Lei ci attende con un sorriso enigmatico che ricorda quello de “La Gioconda” di Leonardo da Vinci. Splende come un’icona sacra: un quadro iconografico di lussureggiante bellezza.
Lui sembra non esserci, fuso com’è con il suo letto: dove pare rifugiarsi più che riposare.
La drammaturgia di Roberto Russo e la polimorfica seduzione interpretativa di Alessandra Ferro riescono a nutrire così acutamente la suspence nello spettatore, da riuscire a seminare dubbi sulla reale identità di questa “icona” per una lunga parte dello spettacolo.
E su chi invece la stessa drammaturgia – in sinergia con la randagia e sinceramente presuntuosa interpretazione di Gianni De Feo – ci porta a credere di sapere quasi tutto, subiamo uno scacco. Ammaliati anche dall’oscuro fare confidenziale del Nino Ceccarelli di De Feo, che si apre con generosità in “a parte” di natura confessionale.
Questo accade perché l’autore ci rende spettatori metateatrali del Teatro dell’Onirico, dove non trovano ospitalità né i principi della logica né quelli dell’etica, bensì il linguaggio creativamente enigmatico dell’inconscio.
La narrazione allude infatti alla forza eccedente di un desiderio che insiste nell’andare a cercare nel mondo onirico una certa soluzione, che non ha trovato accoglienza nel mondo del reale. Ma che poi qui, in questo mondo parallelo dell’inconscio, si rivelerà in altro, in conseguenza dell’ ambiguo manifestarsi di quel “pensiero frequente che diventa indecente”.
Con la complicità di un’efficace prossemica, di un sapiente uso simbolico prima ancora che estetico dei costumi di scena e di un intrigante disegno sia luminoso che musicale – la regia è curata da Gianni De Feo – lo spettatore si abbandona a spiare, e a lasciarsi spiare, da questa misteriosa complicità nella quale si ritrova aggrovigliato, quasi ancestralmente.
E che confluisce nella stupefacente bellezza del quadro iconografico conclusivo, che cita ”La pietà” di Michelangelo e sa andare oltre.
Perchè è lì, proprio nel sacro e oscuramente luminoso timore della morte, che lo spettacolo di Gianni De Feo intende – e riesce – ad immergerci.
Vivere è un gran rompicapo: un pò come c’insegnava il cubo di Rubik.
Si nasce composti, ordinati e poi la vita ci scompone, ci spettina. Spesso sono venticelli calunniosi a farci perdere il senno, che come i petali di una rosa profumano eppur celano spine.
Ma il gusto del gioco forse è proprio quello di dedicarsi a ricomporre l’ordine. Continuamente. Perché la vita continuamente ricomincia, come amava ripetere Hannah Arendt.
Cloris Brosca e Gianni De Feo
Non ci sono vincitori né vinti quando una storia d’amore finisce. E lo stesso vale anche per quella tra Carlo Gesualdo (1566- 1613) – noto compositore e Principe di Venosa – e Maria D’Avalos.
Sebbene la storia abbia chiuso la vicenda che ha visto il Principe uccidere “legittimamente” Maria e il suo amante, la drammaturgia di Roberto Russo va oltre. E immagina qualcosa di diverso, di più vitale ed estremamente lirico.
ph Manuela Giusto
Ecco allora che legando sinergicamente il suo testo, all’intensa interpretazione attoriale di Cloris Brosca e di Gianni De Feo – che ne cura anche la regia – prende vita uno spettacolo che onora con grande efficacia lo sperimentalismo dello stile musicale di Carlo Gesualdo, dando prova di saper accordare l’audacia ritmica, l’intrepidità armonica e l’estremo cromatismo musicale del madrigalista di Venosa al testo poetico.
Complice l’estro musicale di Alessandro Panatteri che compone per l’occasione musiche originali sui testi di Torquato Tasso e la cura della drammaturgia musicale da parte di Gianni De Feo.
A coronamento, la costruzione solenne e magica dell’impianto scenografico – che può leggersi anche come spazio della mente – di Roberto Rinaldi. Davvero suggestiva l’installazione che allude al misterioso intrico di emozioni di cui si compone la vita (e che si ritrova poeticamente anche nell’acconciatura di Maria D’ Avalos) ma che può trovare composizione affidandosi alla potenza dell’amore e alle ali del perdono. Di Roberto Rinaldi è anche la cura molto efficace dei costumi dei due interpreti. Grande potenza iconografica quella sprigionata dai movimenti scenici.
ph Sabrina Cirillo
Ed è impossibile a tutti noi del pubblico non godere della musicalità linguistica del Cinquecento che si sprigiona nell’aria. Dove la lingua napoletana trova la maniera di legarsi e poi duellare fino a ricomporsi con lo spagnolo. Senza ostacolare incursioni di latino.
ph Sabrina Cirillo
La lirica creatività di Roberto Russo immagina che la vita di Carlo Gesualdo e di Maria D’Avolos non termini con la morte storica. Così fa in modo che i due si ritrovino oltre la morte: un pò come lo Jago e l’Otello del Pasolini di “Uccellacci e uccellini” catapultati tra l’immondizia di un “non posto”.
