazione del giudizio degli altri.

Gilles Deleuze (noto filosofo francese) sosteneva che il peggiore degli incubi è vivere la propria vita come sogno di un altro. Ed è una tentazione in cui ci viene facile cadere, fuorviati dal fatto che -sebbene conoscere il proprio daimon sia ossigeno vitale – incontrarlo può essere spaesante. Il nostro daimon ci parla infatti di ciò che spesso ancora non conosciamo di noi stessi. Ma non è un motivo valido per allontanarcene e cadere nella trappola di dedicarci alla realizzazione del desiderio che gli altri hanno su di noi. E’ vero: è più semplice e in più ci rende “amabili”. Ma è la magra consolazione che riceviamo per aver rinunciato al nostro potere: il potere creativo.

Ne consegue un pericoloso e progressivo raffreddamento del desiderare, che conduce alla depressione. Anche tra i giovani. 

Perché quel senso di “mancanza” così prezioso per continuare a desiderare creativamente si trasforma in “vuoto” sterile, in nichilismo: conseguenza del seguire un desiderio che non ci appartiene, quello di qualcun altro appunto, spesso nascosto dietro lo schermo di uno smartphone.

Perché se è vero – come è vero – che la vita umana ha bisogno di “appartenenza”, è altrettanto vero che quest’esigenza va equilibrata anche con un’adeguata dose di “erranza”. Senza preoccuparsi di sbagliare: fallire e incontrare una momentanea crisi è necessario per crescere. Per esserci conoscenza deve esserci “dubbio”. Che non è un deficit, come spesso siamo portati a credere, ma una preziosa occasione che ci apre ad incontrare una verità più profonda, parti di noi che ancora non conosciamo. 

Insomma avere dei dubbi non è da “sfigati” che rischiano l’emarginazione sociale, come vogliono farci credere. Tutt’altro: farsi delle domande significa disporre ancora del potere creativo del proprio daimon, senza abdicarvi per un’ingannevole prospettiva di inclusione, all’interno di una massa anonima, dove ciascuno per appartenervi deve aver rinunciato alla propria personalità. 

Il Teatro, oltre ad essere il luogo giusto per parlare consapevolmente delle perdite conseguenti all’abbandono del nostro daimon, è anche un luogo dove queste perdite possono essere riconquistate.

Per questo l’idea che persegue lo spettacolo di Tiziana Sensi si rivela preziosa e necessaria nel recuperare il valore irrinunciabile della nostra voce, del nostro corpo, del nostro tempo.

Fino a riappropriarci progressivamente anche del piacere generativo dell’Attesa.

Tiziana Sensi


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL GRANDE INGANNO – LA CENA DI VERMEER – di Maria Letizia Compatangelo – regia di Felice Della Corte

TEATRO MARCONI, dal 7 al 17 Marzo 2024

Che cos’è il talento ?

Che cosa significa non tradire il proprio talento ?

Un’appassionata risposta emerge dal fertile testo di Maria Letizia Compatangelo (Premio SIAE 2014 – sezione commedia; Premio Vallecorsi 2014; Vincitore della selezione EURODRAM 2016) messo in scena per la regia di Felice Della Corte.

L’autrice Maria Letizia Compatangelo

Infatti se è vero che Han van Meegeren (1889 -1947) è noto come uno dei più abili falsari d’arte del Novecento, merito della drammaturgia e della regia di questo spettacolo è quello di fare luce sulle circostanze che spinsero Han van Meegeren non tanto ad essere un falsario quanto piuttosto a non tradire il proprio talento di artista.

Il regista Felice Della Corte

La soluzione scenica scelta ricorda lo spazio teatrale “plastico“ inaugurato da uno scenografo contemporaneo al periodo storico in cui si svolge la vicenda: Adolphe Fraçois Appia (1862-1928). Uno spazio scenico essenziale, costruito intorno alla tridimensionalità dell’attore che sceglie di rinunciare ai dettagli naturalistici, per articolarsi in moduli che distinguono la scena su più livelli.

Il sipario si apre sui giorni che Han van Meegeren è costretto a vivere in carcere essendo stato accusato di collaborazionismo: vende infatti al generale nazista Hermann Göring “il falso” Vermeer Cristo e l’Adultera. Per questo dipinto il vicecancelliere del Terzo Reich cede al pittore ben centotrentasette quadri.

Han van Meegeren è interpretato con profonda credibilità da Mario Scaletta, che in un’interessante specularità tra arte e vita oltre ad essere attore e regista è restato fedele, proprio come il personaggio che interpreta, al suo istinto pittorico. E’ infatti tra i 100 artisti di Via Margutta a Roma e realizza mostre in tutta Italia, con notevole successo di pubblico e di critica. 

Felice della Corte (Joop Miller) e Mario Scaletta (Han van Meegeren)

In carcere avviene un incontro epifanico: quello tra Han van Meegeren e il capitano Joop Piller (è Felice Della Corte a renderne tutta l’acuta sensibilità).

