Questa è casa mia

TEATRO VITTORIA, Dal 5 al 13 Aprile 2022 –

Un ragazzo, una sedia, una storia: non serve altro al talentuoso Alessandro Blasioli. E poi molto fumo: quello che continua ad avvolgere la storia della ricostruzione della città dell’Aquila, a tredici anni dal terremoto. E moltissime ombre: loro, forse, le vere protagoniste dello spettacolo, ben rese dal disegno di Marco Andreoli.

Ombre di cui si veste il fantasmagorico interprete Alessandro Blasioli: è lui ad interpretare tutti i personaggi della storia. Lasciandoci letteralmente di stucco. Questo giovane trentenne usa il proprio corpo e la propria voce con una versatilità tale da riuscire a portarci ovunque lui voglia. “Ci crediamo” sia quando sceglie di fare il ragazzino, che quando fa il novantaquattrenne, fino a quando entra nell’essenza della segretaria della hall dell’Hotel “Provence”. Quest’ultima sembra gestire l’ospitalità dei terremotati com’era prassi nella “famosa casa di cura” di Dino Buzzati.

E per tutto lo spettacolo Blasioli tiene un ritmo serratissimo e insieme pieno di insospettate variazioni, da non lasciarti distrarre nemmeno per un attimo. E poi le parole: lui le pronuncia così plasticamente che immediatamente ti fa vedere l’immagine, o l’atmosfera di una determinata situazione. E allora basta la complicità di una luce di taglio e del garrito fuori campo dei gabbiani, per far entrare anche noi del pubblico nella scena della finestra aperta sulla spiaggia. Oppure per seguirlo nelle sue esplorazioni notturne, nel buio totale degli edifici terremotati, illuminato sinistramente solo da una torcia sotto al viso.

Di Alessandro Blasioli tutto recita, in una continua metamorfosi dall’elegante al grottesco, dal canto al ballo. Un brillante esempio di Teatro Civile e di Narrazione, proposto da un giovane eclettico, capace di fare fuochi d’artificio sulla scena.

Sani !

TEATRO QUIRINO, Dal 5 al 10 Aprile 2022 –

Uno spettacolo costruito sull’accordo tra parola e musica, per rivedere, rifondare e quindi celebrare i momenti di crisi che costellano la nostra esistenza. Crisi collettive, come quelle dell’emergenza climatica e della transizione ecologica ma anche personali, autobiografiche. Da affrontare con coraggio e fantasia, per riuscire ad apprezzare “il nuovo” senza bloccarsi ad aspettare che ritorni quello che era ma che non sarà più.

Quell’atteggiamento cantato da Sergio Endrigo ne “Il dolce paese“: brano che apre e chiude lo spettacolo. È il “beve un bicchiere e tira a campà, per vivere in fretta e scordare al più presto gli affanni e i problemi di tutte le ore. Tanto c’è il sole e c’è il mare blu” contro il “non lo so come si fa, ma voglio provarci” degli artisti. È la scelta di salutare con la parola “sani” anziché con la parola “ciao”. Con la prima si esprime la voglia di “gettare ponti”; la seconda allude invece al rendersi “servo”, “schiavo” dell’altro. Uno spettacolo che ci invita ad accogliere, ad aiutare, ad ospitare. Perché la “libertà” e l’ “altro” si danno in una sincronia inaggirabile. 

Uno spettacolo dove Marco Paolini sceglie di far circolare storie, idee, esperienze. Eccentricamente. Perché il teatro ha il compito di aiutare a far scattare la scintilla nella mente e nel cuore degli spettatori, che a loro volta possono diventare attori sulla scena della vita.

La presenza scenica di Paolini trasmette molto efficacemente, attraverso la voce, i gesti e le parole, la necessità di un cambiamento. Perché cambiamento significa speranza.

Lorenzo Monghuzzi, che accompagna ed enfatizza la narrazione di Paolini con la complicità dell’armonica a bocca e della chitarra classica, sa come graffiare, solleticare o rendere balsamo i concetti, per tradurceli in emozione.

