Recensione dello spettacolo UNA STANZA AL BUIO di Giuseppe Manfridi – regia Claudio Boccaccini

TEATRO BELLI, dal 19 al 24 Novembre 2024

Il mistero è ciò che meglio ci racconta come individui: la sua penombra è quell’habitat fisico e psichico in cui riescono ad esprimersi le molteplici personalità che ci rappresentano. 

Differentemente da quanto accade alla luce del sole, dove invece scegliamo di palesare qualcosa di selezionato: il nostro “dover essere”.

Non siamo ciò che facciamo, ma ciò che ci capita di fare. 

Non è la volontà a parlare di noi, quanto piuttosto l’istinto, le nostre pulsioni più personali – dirà la Donna in scena (una Giulia Morgani efficacemente enigmatica).

E’ il sapiente disegno luci del regista Claudio Boccaccini ad immergerci in questo nostro “poter essere“, che ama stare in penombra e che così efficacemente ci dispone a prestare ascolto al mistero che ci abita. Quel mistero che, in una geniale esemplificazione, vedremo rappresentato in scena.

Ed è così che dalla penombra iniziano a prendere corpo delle voci: una donna insiste per poter entrare in un appartamento dove da poco si è consumato un delitto. L’uomo che è in possesso delle chiavi e che potrebbe gestire la situazione non riesce invece a prendere una decisione. Continua a ripetere “preferirei non entrasse”. E poi, ancora senza troppa convinzione, l’accompagna. 

Entrambi non hanno un nome. Opportunamente l’autore Giuseppe Manfridi – uno dei massimi drammaturghi italiani, autore di commedie rappresentate in tutto il mondo e che già in occasione della prima rappresentazione di questo testo (andata in scena al Teatro dell’Orologio esattamente trenta anni fa) ottenne un grande successo – non affida loro un solo nome. Perché ciascuno di loro, tutti li racchiude. L’Uomo e la Donna in scena infatti parlano di noi, in quanto rappresentano parti della nostra psiche.

L’Uomo (un irresistibilmente nebuloso Stefano Scaramuzzino) ha quel qualcosa di tapino disneyano e di inquietantemente inafferrabile, che per certi versi ricorda il Bartebly di Melville. 

La Donna invece è come se parlasse una lingua diversa: è misteriosamente raffinata, osserva tutto preferibilmente di nascosto, ama indossare guanti. Rappresenta il linguaggio proprio della nostra parte più inconscia.

Nonostante la sua apparente mediocrità, anche l’Uomo odora di clandestinità. Quella che cela è una profumazione più subdola rispetto a quella indossata dalla Donna, dove invece si intuiscono note di un sensuale afrore.

Entrambi, anche se in modo diverso, ci parlano del nostro essere mistero anche a noi stessi. Un mistero che, pur zelantemente nascosto, in certi frangenti manifestandosi violentemente perché troppo a lungo represso – infrange ogni illusione di integrità e di univoca identità personale.

L’appartamento in questione, quello dove insiste a voler entrare la Donna, prima che del delitto si macchia dell’onta dell’ “estraneità”: con il suo essere stato “messo in vendita” (anziché continuare a seguire la  prassi della successione di padre in figlio) ha rotto l’ordine sul quale per l’Uomo si reggeva il condominio. Il suo.

Un condominio che qui non è infatti solo un luogo fisico ma anche il luogo della psiche dell’essere umano, dove “l’estraneità” è rappresentata dal “diverso”, ovvero da ciò che risulta “straniero” al nostro “dover essere”.

Un’ estraneità di cui anche la Donna, spudoratamente, si fa interprete: lei – che non a caso – ha sempre sulla bocca la parola “piacere”, risulta profondamente destabilizzante per Lui che si definisce “uomo dai pruriti improvvisi e ostinati”.

Lei è infatti colei che insiste: atteggiamento proprio del nostro desiderare. E poi è colei che tentenna nel “restituire” ciò che custodisce (qui, la spilla e il tappo): materiali “rimossi”, necessariamente da recuperare per superare e quindi risolvere un evento traumatico (qui, il delitto). 

Ed è così che lo spettatore – per effetto dell’intrigante sinergia tra l’estro drammaturgico di Giuseppe Manfridi e l’estro registico di Claudio Boccaccini – si ritrova ad addentrarsi in quella misteriosa “stanza al buio”, attraverso una modalità insolita ed accattivante : quella di un Thriller.

Lo spettacolo resta in scena al Teatro Belli fino al 24 Novembre p.v.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo ISMENE/ANTIGONE, La sorella minore – da “Pale Sister” di Cold Tóibín – adattamento e regia di Carlo Emilio Lerici –

TREND – NuoveFrontiere dalla Scena Britannica

– Rassegna ideata da Rodolfo di Giammarco –

dal 3 Ottobre al 17 Novembre 2024

TEATRO BELLI, dal 3 al 6 Ottobre 2024

Carlo Emilio Lerici sceglie di immergere il testo di Colm Tóibín in un ambiente abitato da sonorità oniriche: il luogo di un altro linguaggio, di un linguaggio di là dei principi della logica, che dà la parola al silenzio delle ombre.