Una morte quindi, quella che per loro immagina il drammaturgo Russo, che non separa definitivamente ma che è un confine sul quale ci si può incontrare. Ancora. Provando a ricomporre il caos nel quale – solo temporaneamente – si era conclusa la loro relazione. Proprio come si faceva, appassionandosi, con il cubo di Rubik.
ph Sabrina Cirillo
Prende avvio allora una rievocazione che torna a saggiare le informazioni spesso manomesse dai pettegolezzi – che tanto fanno godere chi ha una vita povera di stimoli – i quali sembrano profumare così intensamente di verità quando invece nascondono l’aridità pungente propria delle spine di una rosa. E qualcosa succederà.
ph Sabrina Cirillo
La Maria D’Avalos di Cloris Brosca si dona in una magnifica articolazione vocale che le permette di essere matematica e lirica. Sempre credibile e dalla multiforme espressività, dona carattere anche alle altre partiture che le sono affidate in scena.
Gianni De Feo – che oltre a dare anima a Carlo Gesualdo si moltiplica in una varietà stupefacente di partiture, brilla d’intensa poliedricità. Brucia in tensione creativa. Con straordinaria efficacia e repentinità esce da una psiche per lasciarsi abitare da un’altra. E poi un’altra ancora.
La nostra identità è davvero espressa dal nostro nome proprio ? E come potrebbe ? Il nostro nome è scelto da altri, i nostri genitori, che inevitabilmente finiscono per caricarlo di tutte le loro aspettative. E’ un po’ come se già prima di nascere “venissimo scritti” da altri . Ma a noi resta ancora la libertà di scrivere qualcosa di “davvero nostro” .
Paolo Vanacore, autore del testo dello spettacolo “Bambola, la strada di Nicola”
Questo ci ricorda il testo pieno di bellezza “Bambola, la strada di Nicola” scritto da Paolo Vanacore, interpretato con estroso ardore da un poliedrico Gianni De Feo e musicato dal Maestro Alessandro Panatteri.
Il Maestro Alessandro Panatteri
Nicola è il nome di ripiego di Nicoletta (Strambelli, in arte Patti Pravo) la dea adorata dalla madre di Nicola: quel tipo di donna che la mamma non era riuscita ad essere. Ma ora poteva riuscirci sua figlia: si sarebbe chiamata come lei, Nicoletta, e avrebbe ereditato la sua stessa personalità: libera, vera, autentica. La signora non lascia minimamente spazio, tra le sue aspettative, alla possibilità di poter dare alla luce un figlio. Quando accade se ne dispera. E non smette di farlo, silenziosamente, per tutta la vita.
La cantante Patty Pravo
Tra frustrazione e inevitabile assecondamento, Nicola cresce. Ma già da bambino inizia a sentire “di essere chiamato” per lasciarsi andare in un’altra direzione. Il primo segnale lo sperimenta nei momenti in cui suo padre, che non nutre invadenti aspettative su di lui e lo ama così com’è, riesce a ritagliarsi degli spazi da dedicargli. Quando cioè, soliti stendersi a terra, il piccolo Nicola ama chiudersi in posizione fetale all’interno del corpo di suo padre, come in un guscio. Quasi l’immagine di una nuova gestazione.
“Un paradiso tu vivrai se tu scopri quel che hai…” . Scoprire ciò che si ha, scoprire il proprio “valore”, la propria autentica identità e potervi accedere per “realizzarsi” come persona: questo cantava Patty Pravo, un’avanguardia negli anni ’60. Ma quanta (apparente) sicurezza siamo disposti a cedere per non tradire il nostro desiderio, il nostro talento, senza farlo dipendere totalmente dagli altri ?
Gianni De Feo, interprete e regista dello spettacolo “Bambola, la strada di Nicola”al Teatro Lo Spazio
Il padre di Nicola muore quando lui ha solo sette anni e dieci anni dopo sua madre sceglie di suicidarsi. Nicola resta orfano e qualcosa, già vivo in lui, inizia a prendere forma: Bambola. Un nome che Nicola sceglie pensando a quel tipo di donna cantato da Patty Pravo. Una donna che aspetta godottianamente qualcosa che deve arrivare e che con sensibilità leopardiana non può fare a meno di rivolgersi alla Luna per constatarne però ogni volta il suo disinteresse.