Dietro i due cantori, una cattedrale di carta, dove i vuoti dominano sui pieni. Perché così sono i “ponti”, quei sani collegamenti cioè che sanno di dover essere pronti a trovare sempre nuovi equilibri. Come sembrano ricordarci le carte da gioco ancora appoggiate e in attesa di “entrare in gioco”. Disponibili, accoglienti, generose: pronte e desiderose di aiutare.

Leggi l’intervista Marco Paolini su Il Corriere della sera

L’uomo dal fiore in bocca

TEATRO ARGOT STUDIO, Dal 31 Marzo al 10 Aprile 2022 –

Sta in un cantuccio e ci guarda: è una donna dal vestito nero, stretta ad un fascio d’erba. Ci spia mentre prendiamo posto in sala. A tratti parla tra sé. E poi, ripensa. Il regista Francesco Zecca ha scelto di allestire la scena sotto al palco: uno spazio fisico e ultraterreno, rettangolare e insieme concentrico, per ricordare un uomo, ormeggiato con l’ancora di un lembo di terra. Sul fondo tre specchi rettangolari, chiusi a semicerchio, replicano e rivelano sotto diverse angolature, tutto ciò che li attraversa.

La donna dal vestito nero esce dal suo cantuccio, si guarda intorno, si cerca e non si trova negli specchi sovrastanti. Ma nonostante tutto con sacra eleganza entra, un piede alla volta, nel luogo dove poter osservare gli affanni delle nostra assurda e passeggera esistenza. Un luogo privilegiato, per essere ammessi a riflessioni di respiro profondo, partecipi di un intimo e vitalissimo ciclo, che sempre riattraversa il grembo fertile della terra.

Qui, il regista Zecca immagina di donare la parola a chi, nel testo originale di Luigi Pirandello del 1923, era stata tolta: la moglie. Lì il marito l’allontana dalla propria vita, dopo aver scoperto di essere malato, preferendo attraversare gli ultimi mesi nel desiderio di penetrare dentro la vita degli altri, perfetti sconosciuti, di cui osserva con pignoleria ogni particolare.

L’adattamento di Zecca si apre invece con la moglie in visita alla tomba del marito. Lei, al massimo della spinta simbiotica, si appropria dell’urgenza del marito di attaccarsi con l’immaginazione alla vita degli altri, pur non avendo come lui un responso di morte con una imminente data di scadenza. Crede che spiare la vita degli altri la faccia sentire più libera.

Ma cosa sta spiando davvero? La vita o la morte degli altri? O forse come la morte spii sempre la vita? Lei resta ipnotizzata dalle mani, dagli abbracci, dalle lacrime, dai modi di camminare degli altri. E quando si accendono le luci di platea, si attacca con l’immaginazione anche alle nostre vite di spettatori. La musica accompagna ed enfatizza il suo gusto per la vita, che però è destinato a fermarsi in gola (come suggellato dalle micro-pause musicali) e quindi a non soddisfarsi mai.

“Si può sentire sapore solo nelle cose del passato”- arriva a sostenere. E si aggrappa sempre alle stesse frasi, che prima di lei erano state l’àncora di suo marito. Lo si legge dai suoi occhi: mai davvero centrati sul presente (neanche quando spia gli altri) e men che meno sul futuro. Occhi, i suoi, che guardano indietro, come ripercorrendo un film, la cui scena madre è quella delle poltrone della sala d’attesa, “occupate” da lei e da suo marito, prima di conoscere il responso consegnato dal medico.

Noi, come quelle poltrone, con un destino d’attesa, di accoglienza e di aderenza temporanea. Altri vi si siederanno e crederanno come noi di “occuparle” davvero. Tutto scorre senza possibilità di controllo ma la cosa più insopportabile è che noi rischiamo di scorrere nell’indifferenza. “Perché -si chiede la donna dal vestito nero- mio marito non ha chiesto a me di raccogliere i fili d’erba? Perché lo ha chiesto proprio ad un “avventore”?