E’ il luogo di Ismene: la figlia nell’ombra, che sta dietro la fulgente Antigone, la figlia nell’angolo e che percepisci solo con l’angolo dell’occhio: per la quale non ti volti. Perché lei è la figlia “opaca”; dall’altro canto c’è Antigone: la figlia che brilla, che brucia, che accieca.

Colm Tóibín – che nel 2018 si appresta a riscrivere la tragedia sofoclea sulla scorta di recenti casi di cronaca legati a «questioni di genere, di abuso di potere, di silenzio e comunicazione», temi a lui cari e trasversali alla sua produzione – sente una speciale attrazione per le figure del mito oscuramente chiare, a cui si è trovata una casella e un’etichetta nelle quali confinarle per metterle poi a tacere in un canto, in un angolo.  Ma lui da queste figure si sente come chiamato: ascolta il loro grido di richiesta d’attenzione e le fa rivivere togliendole dagli impropri confini in cui sono state asfissiate. Riattivando così la luminosità delle loro ombre, perché sono ombre che plasmano – o possono plasmare – ogni essere umano. E che quindi è utile conoscere: per conoscerci meglio e per riuscire a farne un buon uso.  Un uso creativo.

Carlo Emilio Lerici, regista solleticato dalle scelte difficili e dalle sfide drammaturgiche che richiedono un‘inclinazione a misurarsi con orizzonti culturalmente ambiziosi, sceglie il testo di Tóibín, lo adatta e lo mette in scena calibrandolo al suo sentire.

E fa di Ismene prima ancora che un personaggio, l’espressione di un luogo della nostra psiche. Un luogo dove sopravvivono resti, rovine, traumi che, sapientemente illuminati dal basso e resi più prossimi, parlano di noi più di mille parole. Perché il silenzio di ciò che è andato dimenticato, sotterrato, rimosso, parla. Ci parla.

Lerici fin da subito evidenzia come proprio attraverso quel luogo in cui è immersa Ismene – un sottosuolo da cui sta riemergendo come sul confine tra il sogno e la veglia –  le arrivino quegli indizi, quei resti mnemonici andati persi e attraverso i quali lei – solo dopo aver attentamente osservato in silenzio – riuscirà a condurre un efficace mutamento. 

Perché è proprio di chi si sa mantenere sul confine – ovvero sul margine inteso come luogo d’incontro e non solo di separazione con l’altro – riuscire a cogliere la preziosità della vita. 

L’Ismene di Lerici diventa “la sorella minore” anche perché minore ha tra i suoi significati quello di “marginale” appunto, al quale noi siamo tentati però di dare esclusivamente il significato di trascurabile, di irrilevante, di inferiore. E’ nella nostra natura cadere in questo terreno paludoso, perché il primo istinto che ci viene dato a corredo al momento in cui veniamo gettati nella vita è l’istinto alla sopraffazione. Per poter sopravvivere. Poi, per vivere, si impara ad amare e quindi ad entrare in relazione. Resta sempre però la tentazione a non mantenersi in dialogo con l’altro sul margine che ci separa, quanto piuttosto a scavalcarlo. 

Antigone è in questa visione colei che ha scelto di allontanarsi da quel luogo fisico e psichico che è la camera dove le sorelle dormivano, scegliendo di andare ad abitare un’area mortifera della psiche: quella della grotta. Quella di un eccesso di giustizia insensibile a mediazioni, al dialogo, alla relazione. 

Ismene non è solo preoccupata, lei “sente”  l’avvicinarsi del pericolo in cui sta per affidarsi la sorella. Lei, Ismene – come è mirabilmente evidenziato dall’interpretazione di Francesca Bianco – è una donna che acutamente trova risposte – più che nelle parole – nella prossemica, nella postura, nelle espressioni non verbali del viso dell’altro. Nei silenzi. E proprio perché interessata a “fare amicizia con il proprio peggio” – per citare il titolo di un saggio di Massimo Recalcati sull’inconscio – proprio perché ascolta le sue ombre, riesce a leggere e a decifrare quelle dell’altro.

Quelle ombre così incantevolmente rese in tutte le loro variazioni dal canto di Eleonora Tosto: un canto opportunamente enigmatico eppure pungentemente chiaro, risuonante, perturbante. Così come il contrappunto della chitarra elettrica di Matteo Bottini.

Carlo Emilio Lerici ha trovato una modalità raffinata e umbratile per mandare in scena il teatro del nostro inconscio mettendolo in dialogo con il teatro della luce diurna del conscio. Una luce apparente, ma che è così facile far diventare certa, netta, tagliente e quindi mortifera per gli altri e per se stessi. Perché non è possibile fare del bene senza calarsi ogni volta nella situazione specifica, senza incontrarsi con l’altro sul margine che vorrebbe dividerci.

Per riuscire a dire “io non ho paura di te”: come fa Ismene, anche su consiglio dello stella spettrale di Antigone, che come le stelle morte del cielo continua a essere luminosa anche se ormai morta. Luminosa di una luce diversa ora, meno eccessiva, meno accecante perché intrecciata e in dialogo alla luce delle ombre di sua sorella Ismene.

Una dichiarazione “io non ho paura di te” che impropriamente siamo tentati di cogliere come un atto di sfida (come fa Creonte) ma che invece può diventare la base di un possibile dialogo. Possibile appunto solo a patto che si deponga a terra, sul confine, l’arma della paura.