Tra i due, al di là di una formalità dovuta alle circostanze, si accende una particolare empatia spirituale.  Entrambi hanno un rapporto speciale con la bellezza, di cui l’arte si fa tramite. Il loro è un sentire di “far parte di un racconto” iniziato da qualcun altro, di cui i quadri rappresentano “la selezione di una scena, di un singolo istante della rappresentazione”.

Sarà proprio Piller ad accorgersi del disperato slancio vitale che da sempre colora di sapore l’esistenza di Han. Un giovane di talento che – osteggiato inflessibilmente dal padre e quindi non riconosciuto nel suo sentire – scopre di dare il meglio di sé  esprimendosi creativamente non con un proprio stile ma “proseguendo il sentire” del suo pittore culto: Jan Vermeer (1632-1675). Quello che apparentemente può essere visto come un “baro” in verità è un “gioco” necessario esistenzialmente ad Han e prezioso artisticamente per l’umanità.

Mario Scaletta (Han van Meegeren) e Caterina Gramaglia (Louise, la giornalista)

Perché ciò che conta è non tradire il proprio desiderio, il proprio talento. Non arrendersi, non tradire l’eccitazione per la sublime indeterminatezza della tela bianca ma seguire le forme che il proprio sentire può assumere. E così, cercare continuamente come in “un tormento – confida Han a Piller – finché non è diventato un ritmo interno”.

Perché “la verità di un artista non è la sua identità… a meno che non esista più di una verità”.

Perché se la libertà dell’essere umano è regolata dal “limite”, quella dell’artista è spesso “eccedenza”. 

Tiziana Sensi (Joanna, la moglie di Han) e Mario Scaletta (Han van Meegeren)

A suggellare la bellezza dello spettacolo, di questo “racconto nel racconto”, si inseriscono le splendide “scene” relative alle visite in carcere della moglie di Han, Joanna (interpretata con raffinata complicità da Tiziana Sensi); l’entusiasmo composto di Louise (un’efficace Caterina Gramaglia), la giornalista che sceglie di farsi portavoce dell’autentico e generoso talento di Han e l’arringa del Presidente della Commissione Alleata Belle Arti (un appassionato Paolo Gasparini). 


Uno spettacolo intrigante.

Prezioso per i tanti spunti di riflessione che offre: in particolare il tema del del talento e delle forme che il suo sentire può assumere.

Caterina Gramaglia, Tiziana Sensi, Paolo Gasparini, Felice Della Corte e Mario Scaletta


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA STRADA ALL’ ALTEZZA DEGLI OCCHI di Donatella Diamanti – regia Luca Gaeta

TEATRO MARCONI, dal 18 al 28 Gennaio 2024 –

Nel seminterrato di una strada che ricorda “Via del Campo”, la strada di coloro che abitano gli orli della società , vive Pina: “la graziosa dai grandi occhi color di foglia” .

Un luogo che è anche uno stato della mente e una condizione psichica: quella di chi tenta di evitare il fuoco dell’inferno e insieme la monotonia del paradiso. 

Tiziana Sensi (Pina) e Mariano Gallo (Principessa)

È il mondo cantato da De André: un mondo definito malfamato dall’ipocrisia borghese ma permeato da pura autenticità. È il mondo a cui allude l’appassionata drammaturgia di Donatella Diamanti.

Pina (una Tiziana Sensi di malinconica ed ingenua bellezza) abita, ed e abitata, da un monolocale seminterrato, dove quel che resta della visibilità – consentita dal muro che occupa gran parte della vetrata – permette di vedere la strada all’altezza degli occhi. 

Un’ottica, e quindi uno sguardo, che ai più sfugge ma che rivela come si vive strisciando a terra e rischiando ad ogni istante di essere schiacciati. Metafora di un’umanità che vive ai margini della società. 

Tiziana Sensi (Pina)

Il pericolo di schiacciamento viene amplificato dalla sensazione provocata dal particolare posizionamento obliquo, anziché perpendicolare, della vetrata-tetto del seminterrato. Sensazione percepita e ritratta da Guido, il figlio di Pina, nei suoi disegni. 

La scena, così centrale in questo spettacolo diretto con profonda sensibilità dal regista Luca Gaeta, è magnificamente realizzata da Alessandro Chiti, che vi crea un habitat vitale di decadente poesia. 

Tiziana Sensi (Pina)

Pina sta scrivendo una lettera: la sua ultima lettera. Fatica a terminarla perchè il desiderio di vita riaffiora in lei prepotentemente, nonostante tutto: è il desiderio di prendersi cura degli altri ad “innaffiare” la sua densa malinconia. E poi ci sono i ricordi: quelli belli. Quelli che la legano a Guido, il suo amato bambino. 

Pina solo apparentemente sembra accontentarsi di un’esistenza “a mezza bocca” : di quelle che capisci e non capisci. Il suo autentico desiderio è quello di non rendere totalmente incomprensibile ciò che in realtà lei vuole “si legga” di se stessa.