Forse perché un avventore per sua natura sa di essere “di passaggio”, sa che la sua è una presenza occasionale ma unica, sa muoversi nell’incontrollabile, nel mistero che avvolge la vita. Forse solo un avventore, proprio quello che beve un liquore di menta con la cannuccia, può essere coinvolto nel nostro destino.

E nel momento di massima disperazione, un pensiero potente come un incubo, sottrae la moglie alla mortifera forza di attrazione verso la terra: quello del gusto erotico delle albicocche. E scoprirà, forse, che il destino in cui tutti siamo avvolti è un destino di continui inizi.

Una struggentemente alienata Lucrezia Lante della Rovere arriva e lascia il segno.

Il regista Francesco Zecca e l’interprete Lucrezia Lante della Rovere hanno dimostrato la loro solidarietà alla questione ucraina con questo potente gesto.

Recensione dello spettacolo SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE di Luigi Pirandello – regia di Claudio Boccaccini –

TEATRO GHIONE, Dal 17 al 20 Marzo 2022 –

Che cosa desiderano davvero i “Sei personaggi”? L’eternità “garantita” dalla parola scritta, che incide e lascia impressi i segni di una presenza. Vogliono un autore che sappia trasformare l’unicità della loro storia in “scrittura”.

Ma per riuscirci occorre saper credere nei paradossi di un teatro che è metafora di se stesso e si autoanalizza. Non abbiamo qui attori che recitano una parte, ma Personaggi “incarnati”, “spiranti e semoventi” (come li definisce Pirandello nella Prefazione), che si presentano in un teatro, dove si sta provando la commedia “Il giuoco delle parti”, sempre di Pirandello.

“Sono” Personaggi partoriti e poi abbandonati da un autore che rinuncia a scrivere il loro dramma. Orfani della mente dell’autore, i Personaggi s’incarnano e ossessionano il Capocomico e la sua Compagnia, perché ascoltino la loro storia e la recitino così com’è: vita direttamente balzata sul palcoscenico, senza la mediazione di un testo scritto. La vita è già teatro.

Gli Attori protestano, si rifiutano di recitare parti non scritte ma i Personaggi impongono alla Compagnia di assistere direttamente agli eventi che verranno riproposti nella loro verità carnale, con le emozioni di quel momento ora vissuto dai Protagonisti. Gli Attori diventano cosi spettatori e gli spettatori della platea sono costretti ad assistere allo smontaggio analitico della forma teatrale.

La regia di Claudio Boccaccini sa restituire quelle atmosfere paradossali di un teatro che si autoanalizza. Lo si percepisce dalla valorizzazione dedicata a determinate parti del testo, colte nella loro polivalenza;

nella direzione degli interpreti (incluso se stesso, che da alcune edizioni interpreta con elegante arguzia il ruolo del Capocomico); nel lavoro sulla voce e sul corpo fatto su e con gli interpreti, così necessario in un testo come questo dove, più che in altri, anche il corpo è il luogo di un teatro. Dove qualcosa parla: dice l’anima.

A questo proposito è risultata particolarmente efficace la scelta (propria di questa edizione) di mettere in scena “scalza” la Figliastra, esaltandone così ancor di più la vibrante felinità (resa con molta efficacia da Francesca Innocenti). Di particolare intensità i personaggi della Madre (una Silvia Brogi che sa rendere le varie sfumature dell’essenza del dolore),

del Padre (un Felice Della Corte che sa tratteggiare le diverse pieghe del rimorso)

e quella del Figlio (un Gioele Rotini efficace maschera dello sdegno).

Tutti gli interpreti danno prova di specifica incisività e al tempo stesso risuonano ben accordati fra loro

ma la restituzione più intensa Boccaccini l’affida alla sua interprete preferita: la Luce, che sa rendere magicamente l’inquietudine tipica del teatro dell’inconscio, del rimosso, del fantastico come caos psichico.

Il fondale che ri-partorisce incarnando “quel che è” dei Sei personaggi è reso con una perizia tale da suggerire sempre nuovi giochi di panneggio a dei semplici teli di leggerissimo nylon, dai quali quasi rotolano, come onde concrete e insieme evanescenti, le sagome-fantasmi dei Sei personaggi. Sembra un mare dal quale, con la violenza selvaggia di onde cariche di elettricità, riescono ad emergere le creature della Fantasia.