Un testo necessario, tradotto da Lerici in una messa in scena che riesce a farci tornare a casa con delle domande, necessarie per “fare amicizia” con nuove prospettive.

In scena al Teatro Belli fino al 6 Ottobre 2024


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo AUTOPILOT

TEATRO BELLI, 20 e 21 Novembre 2023 –

Che cos’è la verità? Quando si realizza un disvelamento? Quando riusciamo a togliere la coltre di oscurità che ammanta gli aspetti più profondi della nostra esistenza? Oppure quando riusciamo a sostenerne il buio ?

Ad enfatizzare la mordacità caratteristica della drammaturgia britannica – in questo caso pervasa anche dalla vena poetica di Ben Norris – un’efficace drammaturgia delle luci ci guida verso la consapevolezza che l’emozione, e quindi ciò che in noi c’è di più autenticamente vero, può nascere solo dal buio. E che è in nostro potere fare del buio qualcosa di interessante: di fertile per la nostra esistenza.

Ben Norris

Cosa decidiamo di svelare di noi in un incontro? Quante “prove” sono necessarie per costruire un’immagine di noi che gli altri sicuramente accoglieranno ? In altre parole dove è conveniente – nel presentarci ad un altro – far cadere la luce su di noi e dove invece è decisamente preferibile toglierla, nascondendo? Quanto è importante il giudizio degli altri? Cosa ci permettiamo di desiderare? 

Ilaria Martinelli e Elena Orsini

In una serrata e pungente tenzone, dove apparentemente ci si sfida a rompere schemi mentali nonché spaziali, solo dalle domande fatte a bruciapelo zampillano autentiche risposte. E le due interpreti in scena – Elena Orsini ( curatrice anche della traduzione del testo e della regia dello spettacolo ) e Ilaria Martinelli – brillano della luce delle proprie ombre. Brillano cioè in quel lacerante lasciar trapelare l’oscurità delle loro fragilità.

Si domandano, tra gli altri svariati enigmi che punteggiano le loro (e le nostre) vite, se l’alta tecnologia sia davvero così salvifica e “democratica”. E soprattutto se vale la pena affidarsi alla rassicurante guida in modalità “pilota automatico” piuttosto che ad una guida manuale, magari meno affidabile, ma continuamente e stimolantemente migliorabile.

Ma poi, perché ci viene così spontaneo affidare la guida della nostra vita a qualcuno esterno a noi? Chi è Alexa? Il nuovo oracolo di Delfi ? Conoscere se stessi significa diventare un “prodotto tipico” ? Cosa vuol dire “vivere” ? Vivere per avere soldi con cui comperare cose oppure vivere di passione artistica, condividendo con altri artisti quel poco che si possiede?

Elena Orsini

In scena, oltre la potenza della parola – resa dalla feroce tenerezza dell’interpretazione – è la prossemica a disvelarci le tensioni autentiche di queste due ragazze che s’incontrano, diventano amiche e poi scoprono di essersi innamorate l’una dell’altra.

Ma come sono diversi i loro vissuti e com’è difficile incontrarsi senza scontrarsi, senza cadere nella tentazione di scegliere cosa mettere in luce o in ombra l’una dell’altra? Senza manipolare e lasciarsi manipolare. Senza lasciarsi condizionare dal giudizio degli altri.

Le due interpreti – dandosi così generosamente nelle loro zone d’ombra – ci attraggono tremendamente. Stanno parlando di noi, oltre che a noi: delle nostre difficoltà ad amare e ad entrare davvero in “contatto” con l’altra persona; della paura ad essere travolti dalla follia dell’amore e della difficoltà a darsi la possibilità di perdersi con l’altro. Per poi ritrovarsi rigenerati dall’incontro reciproco. Continue sono le varianti da affrontare e sulle quali continuamente riequilibrarsi. E noi invece, proprio come loro, siamo tentati a credere che nella vita “servono le spalle grosse e un lungo termine”.

Ilaria Martinelli

Ma poi incontriamo la morte e dobbiamo rifare daccapo i conti con tutto ciò che ci eravamo tanto impegnati a organizzare, a fissare, a rendere stabile a lungo termine. Tutto sembra saltare, ritrovandoci così in un “buco nero”. Scoprendo però insospettatamente che del buio, del nero, si può fare qualcosa di interessante, di fruttuoso. Dal buio possono emergere nuove consapevolezze, nuovi strumenti da mettere in campo. Per vivere fidandosi un po’ di più dell’irrazionale.

Un’occasione davvero stimolante – questo spettacolo Autopilot curato da Elena Orsini e supervisionato da Mario Scandale – per condividere temi così prepotentemente presenti nelle nostre vite con lo storytelling ironico e poetico, attento ma anche foriero di nuove torsioni esistenziali, come quello d’Oltremanica.

Ne emerge un teatro di energica curiosità, disposto a sperimentare nuove possibilità espressive.