Tiziana Sensi (Pina)

Il suo avvicinarsi sul confine dove la vita si incontra con la morte non denota la volontà di ‘decidere’, cioè di “tagliare” e quindi di separare la vita dalla morte. Non a caso il suo commiato termina con un “arrivederci” e non con un “addio”. È piuttosto invece come se desiderasse ancora una possibilità: quella capace di regalare una nuova “forma” (non più semi-oscurata e schiacciata) alla sua esistenza, grazie alla forza trasformativa che solo certi incontri sanno “accendere”.

Mariano Gallo (Principessa)

Ecco allora il manifestarsi di Principessa (un Mariano Gallo “dal sorriso tenero di verdefoglia” che non teme di correre verso “l’incanto dei desideri”) : una creatura così diversa da lei, eppure così capace di sintonizzarsi sulle sue frequenze. Così effervescente, eppure con un allure da pierrot liricamente struggente.

Quando si ritrova al cospetto di Pina ne è frastornata perchè: 

“lei ti guarda con un sorriso

non credevi che il paradiso

fosse solo lì al primo piano”

Mariano Gallo (Principessa ) e Tiziana Sensi (Pina)

Ma Pina è anche una donna che si affida ad una logica primitiva, infantile, che va al di là dei principi della logica. Per lei non esistono etichette per incasellare le cose e le persone in maniera definitiva (come invece tende a fare Principessa): lei va oltre il principio di identità e di non contraddizione. Le cose, i fatti, le persone, possono essere letti secondo diverse modalità. E lei ogni volta le fa esistere tutte, nominandole. E solo dopo, ne sceglie una. Guidata dal suo istinto. E così finisce per avvolgere Principessa in una selvaggia e tenera confusione gioiosa. 

Tiziana Sensi (Pina)

Principessa al contrario, per difesa, ha scelto di sorreggersi proprio grazie all’univocità delle definizioni della logica: vere e proprie etichette che lasciano Pina piuttosto stordita. 

Ma pur percorrendo strade esistenziali diverse, queste due “anime all’orlo” riescono a trovare quel sentiero che le fa incontrare e stare bene insieme. Fertilmente. Saranno proprio le loro ferite più o meno nascoste ad avvicinarle, ad incuriosirle a vedere le cose del mondo anche con lo sguardo dell’altra.

Mariano Gallo (Principessa)

Principessa ad esempio ha difficoltà con l’olfatto: il nostro cervello ancestrale. Dietro il suo altezzoso “schifarsi” si cela la difficoltà ad entrare in contatto con la natura più primitiva di sé. Non meno di Pina, anche lei chissà quante volte avrà pensato di farla finita. Ma poi di tutte le lettere di commiato ha finito per decidere di farne balze del suo “habitus”.

Efficacemente estrosa risulta allora la scelta della costumista Ilaria Ceccotti di ri-coprire Principessa con una sorta di vestaglia-soprabito sulla quale sembrano cucite, e insieme lasciate libere di balzare, le sue passate lettere di “arrivederci”. 

Tiziana Sensi si cala generosamente dentro il personaggio di Pina, dotata di una psiche così semplice eppure così straordinariamente ricca di contraddizioni, tessendo con questo complesso personaggio una trama di potente complicità. E lo spettatore ne avverte tutta la drammatica e primitiva bellezza. 

Mariano Gallo, proprio nell’andare “a correggere la fortuna”, trova il modo più adatto per farci dono di una preziosa possibilità: quella di poter avvertire epidermicamente, e quindi intimamente, quanto possa essere bella anche una natura così esuberantemente fragile, così ricca di femminile ma anche di maschile. Che si dà senza sbavature: in purezza. Limpida, proprio perché consapevolmente torbida. 

Uno spettacolo intimo: tragicamente comico. Uno spettacolo umano e divino: un viaggio interiore alla ricerca della nostra identità, del nostro sogno. Che attraversa “ingorghi di desideri” per poi godere del loro incanto.

Uno spettacolo che ci parla del nostro realizzarci come “anime salve”.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo L’IMPARATA di Roberto Iannucci – regia di Felice Della Corte

TEATRO MARCONI, dal 17 al 22 Ottobre 2023 –

Che cosa può succedere quando l’esterno, in questo caso il contesto sociale della criminalità organizzata, condiziona così prepotentemente le più intime dinamiche familiari? 

Cosa può succedere quando aderire al contesto sociale fa smarrire ad una madre il suo valore più profondo: quello di trasferire ad un figlio l’amore per la vita nonostante tutto ?

Quanto incide la crisi dell’etica pubblica nella crisi della famiglia?

Questo emozionante testo di Roberto Iannone narra infatti del dramma che si consuma all’interno di una famiglia che ha aderito all’etica camorrista. 

Felice Della Corte

La regia di Felice Della Corte ne esalta i chiaroscuri narrativi attraverso un interessante espressivismo linguistico-corporeo. Evidente è infatti il lavoro degli attori sulla parola e sul gesto: sulla loro voluta dilatazione o al contrario sulla loro estrema frammentazione compulsiva (deformazioni sottolineate anche dagli inserti musicali).