Gli Attori, testimoni di questa epifania, iniziano a fare esperienza dell'”aperto”, del “senza margini”, del senza regole. E, colti da immenso disagio, ridono nervosamente, tentando di sminuire l’effetto provocato su di loro dall’angoscia e insieme dal’ebbrezza della libertà. Ma il Capocomico comprende che quella è l’occasione di dare la parola allo “straniero”, gettando così le basi ad una “integrazione”. Perché questi selvaggi personaggi non sono potenze minacciose da cui difendersi: sono luogo di energia inesauribile.

Va infine sottolineata l’opportuna resa iconografica del disegno luci che enfatizza la contrapposizione della “realtà” degli Attori da quella dei Personaggi.

Claudio Boccaccini rende la prima, immergendo gli Attori in una calda e rassicurante luce, come in certi quadri di Jack Vettriano; mentre per rendere la seconda

sceglie di tuffare i Personaggi in una luce brumosa che si carica di energia di tempesta ed esplode in bagliori, come in un quadro del Caravaggio.


Recensione di Sonia Remoli

Museo Pasolini

TEATRO VITTORIA, Dal 15 al 20 Marzo 2022 –

Da cosa nasce l’urgenza di proporre e fondare un Museo (cioè un luogo “sacro”, un luogo che raccoglie e conserva meraviglia) su Pier Paolo Pasolini? Che cosa ne è stato fatto del “nome” e del “corpo” di Pasolini nel Novecento? Perché quella porta spudoratamente bianca, che campeggia sulla scena, non si apre mai e solo in alcuni momenti rivela il suo vero colore? Di cosa si nutre la “tensione” che la fa restare chiusa?

Si nutre della strategia dell’insinuare su Pier Paolo Pasolini ingannevoli dubbi. Quei dubbi che spesso abbiamo con pregiudizio accolto e che ci hanno tentato a non fare, a non andare a fondo. Così, come “cani da cancello: tra il vorrei e il non posso, una catena”. Pregiudizi che ora tutti noi siamo chiamati a lasciar andare.

Ascanio Celestini con questo spettacolo porta in scena il suo personale contributo. Uno spettacolo dove prevalentemente si ride ma proprio grazie all’utilizzo di questa “chiave” Celestini riesce a solleticarci fino a pungerci. Fino a farci tenere a mente che “faccia aveva Pier Paolo”.

Entra in scena dalla porta “spalancata” del suo Museo, proponendosi come “guida” alla rivisitazione di una particolare biografia del Poeta: una geografia umana, fatalmente intrecciata agli eventi del periodo fascista. Dalla sala d’ingresso, la guida entra poi nel cuore del Museo: uno spazio circolarmente delimitato da luci liquide, opalescenti, aspre ed ancestrali, come il friulano nel quale Pasolini sceglie di scrivere. Luci liquide nelle quali immergersi per purificarsi nella “rosada” (rugiada).

Come vediamo fare dalla nostra “guida”, che entra nel circolo “sacro” e, sedendosi sulla sedia rossa, rompe il piano della verticalità per immergersi. In questo nuovo “stato” può immaginare oniricamente un incontro “ventoso” alla fermata del 109 proprio con il Poeta, questa volta Lui la sua guida. Durante il percorso sull’autobus, Celestini è ancora tentato di mettere una distanza con Pasolini. Lui invece rivendicherà con dolcezza proprio quella vicinanza che non gli è stata concessa: “Ma io non faccio pensieri meno poetici se li condivido con te”.

Perché la poesia è un bene “inconsumabile”, che vive nonostante tutto ma risplende nell’essere accolta, nell’essere tenuta a mente. Nell’essere riconosciuta. 

Uno spettacolo scatenato e scatenante, che attraverso il ritmo “zounamico” della narrazione ci coinvolge e ci travolge. A spalancare quella porta chiusa.

