Con queste parole Eduardo De Filippo decide di farci conoscere il titolo del romanzo che zia Memé sta scrivendo con l’aiuto del Dott. Cefercola.
Eduardo De Filippo
Memé – scissa tra una maternità iperprotettiva e una femminilità d’avanguardia – è donna che non si accontenta rassegnata e soddisfatta. Piuttosto è alla continua ricerca di conoscere se stessa, per un bisogno irrinunciabile di sentirsi viva, piena di entusiasmo.
Il suo romanzo è infatti una sorta di autobiografia che si propone di trasformare il caos “dei ricordi, delle impressioni, delle delusioni, delle rinunzie” in una narrazione. Stimolando così in lei un processo interiore di autoconsapevolezza tale da permetterle di dare un senso alla propria esistenza, ridefinire la propria identità, elaborare il passato e connettersi più profondamente con sé stessa e con gli altri.
E’ lei, zia Memé (qui una sapientemente umana Anita Bartolucci) il punto di riferimento della famiglia, quando si tratta di capire come meglio relazionarsi l’uno all’altro.
La zia dichiara infatti che, sebbene nella sua vita inevitabilmente ci siano state delle rinunce, “la mia vita è stata una vita felice, o per lo meno ho fatto tutto il possibile per farla essere come volevo io”.
Quindi, a qualche livello, Eduardo De Filippo ci sta dicendo che si può essere felici, “sì, ma ci vuole coraggio”.
Teresa Saponangelo (Rosa Priore) – Claudio Di Palma (Peppino Priore)
Perché ci vuole coraggio per aprirsi fino a fare “esodo” dal nostro egoismo, per diventare “prossimo” dell’altro. Superando le barriere dell’incomunicabilità e della diffidenza.
Coraggio che sfugge, a volte, a Peppino (qui un luminosamente inquieto Claudio De Palma). Il quale nei momenti in cui tenta di entrare in relazione con qualcuno, soprattutto con sua moglie Rosa (qui una Teresa Saponangelo di vertiginosa bellezza), si sente “invaso” da immaginifiche presenze. Tanto da reagire sentendo l’urgenza ossessiva di “chiudere gli occhi” a tutte le finestre. Come a tenere fuori tutti gli sguardi su di lui.
Ci vuole coraggio allora anche a restare in ascolto dell’altro per la sua unicità, fatta di fragilità. Entrare in relazione significa infatti farsi luogo di creazione di significato. Luogo che trascende la semplice connessione, per trasformarsi in un percorso di cura reciproca, di scoperta di sé e quindi di superamento del proprio egoismo.
Rossella De Martino(Virginia, cameriera), Paolo Serra (Luigi Ianniello), Teresa Saponangelo (Rosa Priore)
(ph. Tommaso Le Pera)
E poi ci vuole coraggio anche a tirar fuori “le amarezze” o, ancor meglio, a discuterne con l’altro non appena si palesino. Al di là dell’angoscia di essere esclusi dal suo sguardo e dalle sue attenzioni. Senza reagire solo in difesa, ma anche in avanscoperta. Aprendosi all’intimità di un dialogo: “Noi – dirà Peppino sul finale a sua moglie Rosa – io e te, siamo stati tanti anni insieme, abbiamo fatto tre figli, e non siamo riusciti a raggiungere quell’intimità che ti fa dire pane al pane, vino al vino”.
Il coraggio di cui ci parla Eduardo si relaziona con la paura, che può essere saggia, e diventa l’intervento umano che supera l’istinto. Perché qualcosa di luminoso lo chiede, da dentro di noi.
Luca De Fusco
(ph. Tommaso Le Pera)
Profondamente acuta la scelta registica di Luca De Fusco di valorizzare questa tensione tra dentro e fuori, tra conosciuto e sconosciuto, tra sè e altro da sè, visualizzandola attraverso lo spazio scenico -fisico e metaforico- del balcone.
Uno spazio che rappresenta il confine tra pubblico e privato: un elemento di transizione tra interno ed esterno, tra passato e futuro. Che funge da specchio per le emozioni e le aspirazioni umane: dalla celebrazione dell’amore romantico, alla rappresentazione della malinconia esistenziale. La cura delle scene e dei costumi è di Marta Crisolini Malatesta.
(ph. Tommaso Le Pera)
Icastica la scena di apertura dello spettacolo con i protagonisti – tranne Rosa e Virginia intente nel laboratorio alchemico della cucina – prossemicamente “in relazione” sulla soglia del balcone di casa Priore. Chi immergendosi, chi sfuggendo, la luce surreale del proprio sé più intimo e inconscio (la cura della drammaturgia delle luci è di Gigi Saccomandi). Tutti sotto un cielo azzurro, abitato da nuvole che parlano di impermanenza, di trasformazione, di mutevolezza. Ma anche di libertà.
Non a caso “Sabato, domenica e lunedì “ è una commedia che Eduardo inserisce nella “Cantata dei giorni dispari”: una raccolta di commedie – scritte dal 1945 al 1973 – dove i “giorni dispari” sono quelli negativi, quelli legati a ciò che resta della realtà sociale, dopo le distruzioni materiali e morali causate dalla guerra.
E la prima forma di socialità ad essere analizzata è proprio quella della famiglia – specchio dei cambiamenti sociali – mostrando la frammentazione del nucleo patriarcale, i conflitti generazionali, il difficile rapporto tra padri e figli. Ed evidenziando come l’unità familiare possa sgretolarsi sotto il peso di tensioni individuali e sociali, riflesso anche del disagio di un’epoca.
Qui in“Sabato, Domenica e Lunedì” Eduardo, con la sua sapiente cifra stilistica dolce-amara, lascia emergere dai toni della commedia temi di rilevanza sociale, come ad esempio il mito del lavoro e il suo efficientismo sterile, che finisce per svuotare e rendere gli uomini spaesati di fronte alla gestione del tempo libero. E ancora, la seduzione della pubblicità e la sua ipocrita fidelizzazione attraverso concorsi a premi.
E poi la crisi dei padri, quasi infastiditi dalle scelte dei propri figli: dal farsi testimoni creativi – e quindi anche critici – dell’eredità paterna. Padri che fanno fatica “a saper tramontare”, ovvero a lasciare spazio ai figli, ritirandosi dal centro della scena per permettere loro di crearsi una propria identità. Senza rimanere ingombranti.
(ph. Tommaso Le Pera)
Perché la famiglia è un pò come il ragù, sembra volerci dire Eduardo.
E’ una ritualità che si fonda sulla cura e sul saper attendere.
E’ un incontro sempre uguale e sempre nuovo da condividere.
Teresa Saponangelo (Rosa Priore)
(ph. Tommaso Le Pera)
La lunga e lenta cottura del ragù è infatti metafora della cura e del tempo da dedicare alla relazione con l’altro. Un atto d’amore che non si dà una volta per tutte, ma che chiede di rinnovarsi continuamente. Ogni volta. Lo stesso termine “ragù” – derivando dal francese “ragoût” e a sua volta dal verbo “ragoûter” – significa “risvegliare l’appetito” o “ravvivare il gusto”.
Non a caso Rosa sottolinea l’importanza di un ingrediente “scomodo” come la cipolla. Una pungente amarezza il cui segreto è – quando soffriggendo lentamente si consuma fino a creare intorno al pezzo di carne una specie di crosta nera – versarvi sopra il quantitativo necessario di vino bianco, cosicché la crosta si sciolga fino ad ottenere “quella sostanza dorata e caramellosa che si amalgama con la conserva di pomodoro. E si ottiene quella salsa densa e compatta che diventa di un colore palissandro scuro, quando il vero ragù è riuscito alla perfezione”.
Claudio Di Palma (Peppino Priore)
(ph. Tommaso Le Pera)
Quell’amarezza inevitabile anche in una relazione di coppia, o familiare, che richiede di essere annaffiata da un generoso versare di parole a chiarimento. Per tirar fuori da questa amarezza quel caramello che poi si sposa magnificamente con la passionalità creativa.
E invece Rosa e Peppino è almeno da quattro mesi che si soffriggono nell’amarezza, senza versare neanche un filo di parole sull’accaduto. Ne risulta che Peppino ha perso il suo appetito, facendosi possedere dal “quel mostro dagli occhi verdi” della gelosia e lasciandosi “fare dalla Luna”, che “quando si avvicina troppo alla terra fa impazzire gli uomini”. E Rosa si sta caricando di rabbia, come una molla pronta a saltare fuori dalla scatola, che ancora la contiene, fino a spegnersi dolorosamente.
Al malcelato rancore che fatica a liquefarsi tra Rosa e Peppino e che finirà per far “attaccare” la loro relazione alle pareti del contenitore familiare, si somma una lunga “pippiatura”.
Mersilia Sokoli (Giulianella)
Una fase cioè di lentissima cottura delle “varie specie di carni”, rappresentata dall’esuberante vitalità inquieta dei figli e di un nonno tutti in bilico tra la tentazione a replicare l’imprinting familiare e la voglia di inserirsi nel futuro; la zia Memé che sublima la sua iper protezione verso il figlio con la passione per i libri e per l’emancipazione femminile; la generosa espansività dei vicini di casa Ianniello; una cameriera con la croce di un fratello traumatizzato dagli orrori della guerra e uno zio che alla fragranza del ragù preferisce le tavole del teatro.
Il regista De Fusco sa lasciar parlare il testo di Eduardo De Filippo in tutta la sua valenza carica di sfumature, restituendo ed interpretando quel “fermento contestatario, quell’anticipazione dell’avvento del divorzio in Italia, quell’apparente fusione di finti rapporti cordiali in una famiglia, in cui convivono i rappresentanti di tre generazioni” ( Eduardo De Filippo sul «Roma» del 7 maggio 1969).
Ma soprattutto la regia di De Fusco veicola efficacemente quella calda e pungente sensazione che, solo entrando in una “relazione” amorosa, due persone possono restare unite: non per il matrimonio e nemmeno per i figli.
Piuttosto per quel desiderare ancora una volta un nuovo inizio, che si genera quando l’esuberante amarezza trova un varco nell’intimità del dialogo: in “un affacciarsi”, che tiene l’altro negli occhi. Anche dopo che scompare alla vista.
Maria Cristina Gionta (Elena)
Lo spettacolo di De Fusco si avvale della complicità di un folto cast attoriale accordatissimo,
che brilla e commuove nel restituire la sensazione di come noi umani – al di là delle più disparate differenze sociali e culturali – si vive tutti di attenzioni e di sguardi.
Altrimenti è come non esistere, è come essere invisibili.
“Ma mannaggia la morte fetente: ma perché la gente non capisce mai per conto suo quello che può essere il desiderio di una persona e l’accontenta subito, senza costringere questo disgraziato ad usare la forza per ottenere quello che gli spetterebbe di diritto?”.
Francesco Biscione (Antonio Piscopo, padre di Rosa)
Si apre come un diario il prologo di questo spettacolo del regista Giacomo Bisordi, per confidarci la genesi del suo lavoro di ricerca sul darsi del desiderio nella società, soprattutto nei periodi di crisi.
Infatti se il desiderio è quanto di più soggettivo e singolare possa esserci – l’uomo è il suo desiderio – di conseguenza il desiderio è anche ciò che si rende meno adattabile e omologabile alle richieste della società in cui vive, dove la norma sociale parla alla collettività, è per tutti.
Il desiderio quindi è anche l’espressione di quel “disagio della civilta” di cui parlava Freud e di cui Misura per misura di W. Shakespeare è un esempio emblematico.
Giacomo Bisordi
Succede infatti, sopratutto quando salta in aria l’ordine a cui abbiamo creduto di dar forma stabile – degenerando in un disordine tale da rendere palpabile il senso di fine imminente – che prorompa in noi, per reazione, una potente spinta vitale del desiderio, di cui non si conosce “la portata e la natura”.
Qualcosa di simile si verificò nella Vienna in cui Shakespeare ambienta questa commedia oscura, con alle porte la guerra. Ma qualcosa di simile si verificò anche, più recentemente, in occasione della pandemia.
Succede cioè una sorta di applicazione del principio “misura per misura” tra amore e morte, tra eros e thanatos, che fa fatica a trovare un equilibrio. E che scoperchia un nostro autentico modo di stare al mondo, in un’insolita sintonia con la natura.
(ph. Manuela Giusto)
Mettere in scena personaggi così ambigui e contraddittori risulta destabilizzante per lo spettatore. Ma proprio questa sensazione Bisordi, seguendo creativamente Shakespeare, desidera insufflare nel pubblico, avvalendosi della collaborazione di una giovane donna, interprete e traduttrice delle forme del desiderio umano. Un po’ come la Madama Sfondata di Shakespeare.
Un lavoro “a quattro mani” il loro, per rileggere il testo shakespeariano, qui tradotto e adattato dalla fine e poetica sensibilità di Chiara Lagani. Che riesce a restituire nel passaggio da una lingua all’altra – come in uno specchio – la caduta di esseri umani magnificamente mostruosi, sulla superficie scivolosa della vita.
Chiara Lagani
Bisordi allora lascia come cadere a terra le pagine del diario, rese in scena da un telo impermeabile: metafora di un nostro atteggiamento incline a rendere impermeabile la mente dal corpo, il dovere dal volere. Anziché cercare sempre nuovi modi di tenerli in relazione.
La caduta di questo telo rivela “un non luogo” fisico: la Vienna alle cui porte incombe la guerra e di cui in lontananza si sente l’eco di un bombardamento, reso suggestivamente da un motivo di musica techno. Una Vienna che è anche un luogo mentale: la mente del Duca Vincenzo (le scene e le luci sono di Marco Giusti).
Un sovrano che ha scelto di de-regolamentare il desiderare di ciascun cittadino, togliendo efficacia creativa ai limiti che le Leggi mettono al desiderio individuale “di essere tutto e di volere tutto”.
Un siffatto modo di fare ha prodotto un decadimento tale del desiderio, che il Duca stesso anziché trovare il modo per rimediare creativamente ai propri errori, sceglie di fingere di assentarsi e di affidare pro-tempore la gestione della città all’intransigenza di un vicario. Per godere nel vedere come i cittadini lo avrebbero odiato: un desiderio narcisistico-voyeristico di chi preferisce eccedere nella clemenza, per un proprio ritorno personale d’immagine.
(ph. Manuela Giusto)
Il passaggio di consegne al Vicario Angelo avviene in questo spazio privo di coordinate, dove campeggia – libero anche dal vincolo della forza di gravità – il luogo della liberazione corporale. Bisordi lo visualizza in un bagno chimico, simbolicamente luogo delle soluzioni temporanee per necessità primarie.