Rodolfo di Giammarco

Prezioso, quindi, il Trend Festival curato dall’acuto sguardo di Rodolfo di Giammarco teso, da 22 anni, a monitorare e a selezionare quelle che sono le opere e gli autori delle nuove frontiere della scena britannica.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL TUO NOME BRUCIA SULLE MIE LABBRA – regia Alessandro Sena –

TEATRO BELLI, dal 26 settembre al 1 Ottobre 2023

Che cos’è l’amore se non un incontro speciale che riesce a interrompere il nostro normale scorrere del tempo, il nostro precedente modo di stare al mondo ?

Anche su questo ci invita a riflettere l’appassionante spettacolo di Alessandro Sena “Il tuo nome brucia sulle mie labbra”, andato in scena ieri sera in prima nazionale nell’avvolgente intimità del Teatro Belli, nel cuore di Trastevere.

L’amore ci fa fare esperienza della nostra massima apertura verso l’altro. Ma non sempre si riesce a fare un buon uso di questa nostra incondizionata apertura. E allora l’amore può trasformarsi nel luogo della chiusura, della prigionia, dell’ossessione, della ripetizione. Dell’assedio.

Alessandro Sena

Questa è la condizione in cui si trova la protagonista del libro “Un corp en trop” della scrittrice francese Marie-Victoire Rouillier, libro caso letterario in Francia negli anni ’80 per gli straordinari contenuti e la bellezza del testo, di cui Alessandro Sena ha curato la traduzione italiana e dalla quale ha tratto lo spettacolo “Il tuo nome brucia sulle mie labbra”.

Non un adattamento ma un’autentica messa in scena di 20 lettere selezionate ed estrapolate dal libro, che ne raccoglie nella totalità 40: quelle che una giovane donna scrive e indirizza alla sua amata, ritiratasi in convento.

Lettere che – forse lette e poi accartocciate dalla destinataria o invece cestinati tentativi di seduzione, ritenuti non soddisfacenti dallo stesso mittente – giacciono a terra, ricoprendo quasi interamente il palco. Come un corpo che si offre e che ripetutamente viene rifiutato. Tocco scenografico potentissimo. 

In una realtà come quella attuale in cui si tende spesso a irridere l’amore ritenendo che ogni amore nasca portando con sé la propria morte e quindi nasca con una breve data di scadenza, questo testo recuperato e addirittura tradotto in italiano da Alessandro Sena ha il valore di riportare appassionatamente l’attenzione sull’immensità alla quale l’amore ci apre e ci consegna. Anche se qui si tratta di un amore che non ce la fa a tollerare questa apertura incondizionata. 

Attraverso una messa in scena ferocemente tenera, la regia della parola di Alessandro Sena trova la chiave per farci riflettere – sequestrandoci l’attenzione dell’anima – su che cos’ è il desiderio. Su come si nutra di tatto ma anche di segni di attenzione e di mancanze. E sul potere plasmante della parola dell’altro.

Ma la regia di Alessandro Sena non manca di sottolineare efficacemente anche quella tentazione tutta narcisistica che comunque può abitarci e che ci vorrebbe auto-fondanti. Nel dare corpo a queste due spinte contrastanti, il regista sceglie di scommettere su giovani promettenti interpreti: otto, tante quante le ombre che – come inquiline – abitano il condominio dell’inconscio dell’amante.

Le otto interpreti in scena – Angela Di Domenico, Erika Fusini, Chiara Iannacone, Francesca Mele, Sara Morassut, Marta Porfiri, Micaela Iago e Sania Ricchi – rapiscono il pubblico, che inconsapevolmente si lascia andare immedesimandosi a specchio con ciò che accade sulla scena. E sentiamo insistentemente queste ombre rotolarsi anche nelle nostre pance. La partecipazione è tale che un sublime silenzio ci lega tutti e solo momentaneamente ci libera in sospiri.

Sono ombre che acquistano corpo attraverso la densità delle voci, tutte diversamente e lacerantemente affamate d’amore. Ogni ombra fa di tutto per farsi ascoltare ma quanta struggente bellezza quando le ombre si compongono coreograficamente! I loro rituali ossessivamente circolari; la potente simbologia dell’amore simbiotico rappresentato attraverso l’insana sacralizzazione del rito della comunione (il peccato originale dell’amante); la loro rabbia vendicativa da Erinni; la loro ebrezza da Baccanti; la splendida liturgia di un Alleluja illuminato dalla sinistre luci delle candele, poste sotto i loro volti. E poi la brama finale: quella del tatto con la terra, con il suolo.

Ombre incapaci di amare davvero, cioè pur non essendo corrisposte. Non a caso, forse, il nome dell’amata non è mai pronunciato. E perciò brucia sulle labbra dell’amante che non c’è la fa a chiamarla per nome assegnandole un’autentica identità. Perché qui l’altra, l’amata, è una proiezione del sé dell’amante: non c’è nell’amante una vera apertura all’affascinante diversità dell’amata. C’è brama del suo corpo, delle sue attenzioni ma non decolla mai “un vero incontro” che, solo, può produrre una nuova nascita di se stessi e quindi una riconfigurazione del mondo esterno.

Non riesce l’amante descritta nel conturbante testo della Rouillier – ma non possiamo fare a meno di amarla anche per questo – a provare una sana curiosità per l’irriducibile diversità dell’amata. Una diversità che, anche se non corrisponde, non necessariamente deve portare a reazioni violente. Anche verso se stessi. E la regia di Sena non a caso non regala un corpo all’amata. Né all’amante: quelle in scena sono solo le sue ombre inconsce. Quelle che hanno finito, purtroppo, per “cibarsi” del suo corpo. 