Maggiori informazioni su Ascanio Celestini

I Malavoglia

TEATRO QUIRINO, Dall’11 al 13 Marzo 2022 –

Progetto Teatrando
presenta

ENRICO GUARNERI

I MALAVOGLIA

di Giovanni Verga

regia GUGLIELMO FERRO

con

Francesca Ferro   Rosario Minardi   Nadia De Luca   Rosario Marco Amato
Gianpaolo Romania   Elisa Franco   Pietro Barbaro   Mario Opinato   Giovanni Arezzo
Turi Giordano   Giovanni Fontanarosa   Verdiana Barbagallo
Federica Breci   Giuseppe Parisi   Ruggero Rizzuti   Viola Auteri

All’apertura del sipario, si entra in una scena che sembra emergere da una sovrapposizione di dipinti: “Il quarto stato” di Giuseppe Pellizza da Volpedo, per l’impatto cromatico e “Le déjeuner sur l’herbe” di Claude Monet, per l’armoniosa disposizione microcosmica dei personaggi, che origina un affascinante contrasto tra la fatica del lavoro e l’eleganza delle posture. Il rimando iconografico si verificherà anche in altre scene successive: una su tutte il bagno di Alessi, d’impronta caravaggesca. 

Da un fondale profondamente nero emergono, grazie ad un sapiente uso della luce, i Malavoglia insieme ad alcuni abitanti di Aci Trezza. Sono disposti per gruppi, quasi isole di un arcipelago. Sono vestiti con abiti umili ma il raffinato gusto dell’accostamento dei colori (tutti declinati in sfumature dall’ocra al fango -uniche eccezioni “in nero” i personaggi con cui la Morte entra più in confidenza-) rendono l’insieme profondamente emozionante.

I personaggi si muovono sopra un’architettura di praticabili fissi e mobili, che sanno far immaginare situazioni di terra e di mare. All’occorrenza, scende la vela della Provvidenza che oltre a rendere più vivide le scene delle tempeste, va a costituire un interessante secondo fondale, sul quale far vivere suggestive scene di ombre.

L’allestimento quasi totalmente corale, viene enfatizzato da una narrazione che si muove spesso come in un campo sequenza cinematografico.

L’adattamento privilegia le scene che vedono centrale il ruolo della Natura (“mare amaro”), crudelmente indifferente al destino degli umani. Natura declinata sia come macrocosmo che come microcosmo delle passioni, inflitte e subite da e tra gli uomini.

Elemento di raccordo, umano e narrativo, la figura di Padre ‘Ntoni: un Enrico Guarneri vibrante e commovente; dilaniante e dilaniato nel suo urlo finale. Lui, scoglio, a cui sanno avvinghiarsi, con naturalezza, tutti gli altri interpreti.

Particolarmente efficace e suggestiva la regia “per immagini” di Guglielmo Ferro.

Effetto serra

TEATRO VITTORIA, Dal 24 Febbraio al 6 Marzo 2022 –

Un tuono imperioso e profetico. Lo strepitio atmosferico trova riflesso nello strepitio emozionale di una coppia: come quando qualcosa folgora a causa di un’esplosione elettrica.

In un plumbeo soggiorno inglese, Sally e Thomas stanno prendendo un thè: lui, un “ingrugnito tricheco”, nella speranza che spiova; lei, un’ironica “donna dal cervello misterioso”, nel timore di un’esondazione. La loro casa è stata costruita proprio sulle sponde del fiume Severn, nella parte che piega a sud verso Birmingham.

Thomas, adora il fiume; anzi , la sua è una vera e propria dipendenza: non può fare a meno di vivergli vicino. Non solo, costruisce anche la sua attività commerciale sull’acqua: una disco-boat. “Brutto rischio le case sul fiume” – gli ripete sua moglie Sally – “te lo avevo detto! “. “Ormai – continua – neanche Dio vorrà più aiutarci, proprio come fece con i peccatori di Sodoma e Gomorra: Dio volse la testa dall’altra parte e punì la loro malvagità”.