Per far arrivare subito allo spettatore la sensazione dell’incapacità di Angelo di relazionarsi con gli altri, chiuso com’è nel rigore delle sue regole, Bisordi sceglie non solo di ri-vestirlo di un impermeabile ma anche di mettergli in bocca un’altra lingua.
Il primo segno che il vicario Angelo imprime al suo governare è dare forma ad una bilancia, convinto di poter trovare un equilibrio nell’applicazione del principio “misura per misura”. Un equilibrio disumano, non meno di quello opposto, scelto dal Duca Vincenzo.
(ph. Manuela Giusto)
Ostinandosi, poi, a voler condurre la propria amministrazione seguendo la linearità delle regole, Angelo dimostra, a differenza del Duca, di non conoscere affatto le contraddizioni dell’animo umano e di quanto l’irrazionalità superi in potenza la razionalità. Su questa linearità mentale crea urbanisticamente anche il suo spazio fisico. Ma il terreno sul quale edifica non è solido: affonda.
(ph. Manuela Giusto)
E poi c’è lei: Isabella.
Isabella è la sorella di Claudio, che Angelo con il suo criterio iper rigoroso del “misura per misura” ha condannato a morte per aver messo incinta una donna fuori dal matrimonio. Claudio chiede allora alla sorella di convincere Angelo a cambiare idea. Lei sta per prendere i voti per diventare suora ma “nella sua giovane presenza c’è un certo muto e sommesso linguaggio ch’ha la virtù d’intenerire gli uomini”.
Infatti la prima cosa che Isabella fa quando Lucio, un amico di suo fratello, l’avvisa di andare da Angelo, è quella di entrare in sintonia con lui preparandosi a parlare la sua stessa lingua. E poi gli rivela qual è il suo desiderio e perché Angelo deve esaudirlo.
(ph. Manuela Giusto)
E così, in un gioco di specchi, lei gli confida di sentire spinte contrastanti che dividono il suo sentire tra il dovere e il volere. E che anche lui “se volesse”, potrebbe concedere la grazia a suo fratello.
Nei pensieri prefabbricati di Angelo, “uno che nelle vene non ha sangue, ma neve liquefatta”, qualcosa inizia a vacillare: ”Ella parla, ed è come se il suo senno m’accenda i sensi”.
Ecco allora che Angelo, complice quell’arrossire con presenza di spirito proprio della verecondia di Isabella, inizia a vedere il desiderio di lei da un altro punto di vista: ne parla anche la sua prossemica. Si va a sedere infatti in un altro lato della sua stanza. Ma ormai non riesce più a guardarla dritto negli occhi: lei riesce ad accendergli un desiderio perverso.
E Isabella lo sente. E cambia corpo: s’inginocchia ma, più che devozione, il suo è il risultato dell’accordo della sensualità della voce a quella dei gesti. Come quello di raccogliere una manciata di terra e sassi iniziando a strofinarla sul tavolo. L’effetto è irresistibile sul Vicario Angelo.
Tanto che ora è Angelo a sentire di voler cambiare lingua per parlare quella di lei. Ora scopre il piacere dell’essere condotto, anziché quello del condurre; di essere governato, anziché governare. E si contamina lui stesso con la terra. Angelo scopre che nel suo corpo scorre sangue. E scappa.
Ma Isabella torna e insiste con il suo desiderio di ottenere la grazia per il fratello. Angelo a fatica riesce a negargliela ma non ce la fa a vederla andar via: “ resta ancora un po’ ” – le dice. E lo spazio diviene più intimo, la prossemica più confidenziale. Tanto che lui si lancia nel dichiararsi. Ma credendo ancora di poter applicare il principio “misura per misura”: la grazia in cambio di una notte d’amore.
Isabella si rifiuta categoricamente di tenere in equilibrio sulla bilancia peccato e carità. Perché “la purezza” – dice – “pesa di più della vita di un fratello”.
Lo spettacolo procede in un susseguirsi di colpi di scena verso un finale a lieto fine, che volutamente non ci concede piena soddisfazione. Shakespeare nel 1603 portava al cospetto del suo pubblico una commedia dilemmatica perfetta per ricordare, in tutti i momenti di crisi, chi siamo e come risulta difficile coordinare individualmente e collettivamente il volere al dovere.
E come invece ci viene facile renderci impermeabili a questa tensione: il telo che cade all’inizio viene poi nel finale ricercato per rendere di nuovo impermeabile quella sorta di “giudizio universale” nel quale si crogiola il Duca Vincenzo.
che sa rendere assai efficacemente la tortuosa esplorazione della natura umana e dei suoi grovigli, anche insolubili. Ma soprattutto il cast sa restituire quanto risulti complessa la gestione del rapporto – individuale e collettivo – tra carità e merito; tra amore e giustizia.
E’ il Duca – sebbene con un’intenzione ipocrita – a dire al Vicario Angelo qualcosa di estremamente vero, all’inizio del Primo Atto:
Tu e le tue doti non siete solo cosa tua,
da esaurir te stesso nelle tue virtù, e loro in te.
Il cielo fa con noi come noi con le torce,
che non s’accendono solo per se stesse:
se dalle nostre virtù non si irradia luce,
tanto varrebbe non averle
E’ questa affermazione che poi conduce lo spettatore a riflettere su come il desiderio di ognuno di noi abbia in sé anche la carica erotica di un daimon: di un’attitudine talentuosa che chiede di realizzarsi con una generosità che raggiuga altri, oltre che noi stessi.
PPP Visionario – 50° anniversario dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini
Nell’ambito dei festeggiamenti che la città di Roma propone alla comunità in occasione del 50° anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini attraverso il grande progetto “PPP Visionario“ – la più grande rassegna multidisciplinare, come ama sottolineare con orgoglio il Sindaco Roberto Gualtieri, che da ottobre a dicembre attraversa la città con eventi dedicati alla figura e all’opera di uno dei massimi intellettuali del Novecento – il Teatro di Roma, nello specifico, sceglie di omaggiare Pasolini con un trittico di appuntamenti .
Dopo la selezione dei testi di Roberto Scarpetti da “Ragazzi di vita” e “Petrolio” al Teatro Elsa Morante e l’ “Oratorio per i 50 anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini” ideato e diretto da Giacomo Bisordi al Teatro Argentina, ieri 1 Dicembre è andato in scena “Scopate Sentimentali. Esercizi di sparizione” uno spettacolo di e con Filippo Timi, Rodrigo D’Erasmo, Mario Conte, sempre al Teatro Argentina.
Ecco allora che Timi, onorando l’eredità ricevuta da Pier Paolo Pasolini, lascia soffiare tutto il suo folle amore in un’erotica composizione, dove fa sua quell’energia che riesce a tenere uniti elementi che la logica vorrebbe in opposizione.
L’urgenza di dare forma a questa composizione – come dichiara in un’intervista rilasciata a Rodolfo di Giammarco – scaturisce dal riuscire a tenere insieme due spinte emotive contrastanti: quella del sentirsi inseguito dal rancore per essere stato abbandonato dal suo padre artistico “per il semplice fatto che è morto” e insieme quella del sentirsi incalzato dal desiderio di riavvicinarsi a Pasolini, fino ad “accettare quello che il poeta chiamava scandalo, il Cristo sulla croce, il divino che finisce”.
Timi dà avvio così ad una sua personale e laica rievocazione della passione della croce di Pasolini – uomo che non poteva sfuggire al suo destino – secondo un ciclo si stazioni scandito da quattro stagioni, ognuna delle quali composta da tre movimenti, che rievocano i colori emozionali propri di ciascuna stagione. Tracce dell’imprinting di questa struttura si rintracciano in un altro uomo ricco in umanità: Antonio Vivaldi.
Mario Conte, Filippo Timi, Rodrigo D’Erasmo (ph. Simone Cecchetti)
Sulle orme di Vivaldi con il complice estro di due compagni di viaggio quali Rodrigo D’Erasmo (violinista, compositore, arrangiatore e polistrumentista) e Mario Conte (musicista/sperimentatore dentro e fuori la musica elettronica) – Timi fa sì che ogni concerto per violino sia accompagnato da una sorta di sonetto descrittivo, che illustri ciò che la musica e le immagini video andranno ad evocare.
La scrittura di Timi contatta tutte le vibrazioni cromatiche della poesia, sapientemente restituita in musica contaminando la matrice apollinea con echi dall’esplosività dilaniata. Che ricordano, ad esempio, quella tensione a dar voce “all’inascoltabile” della musicista, cantante e pianista Diamanda Galás.
Ecco allora che le melodie al violino di Rodrigo D’Erasmo si aprono a sconfinamenti graffiati, abilmente distorti e amplificati dall’artigianalità acustica in avanscoperta di Mario Conte. Arriva così allo spettatore un’accattivante sinergia tra parola-suono-immagine che sa restituire le varie anime, anche fantasmatiche, di Pier Paolo Pasolini.
Il tutto è concepito dentro un ciclo vitale dove la vita s’incontra costantemente con la morte. Proprio lì, sulla soglia. Come testimoniano le poltrone riservate in prima fila: dove “con noi” assistono allo spettacolo le anime belle care a Timi. Da Ornella Vanoni a Adriana Asti, passando per la Callas e per Attilio e Bernardo Bertolucci, fino alla Vitti, a Laura Betti, alla Magnani, ad Aberto Moravia, a Guido Pasolini. E poi lei, la mamma: Susanna Colussi.
Uno spettacolo “generoso” – come lo ha definito il Presidente della Fondazione del Teatro di Roma Francesco Siciliano nella sua presentazione dell’evento di ieri 1 Dicembre – al quale la comunità di Roma ha risposto con una partecipazione d’assalto. Una scelta – ha sottolineato Siciliano – “fortemente voluta” dall’Assessore alla Cultura di Roma Capitale Massimiliano Smeriglio.
(ph. Simone Cecchetti)
Perché è uno spettacolo che facendosi testimone dell’eredità pasoliniana attraverso “un poietico” modo di stare al mondo, si prende cura di preservare tale eredità dal rischio di essere inghiottita dall’ossessione capitalistica alla mercificazione della bellezza.
Rischio che Timi ci fa entrare negli occhi, già prima dell’inizio dello spettacolo, attraverso i due pannelli ai lati del palco che riproducono la Venere del Botticelli – allegoria dell’amore come forza motrice della natura e quindi energia vivificatrice che spinge alla creazione – distorta e addomesticata in un’icona da franchising.
Dello stesso rischio ci parla l’immagine a tutto schermo sul palco: quello di ridurre la sensuale e dilaniante fecondità della parola di Pasolini ad un esotico souvenir, poggiato su una soffice e spensierata sabbia, carezzata dal rassicurante mood di un ukulele.
Questo – ci ricorda Timi – è quello che potrebbe restare della poetica e dell’estetica pasoliniana all’indomani di un deformazione mercificata, che farebbe della diversità tragressiva una moda commerciale. Privandola così di tutta la sua carica dirompente: divenendo “alla moda” – spiega Massimo Recalcati nel suo “Pasolini – Il fantasma dell’origine” – perde fatalmente ogni suo potenziale critico divenendo una manifestazione della pervasiva capacità del potere di addomesticare anche ciò che può sembrare inassimilabile.
Ma ad un diverso sguardo quell’immagine di apertura, nonostante il suo essere riplasmata attraverso connotati aurei, morbidi ed ingenui, ricorda nella sua essenza quella bocca della figura a destra dei “Tre Studi per figure alla base di una Crocifissione” di Francis Bacon.
Una bocca dilatata in un urlo disumano, dall’anatomia disgustosamente ambigua, che ritorna come costante in vari momenti dello spettacolo. Resa assai efficacemente da efficaci distorsioni della voce, del suono e delle immagini video.
Perché quello di cui Pasolini si faceva autore e interprete, al di là e grazie alle sue contraddizioni, è una riflessione più ampia sulla condizione dell’essere umano. Una riflessione che parla anche dello smarrimento e dell’orrore sub-umano in cui può darsi l’esistenza. Dove il cadere degradante si fa spazio sulla possibilità di salvezza.
Ecco allora che Filippo Timi, Rodrigo D’Erasmo e Mario Conte – insieme ad Amerigo Cornacchione – ci lasciano con un particolare messaggio: “ci vuole incoscienza per vivere e incoscienza per morire!”
Pasolini, non a caso, chiedeva e si chiedeva: “Qual è la vera vittoria quella che fa battere le mani o quella che fa battere i cuori”?
“La mia è una visione apocalittica. Ma se accanto ad essa e all’angoscia che la produce, non vi fosse in me anche un elemento di ottimismo, il pensiero cioè che esiste la possibilità di lottare contro tutto questo, semplicemente non sarei qui, tra voi, a parlare” (Pier Paolo Pasolini)
Perché l’uomo continua a ostinarsi a credere prepotentemente nelle proprie capacità logico-razionali, realizzando sempre più potenti soluzioni tecniche “come se non ci fosse più niente al mondo”?
Quando poi queste sue creazioni, perversamente scientifiche, possono rivelarsi fuori misura per la sua umanità, non riuscendo a gestirne fino in fondo le conseguenze?
(ph. Tereza Zelenkova)
Dall’atmosfera rarefatta di un fondale evocativamente magrittiano prendono forma, in scena, le incongruenze di un mondo parallelo, scomposto e ricomposto secondo moduli allucinati.
Una sorta di “cielo in una stanza”, luogo fisico e della mente, dove nell’inquietante habitat delle parole di soddisfazione pronunciate dal Presidente Harry S.Truman sul continuo sviluppo tecnologico del potere distruttivo umano, riesce comunque a manifestarsi la genesi di una forza di attrazione, che inizia a legare due individui in una profonda relazione umana (il disegno delle scene è di Paola Villani).
Sono molto diversi fra loro: sono il filosofo e scrittore tedesco, Günther Anders , cofondatore nel 1954 del movimento antinucleare, interpretato da un acuto e raffinato Alessandro Berti e il meteorologo e aviatore Claude Eatherly, che guidò la spedizione per lo sganciamento della bomba su Hiroshima, interpretato dal seducente polimorfismo di Gabriele Portoghese).
Eppure, nonostante la loro diversità, non mancano occasioni d’incontro, di punti di contatto, di fertili dubbi, di sane divergenze, rese qui in scena da un’efficacissima prossemica. Un incontro epistolare, il loro, visualizzato fascinosamente dalla regia di Claudia Sorace attraverso un linguaggio rituale di gesti coreografici, che alludono alla comunicazione mediata dalla scrittura.
Scrittura che, come una danza, grazie al prendere forma di una coesione relazionale apre alla costruzione di una propria identità, attraverso l’incontro “con il corpo della scrittura” dell’altro. Facendosi così occasione per il raggiungimento di un benessere psicofisico e quindi di una crescita personale.