Gianni De Feo, interprete e regista dello spettacolo “Bambola, la strada di Nicola” al Teatro Lo Spazio
Una storia avvincente, personale e insieme universale, immersa nella Roma degli Anni ’60, dove nelle periferie si vivevano i fermenti dei moti di emancipazione: il femminismo, la libertà sessuale, la contestazione giovanile. Periferie laboratorio, dove Pasolini ambientava, tra l’altro, le interviste dei suoi “Comizi d’amore”. Tra le voci di un’umanità che inizia a trovare l’ardire di parlare di sessualità, intervistato è anche un Giuseppe Ungaretti che dichiara che in amore non esiste un concetto di “normalità” che lega gli uomini alla propria natura. A salvarci è solo uno “sforzo di poesia”.
Giuseppe Ungaretti e Pier Paolo Pasolini in “Comizi d’amore”
Poesia che Gianni De Feo dimostra di saper portare in scena: sua infatti è la capacità di utilizzare il corpo per catalizzare l’attenzione per poi scoccare il dardo dell’emozione sul pubblico. Con grande controllo di gestualità e mimica: senza mai incorrere in eccessi.
Gianni De Feo, interprete e regista dello spettacolo “Bambola, la strada di Nicola”al Teatro Lo Spazio
La cifra stilistica di Gianni De Feo trova espressione in una capacità registica ed attoriale sincretica, che si avvale della complice sinergia di linguaggi diversi. La canzone, ri-arrangiata per essere messa al servizio dell’interprete ad esempio e’ una componente drammaturgica imprescindibile che, unita alla lingua da proscenio, dà vita ad una proposta di teatro canzone davvero molto interessante. Frutto della particolare affinità tra Gianni De Feo, Paolo Vanacore (autore del testo), il Maestro Alessandro Panatteri e Roberto Rinaldi (curatore delle scene e dei costumi).
Gianni De Feo, interprete e regista dello spettacolo “Bambola, la strada di Nicola”al Teatro Lo Spazio
Prendendo posto in sala, lo troviamo seduto sul palco. Di spalle, su un cubo di marmo. Legge un’iscrizione: la “sente”. Non parla, così sembra. Ma le parole più belle sono quelle che naufragano nel silenzio. Si sta lasciando guidare dal suo “daimon”: lui sa cosa è più fertile per “fare anima” . Di Gianni De Feo fin da subito ci arriva la fascinazione della sua “percezione”. La sentiamo.
Gianni De Feo nell’intro allo spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”
Poi si alza, si volta e dà inizio alla sua seducente narrazione: un ripercorrere a ritroso i momenti del palesarsi, subdolo o manifesto, di un singolare “daimon”.
In perfetta corrispondenza con il “fare anima ” di James Hillman, De Feo, che oltre ad interpretare l’appassionante testo di Paolo Vanacore ne ha curato anche la regia, dà vita ad un meraviglioso montaggio pluri-disciplinare collegando ed enfatizzando il potere della narrazione a contributi artistici di varia natura: dalla musica alla pittura; dal canto alla danza.
Gianni De Feo in un momento dello spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”
La musica è quella che si immagina esca da una radio degli anni ’20 e viene scelta per fare “da tappeto” alla narrazione, seguendone simbolicamente i diversi climi. Per la pittura, De Feo sceglie di proiettare delle tele del pittore Roberto Rinaldi: davvero di forte espressività. Il canto e l’accenno a degli eleganti passi di danza arrivano con l’entusiasmo di un’amabilissima sorpresa: De Feo rivela dei colori vocali molto interessanti e dà prova di un’intensissima interpretazione avvalendosi di un accattivante uso delle mani che, in alcuni momenti, ricorda la magia delle “mudra”.
Gianni De Feo in un momento dello spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”
Come nelle poesie di Keats, De Feo riesce ad evocare gli oggetti nelle sue molteplici qualità mediante l’accostamento di diverse sfere sensoriali. In questo modo le immagini risultano così vivide che non solo se ne immagina la fisicità ma si riesce a partecipare della loro vita intima.
Gianni De Feo in un momento dello spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”
Il testo di Paolo Vanacore immagina di ripercorrere il riappropriarsi della vocazione, “dono dei guardiani della nostra nascita”, da parte di un bambino che nasce dall’ondivago fluttuare delle onde di “un hotel di passaggio” di Atlantic City e che lascerà un’indelebile traccia di bellezza sulla Terra.