La pioggia continua ad aumentare, quasi sintonizzata sullo scatenamento dei malumori e dei risentimenti della coppia. E prima del previsto arriva l’esondazione, come anche l’impianto scenografico evidenzia con suggestiva efficacia: il plumbeo soggiorno viene letteralmente schiacciato dall’impeto dell’esondazione del fiume e con un sorprendente colpo di scena ritroviamo la coppia in salvo dentro la loro barca a remi, nel fiume senza sponde. Nell’orizzonte senza sponde.

“Una crisi aggiusta sempre le prospettive” -proclama Sally- “ed è il momento in cui tutti si stringono gli uni con gli altri”. Anche con chi, purtroppo, non ce l’ha fatta: il corpo della bambina che incontrano sulle acque del fiume. Sally non riesce a non guardare l’inguardabile: “se non la guardiamo noi chi la guarderà, chi la piangerà, chi onorerà la sua morte!?”.

E così resistono per settimane Sally e Thomas, scoprendo affinità inesplorate: una viva complicità, una nuova intimità. E la bellezza del perdersi tra le stelle. Stelle, loro stessi, in un liquido cielo blu. 

Particolarmente degna di nota l’interpretazione dei due attori: una Viviana Toniolo (Sally) immensamente espressiva nella sua naturalezza e un Roberto Della Casa (Thomas) “trichecamente” adorabile e quindi credibile.

Uno spettacolo che sa affrontare un tema di scottante attualità con cruda dolcezza.

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Per maggiori informazioni sul regista Stefano Messina, clicca qui

Recensione dello spettacolo COSI’ E’ (O MI PARE) – Spettacolo in realtà virtuale – adattamento e regia di Elio Germano –

TEATRO ARGOT STUDIO, Dal 24 febbraio 2022 –

Una riscrittura per realtà virtuale di Così è (se vi pare) di Luigi Pirandello, adattata e diretta da Elio Germano, con la partecipazione di Isabella Ragonese e di Pippo Di Marca.

Un esempio di quando le nuove tecnologie scelgono di configurarsi come campi di ricerca, per affrontare “i classici” da un punto di vista differente, senza la pretesa di sostituirsi alla tradizionale fruibilità del teatro. Creazioni che nascono dal teatro e che al teatro ritornano. La sfida piuttosto è sui contenuti e sui modi per realizzarli.

Le riprese si sono svolte presso la Tenuta Bossi dei Marchesi Gondi e presso il Teatro della Pergola di Firenze, il cui Direttore Artistico, Stefano Accorsi, ha sostenuto fortemente questo progetto, che segna l’inizio di un cammino ideativo con Elio Germano.

Indossando cuffie e visore si entra direttamente dentro allo spettacolo, attraverso una ripresa in soggettiva, cioè nei panni del Commendator Laudisi, personaggio appositamente inventato rispetto al copione originale. A lui, anziano padre di Lamberto (interpretato da Elio Germano), tutti i personaggi si rivolgono con rispetto. Questa trovata, che procura un iniziale piccolo shock allo spettatore (che si scopre in una diversa identità) agevola una visione sferica della scena.

Il testo pirandelliano è stato riadattato da Elio Germano ambientandolo nella società moderna, nella fattispecie in un salotto dell’alta borghesia, dove l’umana perversione a “spiare l’altro” risulta amplificata dalla possibilità di usufruire dei nuovi media. Il risultato che ne scaturisce è che questo supporto aiuta a perdersi ancor di più all’interno dell’ossessione di trovare un’unica verità, universalmente riconosciuta.

La storia della signora Frola, del signor Ponza suo genero, della sua giovane moglie e di un paese che non può fare a meno di interrogarsi su di loro e sulle loro insolite abitudini, non smette di farci riflettere sul nostro umano bisogno di mettere argini, confini e quindi (apparenti) certezze all’indeterminatezza nella quale, per natura, siamo gettati. Indeterminatezza e quindi incertezza che da un lato ci spaventa (perché ci dà la misura di un’impossibilità di controllare totalmente la realtà) ma che dall’altro ci intriga, ci rapisce, perché i vuoti d’informazione liberano il nostro desiderio (di sapere, di spiare) incarcerato dentro alle regole apatiche di un cero modo di vivere, accettato solo in quanto riconosciuto dai più.