Scrittura simbolo di un legame che attraversa lo spazio e il tempo: un atto riflessivo che dà vita ad una raccolta, che diventa memoria, archivio di vite e di relazioni.
Raccolta che i Muta Imago sentono l’urgenza di indagare – rileggendola con il loro stare al mondo artistico – per arrivare alla scoperta di ciò che è importante recuperare per l’oggi, partendo proprio da ciò che rimane di un’esperienza passata.
Un’analisi del reale, la loro, che si dà attraverso la costruzione di una finzione artistica che muove dalle vere tracce che quel reale lascia dietro di sé. Qui il carteggio tra Günther Anders e Claude Eatherly raccolto nell’opera di Anders “Fuori dai limiti della coscienza. Lo scambio epistolare tra Claude Eatherly, pilota di Hiroshima, e Günther Anders” (Off limits für das Gewissen. Der Briefwechsel zwischen dem Hiroshima-Piloten Claude Eatherly und Günther Anders“) del 1961.
Riccardo Fazi (drammaturgo/sound designer) e Claudia Sorace (regista)
Perché scrivere, sosteneva Kafka, “significa aprirsi fino all’eccesso” riuscendo a “toccare” tramite la parola quel silenzio intriso di senso che altrimenti non sarebbe stato nominato, espresso, tradotto.
Ce ne parla la scelta di quel gesto coreografico, amplificazione del gesto dello scrivere, che entrambi i protagonisti ripetono sulla scena. E che parla di noi: anche a noi può capitare di trovarci in una situazione simile, anche noi possiamo rimanere spiazzati dal divario che può intercorrere tra un nostro gesto e le imprevedibili conseguenze emotive. Così come anche a noi è data la possibilità di recuperare quel relazionarci, attraverso la carnalità delle parole, proprio del carteggio epistolare.
Günther Anders (1902 -1992) è un filosofo e uno scrittore tedesco per il quale la data del 6 agosto del 1945 segna una nuova condizione umana: è, per lui, “il giorno zero di un nuovo computo del tempo”.
Anders è così colpito da come nell’uomo una poderosa capacità tecnico-progettuale non corrisponda ad un’adeguata capacità immaginativa, da farne il suo oggetto privilegiato di studio. Chiama questa “discrepanza” tra un immaginario umano debole e una prepotente costruzione di oggetti, sistemi, macchine, ‘dislivello prometeico’.
Quello a cui progressivamente si sta dando forma dagli anni Cinquanta del Novecento, osserva Anders, è un mondo in cui diventa sempre più difficile per l’uomo essere all’altezza del Prometeo che è in lui, perché ciò che gli si chiede è esorbitante rispetto alle capacità della sua fantasia, delle sue emozioni e soprattutto del suo sentirsi responsabile.
In un mondo dove la tecnica «è ormai diventata il soggetto della storia», la discrepanza tra le attività umane e quelle dei suoi dispositivi è diventata maggiore da quando gli strumenti sono stati sostituiti da macchine dotate di una certa autonomia. Macchine che finiscono per rendere l’uomo “antiquato”, finanche superfluo, non potendo più far fronte emotivamente e cognitivamente ai vincoli pratici ed etici che esse comportano.
Quel cielo infatti che il giovane Eatherly deve ben scrutare per far sì che ci siano le condizioni “tecniche” per poter sganciare la bomba atomica è un cielo paradossalmente azzurro: magrittianamente reale e impossibile. Ma l’essere umano, a furia di vedere nella tecnica un’ossessione di potenza, fatica a cogliere attraverso il proprio potere immaginativo l’inganno insito nei pensieri che guidano le sue azioni. Finendo per perderne anche il senso di responsabilità. L’uomo è diventato – dice Anders – “pastore degli oggetti” (“Objektenhirt”) responsabile, ormai, solo della loro manutenzione. Il sogno umano dell’onnipotenza si sta trasformando nel suo contrario: gli uomini hanno il potere di porre fine al mondo e dunque sono diventati i “padroni dell’apocalisse”.
“La condizione umana”, Renè Magritte
Ecco allora che chiedersi che cosa è tecnicamente possibile e cosa la mente umana può immaginare e sostenere, rileva una discrepanza che si collega poeticamente a quel cosa è vero e cosa non lo è insito nelle opere di Renè Magritte intitolate “La condizione umana”. Dove «la menzogna fa parte dello statuto di ogni rappresentazione» e intento dell’artista è quello di privare lo spettatore delle proprie certezze, per spingerlo a riflettere sulla “propria condizione”.
Proprio come ci invitano a fare i Muta Imago con questo interessante lavoro.
Quando quindi Anders viene a conoscenza della notizia che Claude Eatherly non riuscendo a posteriori a sostenere il peso emotivo del suo gesto di ok allo sgancio della bomba atomica (peso aggravato dalla diversa percezione del gesto da parte di tutti gli altri, che lo accolsero invece come un eroe) inizia a compiere furti, tentare il suicidio, abbandonare la famiglia fino ad essere rinchiuso a tempo indeterminato nell’ospedale psichiatrico militare di Waco, Anders prova l’irresistibile trasporto di contattarlo, inviandogli una lettera. La prima di un lungo carteggio: era il 3 Luglio del 1953.
E’ una lettera decisamente energizzante e motivante, come tutte le successive: il suo errore – gli scrive Anders – e il successivo ravvedimento possono diventare un esempio per tutti, essendo ognuno di noi potenzialmente capace di commettere un errore di valutazione simile. Molto suggestiva l’idea di visualizzare questo concetto rendendo visibile l’Altro proprio all’interno dell’ombra di Eatherly (la direzione tecnica e il disegno luci sono curati da Maria Elena Fusacchia).
Eatherly, abituato a ricevere solo lettere di consolazione, sente di essere compreso da Anders come da nessun altro. E decisamente efficace si rivela l’idea di portare lo spettatore nello spazio della mente di Eatherly anche attraverso la costruzione simbolica di una mappa neuronale luminosa.
La regia di Claudia Sorace e la drammaturgia di Riccardo Fazi – alla quale collabora anche Gabriele Portoghese e Paolo Giordano ne fornisce una consulenza letteraria – non mancano infatti di portarci a scoprire le diverse anime che abitano la psiche di Eatherly: la tendenza a “sagomarsi” quasi come un redentore; quella a lasciarsi guidare da una sorta di “febbre”, per dare spazio attraverso la danza ad una dimensione creativo-immaginativa e quella “diabolica” attratta dalla dismisura. Perché di tutto questo siamo fatti, come Eatherly.
Sarebbe interessante poi, scrive ancora Anders nelle sue lettere, far sapere all’opinione pubblica come ora Eatherly riconsideri il suo gesto: da qui la decisione comune di pubblicare il loro carteggio. Perché questo recupero di un’umanità personale risulta prezioso anche per un possibile recupero da parte della collettività.
Anders allora aiuta Eatherly a rinvenire tracce fertili dalle rovine della propria vita e contemporaneamente immagina e concretizza soluzioni pratiche per salvarlo dal suo destino. Diffondendo insieme anche un messaggio di pace tra gli esseri umani.
Perché, come sosteneva il filosofo Hans Jonas (1903-1993) nel suo testo più noto Il principio responsabilità – Un’etica per la civiltà tecnologica (1979), l’uomo autentico non è quello ideale e perfetto dei sogni utopistici. Che quando si realizzano, peraltro, producono solo danni. Perché fanno capo ad un atteggiamento «immodesto», fondato su un’idea di benessere e abbondanza come derivati dal progresso tecnologico, per cui sapere è potere. Non la speranza utopistica in un uomo ideale quindi deve guidare le nostre scelte, ma piuttosto la paura, ovvero la consapevolezza della necessità di porci un limite. Per evitare l’apocalisse.
Anche Hollywood si interessa alla storia di Eatherly e gli propone un film su di lui. Ma Anders gli consiglia di iniziare lui stesso a scrivere le sue memorie, partendo proprio da ciò che di prezioso resta nelle sue rovine esistenziali, recuperabile attraverso un profondo lavoro di analisi e di scavo interiore. Una forma di cura e di intelligenza che aiuta a conoscere meglio se stessi.
Uno spettacolo, questo dei Muta Imago, dal quale ci si sente avvolti, avviluppati, travolti, trascinati. Complici le musiche originali di Lorenzo Tomio e la cura del sound design di Riccardo Fazi.
E che predispone lo spettatore a riflettere sui lati oscuri del nostro attuale stare al mondo: merito della sinergia tra luce, suono e spazio che contribuisce a creare una percezione, e quindi una costruzione di significato, davvero intrigante.
“La locusta non si alzerà più. Realtà aumentata e Archeologia politica”
il critico letterario Andrea Cortellessa riflette intorno ai temi dell’opera di Philip Dick
con la complicità del filosofo Dario Gentili
-.-.-.-.-
IF/Invasioni (dal) Futuro_Legacy*2025
Dodicesima edizione
FESTIVAL
dedicato alle scritture e ai temi sempre più contemporanei della
FANTASCIENZA
Teatro India 25 – 31 agosto 2025
a cura di lacasadargilla / Lisa Ferlazzo Natoli, Alessandro Ferroni, Alice Palazzi, Maddalena Parise e Gianluca Ruggeri / ARS Ludi in collaborazione con Roberto Scarpetti
con il sostegno di Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Guarda, sono arrivate ! Ma forse erano già qui perché le stavamo aspettando: ne temevamo e ne desideravamo ardentemente l’arrivo. Il ritorno. Che ogni volta è “come uno shock”: perché la loro e’ “una realtà potenziata”, è fantascienza!
Invasioni e aggregazioni narrative attratte da particolari habitat: in passato dalla bellezza nascosta del “triclivio estivo” di Mecenate; più recentemente da quel Teatro industrial style sul Lungotevere, appassionato dalle sperimentazioni artistiche: il Teatro India, il teatro del futuro. Un futuro che c’è , che è già qui.
Anche altri siti limitrofi sono stati avvistati, scelti e invasi: un centro anziani sul Lido di Ostia e una biblioteca, quella del quartiere Quarticciolo.
La cittadella spaziale di IF ha stazionato infatti al Teatro India da 25 al 31 Agosto. Poi dal 4 al 7 settembre si è spostata sul sito del Centro Anziani del Lido di Ostia, dove si è potuta visitare l’opera corale sonora“Here There and Everywhere”. Resa fruibile a tutte quelle voci antiche che hanno contribuito a crearla. E ancora dal 12 al 14 Settembre IF/INVASIONI (dal) FUTURO ultimerà le sue esplorazioni di quest’anno alla Biblioteca Quarticciolo con IF_ARrchive: una postazione d’ascolto delle migliori registrazioni dei melologhi sci-fi di IF/ Invasioni (dal) Futuro.
Quest’anno torna su Roma, e non solo – per il dodicesimo anno – titolandosi Legacy*2025 . Indagando cioè su come il mondo – per come lo conosciamo – ci si riveli, in fondo, un falso. E come invece la fantascienza, rinunciando al criterio di verosimiglianza, riesca a proporsi quale “realtà aumentata”. Le cui potenzialità si rintracciano già nel presente.
Il cartellone risulta ancora una volta ricchissimo di eventi, incentrati sulla fertilità dell’incontro con l’Altro, perché è attraverso l’Altro, ovvero il diverso da noi, che possiamo trovare tracce per conoscere meglio anche noi stessi.
Gli eventi in programma assumono svariate forme: installazioni, spettacoli multimediali e melologhi sci-fi, performance non frontali, workshop, installazioni immersive multimediali site specific, una conferenza tra letteratura e filosofia e un ricco palinsesto radiofonico quotidiano.
Nello specifico, nelle date del 30 e 31 Agosto u.s. la casadargilla ha presentato una nuova versione di “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” (Blade Runner) di Philip Dick.
Philip Dick (1928- 1982)
All’opera di Philip Dick, focus tematico dell’edizione di quest’anno, è stata dedicata anche la conferenza filosofico/scientifica dal titolo “La locusta non si alzerà più. Realtà aumentata e Archeologia politica”. Il 30 Agosto u.s. infatti il critico letterario e storico della letteratura Andrea Cortellessa ha riflettuto intorno ai temi dell’opera di Dick, con la complicità del filosofo Dario Gentili. Proprio dai microfoni di Radio IF: la radio dal vivo della cittadella stellare, curata da Silvio Impegnoso e ospitata negli spazi interni del Teatro India.
Dario Gentili, Andrea Cortellessa, Lisa Ferlazzo Natoli, Silvio Impegnoso
La metafora della “locusta” si presta acutamente a farsi preziosa traccia-legame con uno degli orizzonti del substrato, dal quale prende forma il romanzo di Dick : “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”. La si rintraccia nel dodicesimo capitolo del “Qoèlet”:
“Ricòrdati del tuo creatore nei giorni della tua giovinezza, prima che vengano i giorni tristi e giungano gli anni di cui dovrai dire: «Non ci provo alcun gusto»; prima che si oscurino il sole, la luce, la luna e le stelle e tornino ancora le nubi dopo la pioggia; quando tremeranno i custodi della casa e si curveranno i gagliardi e cesseranno di lavorare le donne che macinano, perché rimaste poche, e si offuscheranno quelle che guardano dalle finestre e si chiuderanno i battenti sulla strada; quando si abbasserà il rumore della mola e si attenuerà il cinguettio degli uccelli e si affievoliranno tutti i toni del canto; quando si avrà paura delle alture e terrore si proverà nel cammino; quando fiorirà il mandorlo e la locusta si trascinerà a stento e il cappero non avrà più effetto, poiché l’uomo se ne va nella dimora eterna e i piagnoni si aggirano per la strada; prima che si spezzi il filo d’argento e la lucerna d’oro s’infranga e si rompa l’anfora alla fonte e la carrucola cada nel pozzo, e ritorni la polvere alla terra, com’era prima, e il soffio vitale torni a Dio, che lo ha dato”.
Siamo anche qui in uno scenario di progressiva desertificazione della vita: una vita dove arriveranno ad essere dominanti le tenebre e quindi quel “Non ci provo alcun gusto”. Che permea anche il romanzo di Dick e la rivisitazione dello stesso fatta da lacasadargilla, attraverso la forma aperta di un melologo sci/fi, ovvero di una lettura concertata con musica dal vivo ad esso ispirata.
Quel sapore pieno di “gusto” che manca, quando non si riescono più a vedere le stelle: quando si perde la spinta a desiderare che qualcosa avvenga o ritorni.
In uno scenario siffatto la locusta – metafora di una capacità di avanzare nella vita senza paura – qui in Qoèlet si dice che “si trascinerà a stento “ e nel titolo della conferenza si immagina che “non si alzerà più “.