Da questo particolare connubio scaturisce un linguaggio espressivo che, al di là della suggestione propria del dialetto napoletano, si manifesta, proprio per il suo essere ricchissimo di suoni di origine onomatopeica, come una lingua quasi primitiva. Un po’ quella che Jaques Lacan chiamava “la lalangue”: una sorta di lallazione prelingistica matrice di tutte le altre lingue, che eccede dai codici di ogni linguaggio ma è in grado di descriverne i sentimenti.

Una lingua che si mescola al corpo e che da questo ne è tradotta. Perché non nasce come qualcosa che semplicemente “esce dal corpo” ma che si unisce ad esso nell’espressività. E che spesso attinge anche al mondo animale. È la stessa drammaturgia che invita a sottolinearlo. Un’umanità, quella in scena, quasi orwelliana dove la genuinità dei “maiali” è avvelenata da quella degli “scorfani”.

La drammaturgia narra, infatti, di un commesso viaggiatore di biancheria per la casa ( il “maiale”, un convincente Antonello Pascale ) che a sua insaputa si ritrova esso stesso ad essere “terreno” dell’espressione del potere che una madre e un figlio, subdoli rivali, si stanno contendendo.

In questo particolare frangente è la madre (una Teresa Del Vecchio dall’incantevole ambiguità) a concedere al commesso viaggiatore il permesso di frequentare la casa e quindi di entrare nei confini del quartiere, territorio di famiglia. La madre cioè continua, come quando il figlio era in prigione, a prendere lei stessa le decisioni da capo clan familiare.

Teresa del Vecchio

Vincenzo (un appassionato e appassionante Antonio Grosso) infatti è appena tornato a casa dopo aver scontato solo tre anni di reclusione anziché dieci, come prescritto. La madre, ma anche la moglie di Vincenzo ( un’accurata Marika De Chiara ), sospetta che il figlio “abbia cantato”: vergogna delle vergogne in ambito mafioso. E nell’attesa di averne le prove, prosegue nella gestione familiare del potere, marcando lei stessa il territorio e proteggendolo dall’infamia del disonore. Quando il figlio Vincenzo se ne accorge è ormai troppo tardi e non gli resta altro, per riconoscersi un’identità, se non esprimere il proprio potere “di nascosto”: sequestrando il commesso nel sotterraneo di casa. Ma il suo ruolo da carnefice è una guerra di nervi che non ha vere intenzioni criminali.

Antonio Grosso – Ritratti – 2014

Lo spettacolo prende avvio proprio da questo momento della storia, per proseguire in un intreccio avvincente che esplora il continuo mutare dei personaggi da vittime a carnefici. E gli attori in scena sanno restituirne la profonda densità.

Un mondo in apparenza molto solido ma in realtà fragilissimo quello proposto dall’ “organizzazione” che i camorristi napoletani definivano “Società della Umirtà”, alludendo alla difesa del “loro onore”: che consisteva nell’omertà (Umirtà). Codice malavitoso del silenzio e dell’obbligo a non parlare con la polizia degli affari interni all’organizzazione.

Ma non si può permette che per “onore” si intenda una ligia appartenenza ad una regola di oppressione. Non si può considerare l’onore come una losca affidabilità tenuta alta da chi ha le mani in pasta. L’onore deve essere il colore sensibile della morale, della solidarietà. Perché una società autenticamente solida è una società solidale.

Marika De Chiara, Antonio Grosso, Teresa Del Vecchio e Antonello Pascale

Per questo è importante che anche il Teatro partecipi alla costruzione di questa solidità solidale liberando le parole chiave della nostra umanità dall’inquinamento provocato in esse dal pervertimento del loro significato originario.

Questo spettacolo ne è un esempio.

Così come notare che in platea fossero presenti direttori artistici di altri teatri romani. Perché il Teatro, al di là di una sana competizione, resta un ambiente dove può esistere autentica condivisione.

Solidale.

In alto mare

TEATRO MARCONI, dal 17 al 19 Marzo 2023 –

Cosa scatta nella mente degli uomini pur di sopravvivere? Che può succedere in una comunità che si trova privata di uno dei bisogni primari: il cibo? La natura umana può tollerare soluzioni democratiche? La retorica, ovvero l’arte del parlare persuadendo, è davvero più democratica della polvere da sparo?

“Sto soffrendo! Lo capisci ?!” (bozzetto di Slawomir Mrozek)



Un microcosmo, quello descritto in questo pungente atto unico del drammaturgo polacco Slawomir Mrozek, fuori da ogni coordinata spazio-temporale e con personaggi manchevoli di un nome proprio ma identificabili con “una densità quantitativa” variamente interpretabile: Mrozek decide di chiamarli il piccolo, il medio e il grosso. Sono tre naufraghi che, avendo terminato le scorte di cibo, si trovano di fronte all’urgenza di decidere chi sarà il primo a sacrificarsi per essere mangiato. Così da garantire la sopravvivenza degli altri. 