Accuratissima l’attenzione alla resa delle ombre. Un abito, identico per ciascuna, che esteticamente e registicamente è anche un habitus: un esuberanza castrata. Una seconda morbida pelle di stoffa nera, allora, si lascia stringere sul ventre da un’ambigua guaina contenitiva che ammicca alla seduzione di un reggi giarrettiera. Castrante però: ricco in ulteriori lacci velati, che ne suggellano la costrizione.

Uno spettacolo e un libro che ci parlano della difficoltà di amare e di amarsi. Ferite di cui Alessandro Sena riesce a fare lancinante poesia.


Recensione di Sonia Remoli

W.A.M. – Ironia della morte

TEATRO BELLI, dal 18 al 23 Aprile 2023 –

Arduo accogliere o tollerare la multiforme singolarità di Wolfgang Amadeus Mozart: tutto coesiste in lui. L’enfant prodige che sottostà all’ossessione paterna di continue esibizioni “circensi” è anche un eccentrico buffone che di punto in bianco prende a saltare e a far capriole come un bambino capriccioso;

Il piccolo Mozart all’età di 6 anni durante un concerto nel castello di Schönbrunn. Alla sua destra la famiglia imperiale. Alla sua sinistra il padre e il principe-vescovo di Salisburgo.

l’artista che si trasfigura in un’estatica dimenticanza di sé e del mondo, totalmente immerso nello spirito del genio, è insieme un uomo misconosciuto, ignorato e confinato in un isolamento crescente; il compositore dallo stile chiaro, trasparente ed equilibrato è lo stesso da cui emerge anche una voluttuosa violenza.

Una sintesi del Grand Tour di Mozart, che in 3 anni ha sostato in 88 città

Se arduo è accoglierla, ancor più arduo è tentare di “rappresentarla” autenticamente, questa assoluta singolarità multiforme mozartiana. Ma lo spettacolo di Claudio Boccaccini ci riesce.

Claudio Boccaccini, il regista di “W.A.M. – Ironia della morte” al Teatro Belli di Roma

Proprio come in un palcoscenico psichico sul quale le rappresentazioni vanno e vengono in diversi stati in una multiformità irriducibile, così sulla scena cesellata dallo sguardo registico di Boccaccini, la vibrante drammaturgia di Carlo Picchiotti, interpretata dall’estro poetico di Patrizio Pucello e raffinatamente enfatizzata dal canto lirico del soprano Olimpia Pagni, fa sì che nei nostri occhi riesca ad entrare, a qualche livello, la consapevolezza visiva ed emotiva della capacità unificatrice dell’attività creativa .

A differenza della “coscienza” infatti, che tende a scindere le personalità contrastanti del genio Mozart, la creatività “incosciente” ci consente di tenerle tutte insieme, ri-collegandole in forme sempre nuove.

Perché la musica in generale, e quella di Mozart in particolare, non chiede di essere “capita”. Ma vissuta emotivamente. Il suo alfabeto musicale parla di noi, della “nostra condizione” umana, così fragile e insieme così misteriosamente affascinante. Ma soprattutto ci parla del bisogno che tutti abbiamo di essere “visti” dall’altro e apprezzati proprio nelle nostre più insolite singolarità. Perché sono loro a renderci “unici”.

Patrizio Pucello è Wolfgang Amadeus Mozart in “W.A.M. – Ironia della morte”

Così come “unico” è il tipo d’incontro che il pubblico, in una sorta di teatro nel teatro, si è trovato a vivere ieri sera, nell’intimità del Teatro Belli. Un convegno d’amore, quello che ci ha organizzato “a sorpresa” W.A.M. (un istrionico Patrizio Pucello).

Ci ha preceduti, facendo sì che sul palco, solo la sua giacca avvolgesse la schiena di una poltroncina e solo la sua musica trovasse carne nel corpo e nella struggente voce di una giovane donna (l’ammaliante soprano Olimpia Pagni).

Olimpia Pagni, il soprano in “W.A.M. – Ironia della morte”

Lui farà capolino solo dopo, per spiare le nostre reazioni. Poi entrerà per guardarci bene in faccia e, riconoscendoci tutti, uno ad uno, noi volubili aristocratici viennesi (perché questi sono i panni che ci troviamo a vestire noi del pubblico), troverà l’ardire per dare sfogo apertamente, senza filtri, a tutta la frustrazione che noi gli abbiamo alimentato e che lui per una vita ha represso.

Un convegno d’amore non esclude l’odio: è solo l’altra faccia dell’amore. E ieri sera W.A.M. ha deciso di “consumare” l’odio (un po’ come prescrisse a Tamino il vecchio prete del Tempio della Saggezza) con un altro tipo di rapporto d’amore. Con noi che, seppure sempre così disattenti ed insensibili ai suoi sinceri “corteggiamenti” musicali, continuiamo ad essere maledettamente irresistibili per lui.

Ci dice che ha deciso di morire. Ma è ironico: è un gioco d’amore il suo, una disperata e goliardica manipolazione. Fertile, però: quasi un rito di iniziazione che, solo, può preludere ad un nuovo inizio. Perché la morte, metaforicamente inserita in un processo di purificazione, non va temuta.