Gianni De Feo in un momento dello spettacolo “Daimon – L’ultimo canto di John Keats”
È un teatro di narrazione colmo di intima poesia, quello in cui s’immerge Gianni De Feo. Rompendo continuamente i piani, quasi fossero onde da fendere. E ci trascina con lui. Ne “sentiamo” il carisma, ne apprezziamo il ritmo, il “farsi anima” dei gesti. Dei silenzi. Della parola. Non si può non percepire infatti la bellezza con la quale De Feo riesce a riprodurre le figure di suono (specie assonanze e suoni vocalici) che abbondano nei versi di Keats e che donano musicalità e grande freschezza espressiva. Particolare attenzione pone De Feo all’utilizzo delle vocali che, così come amava Keats, sono impiegate alla stregua di note musicali, separando quelle chiuse da quelle aperte. E, così sedotti da tale bellezza, non possiamo non “lasciarci andare”. Naufragando. Paghi del nostro esserci venuti a cercare.
E’ in una stazione, luogo dove s’incontrano vite (e metafora della vita che, come un treno, sfreccia tra paure, sogni e desideri) che noi incontriamo Célestine (un’ammaliante e profonda Giovanna Lombardi).
Lei è (apparentemente) l’unica protagonista del “Diario licenzioso di una cameriera”: emozionante adattamento del regista Gianni De Feo della pièce del rinomato drammaturgo Mario Moretti, che a sua volta adattò dal testo originale di Octave Mirbeau “Journal d’une femme de chambre“.
Seduta, ma cangiante come i colori dei cieli dolci e piovosi della Normandia, Célestine aspetta di arrivare alla sua nuova destinazione lavorativa, al suo nuovo destino. È di una bellezza austera e sensuale: sembra uscita da un manifesto di Toulouse Lautrec (i costumi sono di Roberto Rinaldi).
Henri de Toulouse Lautrec, Divan Japonais – 1893-
Quando inizia a rivolgerci la parola siamo invasi dalla sua malizia. Ci arriva dalla sua voce golosa; dal suo corpo che si offre e si cela; dalla sua bocca così morbida e umida; dal suo tatto così avido di superfici da esporare.
Una scena del “Diario licenzioso di una cameriera ” di Gianni De Feo
E dai suoi gesti così in simbiosi con la musica. Ma sono i suoi occhi a stregarti e a portarti via con lei. Dovunque il suo capriccio decida di andare. Occhi che proiettano paure, eccitazioni, gioie. Occhi che sanno parlare anche in quei silenzi così potentemente densi. Nella malìa della sua narrazione, Célestine denuncia l’ipocrisia dei suoi datori di lavoro, appartenenti a quella borghesia che ostenta “case linde e pinte dietro facce disgustose”.
Una scena del “Diario licenzioso di una cameriera ” di Gianni De Feo
Lei presta servizio come cameriera e si descrive in una maniera che potrebbe farla risultare un’opportunista. Lo è. Anche. Ma non solo. Il suo non è un mero scambio di servizi. Lei “sa guardare”. Non solo con gli occhi ma anche con la mente. E con il cuore.
Una scena del “Diario licenzioso di una cameriera ” di Gianni De Feo
Ha la capacità di visualizzare anticipando gli eventi che la coinvolgono e poi la prontezza di sincronizzarvisi. Per questo quando ci parla degli uomini e delle donne che ha incontrato, lei “scatta” veri e propri “ritratti” umani. Non si accontenta di lavorare per vivere. Vuole “sentire”, piuttosto, cosa significa vivere. In quanti modi si può vivere. Quanto può essere seducentemente contraddittoria la vita.
Una scena del “Diario licenzioso di una cameriera ” di Gianni De Feo
Come può accadere di essere attratti dalla violenza che si mischia alla protezione e dalla malattia che è anche fonte zampillante di vita?
Eppure accade, se non ci si ferma sulla soglia delle ipocrite classificazioni borghesi. Perché se si ha davvero fame di vita, non si può non riconoscere che il bene non si dà mai disgiunto nettamente dal male. Giudicare non ha più senso, allora. E non è più vero, come aveva dichiarato inizialmente, che lei sia impenetrabile: che nulla la meravigli. Lei sa di essere “una donna che fa sangue”, che ha bisogno di sedurre e di essere sedotta. Sa che la sua luce è data dalle sue ombre e non teme di rivelarle, quando anche l’altro le fa dono di ciò che non ha.
Questo adattamento del “Diario licenzioso di una cameriera” di Gianni De Feo è uno spettacolo magnetico: un inaspettato viaggio emozionale . Merito di una regia curatissima, introspettiva e raffinatamente sfacciata. Le scene (di Roberto Rinaldi) sono semplici ma efficaci pennellate di ottimo gusto e il disegno luci, unito alla complicità delle scelte musicali, fonte diegetica: alcuni momenti sono costruiti su immagini scritte con la luce.