Ma il pessimismo del Qoèlet e quello espresso dal titolo della conferenza sono davvero una rigida fatalità ? O la resilienza a desiderare della specie umana e la relativa capacità relazionale possono ancora vitalizzare la vita?
Magari includendo anche eventuali invasori, senza necessariamente fuggire in altri pianeti?
Perché questo scenario esistenziale allude anche ad uno scenario proprio della mente umana in alcuni frangenti vitali. L’oscurità in cui si convive con la polvere, ma anche con “la palta” (cumuli di oggetti in disuso), ci parla infatti di qualcosa che non è stato smaltito, ovvero rimosso.
Così come efficacemente visualizzato dall’istallazione scenica in cui viene immerso il melologo della casadargilla. Al quale lo spettatore fa accesso dopo aver varcato la soglia fluidamente osmotica, resa dalla restituzione di habitat visivi distopici, proiettati su tracce di presente (gli accattivanti paesaggi visivi sono curati da Maddalena Parise).
Habitat che continuano a riaffiorare e a mutarsi abitando il fondale dello spazio scenico interno, occupato prevalentemente da grovigli di materiale inutilizzato. Il cui invadente accumularsi riduce lo spazio vitale degli umani e degli androidi, confinandoli in un semicerchio lungo i margini del palco.
Perché “ quando non c’è più nessuno a controllarla, la palta si riproduce”.
Così come le cause delle guerra: evento traumatico che ha concorso a produrre questa situazione di desertificazione del paesaggio fisico e psichico, le cui ragioni scatenanti nessuno ricorda. Essendo state accantonate chissà in quale parte della psiche individuale e collettiva. E che alla Polizia di San Francisco non interessa ricercare: anzi. Preferibile è sostituire questa memoria – e più in generale quell’inconscio collettivo in cui tutti ci si ritrova preservando ciascuno la propria unicità – con un nuovo inconscio decisamente più controllabile e quindi manipolabile.
Come quello che si cela dietro al principio morale dell’empatia proprio del culto di Wiburn Mercer: “un’entità archetipica proveniente dalle stelle, sovrimposta alla nostra cultura attraverso una specie di matrice cosmica” dispensatore di un dono , quello dell’empatia, che “rende indistinti i confini tra vittima e carnefice, tra chi ha successo e chi è sconfitto”. Una simbiosi sterile che rende tutti dipendenti da uno strumento meccanico: “l’oggetto più personale che si possa avere, una prolunga del proprio corpo, lo strumento che ci mette in contatto con gli altri umani, che ci fa smettere di essere soli”.
Uno strumento che con perspicacia nel melologo della casadargilla prende il nome di “organo” dell’empatia. Un dispositivo che al di là dall’essere una “gioviale scossetta elettrica” mira a “fondere” tutto e tutti in un’indistinta “poltiglia umana” facilmente modellabile. Perché, proprio come la palta, toglie identità ad ogni dettaglio paesaggistico individuale.
“…con il tempo tutto ciò che c’era nel palazzo si sarebbe fuso: una cosa nell’altra avrebbe perso individualità, sarebbe diventata identica ad ogni altra cosa, un mero pasticcio di palta ammonticchiato dal pavimento al soffitto di ogni appartamento. E dopo di ciò lo stesso palazzo, senza che nessuno ne curasse la manutenzione, avrebbe raggiunto uno stadio di equilibrio informe, sepolto dall’ubiquità della polvere”.
Una continua e inesorabile riduzione delle diversità ad un’unica identità, ad un unico sguardo sulle cose, ad un unico modo di stare al mondo. Una castrazione vitale facilmente gestibile.
“… la fusione fisica accompagnata dall’identificazione mentale e spirituale con Wibur Mercer aveva avuto di nuovo luogo. Ed era accaduto lo stesso a chiunque in quel momento stesse stringendo le maniglie (dell’organo dell’umore) sia qui sulla Terra che su uno dei pianeti colonizzati.… Isidore continuava a stringere le due maniglie e a provare l’esperienza di un io che conteneva ogni altro essere vivente…”.
Magnifica la restituzione di Isidore da parte di Marco Foschi, nella cui vocalità convoglia e dona tutte le disperate sfumature proprie di un blocco emotivo e insieme di una trattenuta ribellione e ancora il tentativo di mantenere un controllo di fronte ad un’esperienza ritenuta insostenibile.
Va anche detto, peraltro, che esiste ontologicamente un’inclinazione tutta umana a preferire non voler decidere, a preferire non voler scegliere: “ … almeno così aveva sentito dire. Aveva lasciato che quell’informazione rimanesse di seconda mano; come la maggior parte della gente, non ci teneva a farne esperienza diretta”. Lasciando così margine di manovra a chi di questa inclinazione è ben consapevole e pensa di poterne fare una leva di potere. Ad esempio riducendo le fertili contraddizioni insite in ogni scelta all’illusione di una facile semplificazione, raggiungibile attraverso l’utilizzo di algoritmi.
Molto interessante e’ stato a questo proposito il dialogo, in conferenza, tra il filosofo Dario Gentili e il critico letterario Andrea Cortellessa sulle due ossessioni di Philip Dick: la robotica e la cybernetica.
Lo stesso “organo dell’umore”, solo per fare un esempio, nasce come risposta manipolativa di questa inclinazione umana a delegare ad altri la propria libertà di scegliere. Preferendo all’esplorazione di un orizzonte aperto a varie possibilità – e che come tale potrebbe fertilmente rimanere ragionando di volta in volta “sull’alternativa” – la subdola somministrazione dall’esterno di una sola scelta.
In un certo senso anche dall’ Oracolo di Delfi si correva in soccorso quando ci si trovava nello stato di caos, tipico di un orizzonte ricco di angoscianti possibilità. E si finiva spesso per interpretare l’oracolo alla lettera, come un comando. Sebbene l’indicazione non si desse volutamente in una risposta netta e limpida, proprio per promuovere un lavoro su se stesso di colui che doveva scegliere. Analogo è il ricorso dei personaggi di Philip Dick alle carte dell’ I Ching: meglio interrogare e ubbidire, piuttosto che interrogarsi e sospendere per il tempo necessario la scelta sulle alternative.
Collegata a questa inclinazione a preferire non stare nell’orizzonte delle possibilità di scelta, esiste un’altra inclinazione che ci caratterizza: l’uomo non può vivere da solo. Ama vivere in compagnia: il nostro stare al mondo è “uno stare con”.
Ma troppo difficile, e quindi pericoloso, si rivelerebbe controllare uomini che si confrontino e si scontrino con le loro menti e con i loro corpi, per arricchire e modificare le proprie idee.
Meglio affidare la funzione di compagnia ad una macchina, ci fa notare Philip Dick: nello specifico ad un animale elettrico per chi ancora si attarda nel lasciare la Terra; ad un androide, per chi si è lasciato convincere ad emigrare su Marte. Con il fine ultimo di far diventare anche gli umani come animali elettrici o come androidi. Infatti nè gli uni nè gli altri sono in grado di rendersi conto dell’esistenza dell’ltro: dello “stare con l’altro”. E quindi della preziosità dell’altro per la propria vitalità. Ignorando per di più anche il piacere, pericolosamente generoso, di desiderare prendersene cura.
Anche per questo si fa di tutto nel romanzo di Dick per dissuadere coloro che tentennano ad emigrare su Marte: il loro “rincuorarsi” già solo per la reciproca presenza prossemica, può divenire troppo pericoloso per un’eventuale unione di gruppo verso il sistema – come ha sottolineato in conferenza il filosofo Dario Gentili.
Non solo: meglio sostituire le parole – soprattutto quelle relative alle emozioni – con dei numeri: così tiepidamente rassicuranti. La parola, invece, è pericolosamente evocativa: può far esistere ciò che viene pronunciato. E per di più apre a vari sottotesti, a varie sfumature di senso.
Ecco perché, ad esempio, sia nel romanzo di Dick che nel melologo sci-fi della casadargilla si evidenzia la propaganda verso un uso univoco dell’espressione “permettersi qualcosa”. Riducendolo cioè ad una mera valenza economica capitalistica, subdolamente etico-merceristica. Interessante in conferenza è stato il collegamento acceso da Andrea Cortellessa con lo scenario proprio del “Capitalismo come religione” di Walter Benjamin, scenario fondato sull’insinuante utilizzo della matrice comune esistente tra il concetto di “debito” e quello di “colpa”.
E poi c’è la TV ad evangelizzare determinati atteggiamenti per rendere gli umani sempre più innocui: un unico canale, un unico programma, un unico presentatore. Efficacissimo in scena il ciarlare allegro di Buster Friendly “ il più importante uomo vivente, certo se si eccettua Wiburn Mercer”. Entrambi in concorrenza per il controllo della psiche dei cittadini.
E se poi ci fossero ancora delle tentazioni verso un inspiegabile gusto per la diversità, basta digitare i tasti 888: il comando del “desiderio di guardare la TV, qualsiasi cosa trasmetta”.
Come spesso Rick Deckard consiglia a sua moglie Irene: riluttante a modificare il suo sottotono emotivo attraverso la fredda digitazione di comandi numerici compensativi.
Ma in verità lo stesso Rick Deckard – come l’avvincente interpretazione in doppia partitura di Marco Foschi è riuscito a far emergere – non ha soppresso del tutto il suo guizzo desiderante: quella “famelica e gioiosa sensazione di attesa”. Che convive con la sua tendenza alla desertificazione delle relazioni umane, in cui tanto si disciplina. Soprattutto anestetizzandosi attraverso un ossessivo senso del dovere per il lavoro. Fin dall’incipit il romanzo e il melologo ci fanno notare come questo personaggio, in apparenza diligentemente inserito nel meccanismo del sistema, sia abitato in realtà da una tensione di ricerca di sé stesso. Una riappropriazione che non è solo quella del passaggio dal sonno alla veglia – il testo si apre infatti con la descrizione di un risveglio – ma quella dell’uscita dallo stato di fusione indotto dal sistema, all’individuazione di sé come entità unica e irripetibile.
Apaticamente la moglie gli ricorda chi il sistema vuole che lui sia: “sei un assassino al soldo degli sbirri”. Ma qualcosa “stona” dentro Rick. E non basta più digitare i numeri giusti scegliendo di dare priorità al lavoro, rispetto a tutto il resto del suo sentire, per non sentire il turbamento di questa crepa. A compensazione trova però la possibilità di attaccarsi ad un oggetto del desiderio, come invita infidamente a fare ogni sistema capitalistico. Ecco allora che il desiderio di poter acquistare – ed esibire – un animale vero gli ridarà quell’autostima di sé stesso che non ha. Così crede. Ma l’autostima è un dono sociale. Sono gli altri a potercela riconoscere. Sinceramente o ambiguamente.
Succede però – come fertile invasione di un imprevisto – che Rick Deckard si ritrovi ad incontrare androidi inspiegabilmente interessanti, davvero difficili da “ritirare”. Perché innamorati del bello artistico (come Luba Luft), o disposti a confidargli la scandalosa permeabilità dei propri confini (come Phil Resch), che li porta a sognare “di essere riconosciuti capaci” (anche loro) di prendersi cura di un animale. E poi c’è Rachel (intensamente restituita anche in scena): l’adolescente dagli occhi di femmina, in equilibrio su una sola gamba, come uno splendido fenicottero. Costruita per pensare solo a ciò che serve e a ciò che non serve, non c’è la fa ad aderire totalmente alla seduzione attrattiva della terra. E si mantiene prevalentemente sulle punte. Lei, un apparente vuoto freddo, “un alito dal nulla”.
Perché gli androidi non si riconoscono da quello che fanno o dicono ma “da quello che non fanno e non dicono”: non colgono infatti quando l’altro getta verso di loro “ponti” d’empatia. Qualcosa di ben diverso dalla fusione mistica e annullante del Mercerianesimo
Ma allora che cosa rende “veri”? La fredda e rigida perfezione della macchina o la pulsante tortuosità del desiderare umano, resa accattivante dall’affacciarsi continuo dell’ imprevisto?
Cosa rende davvero “vivi”? La sicurezza di riuscire a domare il caos dei propri umori o sentire i morsi della fame di quell’attendere, necessario per conquistare qualcosa di contraddittoriamente avventuroso?
Anche gli androidi, almeno alcuni di essi, non sfuggono dal desiderare – e quindi dal sognare – di riuscire a prendersi cura di qualcuno diverso da sé stessi: un animale, almeno. Perché ciò che dà sapore alla vita è la difficile tessitura delle trame dell’entrare in relazione con l’Altro.
Isidore, ad esempio, lo scopre lasciandosi pervadere dal potere dell’amore: quella spinta vitale che lo porta a sentire piacere nell’aiutare un altro. Generosamente. “Io mi sto prendendo cura di loro”.
Rick Deckard ancora non lo sa. Ma sarà anche grazie alla complicità del commesso di un negozio di animali veri, che riuscirà a capire che per lui ci vuole un animale “fedele ma anche libero”. Un animale che gli faccia da specchio, insomma. Una capretta.
E poi ci sono gli androidi. Alcuni di essi si scoprono a “sognare” la vita degli umani: la loro generosità capace di altruismo; la loro cattitudine a provare misericordia verso l’altro, loro che sono invece così individualisti.
Addirittura c’è chi sceglie di avvicinarsi alla modalità di stare al mondo degli umani procurandosi deliberatamente un difetto di fabbricazione. Loro, troppo perfetti.
Desiderano sapere, infatti, cosa si sente a nascere, a crescere, a invecchiare.
Ma soprattutto “sognano” la resilienza degli umani: il nostro ostinarci a combattere per riuscire ad ottenere qualcosa che ci sta a cuore. Loro che invece conoscono prevalentemente la rassegnazione.
E l’egoismo: “ non si può dire – osservó Rick Deckard – che voi androidi siate molto bravi a proteggervi a vicenda quando la situazione si fa critica”.
Ma feconda si potrebbe rivelare la sinergia tra l’inclinazione a guardare le cose e le persone “da lontano”, propria degli androidi e l’inclinazione, tutta umana, a confondere la capacità di creare legami propria dell’empatia con la fusione simbiotica. Che riduce quella preziosa distanza, che invece permette di non fondersi in un unico stile di vita, ma di concertare – proprio come in un ensemble – le preziose diversità di ciascuno.
Allo spettatore ancor più che al lettore viene versato nelle orecchie questo messaggio. Il melologo sci-fi di casadargilla e’ infatti immerso in un universo di sonorità vibrazionali: calde e sintetiche; morbide e taglienti. Espressione di diversi modi di sentire, di diverse capacità relazionali; di diversi ritmi di stare al mondo. La scelta di utilizzare strumenti a percussione ci parla poi di un bisogno di entrare in contatto con se stessi, promuovendo una nuova percezione di sé: della propria fisicità’ e insieme di un’acuta urgenza di spiritualità. La cura delle musiche e dei paesaggi sonori è di Gianluca Ruggeri.