E, un po’ come ne “Il flauto magico”, il silenzio diventa una delle prove a cui deve sottoporsi il pubblico-aristocrazia viennese.

Potrà esserci, allora, un nuovo inizio. E risplendere potrà “un nuovo giorno, senza più ombra né velo”.

Tra noi.

Ora.

Illustrazione di Zoa Studio dedicata a W.A.M.

Patrizio Paciullo, l’interprete di W.A.M., attraverso una forte presenza scenica e una recitazione ricca e magnetica, risulta efficace nell’esaltare la feconda ispirazione creativa della drammaturgia di Carlo Picchiotti.

Carlo Picchiotti, l’autore del testo “W.A.M. – Ironia della morte”

Uno spettacolo, che si rivela un piccolo gioiello di cura, di attenzioni e di amore verso “l’uomo Mozart”, prende forma dal cesello del regista Boccaccini, che dà prova di saper dove e come “decorare”: imprimendo, da rovescio, i volumi degli sbalzi o incidendo da dritto variegati dettagli.

Claudio Boccaccini, il regista di W.A.M. insieme a Patrizio Pucello, l’interprete

Ricordate che eravate violini – Meditazione notturna per una voce sola –

TEATRO BELLI, 5 e 6 Aprile 2023

Sa già tutto: sa che si sta approssimando la sua fine; sa che scriveranno su di lui che è stato un poeta, alcuni; un idiota, gli altri. Sa che lo dipingeranno e lo riprodurranno su pietra.

Ma non sapeva quanto potesse essere straziantemente dolce essere un Uomo. E com’è bella la Terra; bella da morire. Per questo trova così difficile separarsi da tutto ciò.

Si tortura chiedendosi perché suo Padre non risponda al grido d’aiuto del Figlio. Ma soprattutto lo ossessiona il dubbio di chi sia lui ora. E se riuscirà, solo con le sue umane forze, ad essere all’altezza della situazione.

Giorgio Sales, in un momento delle prove dello spettacolo “Ricordate che eravate violini”

Questo è il Cristo che emerge dalla drammaturgia di sublime bellezza diretta da Francesco D’Alfonso: un Cristo che sente irresistibile l’esigenza di dedicare tutto il tempo che gli resta a meditare, a riflettere su ciò che ora lui è diventato, dopo questa esperienza di travolgente “umanità”.

Il musicista Lorenzo Sabene, il regista e drammaturgo Francesco D’Alfonso e l’attore Giorgio Sales

Perché restare presente a sé stesso, senza lasciarsi andare totalmente alla disperante angoscia dell’attesa, può aiutarlo a prendersi cura di sé stesso. Solo lui può farlo. Solo lui può dedicarsi quell’attenzione unica, speciale, che riuscirà a fargli sostenere il peso della disattenzione altrui.

È la sua, una meditazione notturna di rara bellezza: come può essere bello ciò che è umano, intriso contemporaneamente, cioè, di bene e di male.

Il Figlio fatto Uomo si cerca e “si legge” nelle ore della sua “passione”, quelle notturne – dal crepuscolo all’alba – attraverso le parole laiche di altri Uomini, che di lui parleranno. Poeti e scrittori come J.L. Borges, J. da Todi, K. Gibran, M. Luzi, A. Merini, E.E. Schmitt.

Prende vita così una consapevolezza filiale e umana che risplende di disperazione. Un Gesù che ha paura. Che non sa attendere. Che è divorato dall’ ansia: non ultima quella da prestazione. Che piange.

In una stanza. Senza riuscire a fare a meno di ascoltare musica: quella di J. S. Bach, di F. De Andrè, di J. Dowland, di S. Weiss, di S. Landi, di M. Lauridsen, di A. Piccinini, di M. Ravel e di F. Valdambrini. “Sepolto” sotto infiniti fogli: quelli dei libri che parleranno di lui. Senza smettere di cercarsi in uno specchio: e trovandoci, dentro, anche noi del pubblico.

Ma a lui non basta: avanza fin sulla ribalta per sentirci più vicini. Noi, invece, “la sua presa” vocale, la sentiamo ancor meglio del tatto. Più che se ci toccasse. Ci cattura: ci fa suoi; scaccia qualsiasi altro pensiero dalla nostra mente e dal nostro cuore. Esiste solo lui e ciascuno di noi. E la sua meditazione diventa anche la nostra.

Ha lo sguardo seducentemente duro, subdolo, avvelenato dall’angoscia. Non è il volto dei pittori. Ma si danna chiedendosi se ancora lo ameremo. Se lo invocheremo.

“Com’è forte la paura contro la grazia!”- si ripete.

E poi al Padre: “perché non intervieni ?” .

Abbandonato: “stordito da un assordante silenzio”.

E pensare che questo era il suo “sogno”: diventare “uomo” .

Ma com’è possibile che proprio un sogno l’abbia trascinato verso questa fine? Una fine che gli fa così paura? Com’è possibile essere traditi dalla legge? Com’è possibile essere traditi con un bacio?