Slawomir Mrozek, autore del testo “In alto mare”

Andrea Goracci, acutamente, sceglie per il suo debutto da regista un testo breve, intenso ed eternamente attuale: una situazione paradossale sì, ma preziosa per confrontarci con l’assurdo del quotidiano. E soprattutto con le contraddizioni della nostra natura umana. Vivere in un mondo di incertezze è difficile si sa; ma cosa siamo pronti ad aspettarci dal comportamento umano? Dall’umana follia?

Andrea Goracci, regista dello spettacolo “In alto mare”

La sublime bellezza di questo testo, preservata e valorizzata dall’adattamento di Andrea Goracci, è che si parte da presupposti verosimili, da situazioni apparentemente pacifiche, per arrivare – a fil di logica – verso conclusioni grottesche ed assurde. La narrazione, infatti, prende avvio e si snoda in un crescendo di criteri “democratici” per riuscire ad individuare “la giusta” vittima sacrificale. Feroce è constatare come proprio nella ricerca democratica si insinuino, dapprima semplicemente manifestandosi ma poi prendendo il sopravvento, atteggiamenti di umana disumanità.

“L’infanzia difficile, la guerra, l’occupazione sovietica e adesso tu?”
bozzetto di Slawomir Mrozek

Ed è proprio mettendo alla berlina i paradossi della società dell’homo sapiens, smontando quindi false certezze, che il testo di Slawomir Mrozek  riconsegna all’uomo la consapevolezza della necessità di un’interminabile ricerca della verità. Perché noi tendiamo a prendere poco in considerazione “la regola” secondo cui il risultato finale dei nostri sforzi, sia individuali che collettivi, si rivela spesso il contrario di quello che avevamo previsto. Il Piccolo, ad esempio, è il primo ad invocare la democrazia ma poi esige la propaganda e nella propaganda dichiara di essere “egoista”. E proprio per il suo egoismo pretende di non essere scelto come vittima sacrificale. 

Una scena dello spettacolo “In alto mare” diretto da Andrea Goracci

E’ una natura umana passivamente feroce e immersa in un’assurda incertezza vitale, quella che l’adattamento di Andrea Goracci, fedelmente alle intenzioni del testo originale, rende con profonda tragicità ma anche con abbondante ironia, a volte addirittura esilarante. Si tratta, però, di un umorismo surreale: necessario per rivelare le convinzioni distorte dei personaggi. E’ la risata angosciante dell’assurdo: mordente e corrosiva, irrinunciabile per descrivere i pericoli che si possono insinuare nel vivere comune dell’uomo moderno. Storicamente intorno agli anni ’60 in Polonia, a seguito di una serie di scioperi e rivolte a causa delle scorte di cibo e per lo sfruttamento sovietico, Wladyslaw Gomulka assume il potere e inizia una stalinizzazione controllata. Ma spesso, ed è questo l’intento più icastico del drammaturgo polacco, “stalinistico” è il nostro modo di fare quotidiano, quando ci arrocchiamo, cioè, in quel dispotismo delle nostre abitudini e dei nostri modi di pensare che culmina nella più perversa di tutte le dittature: quella autoimposta (nella quale si immolerà il Piccolo, ad esempio).

Una scena dello spettacolo “In alto mare” diretto da Andrea Goracci

Ecco allora che il riso, volutamente suscitatoci da Mrozek, in qualche modo costituisce un’arma formidabile per smascherare l’assurdo, riconoscerlo e affrontarlo con l’unico strumento possibile, anche se mai davvero risolutivo: la consapevolezza. Perché è davvero difficile essere umani.

Slawomir Mrozek, autore del testo “In alto mare”

Andrea Goracci riesce a confezionare un adattamento così come era nelle intenzioni dell’autore: Slawomir Mrozek anelava, infatti, che questo testo fosse rappresentato dando priorità assoluta alla precisione e alla chiarezza del senso logico delle battute, per aiutare lo spettatore a muoversi con agio nella profonda densità del testo. E così è avvenuto: il pubblico, prevalentemente giovane presente in sala ieri sera alla prima, è restato costantemente incollato alla rappresentazione di “trasparente” fruibilità.

Andrea Goracci, il regista dello spettacolo “In alto mare”

La scenografia, essenziale, curata ed efficace, nasce dall’estro ormai riconoscibile di Antonella Rebecchini e dall’importante artigianalità di Mattia Lampasona. I tre naufraghi Anania Amoroso (il medio), Livio Sapio (il grosso) e Luca Vergoni (il piccolo) si rivelano personaggi dotati di una significativa caratterizzazione e danno prova di riuscire a sostenere i giusti ritmi richiesti dal testo. Considerevole lo studio sul gesto. Sempre molto efficace la prossemica. Avvincente la resa a tutto tondo del personaggio del Postino (Andrea Meloni). Avvolta nel fascino di un colpo di scena, l’epifania del servo Giovanni (Riccardo Musto). I costumi (curati da Lucia Cipollini) regalano eleganza ed incisività alla realizzazione del quadro d’insieme.