Ma quanto sono preziose queste continue ri-visitazioni di testi di fantascienza!?
Come risultano ricche di spunti nuovi, eppure già presenti, che ci solleticano ad interrogarci entrando in esplorazione dentro molteplici verità !
Lo sguardo lungo a cui ci allena da 12 anni lacasadargilla apre un orizzonte più ampio e più ricco di ospitalità verso sempre nuove forme di vita possibile. Verso sempre nuove forme di umanità. Verso sempre nuovi racconti. Tutti da non perdere, tutti da tenere insieme.
Non c’è infatti niente di peggio – come scopre nel finale Rick Deckard – di “una caduta senza fine e senza testimoni”. Avere dei testimoni significa infatti raccontarsi, potendo contare sul fatto che poi qualcuno continuerà a raccontare di noi.
Così da “non scomparire senza lasciare traccia” come gli animali del racconto del “Gigante nello stagno”. Racconto che dà il nome alla versione italiana della raccolta di racconti di fantascienza dello scrittore britannico J. G. Ballard (1930 – 2009). Racconto con il quale il melologo sci-fi de lacasadargilla sceglie di suggellare la propria rilettura del testo di Philip Dick.
spettacolo a cura di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni
adattamento Silvana Natoli
musiche e paesaggi sonori Gianluca Ruggeri
ambienti visivi Maddalena Parise
con Marco Foschi, Tania Garribba, Fortunato Leccese, Alice Palazzi, Stefano Scialanga
Al di là dei meccanismi “confortevoli” della tragedia classica – dove si puó far conto su una “distribuzione delle parti” che protegge lo spettatore dal riflettersi nelle intime e contraddittorie responsabilità proprie di “ciascun” personaggio – la rilettura innovativa dell’Antigone di Sofocle da parte di Jean Anouilh è un testo – qui tradotto da Andrea Rodighiero e adattato da Roberto Latini – che sceglie di rinunciare al meccanismo della suspense tragica, per andare a sagomare l’attenzione dello spettatore sulla luce delle ombre, proprie del diverso modo di stare al mondo di ciascun personaggio.
Roberto Latini
Ciascuno in bilico tra il suo essere uomo e il suo essere umano: ciascuno costituito da una propria dose di “sentire” fatto di solidarietà e di opportunismo; di compassione e di indifferenza; di comprensione e di giudizio; di perdono e di odio; di cura e di disattenzione; di gentilezza e di violenza.
La regia di Roberto Latini visualizza con intensa efficacia questa tensione d’indagine di Jean Anouilh, mettendo in scena una strada – topos dell’eredità paterna di Antigone – ma sollevando i personaggi dal dover accordarsi su quel “cedere il passo”, che aveva contraddistinto la storia di Edipo e (metaforicamente) anche quella dei suoi fratelli Eteocle e Polinice. Lo fa cioè trasformando quella che era una libera scelta, nella “regolamentazione” di uno stop. Nello specifico, la fermata di un bus. Sul quale però Antigone si sente libera di scegliere di non salire. Mai.
Perché regolamentare una libera scelta non spegne, né anestetizza, il sentire umano.
Perché non è vera solo la considerazione che “tutte le scelte che haifatto ti hanno portato adesso qui” ma anche che “tutte le scelte che nonhaifatto ti hanno portato adesso qui”.
Lo stesso Creonte, che in veste di “re” condanna l’ostinato sentire di Antigone, si chiede come “umano” – e scopre di desiderarlo anche lui – se mai qualcuno sarebbe disposto a morire per lui, pur di dar voce ad un sentire esuberante la Legge e al di lá del suo effettivo “merito”` quale destinatario del gesto.
Un sentire che, proprio in quanto “esuberante” rischia di perdersi, sfociando in una pulsione di morte. Così come rischia di essere risucchiato in un meccanismo di mortifera manipolazione – dove in cambio di una pseudo sicurezza si cede il proprio pensiero critico – il sentire di coloro che “con indifferenza” aderiscono alla Legge.
E’ un rapporto – questo tra la Legge e il sentire umano – che parla intimamente di noi. E a noi.
Non a caso il Teatro ne fa l’oggetto privilegiato della propria indagine.
Ecco allora che la regia di Latini sceglie di fare di ciascun personaggio “un corpo di voce”, capace di rendere magnificamente il vicendevole insinuarsi delle tensioni securitarie nel sentire esuberante dei protagonisti della storia.
La stessa scelta di distribuzione dei personaggi non è quasi mai univoca e la duplice partitura rende con avvincente efficacia il riflettersi – e quindi il visualizzarsi – di aree dell’animo di un personaggio nell’altro.
Le opportunitá offerte dallo spazio scenico del Teatro romano di Ostia vengono poi esaltate nel loro valore simbolico rendendole aree dell’animo dei protagonisti. Ad esempio, lo spazio dell’orchestra ospita l’area più enigmaticamente sotterranea non solo di Antigone – la cui restituzione da parte del Latini attore si incide nello spettatore per una sublime bellezza vertiginosamente aerea – ma anche degli altri personaggi.
Anche i costumi – curati da Gianluca Sbicca – esaltano i colori e le morfologie vocali dei personaggi, la cui unicitá del volto è parzialmente celata da una maschera omologante – che ricorda quelle antigas del periodo bellico della Seconda Guerra Mondiale. Maschera alla quale possono rinunciare quando scendono nell’area sotterranea della propria psiche.
Nell’area superiore del palco – area della cittá di sopra, ordinata dai principi della Legge di Stato e simbolo dell’area psichica dell’io – le posture e i gesti della voce/corpo dei personaggi si esprimono attraverso la meccanicità dell’obbedienza, alludente a quella di marionette i cui fili sono gestiti dall’opinione pubblica della cittá: un agglomerato di mezzi di comunicazione uniformante. La cura delle scene é di Gregorio Zurla.
Le musiche e i suoni di Gianluca Misiti, nonchè la drammaturgia delle luci di Max Mugnai, sono anch’essi sensuale corredo acustico di una messa in scena sapientemente versata nelle orecchie dello spettatore.
E che inizia così:
Roberto Latini
“Ecco. Questi personaggi stanno per rappresentarvi la storia di Antigone…”.
L’ “Ecco” che apre il prologo è un vero e proprio “ecce homo”: come a dire “eccoli, guardateli, sono proprio questi personaggi qui, questi davanti a voi, che fanno la storia (oltre che il mito) di Antigone”.
Ed é la voce solenne e suadente di Francesca Mazza che – come in un reportage esistenziale – ci rivela ritratti acuminati di personaggi assai riconoscibili: a noi vicini, prossimi.
Vale qui la pena ricordare che Anouilh fu trascinato a scrivere la sua “Antigone” non appena appresa la notizia dell’attodel giovane Paul Colette – atto rivendicato senza porsi a rappresentante di alcuna idea politica – con il quale aveva attentato, senza fortuna, alla vita del vice di Philippe Pétain (che allora governava la Francia di Vichy) conquistandosi le percosse della polizia, una condanna e la deportazione.
Personaggi quindi – quelli annunciati nel prologo – che non hanno nulla di rassicurante: escono fuori dai confini della tragedia e ci vengono a graffiare. O ad accarezzare, complici. E ci sussurrano – spogliandoci delle nostre maschere – quali sono le ombre che ci costituiscono. E così, denudati, restiamo a guardarci.
Francesca Mazza
Accorgendoci come non ci sia davvero niente di rassicurante nelle nostre tenere e vigliacche esigenze di sicurezza.
Intenzione dell’autore è quella di non lasciarci “tranquilli”, come se la storia non ci riguardasse davvero, o come se ce la potessimo cavare con una rassegnazione furba: indifferenti, senza dubbi, senza turbamenti, “sempre innocenti, sempre soddisfatti di noi stessi e della giustizia… senza immaginazione”.
Intenzione dell’autore è contaminarci dell’urgenza ad andare a “scovare” – un pó come fa Emone – l’Antigone che è in noi, in tutti noi. Perché ora la nostra Antigone l’abbiamo nascosta “laggiù nel fondo” della nostra anima. Un pó troppo in fondo, forse. Come Creonte.
Silvia Battaglio
Ma anche come Ismene: una sorella incline sí al conversare e all’omologarsi ma anche a quella meditazione solitaria propria del personaggio del “messaggero” (nella doppia partitura un’interessante Silvia Battaglio).
Solo ora, così predisposti gli spettatori attraverso un prologo spietatamente poetico, la recita può iniziare.
Manuela Kustermann
“Da dove vieni?” – è la voce insieme stridula e rauca della meravigliosa Nutrice di Manuela Kustermann, solo lei capace di intuire l’essenza volatile di un’ Antigone – “dal passaggio più leggero del passo di un uccello” – che fin da piccola piangevapensando che c’erano tante bestioline, tanti fili d’erba nel prato e che non si poteva prenderli tutti.
Lei, la Nutrice, una donna dalla sensibilitá ancestrale: “marmotta” e “cane da guardia” si definisce. E si rammarica di non esser riuscita ad essere stata sufficientemente attenta nel controllare la “tana” da lei scavata. Sente, infatti, a qualche livello, l’attrazione pericolosa di Antigone per la notte, per il mondo di sotto. E questo “la manda in oca”: la rende goffa e confusa.
Sente che é una bambina che si sta improvvisando adulta, senza passare per l’adolescenza. Una piccola Antigone che non vuole avere ragione ma che si ostina a fare ció da cui si sente chiamata. Senza voler scendere a compromessi. “Ancora troppo piccola per tutto questo”: essere catturata e insieme essere per la prima volta se stessa.
Orgogliosa come “un piccolo Edipo”, Antigone é consapevole che il re di Tebe “deve” farla ammazzare “senza volerlo”. Perché questo significa essere un re. Ma, se oltre ad essere un re é anche “un essere umano”, deve farlo in fretta: solo questo lei gli chiede.
Creonte (qui, una coinvolgente Francesca Mazza) comprende la richiesta di Antigone e le confida: “avrei fatto come te, a vent’anni. È per questo che mi bevevo le tue parole. Ascoltavo dal fondo del tempo un piccolo Creonte magro e pallido come te e che non pensava ad altro che a dare tutto anche lui”.
Ora, invece, Creonte é un uomo che “gioca al gioco difficile di guidare gli uomini”. Un gioco difficile, il suo, non essendo guidato dalla passione ma solo dalla spinta all’esecutivitá, propria di “un operaio sulla soglia della sua giornata”.
E’ un re che ha paura, Creonte, e che rimpiange la sua vita di prima: quella ribelle dei vent’anni e quella precedente alla morte di Edipo: una vita noiosa e libera da responsabilitá.
Non immune dalla paura é la stessa Antigone, che cerca il calore umano dello “sfregarsi” in un abbraccio, prima di ogni momento particolarmente difficile. E lo chiede apertamente: alla Nutrice ma anche ad Emone e finanche alla guardia (qui un’Ilaria Drago efficace in entrambe le partiture).
Ma un nuovo “Ecco” apre l’epilogo affidato alla vocalitá decisa e vellutata di Manuela Kustermann.
“Ecco, senza la piccola Antigone, è vero, sarebbero stati tutti più tranquilli. Ma adesso è finita”.
E ritorna l’attenzione puntata proprio su quei personaggi che Anouilh ci aveva posto di fronte al momento del prologo e che, senza la storia di Antigone, sarebbero stati “tranquilli”: senza turbamenti. Anche gli spettatori senza la storia dell’ Antigone di Anouilh sarebbero stati piú “tranquilli”: non sarebbero stati sollecitati a rispecchiarsi nelle diverse aree contrastanti del sentire dei diversi personaggi coinvolti nella storia.
Ma la vita non ci chiede di essere “tranquilli”, men che meno “indifferenti”, come invece fanno le guardie: atteggiamento con cui Anouilh non a caso chiude il testo. Loro si curano solo di giocare a carte, ovvero di giocare ai soldi.
Ma ogni fine contiene anche un nuovo inizio: é il senso del passato.
E allora Jean Anouilh chiude con un paradosso per dare vita a un nuovo enigma: chi sono coloro che invece di avere cura del rispetto della giustizia, amano giocare ai soldi?
Ma soprattutto: chi sentirá l’esigenza di decifrare questo enigma, di interpretarlo, di farlo risuonare in se?
Attraverso questo spettacolo Roberto Latini ci fa dono, ancora una volta, di una splendida testimonianza dell’esigenza di prenderci cura di noi. Di tutti noi.
E lo fa indirizzando il nostro sguardo su chi – precedendoci – ha dovuto giá “scegliere le domande da infilare nelle tasche del tempo, dell’età, della speranza” – come scrive splendidamente lui stesso, nelle note di regia allo spettacolo.
Domande che ci parlano di un desiderio che custodisce “una veritá vera, scomoda, incapace, parziale”. E cioé che “la nostalgia del vivere é precedente a tutti noi”.
Per questo, noi che ora siamo vivi, possiamo evitare di “dolcemente dimenticare” le tracce e le rovine lasciate da chi ci ha preceduti: é questo quel “senso del passato” di cui questo Festival ha cura di parlarci. Perché quelle tracce e quelle rovine chiedono continuamente di essere riesaminate.
Perché il nostro passato – come ci ricorda Latini nel suo finale – é il risultato non solo delle scelte che abbiamo fatto, ma anche di quelle che NON abbiamo fatto.
Travolgente successo al Teatro romano di Ostia per la prima dell’ Edipo re di Sofocle nell’adattamento e regia di Luca De Fusco, traduzione Gianni Garrera.
Luca De Fusco
(ph. Tommaso Le Pera)
Uno spettacolo con Luca Lazzareschi, Manuela Mandracchia, Paolo Serra, Francesco Biscione, Paolo Cresta, Alessandro Balletta – in prima nazionale dal 2 al 6 Luglio – che inaugura la prima edizione del Teatro Ostia Antica Festival- Il senso del passato.
Lo sguardo dello spettatore – incastonato nell’area Archeologica degli scavi e insieme solleticato dall’invitante brezza salata del ponentino romano- inizia a fare esperienza di quella ritualità propria del rapporto tra libertà e necessità, di cui il testo di Sofocle – qui tradotto dal filologo Gianni Garrera – ha cura di descriverci.