La meditazione di Cristo prende avvio in simbiosi con la tonalità armonica minore dell’ammaliante accompagnamento musicale di Lorenzo Sabene, dove l’azione sinergica di liuto, torba e chitarra è insieme balsamo e graffio. Ma poi sale in un crescendo fino alla tonalità armonica maggiore. È un Cristo che s’affanna e ansima. Quasi come una belva. E anche noi del pubblico ci scopriamo a cambiare frequenza di respiro.

Lorenzo Sabene

Un Cristo-Uomo che perde la sua “centratura”, il suo equilibrio: accade al suo corpo ma anche alla parola, alla voce.

Arrivano i soldati: lo catturano, lo processano e lo crocifiggono.

E lì, sulla croce, il Figlio di Dio “sbiancò come un giglio”.

Lo depongono e lo coprono con un bianco sudario. Meravigliosa la coreografia di gesti fisici e vocali alla quale Giorgio Sales dà vita con questo velo bianco: quasi una danza con qualcosa che sembra ma non è. Ma a breve si rivelerà.

Complice di raffinata efficacia drammatica, un disegno luci attento e sapiente che ci accompagna, contrappuntisticamente, fino alla rinascita. Fino alla resurrezione.

Giorgio Sales, in un momento delle prove dello spettacolo “Ricordate che eravate violini”

Ma è un attimo. Il sipario si chiude e in noi resta più che la gioia, la voglia disperata di stare ancora con Lui nei momenti della “passione”. Forse perché ora, attraverso questa meditazione laicamente sacra nella quale siamo riusciti a sintonizzarci, abbiamo scoperto il desiderio e la capacità di essere presenti a noi stessi. Di osservare e di osservarci. Anche nel dolore.

Francesco D’Alfonso

Una splendida occasione di bellezza, ci offre questo spettacolo di Francesco D’Alfonso, rievocando la ciclicità visceralmente sacra degli indimenticabili giorni della Passione Cristo.

Due perle, i camei fuori campo di Roberta Azzarone e di Lorenzo Parrotto.

Giorgio Sales ci strazia. Ma non possiamo farne a meno. Riesce ad essere tutto e il contrario di tutto. Suo, è il profumo dell’attore.

Giorgio Sales

” Voi che siete oppressi ed esalti nel male,

ricordate che eravate violini

pronti a suonare le ragioni del mondo ”

(Alda Merini, Cantico dei Vangeli).

Il diario di Anne Frank

TEATRO BELLI, dal 27 Gennaio al 12 Febbraio 2023 –

Nuvole soavemente delicate soffiano, indifferenti, un folle amore dal profumo che dà gli spasimi. Ricordano quelle cantate da Domenico Modugno in “Cosa sono le nuvole” e corrono avanzando, loro sì, sopra il lucernaio di un nascondiglio, dove (apparentemente) tutto chiede immobilità.

Struggente trovata registica di Carlo Emilio Lerici è quella che fa del cielo la coordinata temporale il cui sguardo onnipresente cade su un nascondiglio clandestino, che quasi come “una nave immobile nel centro di Amsterdam naufraga lentamente senza saperlo». Così lo descriveva Natalia Ginzburg.

Carlo Emilio Lerici, regista dello spettacolo “Il diario di Anne Frank”

Un cielo che Anne Frank (una strepitosa e multiforme Raffaella Alterio, deliziosamente poetica come solo una gattina selvatica sa esserlo) riesce a guardare rintracciandovi, come in uno specchio, la fertile mutevolezza della vita: “quando guardo il cielo penso che tutto si volgerà nuovamente al bene”.

Raffaella Alterio (Anne Frank) in una scena dello spettacolo ” Il diario di Anne Frank”

La scena pluri-partita (curata con efficacia da Vito Giuseppe Zito) fa sì che quella che la Ginzburg immaginava come una nave-nascondiglio venga resa visivamente attraverso quella bellezza estetica e narrativa propria di un ciclo di affreschi. La cui sequenzialità può essere interrotta da primi piani creati dall’arbitrarietà dello spettatore o realizzati registicamente attraverso un consapevole uso della luce e un attento gioco di tende. D’incantevole poesia, la scena sotto il lucernario della lezione impartita da Otto Frank ( un magnifico Roberto Attias disperatamente metafisico) a Peter (un ermetico Vinicio Argirò di smisurata dolcezza).

Una scena dello spettacolo ” Il diario di Anne Frank” di Carlo Emilio Lerici

Ma cosa implica il  “nascondersi”?  Come si coniuga l’esigenza di non essere visti per poter sopravvivere, con l’esigenza tutta umana di poter sopravvivere grazie all’essere visti dagli altri ? È sempre Anne, con la sua acuta sensibilità, a veicolarci questo paradosso, quando confessa a Peter che detesta constatare che lo sguardo degli altri su di lei cada solo su quella “maledetta” stella,  cucita sui loro abiti, una volta esiliata dal cielo.

Raffaella Alterio (Anne Frank) in una scena dello spettacolo ” Il diario di Anne Frank” di Carlo Emilio Lerici

Allora fondamentale diventa “non dimenticare”: per non dimenticarsi di se stessi e per non farsi dimenticare dagli altri. Come? Continuando a ballare, a ridere, a scherzare. E ad osservare. Iniziando a scrivere, laddove non è più permesso nemmeno parlare. Fare rumore.