Una pura formalità

TEATRO MARCONI, dal 23 al 26 Febbraio 2023 –

È un punto di fuga decentrato la vita, per noi che ci ostiniamo a passare gli anni che ci vengono concessi in sorte a “ricordare ciò che c’è da cancellare“. Con queste parole Giuseppe Tornatore sceglie di suggellare la chiusura dell’omonimo film al quale questa riduzione teatrale, diretta dal regista Roberto Belli, si ispira.

Scena finale del film “Una pura formalità” di Giuseppe Tornatore

E affida “la rivelazione” contenuta in esse al modulare “decentrato” del canto di Gerard Depardieu:

Ricordare,

ricordare è come un po’ morire

tu adesso lo sai perché tutto ritorna, anche se non vuoi

E scordare,

e scordare è più difficile

ora sai che è più difficile, se vuoi ricominciare…

(“Ricordare”, testo di Giuseppe Tornatore, musica di Ennio Morricone)

Intenzione del titolo, infatti, è quella di indurci, provocatoriamente, a pensare che la morte (così come la vita) non sia altro che una pura formalità agevolmente espletabile. Qualcosa di noioso magari, ma estremamente pulito, lineare. Così semplice e innocuo da divenire quasi inconsistente.

Roman Polanski e Gerard Depardieu in una scena del film “Una pura formalità” di Giuseppe Tornatore

Ma è davvero così ? E se invece fosse qualcosa di vischiosamente fangoso e pesantemente rammollito da una pioggia insinuante, ossessiva e disorientante ? Un diluvio che col tempo si modula in una sorta di stillicidio ? Stillicidio che, non a caso, abita davvero la scena (curata da Eleonora Scarponi): reali perdite d’acqua, infatti, s’insinuano dall’alto e, provvisoriamente convogliate in secchi, regalano al clima drammaturgico una sinistra e suadente musicalità dalla scomposta grazia.

Una delle scene iniziali del film “Una pura formalità” di Giuseppe Tornatore

Claudio Boccaccini, che siamo soliti conoscere e riconoscere dalle “regie di luce” che caratterizzano i suoi spettacoli, qui è anche l’interprete di Onoff, uno scrittore profondamente in crisi che una notte si ritrova a correre, vagando disorientato, sotto un diluvio di pioggia. Da qui prende avvio lo spettacolo. E desta grande stupore, una meraviglia che ammutolisce, l’intima adesione che Boccaccini riesce a trovare per “farsi personaggio”,  restituendoci tutta la grandezza epica di “un mito” in decadenza capace ancora, tuttavia, d’illuminarsi di una metafisica aura ieratica. E ci commuove. Profondamente. E proprio nel momento in cui riesce a farci mollare ogni resistenza, ci identifichiamo in lui. Nel suo destino, che è anche il nostro. Ed è catarsi.

Claudio Boccaccini è Onoff

Complice di tale incantesimo è anche quell’intesa profonda che riesce ad instaurare con un Commissario qual è quello interpretato da un elegante e calibrato Paolo Perinelli, dalla capacità maieuticamente socratica di “tarare” ciò che non serve. Sarà infatti attraverso l’arte di fare domande (solo apparentemente da Commissario di polizia) che permetterà il parto narrativo ed esistenziale di Onoff, costringendolo a riflettere sulla portata di quei concetti dati erroneamente per scontati e sulle contraddizioni in essi serbate.  Perché solo eliminando il troppo e il vano da ciò che Onoff pensa (e che ha deciso di ricordare), potrà aiutarlo nel conquistare una nuova, autentica e “centrata” consapevolezza di sé. 

Paolo Perinelli (il Commissario)

E da spettatori ci si ritrova ad immaginare che forse sarà su questo che, dopo la nostra morte, una volta condotti in una Stazione di Polizia-Purgatorio, qualcuno ci farà riflettere: su come va cercata la nostra autentica verità. 

Andrea Meloni (Andrè)

Il “quadro” registico “dipinto” dal regista Belli trova compiutezza anche attraverso i contributi interpretativi dei tre collaboratori del Commissario. Andrea Meloni sa regalare ai panni di André il dattilografo una poeticità capace di illuminare la subordinazione verso il Commissario di un intimo e quasi incontenibile trasporto ad accogliere il “fango umano” di Onoff.  Paolo Matteucci (il Capitano) e Riccardo Frezza (la Guardia) riescono a tratteggiare, con un’interessante nota di ambiguo zelo, due insolite figure di angelici aguzzini.

Riccardo Frezza (la Guardia) e Paolo Matteucci (il Capitano)

Il linguaggio delle luci, com’è nella cifra di Claudio Boccaccini, risulta disegnato in modo raffinato e profondo, tecnicamente sobrio ma virtuoso nelle metafore visive. E soprattutto risulta capace di generare toni narrativi estremamente coinvolgenti: tra suspense hitchcockiana e dialogo morale bergmaniano

Claudio Boccaccini

Ne deriva uno spettacolo intimo e insieme aperto al dubbio; generatore di stati d’animo disposti a conversare sui quesiti connaturati alla nostra condizione umana. Un’indagine sulla vita che approda alla scoperta che comprendere è più importante che condannare.