Emerge così, dal crepuscolo estivo, una scena sempre più ammiccante e notturna. Modulata in diversi livelli di scale, che ospitano presenze simboliche. Alludenti a identità segretamente celate sotto la formalità borghese di tre cappelli magrittiani e in una testa in gesso velata, sempre di magrittiana memoria, splendida allusione al rapporto dell’uomo con la conoscenza.
Una scena essenziale e simbolica – curata dall’elegante estro scenografico di Marta Crisolini Malatesta, qui artefice anche dei costumi – che richiamandosi alle potenzialità dinamiche insite in una concezione scenica visionaria come quella di Adolphe Appia, va al di là della mera messa in scena di un testo letterario. E si apre al potere della luce come elemento visivo, capace di creare un’atmosfera: mutando assieme alle azioni e alle emozioni dell’attore.
Concezione scenica efficacemente in sinergia con l’estetica surrealista magrittiana, in grado di insinuare dubbi su oggetti, paesaggi ed esperienze della più concreta e banale vita reale, proprio attraverso un maniacale realismo espressivo. Ne scaturisce così un paradosso dall’illusionismo onirico, perfetto per dare ospitalità alla tragedia dell’Edipo re, così come immaginata dallo sguardo registico di Luca De Fusco.
Ecco allora che, furtivamente, lo spettatore si trova calamitato in un misterioso avvio, che coincide con l’introduzione a una dimensione altra. Attraverso un disegno luci atmosferico e narrativo – la cui cura è affidata a Gigi Saccomandi – entra in scena il linguaggio onirico/inconscio della luce insinuante delle ombre, accompagnato dalla misteriosa cromaticità di una tessitura drammaturgica al violino – le musiche sono di Ran Bagno – il cui virtuosismo, incarna quel quid di trascendentale, fascinoso e conturbante.
Complice una creazione video-scenografica che, come uno specchio, rimanda e visualizza surrealisticamente l’habitat inconscio della psiche dei personaggi – le splendide creazioni video sono opera di Alessandro Papa – anche lo spettatore viene gettato nella situazione traumatica della carestia e della successiva peste, in cui è immersa Tebe. Edipo è il re, e a lui le varie aree della sua psiche, nonché la popolazione di Tebe, chiedono salvezza, liberazione.
L’adattamento e la regia di Luca De Fusco partono da qui, per concentrarsi sulla fragilità delle dinamiche conoscitive di Edipo, così simili alle nostre. Non a caso Freud fece della storia di Edipo il fulcro dell’esplorazione delle modalità psichiche umane.
Luca Lazzareschi
L’Edipo di Luca Lazzareschi è magnifico nel suo darsi in una sventurata ostinazione, che però non smette mai di commuoverci. Perché ci appartiene intimamente. Ce ne parla la sua postura così solenne eppure così tormentata: tutta incentrata nella tensione tra il suo ergersi da sapiente, la sua falcata sicura e il suo modo poi di abbassare il capo, proprio di chi viene colto e avvolto dalla confusione e dal dubbio. E lui, anziché restare in questo tunnel di fertili incertezze tutte da esplorare, le scaccia per poi inevitabilmente imbattervisi inconsapevolmente. E poi c’è la sua vocalità: così chiara e piena di ritmo, sicura fino all’impertinenza. E poi arrendevole, mortifera e mortificante.
E ancora, atterrisce e affascina il relazionarsi chiuso di Edipo verso Creonte (qui un efficace Paolo Serra), con il quale non riesce ad allacciare un equilibrio di posizioni divergenti. Edipo è il primo detective nella storia del romanzo giallo – come la lettura registica di De Fusco sa sottolineare – ma la sua capacità di indagine è efficace solo formalmente: Edipo sa chiedere attraverso un editto, sa da chi può farsi aiutare per ricavare indizi dalle tracce, ma poi non ce la fa a scendere ad analizzare le loro profondità.
Paolo Cresta (secondo Nunzio, secondo Corifeo) – Luca Lazzareschi (Edipo) – Alessandro Balletta (terzo Corifeo) – Francesco Biscione (primo Corifeo)
Incantevolmente struggente è la visualizzazione che di questo concetto ci offre la regia di De Fusco, quando sceglie di far prendere in mano ai tre Corifei (Francesco Biscione, Paolo Cresta, Alessandro Balletta) la testa di gesso velata. Per poi svelarla.
E’ una tendenza tutta umana, infatti, quella per cui ci si affanna nella curiosità insaziabile di sapere, per poi rimanere sorpresi nello scoprire che siamo capaci di sopportare solo piccole dosi della verità che ci si mostra.
E’ l’effetto che ogni volta l’oracolo ha su coloro che a lui si rivolgono, come ad una sorta di arcaico psicoanalista, quando sono in una crisi tale che non sanno da dove cominciare a dipanare la nebbia dei dubbi. Ad esempio quando Edipo scopre di essere stato adottato: l’oracolo non risponde alla sua domanda su chi sono i suoi genitori biologici ma gli dice che è importante che lui consideri – e quindi metta in relazione con le sue aree psichiche migliori – anche la realtà che dentro di sé esiste una tendenza che lo spinge ad uccidere suo padre, per poi sostituirlo nel ruolo di marito con la madre.
Ma Edipo è così turbato da non riflettere bene sul significato metaforico del consiglio. Lo prende invece alla lettera e crede che la cosa migliore sia sfuggire dai genitori adottivi. Così qui: quando Edipo manda Creonte a chiedere all’oracolo come fare per liberarsi dalla peste e poi ascolta il responso, inizia a fare fatica a rimanere concentrato sulle prime testimonianze. Perché sente che si sta avvicinando ad una verità grande, difficile da accogliere e da mettere in relazione con la propria autostima. Sente, che proprio nell’indagare, è se stesso che sta cercando. Ed è di straordinaria bellezza tragica.
Luca Lazzareschi (Edipo, Tiresia, Servo di Laio, Nunzio)
L’acme del disagio si raggiunge con Tiresia – qui reso attraverso una seducente ed efficace proiezione video, che ne fa una creatura volatile che dondola imprigionata in una gabbia. Lui che era un esperto dell’ arte divinatoria analizzando il comportamento, il canto e la direzione del volo degli uccelli . Assai avvincente la sua vocalità: dalla musicalità cantilenante distorta, vagamente gracchiante eppure così divina.
Nella profonda lettura di De Fusco anche Tiresia – così come il Servo di Laio e il Nunzio, essendo coloro che a qualche livello conoscono la verità – divengono aree diverse della psiche di Edipo, le quali entrano in tensione con la prepotenza del suo ”io”. Che – come sosteneva Freud – “non è padrone in casa propria”. Infatti la tensione con l’area psichica rappresentata da Tiresia diviene così ingombrante, da far arrivare Edipo a sospettare un complotto contro di lui da parte dello stesso Tiresia e di Creonte.
Non lo convince a desistere dall’andare ciecamente avanti nella sua ricerca, neanche l’approccio di Giocasta (qui una suadente Manuela Mandracchia, meravigliosa nube cumuliforme), che versa nell’orecchio di Edipo il dubbio che in fondo gli oracoli non sono poi così puntuali. E che preferibile per lui sarebbe, scegliere “il meglio” piuttosto che “la verità”.
E così Edipo impara, e noi con lui, che nessuno in quanto “figlio” può essere padrone delle proprie origini. Tutti noi, sosteneva Jacques Lacan, veniamo al mondo “a mollo nel linguaggio dell’altro”. E il nostro primo “altro” sono i nostri genitori, dai quali Edipo non eredita altro se non un abbandono e un (mancato) infanticidio. Eredità che ripeterà, non accettando di “conoscere se stesso” nel bene e nel male, così come di non poter conoscere tutto. Tra l’altro, sostenere massicce dosi di verità non è affatto semplice: Jung diceva ai suoi pazienti psicotici che “è bene non aprire tutte le porte: quello che può uscire, rischia di catturare la mente senza restituirla”.
Ma se è vero che per Edipo, e per noi umani, fare esperienza di “libertà” significa conoscere se stessi nel bene e nel male ed accettarsi, dietro ad Edipo c’è anche “il destino” che parte dalla violenza subita da suo padre da parte dei Dioscuri di Tebe e poi a sua volta ripetuta da Laio su Crisippo.
E’ per questo che l’oracolo dice a Laio che, se avrà un figlio, ne verrà ucciso e diverrà lui marito a sua madre. E Laio anziché decifrare questo messaggio metaforico, pensa di evitarne gli effetti dapprima proteggendo i suoi rapporti e poi consegnando il neonato affinché venga ucciso. Edipo sopravviverà e quando, scoprendo di essere un figlio adottato ne andrà a chiedere informazioni all’oracolo, lui stesso cadrà nello stesso errore di non decifrare l’oracolo ma di sfuggirne gli effetti interpretandolo letteralmente. E così, sconvolgendo i rapporti “sociali” di parentela, Edipo – che aveva risolto l’enigma della Sfinge – finirà per darà origine lui ad altri enigmi, del tipo: “chi è colui che ha un padre che è anche un suocero? Chi è colui che ha una madre che è anche una moglie? Chi è colui che ha fratelli anche come figli? Tanto che, nelle “Fenicie”, Seneca mette in scena un Edipo vecchio e disperato a cui fa dire: “Se io da qui raccontassi ciò che ho fatto della mia famiglia, proporrei enigmi più inestricabili di quelli della sfinge”.
(ph. Claudia Pajewski)
Accattivante lo sguardo registico di Luca De Fusco nel suo scegliere di indagare, fino a visualizzare negli occhi dello spettatore ciò che Edipo tende ad allontanare da sè.
Lui stesso, il regista, un detective nel consultare e interrogare il passato.
Scoprendo di essere capace di cura e di responsabilità nel presente e nel futuro, così da tenere alta la consapevolezza di chi siamo, da dove veniamo e fino a dove abbiamo la possibilità di spingerci.
Per non perdere niente di ciò di cui è fatta la nostra vita. Niente e nessuno.
Da questo sguardo di cura sul passato che si riflette sul presente, prende forma anche il desiderio della realizzazione del Teatro Ostia Antica Festival-Il senso del passato: il Festival che a Roma ancora non c’era e che è stato fortemente immaginato da Luca De Fusco – ci confida Il Presidente della Fondazione Teatro di Roma Francesco Siciliano nel suo discorso di apertura, alla prima di “Edipo re”. Un nuovo inizio a cui la comunità romana ha risposto con grande entusiasmo.
Dopo i grandi successi dei primi due appuntamenti
“’Antigone di Mendelssohn” direttore Francesco Lanzillotta
e
“Edipo re” per l’adattamento e la regia di Luca De Fusco
il Teatro Ostia Antica Festival – Il senso del passato
prosegue con
“Antigone” di Jean Anouilh per l’adattamento e la regia di Roberto Latini.
Straordinario successo all’Auditorium Parco della Musica per l’Antigone di Mendelssohn – musiche di scena per la tragedia di Sofocle: direttore Francesco Lanzillotta, narratore Massimo Popolizio, maestro del Coro Andrea Secchi.
Un appuntamento di spiccata rilevanza artistica e culturale – nato dalla collaborazione tra l’Accademia Nazionale Santa Cecilia e il Teatro di Roma – per restituire alla scena un’opera rara e affascinante come L’Antigone di Mendelssohn: una delle opere più singolari del repertorio romantico nel suo coniugare la potenza del linguaggio musicale con la profondità del testo di Sofocle, nella traduzione tedesca di Jacob Christian Donner.
Un passato a cui ritornare per rispondere alla sua richiesta di essere continuamente ripreso, rianalizzato, riletto. Perché c’è sempre qualcosa di vivo nel passato che chiede continue ricostruzioni inedite.
Concertata da Francesco Lanzillotta – uno dei direttori d’orchestra più interessanti nel panorama musicale italiano; tra i più apprezzati della sua generazione e regolarmente ospite di importanti compagini orchestrali – l’esecuzione dell’Orchestra e del Coro maschile dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha trascinato il pubblico in sala in un’esperienza – colma di entusiastica passione – all’interno dell’intensità del mito e del fragile stare al mondo degli uomini.
Merita di essere ricordato che le musiche per L’Antigone di Mendelssohn sono state eseguite dal vivo solo una volta prima di questa occasione: nel 1986, quando l’Orchestra ceciliana le ha portate in scena all’Auditorium Pio, sotto la direzione di Marcello Panni.
M° Francesco Lanzillotta –Massimo Popolizio
Dal guizzo liquido e affilato si è rivelata la riflessione carismatica indotta sullo spettatore dagli interventi del narratore Massimo Popolizio, che hanno abilmente regolato il flusso della relazione tra musica e testo. Stimolando nello spettatore un autentico interrogarsi al cospetto del mare del passato, ancora così vivo e inquieto nel presente.
Ma il dono più grande che la partecipazione a questa esperienza di teatro musicale lo spettatore custodirà con sé è l’aver sperimentato come si può vivere la drammaticità della tragedia con meravigliosa passione entusiastica.
Quell’entusiasmo che sedusse Felix Mendelssohn durante le prove finalizzate alla prima messa in scena del 28 ottobre 1841: “ora abbiamo due prove al giorno – scriveva in una lettera – e i cori sembrano esplodere: è una vera gioia. Il compito in sé è stato meraviglioso e ci ho lavorato con grande piacere”.
Quell’entusiasmo che presso i Greci era la condizione di chi veniva invaso da un furore divino: l’indovino, il sacerdote, il poeta. Ma anche l’uomo. Perché l’entusiasmo è un sentimento di potenza suprema: un invasamento che ci pone in contatto con la parte divina che è in noi. Quel fervore impareggiabile, che è arcaicamente religioso e poetico, musicale e profetico, trascendente e confitto nel corpo.
Felix Mendelssohn
Mendelssohn sa con la sua musica provocare nello spettatore gli effetti di quest’energia, sublimandoli con echi romantici dal temperamento elegiaco, quale più alta espressione dell’arte come sentimento. Dove si raggiunge la sintesi tra commozione individuale e idealizzazione della realtà. Un esempio meraviglioso di questa speciale cifra stilistica viene proposto allo spettatore attraverso la figura di Antigone, interpretata da Simonetta Solder in tutta la passionalità arcaica di bimba cantilenante, dai contorni taglienti quasi di sacerdotessa.
Massimo Popolizio – M° Francesco Lanzillotta – Simonetta Solder
Ma un’altra fulgente dimostrazione di questo stile ci viene restituita attraverso l’adattamento del testo recitato realizzato da Gianni Garrera – filologo, traduttore e studioso di riferimento in italia di Søren Kierkegaard – dove ad esempio il suicidio di Antigone viene metaforicamente paragonato al poetico dondolio di un’altalena.
E ancora, un altro fascinoso esempio è rintracciabile nell’Introduzione, dove viene stabilito il conflitto tra Creonte e Antìgone, tra Stato e individuo. Qui inizialmente si ascoltano accordi solenni in ritmo puntato (associati al sovrano Creonte): un Andante maestoso che viene bruscamente interrotto da un cambio di tempo, che introduce una sezione in ritmo ternario. Un Allegro assai appassionato che, nel tratteggiare il carattere di Antigone, segue uno sviluppo del tutto personale.
La composizione delle musiche di scena op. 55 per la tragedia di Sofocle è il frutto dell’incontro del più classico dei musicisti romantici con il più classico dei tragici greci. Nell’ ambiente culturale germanico l’Antigone costituiva l’esempio più perfetto di teatro, che i Greci ci avessero lasciato.
Il progetto originario prevedeva un’orchestrazione esclusivamente composta da strumenti che avessero degli equivalenti nell’antichità greca: il flauto (per l’aulo antico); la tuba e l’arpa (in sostituzione della lira). Le parti cantate poi dovevano essere affidate ad un coro maschile, che avrebbe seguito una linea rigorosamente monodica. Ma il regista, letterato e scrittore Ludwig Tieck dissuase l’amico Mendelssohn a procedere in tal senso: evidente era il rischio di una musica eccessivamente piatta e monotona rispetto ai gusti del tempo.
Mendelssohn rinunciò allora al suo proposito originario virando sull’uso di un’orchestra dove le parti corali venivano affidate ora ad un coro maschile, suddiviso in due semi cori con complessive quattro parti: due affidate ai tenori e due ai bassi. Complessivamente il coro constava di 16 cantori (diversamente dall’uso dell’epoca di Sofocle, che ne prevedeva 15) con un capo coro (un tenore o un basso) cui venivano affidate parti da solista.
Mendelssohn musicò per intero poi quei brani corali – momenti centrali dell’azione tragica – che fungono da intermezzo tra un episodio e l’altro: il parodo, i cinque stasimi e la parte finale dell’esodo.
Ad aprire la partitura, una compatta Introduzione: Andante maestoso – Allegro assai appassionato.
“Il senso del passato” è il tema portante del Teatro Ostia Antica Festival, di cui L ’Antigone di Mendelssohn è lo spettacolo di apertura. Restare in dialogo con il passato è infatti lo snodo di questo testo sofocleo, nonché dell’avvincente spettacolo di teatro musicale, diretto da Francesco Lanzillotta.
Un passato che ci chiede di essere continuamente guardato, ascoltato, per divenire nuovo spunto di rilettura e quindi anche nuova riflessione sul presente.
Ce ne parla con struggente entusiasmo l’adattamento di Gianni Garrera, dove trovano ospitalità le insistenti richieste di Antigone – ma anche di Creonte, qui interpretato da Christoph Hülsen – affinché non solo i cittadini di Tebe ma anche gli spettatori si rendano disponibili a farsi “testimoni” della situazione dilemmatica, nella quale sia lei che Creonte si sono trovati ad essere protagonisti.
Frangente esistenziale non così lontano dai dilemmi contemporanei. Tanto che, a qualche livello, lo spettacolo di teatro musicale diretto da Lanzillotta tende a sottolineare quegli elementi del testo originale che lo rendono quasi “un processo” relativo ad un fatto di cronaca contemporanea.
Parallelamente, lo spettacolo risulta associabile anche ad una rievocazione sacra della passione di Antigone, scandita dalle stazioni annunciate dagli interventi narrativi di Massimo Popolizio: “Qualcuno ha seppellito…”; “E’ stata riconosciuta…”; “Ora Antigone percorre l’ultimo tratto viva …” ecc.
Massimo Popolizio
Perché una delle domande che il testo ci rivolge è:
Come si fa a tenere insieme una comunità, quando qualcuno non si riconosce più intorno a certe parole, come “stato di diritto”?
Ma anche:
Come si fa a tenere insieme una comunità, all’indomani di una guerra, quando un capo politico si trova in difficoltà nel gestire “le differenze” e – per evitare l’effetto contagio nonchè la perdita della proprio reputazione – è tentato di ricorrere alla violenza?
Voi spettatori cosa fareste? – sembra chiederci Sofocle.
La risposta ovviamente non può essere univoca ma andrà cercata di volta in volta nella pratica politica. Ma vale la pena chiedersi: qual è il principio che può guidare la politica nell’avere la sensibilità di capire quando e come mettere “confini” e quando invece è necessario “incontrarsi” sul confine?
Gianni Garrera
L’adattamento di Gianni Garrera prende forma proprio intorno al diverso modo di abitare il concetto di confine, da parte degli uomini. “Superare i limiti è l’insensatezza” ma il desiderio dell’uomo tende ad eccedere. Errare è quindi umano, ma ostinarsi è qualcosa che può accecare e che rischia di farci desistere dall’impegnarci a trovare “le parole” più adatte per esprimere il nostro disagio. Orientandoci piuttosto verso “il silenzio” e quindi verso la violenza dei gesti. E non riuscendo spesso a riconoscere, noi umani, che la saggezza umana non può mai essere “totale”, anziché continuare a confrontarci per incontrarci in qualche punto del confine delle differenze che ci separano, siamo spinti dall’odio a credere di poter esercitare un diritto alla violenza sull’altro, o su noi stessi.
Ad abitare, da viva, il confine della morte è condannata Antigone, per aver sollevato il problema se la morte di un “nemico” dello Stato possa essere oggetto di cura (di sepoltura) da parte di un familiare. E quell’accoglienza alla sua richiesta che non trova spazio in Creonte – che ricorda un po’ quel mancato cedere il passo su cui si scontrarono Edipo e Laio – Antigone è convinta che le verrà riconosciuta nel mondo sotterraneo di Ade, luogo di residenza di Dike (dea della giustizia). Ed è così che il desiderio di sepoltura raggiunge in Antigone un’ostinazione tale – sordo com’è ad ogni tipo di dubbio e alla cura verso la propria vita – da divenire un desiderio di morte.
Ma la capacità di decisione di Antigone non è libera dai lacci arcaici del suo γένος (ghénos = stirpe, famiglia). La narrazione di Sofocle infatti prende avvio da un antecedente fratricida – ancora una volta legato ad un mancato cedere il passo all’altro – consumato sulle mura di Tebe. E Sofocle scrive che i due fratelli di Antigone – Eteocle e Polinice – sono caduti di “reciproca” morte, “condividendo” una pozza con lo “stesso” sangue. Un sangue speciale, diverso: incestuoso, chiuso. Sangue di una famiglia dove i confini sociali sono saltati: dove un fratello (Edipo) può essere anche un padre. E dove una sorella, Antigone, può dire a Creonte che lei può farsi legge a se stessa: una legge tutta sua, della sua stirpe edipica, che sovverte l’ordine “normativo” della vita della società.
Ma, al di là dei lacci arcaici che imbrigliano Antigone al suo destino, Sofocle sembra volerci chiedere:
come ci si educa al passaggio da individui a cittadini, da famiglia a società?
Un dilemma nel quale anche noi siamo stati recentemente chiamati in causa, in occasione della crisi pandemica, dove abbiamo sperimentato come nessuno si salva da solo e che anche chi ci è prossimo può esserci “nemico”.
Hegel nei “Lineamenti di filosofia del diritto” immaginava che un passaggio graduale dalla sfera individuale a quella pubblica potesse avvenire attraverso l’istituzione scolastica.
Ma anche il Teatro, da sempre, si dedica a svezzarci da “figli” al rango di “cittadini”.
Lo stretto legame fra il teatro tragico del v secolo a.C. e la politica ateniese ne è un dato di fatto, largamente condiviso. E quello di Sofocle impegnato nell’educare la sua Atene – splendida ma anche piena di contraddizioni – é il profilo di un moderato vicino, per mentalità e ideali, ai ceti aristocratici ateniesi, propenso a collaborare con la democrazia periclea, ma al tempo stesso costantemente impegnato a segnalare al suo pubblico le debolezze intrinseche di quel sistema e i rischi di una sua degenerazione.
Ecco allora che questo interrogarsi sul “senso del passato” che ci propone il Teatro Ostia Antica Festival diventa oggi più che mai necessario. E l’entusiasmante Antigone di Mendelssohn diretta da Francesco Lanzillotta, ne è stata una luminosa occasione di riflessione.
Il prossimo appuntamento del
Teatro Ostia Antica Festival
Il senso del passato
sarà
al Teatro Romano di Ostia Antica
dal 2 al 6 Luglio
con Edipo Re di Sofocle traduzione Gianni Garrera adattamento e regia Luca De Fusco
In uno spazio densamente simbolico – il cui progetto scenico è curato da Marta Crisolini Malatesta – tre aperture fanno da confine al passaggio tra ciò che è interno e ciò che è esterno, tra il sopra e il sotto. Tra il sogno e la veglia. Tra il guardare e l’essere guardati.
Un passaggio che allude non solo al viaggio in treno della Ortese verso la Capitale ma ad un viaggio interiore. Costellato di aperture che solo apparentemente fanno da confine tra ciò che è più chiaro e ciò che è più oscuro. Una fluidità insolente e malinconica, a cui alludono le sonorità di Ran Bagno. Così come i contributi video di Alessandro Papa.
E’ un viaggio dove occorre mettersi in ascolto, in silenzio. E guardare dentro di sé. E poi fuori. E ancora dentro. Ancora. Limitando i movimenti, “senza sprecarsi”.
E’ un viaggio che chiede di essere visto e di lasciarsi vedere attraverso una “lente scura”: un ossimoro.
Anna Maria Ortese
Anna Maria Ortese sceglie la figura retorica dell’ossimoro per accogliere suggestivamente questa sua raccolta di resoconti di viaggio in giro per l’Italia, e non solo, originariamente usciti su varie testate fra il 1939 e il 1964.
Lo fa per attirare la nostra attenzione: l’inatteso accostamento di termini opposti tende a sorprendere il lettore, invitandolo a riflettere sul significato che si cela dietro la contraddizione.
Lo fa per aiutare il nostro sguardo a perdersi dietro al suo. Ci vuole infatti qualcosa che faccia arrivare subito la sensazione di un contrasto, di un’opposizione che, pur sembrando paradossale, riveli però una verità più profonda, o una sfumatura di significato nascosta.
E l’ossimoro, come una lente scura, può essere utilizzato per indagare sugli aspetti contraddittori dell’esperienza umana. Perché è proprio l’accostamento di termini opposti a permetterci di esplorare le complessità della realtà, avvicinandoci alla possibilità di esprimere concetti, che sarebbero difficili da comunicare in un modo più convenzionale.
Federica Piccolo
Il termine “lente”, infatti, è per eccellenza simbolo di ricerca, di indagine e di comprensione completa della realtà. La lente aiuta a veder meglio, più in profondità, con più chiarezza, evidenziando dettagli che altrimenti sarebbero sfuggiti.
Qui, invece, la Ortese associando al termine “lente” l’aggettivo “scura” raggiunge l’effetto di fermare per un attimo la nostra attenzione. “Ma come?” – ci viene da pensare.
Al di là di ogni facile pessimismo, quello della Ortese è un invito programmatico ultra realistico: il mondo chiede di essere inseguito – e non catalogato – per essere riconosciuto. Occorre leggerlo, anzi “sentirlo”, e tentare di scriverlo come si farebbe con un mistero: nel suo darsi come “oscuro”. Come suggestivamente suggerisce la drammaturgia del disegno luci di questa mise en scène di Lucia Rocco.
Un’oscurità che non è tanto una condanna, né solo una privazione. Ma anche fascino: incanto per ciò che non può essere posseduto appieno. E che quindi va continuamente ricercato. E che se si mostra, non è semplice da descrivere.
Lucia Rocco
E lo spazio scenico immaginato dalla regia di Lucia Rocco ne è una fascinosa visualizzazione. Che aiuta lo spettatore, fin dall’entrata in sala, a liberarsi del superfluo e a rendersi disponibile a guardare il mondo e a lasciarsene guardare, seguendo la “lente scura” della scrittura della Ortese. Di cui Francesca Piccolo si fa interprete, con la complicità di Federico Gariglio.
Riuscire a “cogliere e fissare… il meraviglioso fenomeno del vivere e del sentire” (da Corpo Celeste) è “la legge del desiderio” della Ortese.
Perché il mondo per lei“è una cosa fatta di vento e voci, fatta di attese e rimpianto di apparizioni, fatta di cose che non sono il mondo» (da In Sonno e In Veglia). Un mondo che si dà come viva relazione fra tutte le creature viventi, da cui non è esclusa la pietra. Così come la farfalla che, posatasi a curiosare sul finestrino del treno, viene salvata dalla Ortese dall’insensibilità del suo vicino di posto, disposto a sopprimerla.
Urgenza della scrittura della Ortese è, infatti, tentare di restituire questa relazione “cosmica”, assecondandone il movimento: per somiglianze, per spostamenti, per metafore.
Francesca Piccolo – Federico Gariglio
In Corpo celeste, la Ortese insiste sulla necessità di restituire al reale «il significato di appartenenza a un’altra realtà, con la quale sembrerebbe necessario, per rinnovarsi, confrontarsi ogni tanto». E anche lo stesso Pietro Citati nella post fazione a “L’iguana” parla di lei come posseduta da “un ardore, un fuoco incontenibile, a cui la letteratura non sembra bastare”.
Anche il particolare scrivere di luoghi della Ortese sembra rispondere ad una sua intima esigenza dispecchiarsi in essi, come in un viaggio dentro se stessa. Quasi, il suo, un “conosci te stesso” alla volta di un luogo che si possa dire “casa”. Sebbene la Ortese intuisca, a qualche livello, come ogni luogo parli di una parte di se stessa; come ogni luogo celi un condominio di sé, pronti a farsi sentire.
Francesca Piccolo – Federico Gariglio
E quando, qui in “Lente scura“, scrive: “Non auguro a nessuna persona giovane e vagamente dissociata come io ero… di attraversare l’Italia in un dopoguerra subito privo di unità e memoria, come io l’attraversai. C’è da uscirne spezzati. Tutto sembra estraneo, meraviglioso e spietato insieme: siete in casa d’altri!” – non si può non andare con il pensiero a quell “io che non è padrone in casa propria” di cui parlava Freud.
Acutamente la stessa interpretazione di Francesca Piccolo sa muoversi su un registro molto vicino al registro della poesia. Dove un sottile e sublime piacere nasce dallo smarrimento e dalla paura per qualcosa di magico, di sacro. Anche quando parla di considerazioni politiche o filosofiche.
La scrittrice mai rinuncerà a posizioni critiche nei confronti dell’ingiustizia sociale: un tenace impegno etico pervade le pagine dei suoi romanzi e dei suoi racconti, così come ben proposto in scena dal sincero appassionarsi di Francesca Piccolo. Né mancherà di essere critica verso quel mondo letterario, dal quale si sente ingiustamente respinta e a cui sente di appartenere.
E così la Ortese, guidata da una curiosa e mai soddisfatta irrequietezza, lasciandosi trasportare dagli oscuri vagoni di un treno o dai piccoli sedili di una Topolino, ci porta a fare esperienza di come il dopoguerra abbia trasformato l’anima di città straordinarie, avvolgendola in uno spirito triste d’inevitabile decadenza, al di là delle splendide apparenze.
Roma, ad esempio, che ad un primo sguardo ammalia e sembra preannunciare una libertà da capogiro, in realtà risulta immersa nella disattenzione. Che la porta a non generare una borghesia vitale ma solo “un grumo di sangue benestante”; così come senza alcuna tensione è lo spirito del popolo che, non essendo affamato di cultura, non può pensare di esercitare alcun potere.
Federico Gariglio – Federica Piccolo
Anche i caffè letterari di Piazza del popolo sono abitati da “gente straziata senza saperlo”. Una città mutilata, “governata chissà da chi”, che riporta alla memoria della Ortese alcuni versi di Eugenio Montale, da “La casa dei doganieri”:
Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.
Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.
Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende…)
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
Federica Piccolo
Una poesia che descrive con sublime realismo la condizione dell’animo di una Roma che ha sperso il valore simbolico proprio di una dogana: la sua funzione di confine, capace di regolamentare relazioni. A differenza della Napoli di questo stesso periodo storico, dove la Ortese ha potuto contemplare il perfetto co-abitare del disordine e della bellezza del mondo, fatta di costante attrazione e repulsione.
Se il mondo è attraversato da contraddizioni che sfidano la sensibilità umana, allora – sembra invitarci a considerare Anna Maria Ortese, con la sua scrittura e con la sua poetica – occorre attenersi a questa realtà, facendosi carico di tale complessità. Senza cercare di semplificare quello che è complesso e che per significarsi ha bisogno di contraddirsi.
Invito della Ortese che questa mise en scène di Lucia Rocco è riuscita a far entrare nei nostri occhi. Lasciandolo sedimentare, fertilmente.
Si conclude così, ci auguriamo solo momentaneamente, il ciclo di allestimenti della Rassegna Racconti romani: un ciclo di opere letterarie di ambientazione romana, per un viaggio indimenticabile nella letteratura italiana.
Evento di straordinario interesse per gli appassionati di letteratura, teatro e storia romana.
Un affascinante viaggio all’interno della magia della parola, primo incanto dell’uomo, curato nella scelta dei testi dal raffinato sguardo di scrittori quali Emanuele Trevi ed Elena Stancanelli. A firmarne le regie sono stati Danilo Capezzani, Maddalena Maggi, Lucia Rocco.
Sontuoso luogo d’accoglienza, il Teatro di Villa Torlonia che, come auspicato dal Direttore del Teatro di Roma Luca De Fusco, si rivela davvero un congeniale “tempio della letteratura, dove far rivivere il rapporto tra parola detta e parola scritta. Un luogo in cui sperimentare una nuova relazione tra teatro e letteratura”.
Federico Gariglio – Lucia Rocco – Federica Piccolo
“Johan e io non abbiamo più contatti. Nessun tipo di contatto da molti anni ormai. E le due nostre figlie sono distanti, anche per me. Martha è in una casa di cura e sprofonda ogni giorno di più nell’isolamento della sua malattia… E molto spesso penso che dovrei fare una visita a Johan”.
Quanto ci rende vivi l’entrare in “contatto” con qualcuno diverso da noi, impegnandoci a mantenere aperto questo dialogo?
Quanto ci risulta più rassicurante evitare questo contatto, o interromperlo al palesarsi degli inevitabili contrasti?
In questo poetico e disperatamente vitale ultimo lavoro, Ingmar Bergman porta lo spettatore a focalizzare, di scena in scena, l’attenzione su come le relazioni umane saltino in aria, o si corrompano, quando viene a mancare un autentico “contatto” con l’altro.
Un “contatto” cioè capace di sgretolare la nostra immobile identità, spingendoci ad interrogarci su noi stessi, attraverso il dubbio veicolato dall’altro. Sospensione di giudizio che permette alla coscienza di dischiudersi per imparare a vivere senza la certezza e tuttavia senza restare paralizzati dall’esitazione. E’ l’effetto che, ad esempio, “il contatto” di Anne ha avuto su Johan: una donna che lui definisce “venuta su questa terra per renderla meno odiosa”.
Caterina Tieghi (Karin) – Elia Schilton (Henrik)
Non c’è inquietudine nel principio di identità che esclude la contraddizione dell’altro, perché la realtà così mutilata non appare nella sua autentica duplicità.
Anche l’identità personale non è una prerogativa individuale, bensì un fatto sociale: sono gli altri che la rafforzano o la mortificano con il loro riconoscimento o misconoscimento. E se nella nostra identità si esprime la nostra unicità, questa unicità ci è data dall’essere riconosciuti come tali dall’altro.
Elia Schilton (Henrik) – Caterina Tirghi (Karin)
La forma musicale che dà origine al titolo è la Sarabanda dalla quinta Suite di Bach, nella tonalità meditativa di Do minore, composta per violoncello solo, con la prima corda in “scordatura”. Metaforicamente, anche “la sarabanda” allude, nel suo significato originario, a questo concetto di dialogo alla ricerca della propria identità, attraverso il riconoscimento dell’altro.
La sarabanda nasce infatti come una danza a due: una sorta di dialogo eccitante ed eccitato che prevede, attraverso movenze lascive, un “contatto” tra i due danzatori. Proprio come gli opposti di un dialogo, i due si fronteggiano per conoscersi meglio, disponibili al confronto per lasciarsene modificare. Senza mai escludere l’altro.
E forse non è un caso che il primo titolo di questo testo di Bergman fosse: “Tentativi di analisi di una situazione complicata”.
Successivamente per il cristianissimo Occidente questo danzare “con contatto” sembrò un po’ eccessivo, tanto che nel 1583 Filippo II di Spagna vietò la danza della sarabanda. Finchè nel Seicento barocco la sarabanda fece di nuovo la sua ricomparsa, questa volta però come danza dall’andamento lento e solenne.
E qui in Bergman il concetto di sarabanda sembra trovare espressione anche nella tensione tra la sua prima valenza di danza caoticamente eccitante, presente all’interno dell’inconscio di ciascun personaggio, dove si sfrena il loro furore indecente; e la sua seconda valenza di danza lenta e solenne, presente a livello conscio attraverso apparenze calme e manierate. Una danza quindi tra il ribollire indecoroso dell’inconscio e il perbenismo stagnante del conscio: opposti in dialogo, in cerca di “contatto”.
Un esempio di questo dialogo danzato è ben descritto da Anne, un personaggio assente perché defunto ma la cui testimonianza esistenziale continua a ingombrare le vite di chi resta e fatica a coglierne l’eredità, facendola propria. Scrive Anne ad Henrick, suo marito, prima di morire: “io fingo di star bene, tu fingi di crederci, ma nonostante i nostri sforzi io leggo sul tuo viso la gravità del mio male”.
La sapiente restituzione dei personaggi da parte degli attori in scena – Renato Carpentieri (Johan); Alvia Reale (Marianne); Elia Schilton (Henrik); Caterina Tieghi (Karin) – riesce a veicolare questa danza ancor più che con le parole, attraverso una potente espressione non verbale.
Laddove le parole possono rivelarsi insufficienti, è l’espressione non verbale del corpo e della voce ( il silenzio) a rivelarsi un efficace mezzo per accedere al di là del conformismo razionale, verso il linguaggio raffinatamente enigmatico dell’inconscio.
Ed è così che il Johan di Renato Carpentieri riesce a “far sentire” allo spettatore come il suo immobilismo da eremita non sia ancora immune dalla seduzione di un’irrompente sorpresa, accompagnata dal “contatto” dei baci e delle carezze della Marianne di Alvia Reale. Lei, così composta ma ancora così capace di un accogliente e fresco entusiasmo. Nonostante la danza di esistere abbia messo la sua forza vitale femminile a silenziarsi, viene ancora “scelta” per confrontarsi in dialogo con quell’imprevedibile esuberanza che l’età mestruale scatena e di cui ora si sente come impossessata la Karin di Caterina Tieghi. Esuberanza che sarà decisiva nell’aiutarla a liberarsi – anche grazie al “contatto” con Marianne – dal giogo simbiotico di un narcisista manipolatore: suo padre, ovvero l’Henrik di Elia Schilton.
Una mirabile regia di Roberto Andò riesce a declinare efficacemente il movimento di questa dialogica danza esistenziale, proprio della sarabanda, anche attraverso una straordinaria costruzione dello spazio teatrale. E, nell’immaginarla, si avvale della complicità raffinatamente rigorosa di Gianni Carluccio, che ne cura le scene e il disegno luce.
Roberto Andò
L’adattamento ricavato da Andò – su traduzione di Renato Zatti – selezionando ed arricchendo il testo originale con creativo e fedele tradimento, viene visualizzato in scena da Carluccio attraverso la costruzione di una sorta di fondale che – come uno stupefacente paesaggio psichico – si apre, si chiude, avanza, arretra, evita o si focalizza ossessivamente su qualche dettaglio particolarmente significante del vissuto dei protagonisti. Movimento psichico che ricorda fascinosamente quello di una macchina da presa, così come quello di una “carrellata”.
Così facendo, ottiene il risultato di riuscire a visualizzare i diversi punti di vista prodotti dai dialoghi tra i personaggi, attraverso “inquadrature” che aiutano lo spettatore nella identificazione dei relativi sottotesti. Effettivamente, quella portata in campo da Gianni Carluccio, è davvero una splendida soluzione scenografica per creare una scala di piani cinematografici, a teatro.
E poi ci sono le incantevoli musiche originali di Pasquale Scialò – sempre in ascolto dei timbri della narrazione immersa in questa dimensione filmica – a fare da sfondo e ad accompagnare la cadenza ritmica delle 10 scene, precedute da un prologo e seguite da un epilogo. Una cadenza inframezzata da momenti di buio, abitati così pervasivamente dalla meravigliosa indicibilità propria del linguaggio musicale proposto da Scialò, da risultare davvero efficace nell’aiutare lo spettatore ad entrare in “contatto” con tutta la potenza tattile delle tensioni dialogiche dei protagonisti.
Alvia Reale (Marianne) – Caterina Tieghi (Karin)
(ph. Lia Pasqualino)
La bellezza della vita, non disgiunta dall’angoscia, si rintraccia – sembra volerci dire Bergman – nella sua imprevedibilità e nelle occasioni di contatto umano che ci propone. L’angoscia è il sintomo della vertigine che provoca in noi il darsi sconfinato della libertà proprio nell’angustia delle nostre mani. E’ un’ebbrezza che può togliere il respiro e far precipitare nell’agitazione, tanto che per uscirne l’essere umano può essere spinto a chiudersi in se stesso, nell’illusione di essersi ritagliato così una più adeguata dose di libertà. Ma anche scegliere di non scegliere è una scelta. Di cui comunque siamo responsabili.
Da qui si origina l’interessante finale proposto da Roberto Andò, dove tutti i personaggi vengono colti nel loro denudarsi dai propri habiti (quei modi di essere che ciascuno sceglie di vestire al fine di essere ipocriticamente accettato) per rivelarsi, ciascuno a suo modo, in un’autentica e disperata richiesta d’amore. Epidermicamente in attesa di essere “toccati” dall’altro – che invece si tiene distante, chiuso com’è nella propria angoscia – per ricevere la conferma della propria individualità. E della propria esistenza.
Il loro è quel “grido nella notte” – iconograficamente visualizzato qui in una compresenza di riso isterico/panico/dolore estatico – che tutti ci accomuna, perché parla del nostro umano cadere, del nostro essere abbandonati, del nostro tradire, della nostra solitudine, della nostra debolezza.
E questa scena che ci fa da specchio – noi siamo loro, noi siamo come loro – è un invito brutale e misericordioso a prendere consapevolezza della nostra “comune” condizione esistenziale. Quella di Roberto Andò è una potente esortazione a restare “in contatto” tra noi che condividiamo la medesima condizione esistenziale. Evitando di chiuderci come monadi. Perché l’angoscia di vivere, tutti la conosciamo. Anche se tendiamo a vestirla di altro.
Esortazione, questa di Andò, rintracciabile nello stesso testo di Bergman. Almeno due sono i momenti: il primo, in apertura, è proprio quella “scelta d’impulso” – il cui “perché” resta indicibile – che porta Marianne alla ricerca della tana di Johan, dopo 32 anni di assenza di contatti con il suo ex-marito. Il secondo momento, di cui è sempre Marianne a farsi portatrice di “contatto”, è quello che la lega, fin dal loro primo incontro, a Karin. Marianne resta toccata dal silenzio espressivo di questa ragazza e l’accoglie mostrandole come possibile ciò che Karin crede impossibile: seguire “il suo” desiderio “personale”.
Alvia Reale (Marianne) – Caterina Tieghi (Karin)
“Volevi parlare con tuo nonno? … Se ne hai voglia puoi aiutarmi con i funghi! … Se ti va possiamo parlare, oppure stare in silenzio… Volevi dire qualcosa?”. E Karin, dopo un iniziale momento di sospetto, permette a questa donna sconosciuta di farsi toccare, toccandola lei a sua volta, chiedendole: “Tu com’eri prima della mestruazione?”. Ovvero: tu com’eri prima che qualcosa di fortemente dionisiaco prendesse il sopravvento su un certo “dover essere”, così necessario per compiacere gli altri? Karin qui si sta mettendo a nudo per essere toccata e per toccare l’esperienza di Marianne, a proposito di questo contatto “divino”, che le fa perdere il consueto controllo della volontà e della disciplina. E che la porta a detestare quel “vivace con brio ma senza alcuna espressione e assai pianissimo” di Paul Hindemith.
Ma sarà proprio questo nuovo cervello mestruale a permetterle di “ri-contattare” la sua autentica vocazione esistenziale: ora Karin può essere in grado di infliggere un taglio a quel dovere mortificante, con il quale il padre ha cercato di plasmarla dopo la morte della moglie. E lo potrà fare in nome di una nuova “legge”, che non si oppone al suo desiderio vitale, ma che lo costituisce.
Molto espressiva la narrazione cromatica che accompagna e sottolinea l’evoluzione psicologica della Karin di Caterina Tieghi, proposta dalla sensibilità di Daniela Cernigliaro, curatrice dei costumi dello spettacolo.