Il derubato che sorride/Ruba qualcosa al ladro/

Ma il derubato che piange/Ruba qualcosa a se stesso

È la freschezza incontenibile dello sguardo di Anne che il regista Lerici sceglie di assurgere a “fil rouge” di tutta la narrazione. Una fertile scelta, che fa risaltare i momenti più carichi di pathos permettendoci contemporaneamente di accoglierli in tutta la loro feroce umanità. Riconoscendola anche come nostra.

Una scena dello spettacolo ” Il diario di Anne Frank” di Carlo Emilio Lerici

Ad esempio quando il Sig. Van Daan ( un potente Tonino Tosto sontuosamente egoista) colto dalla disperazione della fame finisce col rubare il cibo della sempre più numerosa comunità. Scatenando  “gli appetiti” di coloro che più a fatica li stanno arginando: la Signora Frank ( un’elegantemente composta Francesca Bianco capace di trasformarsi in una pulsante erinni) e l’ultimo “migrante” accolto a bordo, il Dottor Dussen (un interessante Roberto Baldassari ossequiosamente esplosivo). 

Trova manifestazione in questo drammatico contesto anche la docile ambiguità della Signora Van Dann (un’intrigante Susy Sergiacomo) complice del marito nella sua autolesionistica sottomissione a fare “da ponte” tra lui e il resto del mondo.

Restano invece fino alla fine creature arditamente angeliche la Signora Miep (una soave Eleonora Tosto, anche voce degli incantevoli canti ebraici che sottolineano persuasivamente alcuni momenti dello spettacolo);  il suo compagno ( un Fabrizio Bordignon fiero ed altero) e Margot, la sorella maggiore di Anne, interpretata da una composta ma ricca in acume Beatrice Coppolino

Una scena dello spettacolo ” Il diario di Anne Frank” di Carlo Emilio Lerici

Una incandescente prova di coralità che centra la missione originaria del Diario: diffondere l’urgenza di un umanesimo capace  di contenere spinte eccessivamente antropocentriche. Urgenza che la stessa istituzione del Teatro insegna e promuove. Da sempre.

Antonio Salines nel cast del debutto del Gennaio 2020

Antonio Salines, mirabile interprete di Otto Frank al debutto di questo spettacolo tre anni fa, nonché appassionato e appassionante ri-fondatore del Teatro Belli, ne è stato un luminoso esempio, facendo palpitare quell’immagine del pittore Enrico Prampolini nella quale un giorno irresistibilmente si riflesse. Un burattinaio che si porta sulle sue spalle un teatrino. Eletta a immagine per la locandina di inaugurazione del Teatro Belli. Era il 1972.

Che io possa esser dannato/ Se non ti amo/E se così non fosse/Non capirei più niente/

Tutto il mio folle amore/Lo soffia il cielo/Lo soffia il cielo/Così

Vite a scadenza

TEATRO BELLI, Dal 12 al 14 Aprile 2022 –

Cosa sarebbero gli uomini senza la morte? Senza l’attesa angosciosamente incerta del suo progressivo o balenante incedere? 

Il rosso di un immenso quadrante d’orologio infiamma la scena buia: è immediatamente riconoscibile la densità della cifra registica di Claudio Boccaccini. Un’umanità di sagome in controluce si impossessano dello spazio scenico: “partorite” ed espulse dal liquido amniotico, iniziano a rianimarsi con una gestualità dapprima ancora acquatica ma poi automatica, sfociante in una corsa fine a se stessa. Individuale.

Boccaccini, seguendo il progetto di Elias Canetti (Premio Nobel per la Letteratura nel 1981), mette in scena una possibile umanità a cui è stata tolta l’incertezza del momento in cui la morte vincerà sulla vita. Un’umanità “partorita” con una data di scadenza: chi nasce sa quando morirà. Ma a quale prezzo?

Il numero di anni di vita sostituirà i nomi propri e sarà vietato comunicare agli altri la propria età effettiva. In un mondo dove tutti conoscono il tempo a loro disposizione, dove è sospesa ogni imprevedibilità, dove solo le “cifre alte” possono concludere qualcosa, le persone non sentono più l’urgenza di comunicare, di pensare, di amare. E rischiano di morire di noia.

Si cercano ma la loro è una vicinanza solo spaziale, sottolineata per contrasto dalla selezione musicale, calibrata dal regista Boccaccini, che arriva a rendere insospettatanente laceranti dilemmi etici ed esistenziali. Andando oltre il racconto, il regista infatti punta in primis all’azione drammatica, che arriva al cuore del pubblico prima ancora che al cervello.

In questa operazione è sostenuto efficacemente sia dal suo gruppo di interpreti, dei quali non si può non apprezzare la sintonia che li plasma, nonché il prezioso binomio di freschezza e insieme di profondità d’interpretazione; sia dall’efficace contributo del tecnico delle luci e del suono Andrea Goracci.

Esalta la chiusura dello spettacolo la forza di un Coro, dove la musica originale di Alessio Pinto si coniuga ad un testo che, con una pirotecnica miscela di perfidia, tenerezza, rabbia e surrealtà, ci propone l’idea di un’umanità armonicamente forte e gioiosa.