Ed è così che uno spettacolo diventa arte lirica visiva: danza tra musica ed immagini. Riuscendo ad attraversare la pelle dello spettatore per tatuarvisi come ricordo.

Il cast dello spettacolo “Una pura formalità” di Roberto Belli

Più vera del vero

TEATRO MARCONI, dal 29 dicembre 2022 all’8 Gennaio 2023 –

Che cosa è “normale” ? E siamo davvero sicuri che quello che desideriamo sia ciò che “ci sembra normale” ? Questo “il solletico” che l’adattamento di Felice della Corte, curatore della regia di questo spettacolo (oltre ad essere in scena nel ruolo di Giulio) sceglie di procurarci. E per farlo si affida alla complicità di Max Gazzè e del suo brano “Ti sembra normale”, colonna sonora dello spettacolo.

Felice Della Corte, regista dello spettacolo “Più vera del vero”

In una triangolazione che ricorda quella del “Cyrano de Bergerac” di Edmond Rostand , Franco, uomo annoiatamente sposato, regala al suo amico Giulio, single alla perenne ricerca di una donna “vera”,  un catalogo di modelli androidi RCA 222. Perfette riproduzioni di donne: dalla pelle calda;  “addomesticabili”  (attraverso l’immissione telematica delle specifiche comportamentali desiderate) e “adattabili” all’ambiente umano nel quale vengono inserite. Una soluzione perfetta, sembrerebbe. Straordinaria, anche se non troppo lontana dai risultati che la robotica potrebbe raggiungere.

Valentina Corti e Felice Della Corte in una scena dello spettacolo “Più vera del vero”

Ma al di là delle possibili future soluzioni tecnologiche, che cosa cerca un essere umano? Giulio è un uomo che, combattuto nella confusione tra “il darsi e il prendersi” tipico di ogni relazione, si travaglia sul “vero” significato dell’amore. Ma cosa significa “vero” ? Forse, normale? Forse, perfetto? E se invece significasse essere meravigliosamente fragili e quindi anche imprevedibili ? Se significasse essere disposti a tralignare dall’abituale ménage vitale? Fuori da ogni confortevole programmazione?

Valentina Corti e Felice Della Corte in una scena dello spettacolo “Più vera del vero”

Di quante attenzioni, dalle sfumature ordinarie e straordinarie, abbiamo bisogno? E cosa siamo disposti a fare per assaporarle? Questo l’apice emotivo che con commossa levità riesce a raggiungere questo spettacolo, curato da Felice Della Corte, partendo dal testo (nominato per il Premio Molière del 2002) di Martial Courcier .

Il testo originale di Martial Courcier che ha ispirato lo spettacolo “Più vera del vero”

Una commedia brillante, ironica e sensibile che riesce a toccare le corde più profonde dell’animo di chi vive lontano dalla sterile superficialità. Perché, come canta Max Gazzè, essere “vera” non significa conoscere tutto dell’altra: sono i “freni che sollevano i perché”  a rendere enigmatica ma tremendamente affascinante una relazione. 

Max Gazzè

Gli attori in scena sanno muoversi con naturalezza ed efficacia attraverso i contraddittori percorsi mentali ed emotivi che attraversano la nostra fragile umanità. E riescono a consegnarci, con il sorriso, un messaggio speciale per iniziare il Nuovo Anno.

Valentina Corti, la Cloè androide dello spettacolo “Più vera del vero”

Valentina Corti, attrice di talento che il pubblico ha potuto apprezzare in film e serie tv di successo, qui si cimenta in una difficile prova di gestione del corpo che convince. E ci trasferisce tutta la complessità del gestire la compresenza meccanica (ma anche umana) nel far dialogare presunzioni ed emozioni.

I due uomini che l’affiancano (Felice Della Corte nel ruolo di Giulio e Riccardo Graziosi nel ruolo di Franco) danno un’interessante prova dei labili confini che arginano la complicità maschile e dei diversi modi in cui può declinarsi la drammatica bellezza delle relazioni di coppia.

Lo spettacolo sarà in scena questa sera, accompagnato da un generoso brindisi di saluto al Nuovo Anno e poi ancora fino all’ 8 Gennaio 2023.

L’opera del fantasma

TEATRO MARCONI, dal 3 al 13 Novembre 2022 –

Negli accoglienti spazi del Teatro Marconi, ieri sera ci si è ritrovati per l’apertura della nuova stagione teatrale. Nel loro bistrot si è soliti colmare l’attesa dell’inizio dello spettacolo parlando di nuove e vecchie tendenze teatrali, fino a che non viene fatta sala e si scende in teatro.

In scena sei giovani attori volano con il ritmo e trascinano la platea con inesauribile energia.

Mettono in scena le assurde e strampalate vicende di una compagnia teatrale che durante l’allestimento del proprio spettacolo si trova ad assistere alla morte improvvisa del regista. Proprio lì, sulla scena. Ma in realtà il regista non li lascerà mai, restando tra loro in veste di fantasma-investigatore. E ne scoprirà delle belle !

Lo spettacolo è scritto (assieme a Mattia Marcucci) e diretto da Chiara Bonome, che è anche in scena come attrice.