Recensione di Sonia Remoli

I sorrisi del portiere

TEATRO SETTE, Dal 24 Febbraio al 6 Marzo 2022 –

Che cosa accomuna l’Arte di sorvegliare uno stabile all’esigenza di regalare un sorriso? Gli occhi. Come colui che attende alla cura di un palazzo si avvale nel suo lavoro soprattutto dell’uso degli occhi, così nel regalare un sorriso non sono solo le labbra a distendersi: un sorriso lo si va a cercare negli occhi, soprattutto. La ricchezza del Portiere Orazio Parini sta nel suo sguardo, nel particolare uso che fa degli occhi. Un uso propositivo, generativo, fertile. E di questa ricchezza lui ne è consapevole.

All’apertura del sipario, la prima cosa che sceglie di fare, infatti, è proprio quella di regalare al pubblico un irresistibile sorriso (a ben guardare “uno per ognuno”) al quale il pubblico non solo risponde ma sente di amplificare con un applauso. Subito dopo, prima ancora di iniziare a parlare con il Commissario, istintivamente il suo primo gesto è quello di “guardare”, o meglio, di guardarsi intorno: non il banale curiosare, o il subdolo guardarsi alle spalle, piuttosto il non perdere di vista qualcosa che è degno di interesse: eventuali esigenze dei suoi condomini.

Preziosa attenzione che anche Orazio ama ricevere dagli altri: non a caso arriva ad invitare calorosamente il Commissario a fargli tante “domande”. E che cos’è una domanda se non un desiderio di sapere da esaudire? da domare? La domanda non è incalzante come un’interrogazione: è più delicata, quasi elegante. Ed esprime una certa fiducia. Attenzione e fiducia che Orazio non sente di ricevere da nessuno degli ospiti del palazzo: “a me nessuno mi considera, qui”. Potrebbe, crogiolandosi in un euforizzante istinto di vendetta, replicare anche lui quest’ inumano atteggiamento verso gli altri.

Invece no. Lui sente l’esigenza di dedicarsi agli altri: ama compensarli. E sa che per riuscirci si può avvalere, proprio come in una partitura musicale, di “pause”. Perché la pausa può essere utilizzata ad effetto per stupire, oppure può regalare occasioni in cui alternare al “fare” il “pensare”. Ma sebbene Orazio sia così generoso nell’attendere alle necessità dei suoi condomini, questi stessi gli fanno pervenire una raccomandata dove, dietro l’efficace ed ipocrita motivazione di una necessaria riduzione dei costi condominiali, gli danno il ben servito.

“Figli di mignotta”- pensa Orazio – e con la perspicacia che il nome che porta gli regala, aggiunge che non è un’offesa: piuttosto “un attestato di stima”. Sì, come il celebre poeta latino di cui porta il nome, Orazio sa avvalersi di un’inusuale ironia per affrontare le vicissitudini della vita. Il destino che eredita con il suo nome lo porta a costruirsi una sua ars vivendi: quella che lui definisce la cultura derivatagli dall’aver praticato per anni “l’arte del portiere” e che ai suoi occhi risulta equivalente ad una triplice laurea in giurisprudenza, in psicologia e in scienze della comunicazione. E, se non bastasse, su tutte queste formazioni svetta anche un Master in “odorologia gastronomica”.

Con il susseguirsi delle “domande” del Commissario, Orazio si abbandona ad una ritrattistica dei suoi condomini, nella quale prende vita l’esigenza e la capacità di rappresentare gli ingiusti privilegi dei borghesi del suo tempo. Capacità che ha in comune con chi, prima di lui aveva il suo cognome: quel Giuseppe Parini de “Il giorno”. Ma, sul finale, si fa strada un colpo di scena e quella particolare parola (“Sempre”) che Orazio sceglie per iniziare la sua narrazione (“sempre così va a finì”) troverà una smentita. Almeno per una volta. 