Il loro è un recitare fatto di stop and go, di non-sense e di presenze che sono tali solo per gli spettatori (e non per gli attori). La tradizionale percezione dello spazio scenico lascia il passo quindi ad un interagire che non assomiglia a quello che avviene nella vita reale. Ne deriva uno spiazzamento esilarante, montato dentro un susseguirsi di situazioni cariche di ironia.

Una black comedy davvero brillante

Resterà in scena fino al 13 novembre p.v.

Recensione dello spettacolo USCITA D’EMERGENZA di Manlio Santanelli – regia di Claudio Boccaccini –

MARCONI TEATRO FESTIVAL, 30-31 Luglio 2022 –

Tra lampi sciabolanti, fumi ipnotici e compulsive “intermittenze del cuore” si apre in un crescendo parossistico l’ultima delle “tempeste” alla quale sono sopravvissuti gli esiliati Cirillo e Pacebbene. Rito psichico oltre che atmosferico nel quale i due si ritrovano a condividere un anfratto in muratura, in attesa di vedersi riconoscere “il posto” che loro spetterebbe. Sopravvivono giorno dopo giorno, a piccoli passi, rischiarati solo dai loro ieri.

Pacebbene e Cirillo

Ciascuno dei due vorrebbe essere “trovato” dall’altro ma nessuno dei due si accorge che, a qualche livello, ciò sta avvenendo. E quasi come per contrappasso alla furiosa lentezza che li abita, i due comunicano attraverso una lingua tutta loro, a tratti “irraggiungibile” per il pubblico. Spiazzamento che il sagace regista Claudio Boccaccini sceglie di insinuare nello spettatore (alla maniera di Artaud) affinché l’attenzione si indirizzi sulla verbalità, invece eloquentissima, dei gesti, delle posture e delle espressioni dei due attori.

Claudio Boccaccini

Disperatamente e inconsapevolmente, Cirillo e Pacebbene, i due sfrattati da tutto, “trovano” casa ciascuno nell’altro proprio perché sono loro “la casa”: quell’ “edificio senza fondamenta”, qual è la vita stessa. Il loro rifugio si è dissolto e continuerà a dissolversi “come la scena priva di sostanza, senza lasciare traccia”. Perché sono “della materia di cui son fatti i sogni”. E la loro vita, così come la nostra, “è circondata da un sonno”.

Le cui oscillazioni, non solo bradisismiche, sono come le braccia di chi sta cercando di risvegliarci da un sonno che è arrivato il momento di terminare. Per ricominciare: ogni giorno, tutti i giorni. Claudio Boccaccini, con il suo particolare lavoro di regia, riesce ad evidenziare dal testo di Manlio Santanelli tutto il carattere shakesperiano in esso contenuto. E ne fa un inno al Teatro che, in maniera unica, sa portare lo spettatore dentro la vita, “un’ombra che cammina”, servendosi di due attori, “pieni di frastuono e di foga” che, a loro modo, strisciano sul tempo “fino all’ultima sillaba”.

Per quasi tutto lo spettacolo i due si punzecchiano, si minacciano, si spiano, si nascondono mascherandosi, solo per insinuarsi morbosamente, a vicenda, quel dubbio che finisce per renderli simbioticamente inseparabili: “ma tu, mi puoi perdere? puoi davvero stare senza di me?”. Perché restare soli significherebbe allenarsi a morire. Meglio allora sacrificarsi e godere del sacrificio, inconsapevoli che le cose che non accadono hanno effetti reali come quelle che accadono. Abitati come siamo da una forza che ci supera.

Registicamente geniale “la scena della farina”, che mescola e impasta la sacralità di una cerimonia eucaristica, all’alchemicità di un rituale magico. Tra esalazioni di farina e colpi di matterello, Pacebbene inserisce nel suo crogiuolo di farina ciò che non riesce ad unire in altro modo. Separando e poi riunendo gli elementi: quasi un erede del Prospero de “La tempesta” di W. Shakespeare.

Gli attori (che sembrano usciti dal quadro di Pieter Bruegel il Vecchio “Lotta tra Carnevale e Quaresima”) danno prova di una grande padronanza della scena. Il pubblico, riconoscendo loro fiducia, si lascia trasportare ripetutamente “dalle oscillazioni” che virano dal riso alla riflessione, erompendo a fine spettacolo in un fragoroso applauso. Felice Della Corte, un poeticamente trascendente Cirillo e Roberto D’Alessandro, un divinamente immanente Pacebbene sanno scavare nell’intimità di piccole manie quotidiano-esistenziali e in rituali disperati, senza mai dimenticare l’indicazione registica di rendere anche la vena comica del testo. 

Pieter Bruegel il Vecchio, “Lotta tra Carnevale e Quaresima” (particolare)

Nel fedele rispetto dell’intenzione, dell’autore Manlio Santanelli, di veicolare il senso del “tragico” con la forza spiazzante dell’ironia e del paradosso.

Manlio Santanelli


Recensione di Sonia Remoli