Alla riapertura del sipario, incalzata da un appassionato applauso del pubblico, “Orazio Laganà” ci accoglie tutti con uno dei suoi migliori sorrisi: raggiante e fiero, come un condottiero alla guida della sua auriga.

Uno spettacolo che riesce a veicolare la profondità incandescente di alcuni temi attraverso la freschezza colorita di un arguto linguaggio registico, poeticamente efficace. 

Leggi di più su Rodolfo Laganà

Per maggiori informazioni sul regista Claudio Boccaccini e sull’autore del testo Carlo Picchiotti

Morte di un commesso viaggiatore

TEATRO QUIRINO, Dal 22 Febbraio al 6 Marzo 2022 –

Lo skyline di una New York anni ’50, quasi un sipario. Un commesso viaggiatore che lo percorre finché non volta l’angolo e arriva a casa. Una casa dove quello che resta delle pareti è ciò che un sisma, non solo tellurico, ha lasciato sopravvivere. Una casa, metafora di una psiche devastata da sordi terremoti emotivi. Che non si riescono neppure a guardare. E che vengono scambiati per sogni.

Una rete metallica circonda quel che resta di una casa, nella speranza di riuscire a contenere le macerie che si origineranno dalle prossime scosse, dai pensieri che vanno e vengono a vuoto. Come il viaggio del commesso, con il quale si sceglie di far iniziare la narrazione dello spettacolo.

A casa, ad attendere il marito, che manifesta fin da subito evidenti segni di asfissia (un emaciato e vibrante Michele Placido) c’è sempre la sua materna moglie geisha (una superlativa, per verità interpretativa, Alvia Reale). Apparente ossigeno vitale è il mito ossessionante del fare carriera, del “trovare la strada” per programmare ed assicurarsi il futuro.

In realtà, ciò non basta per “sentirsi qualcuno” e come spesso accade nelle dinamiche tra padri e figli, questi ultimi si orientano o per imitazione o per opposizione. E non funziona la regola che “va avanti chi si presenta bene”. Funziona invece provare “simpatia” per qualcuno e così risultare simpatici. Perché la simpatia non è ingannevole apparenza ma profonda capacità di entrare in sintonia con le emozioni dell’altro.

Willy, il commesso, è consapevole di non essere simpatico e di non risultare simpatico; piuttosto si definisce “un uomo ridicolo”, grottesco, che in parte ricorda l’uomo ridicolo di Dostoevskij ma qui senza un finale catartico, senza un sogno che salva e che aiuta a capire che «La cosa più importante è amare gli altri come se stessi; questo è tutto, non occorre altro: troverai subito come organizzar la vita». Willy sente che “il vento sta cambiando” ma il suo sentire resta molto in superficie: è un po’ il captare e il registrare del magnetofono, di cui tanto va fiero il suo datore di lavoro che, perfettamente sintonizzato sulla vigente economia creatrice di bisogni, proclama che “senza (magnetofono) non si può vivere”.


Tanti egoismi, tanto benessere. Ma possono tanti egoismi rendere tutti felici?  “Per farcela, a volte è meglio andare via” inizia a progettare Willy. Un andar via non tanto fisico, piuttosto un andar fuori di sé mentale. Un’evasione allucinatoria che già un altro commesso viaggiatore dall’altra parte del mondo aveva esplorato: si chiamava Gregor Samsa.

Ma Willy ha anche due figli: cosa lascia loro? Ereditare significa solo omologarsi o anche far proprio e quindi ri-ereditare? È tradimento questo? E se tradire fosse a volte necessario? Di lui diranno al suo requiem: “non conosceva se stesso”. Cosa serve per conoscere se stessi, per non tradire il proprio personale desiderio, per essere liberi?
Quasi tre ore di spettacolo scorrono davanti ai nostri occhi e arrivavano a turbarci. Anche profondamente. 
Interessante l’uso dello spazio scenico, declinato a rendere con efficacia interni ed esterni. Fisici e mentali.

Leggi l’intervista a Michele Placido sul Corriere della Sera

Per saperne di più sul testo Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller