Tornare a vedere ANTIGONE di Roberto Latini: quando “ogni variazione è Teatro”

TEATRO VASCELLO

dal 21 al 30 Novembre 2025

Già al debutto del Luglio scorso al “Teatro Ostia Antica Festival – Il senso del passato” dallo spettacolo ci si lasciava turbare per la bellezza notturna del suo sguardo.

Anfiteatro romano di Ostia

Nello spostarsi ora dal palco en plein air del teatro romano, alla complice intimità del palco al chiuso del Teatro Vascello di Roma – anch’esso spazio simile ad un anfiteatro, con platea a gradoni e palcoscenico a filo della prima fila – la sublime bellezza di quell’osmosi di profonda inquietudine è notevolmente salita.

Teatro Vascello

Effetto della “conclamazione” tra i due spazi scenici, ci confida Roberto Latini nelle sue poetiche note di regia. Effetto cioè di un vibrante rivelarsi dello spettacolo, grazie all’accordarsi degli spazi che lo accolgono, attraverso entusiastiche convergenze sulla “messa in voce di suoni e corpi”.  

Se ne trova luminosa traccia nell’incedere con cui ciascun personaggio entra in scena; nella diversa eppure uguale tessitura del racconto delle mani della nutrice (una calibratissima e affettuosamente ancestrale Manuela Kustermann) e in altro ancora che ciascun spettatore potrà avere il piacere di notare. 

Ne risulta un’ ”Antigone” bruciantemente vicina allo spettatore. 

Complice una diversa drammaturgia della luce curata da Max Mugnai in accordo alle trame di musica e suoni di Gianluca Misiti: una luminosità più oscura, più allusiva, evidente e impenetrabile. Arcana.

Una drammaturgia della luce delle ombre – proprie della natura umana – che sembra celare qualcosa carico di una dignità e di un potere tali, da dover restare inaccessibile in penetrali lontani. Un qualcosa da mantenere, cioè, come protetto dalla sfera pubblica e da cui la sfera pubblica deve essere protetta.

Un senso dell’arcano al quale la regia di Latini osa efficacemente avvicinarsi, rendendo ancora più fluida la “non distribuzione delle parti” degli interpreti. 

Lo spettatore finisce, allora, per farsi più prossimo alle intime e contraddittorie scelte – incluse le non scelte – di ciascun personaggio. Che qui si rivela in cambi di “habitus” (di modo di essere) attraverso una raffinata scelta registica che fa fluire determinate parti della psiche dell’uno in quella di un altro personaggio – con il quale può “conclamarla” – attraverso un’affascinante duplice distribuzione. “Siamo Antigone e Creonte insieme, o lo siamo già stati più volte, di più in certe fasi della vita e meno in altre e viceversa o in alternanza” – ci ricorda Roberto Latini.

Una fluidità esistenziale in bilico tra il sentirsi ora più uomini ora più umani. Ora convinti che si è arrivati a essere quel che si è in base alle scelte che si sono fatte. Ora in base alle scelte che “non” si sono fatte. Ora assecondando la Legge, ora il proprio sentire.

(ph. Manuela Giusto)

Ne è un fulvido esempio la presenza dell’elemento “polvere-sabbia” e la sua manipolazione. Ma anche il rapporto dei personaggi con la regola stradale del “passaggio pedonale”: nessuno ne fa l’uso previsto dal “Codice della strada”, ma quello più accordato al proprio sentire. Così come, al contrario, ci sono le guardie che – sprovviste di immaginazione – credono ciecamente che non esista altro se non ciò che viene ordinato loro dalla Legge.

Antigone, soprattutto quella di Jean Anouilh qui riletta da Roberto Latini, ci parla di questa fluidità e ci invita a non sfuggirla. A farla nostra ogni volta, lasciandola risuonare sempre in ogni nostro “habitus” (modo di essere) che l’altro, con il quale veniamo a contatto, ci riaccende. 

Un invito al quale Latini allude quando dice che il miglior modo di “incontrare” Antigone è quello di permetterle di parlarci sempre di qualcosa di nuovo. Di qualcosa che comunque ci riguarda.

“Sapendo che ogni variazione è già Teatro”: è vita che fluisce e resta.

“Come quando lo spettacolo incontra un altro palcoscenico oltre quello del debutto”.

“Come quando lo spettacolo incontra un’altra platea oltre quella del debutto”.


Recensione di Sonia Remoli

ANTIGONE – regia Roberto Latini

TEATRO ROMANO DI OSTIA ANTICA

19 Luglio 2025

Teatro Ostia Antica Festival

Il senso del passato

Al di là dei meccanismi “confortevoli” della tragedia classica – dove si puó far conto su una “distribuzione delle parti” che protegge lo spettatore dal riflettersi nelle intime e contraddittorie responsabilità proprie di “ciascun” personaggio – la rilettura innovativa dell’Antigone di Sofocle da parte di Jean Anouilh è un testo – qui tradotto da Andrea Rodighiero  e adattato da Roberto Latini – che sceglie di rinunciare al meccanismo della suspense tragica, per andare a sagomare l’attenzione dello spettatore sulla luce delle ombre, proprie del diverso modo di stare al mondo di ciascun personaggio. 

Roberto Latini

Ciascuno in bilico tra il suo essere uomo e il suo essere umano: ciascuno costituito da una propria dose di “sentire” fatto di solidarietà e di opportunismo; di compassione e di indifferenza; di comprensione e di giudizio; di perdono e di odio; di cura e di disattenzione; di gentilezza e di violenza.

La regia di Roberto Latini visualizza con intensa efficacia questa tensione d’indagine di Jean Anouilh, mettendo in scena una strada – topos dell’eredità paterna di Antigone – ma sollevando i personaggi dal dover accordarsi  su quel “cedere il passo”, che aveva contraddistinto la storia di Edipo e (metaforicamente) anche quella dei suoi fratelli Eteocle e Polinice. Lo fa cioè trasformando quella che era una libera scelta, nella “regolamentazione” di  uno stop. Nello specifico, la fermata di un bus. Sul quale però Antigone si sente libera di scegliere di non salire. Mai.

Perché regolamentare una libera scelta non spegne, né anestetizza, il sentire umano. 

Perché non è vera solo la considerazione che “tutte le scelte che hai fatto ti hanno portato adesso qui” ma anche che “tutte le scelte che non hai fatto ti hanno portato adesso qui”.

Lo stesso Creonte, che in veste di “re” condanna l’ostinato sentire di Antigone, si chiede come “umano” – e scopre di desiderarlo anche lui – se mai qualcuno sarebbe disposto a morire per lui, pur di dar voce ad un sentire esuberante la Legge e al di lá del suo effettivo “merito”` quale destinatario del gesto.

Un sentire che, proprio in quanto “esuberante” rischia di perdersi,  sfociando in una pulsione di morte. Così come rischia di essere risucchiato in un meccanismo di mortifera manipolazione – dove in cambio di una pseudo sicurezza si cede il proprio pensiero critico – il sentire di coloro che “con indifferenza” aderiscono alla Legge.

E’ un rapporto – questo tra la Legge e il sentire umano – che parla intimamente di noi. E a noi. 

Non a caso il Teatro ne fa l’oggetto privilegiato della propria indagine.

Ecco allora che la regia di Latini sceglie di fare di ciascun personaggio “un corpo di voce”, capace di rendere magnificamente il vicendevole insinuarsi delle tensioni securitarie nel sentire esuberante dei protagonisti della storia.

La stessa scelta di distribuzione dei personaggi non è quasi mai univoca e la duplice partitura rende con avvincente efficacia il riflettersi – e quindi il visualizzarsi – di aree dell’animo di un personaggio nell’altro.

Le opportunitá offerte dallo spazio scenico del Teatro romano di Ostia vengono poi esaltate nel loro valore simbolico rendendole aree dell’animo dei protagonisti. Ad esempio, lo spazio dell’orchestra ospita l’area più enigmaticamente sotterranea non solo di Antigone – la cui restituzione da parte del Latini attore si incide nello spettatore per una sublime bellezza vertiginosamente aerea – ma anche degli altri personaggi. 

Anche i costumi – curati da Gianluca Sbicca – esaltano i colori e le morfologie vocali dei personaggi, la cui unicitá del volto è parzialmente celata da una maschera omologante – che ricorda quelle antigas del periodo bellico della Seconda Guerra Mondiale. Maschera alla quale possono rinunciare  quando scendono nell’area sotterranea della propria  psiche. 

Nell’area superiore del palco – area della cittá di sopra, ordinata dai principi della Legge di Stato e simbolo dell’area psichica dell’io – le posture e i gesti della voce/corpo dei personaggi si esprimono attraverso  la meccanicità dell’obbedienza, alludente a quella di marionette i cui fili sono gestiti dall’opinione pubblica della cittá: un agglomerato di mezzi di comunicazione uniformante. La cura delle scene é di Gregorio Zurla.

Le musiche e i suoni di Gianluca Misiti, nonchè la drammaturgia delle luci di Max Mugnai, sono anch’essi sensuale corredo acustico di una messa in scena sapientemente versata nelle orecchie dello spettatore.

E che inizia così:

Roberto Latini

Ecco. Questi personaggi stanno per rappresentarvi la storia di Antigone…”.

L’ “Ecco” che apre il prologo è un vero e proprio “ecce homo”: come a dire “eccoli, guardateli, sono proprio questi personaggi qui, questi davanti a voi, che fanno la storia (oltre che il mito) di Antigone”. 

Ed é la voce solenne e suadente di Francesca Mazza che – come in un reportage esistenziale – ci rivela ritratti acuminati di personaggi assai riconoscibili: a noi vicini, prossimi.  

Vale qui la pena ricordare che Anouilh fu trascinato a scrivere la sua “Antigone” non appena appresa la notizia dell’atto del giovane Paul Colette – atto rivendicato senza porsi a rappresentante di alcuna idea politica – con il quale aveva attentato, senza fortuna, alla vita del vice di Philippe Pétain (che allora governava la Francia di Vichy) conquistandosi le percosse della polizia, una condanna e la deportazione.

Personaggi quindi – quelli annunciati nel prologo – che non hanno nulla di rassicurante: escono fuori dai confini della tragedia e ci vengono a graffiare. O ad accarezzare, complici. E ci sussurrano – spogliandoci delle nostre maschere – quali sono le ombre che ci costituiscono. E così, denudati, restiamo a guardarci.

Francesca Mazza

Accorgendoci come non ci sia davvero niente di rassicurante nelle nostre tenere e vigliacche esigenze di sicurezza. 

Intenzione dell’autore è  quella di non lasciarci “tranquilli”, come se la storia non ci riguardasse davvero, o come se ce la potessimo cavare con una rassegnazione furba: indifferenti, senza dubbi, senza turbamenti, “sempre innocenti, sempre soddisfatti di noi stessi e della giustizia… senza immaginazione”.

Intenzione dell’autore è contaminarci dell’urgenza ad andare a “scovare” – un pó come fa Emone – l’Antigone che è in noi, in tutti noi. Perché ora la nostra Antigone l’abbiamo nascosta “laggiù nel fondo” della nostra anima. Un pó troppo in fondo, forse. Come Creonte. 

Silvia Battaglio

Ma anche come Ismene: una sorella incline sí al conversare e all’omologarsi ma anche a quella meditazione solitaria propria del personaggio del “messaggero” (nella doppia partitura un’interessante Silvia Battaglio).

Solo ora, così predisposti gli spettatori attraverso un prologo spietatamente poetico, la recita può iniziare.

Manuela Kustermann

“Da dove vieni?” – è la voce insieme stridula e rauca della meravigliosa Nutrice di Manuela Kustermann, solo lei capace di intuire l’essenza volatile di un’ Antigone – “dal passaggio più leggero del passo di un uccello” – che fin da piccola piangeva pensando che c’erano tante bestioline, tanti fili d’erba nel prato e che non si poteva prenderli tutti. 

Lei, la Nutrice, una donna dalla sensibilitá ancestrale: “marmotta”  e “cane da guardia” si definisce. E si rammarica di non esser riuscita ad essere stata sufficientemente attenta nel controllare la “tana” da lei scavata. Sente, infatti, a qualche livello, l’attrazione pericolosa di Antigone per la notte, per il mondo di sotto. E questo “la manda in oca”: la rende goffa e confusa.

Sente che é una bambina che si sta improvvisando adulta, senza passare per l’adolescenza. Una piccola Antigone che non vuole avere ragione ma che si ostina a fare ció da cui si sente chiamata. Senza voler scendere a compromessi. “Ancora troppo piccola per tutto questo”: essere catturata e insieme essere per la prima volta se stessa.

Orgogliosa come “un piccolo Edipo”, Antigone é consapevole che il re di Tebe “deve” farla ammazzare “senza volerlo”. Perché questo significa essere un re. Ma, se oltre ad essere un re é anche “un essere umano”, deve farlo in fretta: solo questo lei gli chiede.

Creonte (qui, una coinvolgente Francesca Mazza)  comprende la richiesta di Antigone  e le confida: “avrei fatto come te, a vent’anni. È per questo che mi bevevo le tue parole. Ascoltavo dal fondo del tempo un piccolo Creonte magro e pallido come te e che non pensava ad altro che a dare tutto anche lui”.

Ora, invece, Creonte é un uomo che “gioca al gioco difficile di guidare gli uomini”. Un gioco difficile, il suo, non essendo guidato dalla passione ma solo dalla spinta all’esecutivitá, propria di “un operaio sulla soglia della sua giornata”. 

E’ un re che ha paura, Creonte, e che rimpiange la sua vita di prima: quella ribelle dei vent’anni e quella precedente alla morte di Edipo: una vita noiosa e libera da responsabilitá.

Non immune dalla paura é la stessa Antigone, che cerca il calore umano dello “sfregarsi” in un abbraccio, prima di ogni momento particolarmente difficile. E lo chiede apertamente: alla Nutrice ma anche ad Emone e finanche alla guardia (qui un’Ilaria Drago efficace in entrambe le partiture).

Ma un nuovo “Ecco” apre l’epilogo affidato alla vocalitá decisa e vellutata di Manuela Kustermann.

“Ecco, senza la piccola Antigone, è vero, sarebbero stati tutti più tranquilli. Ma adesso è finita”.

E ritorna l’attenzione puntata proprio su quei personaggi che Anouilh ci aveva posto di fronte al momento del prologo e che, senza la storia di Antigone, sarebbero stati “tranquilli”: senza turbamenti. Anche gli spettatori senza la storia dell’ Antigone di Anouilh sarebbero stati piú “tranquilli”: non sarebbero stati sollecitati a rispecchiarsi nelle diverse aree contrastanti del sentire dei diversi personaggi coinvolti nella storia.

Ma la vita non ci chiede di essere “tranquilli”, men che meno “indifferenti”, come invece fanno le guardie: atteggiamento con cui Anouilh non a caso chiude il testo. Loro si curano solo di giocare a carte, ovvero di giocare ai soldi.

Ma ogni fine contiene anche un nuovo inizio: é il senso del passato.

E allora Jean Anouilh chiude con un paradosso per dare vita a un nuovo enigma: chi sono coloro che invece di avere cura del rispetto della giustizia, amano giocare ai soldi?

Ma soprattutto: chi sentirá l’esigenza di decifrare questo enigma, di interpretarlo, di farlo risuonare in se?

Roberto Latini. Foto ©Masiar Pasquali

Attraverso questo spettacolo Roberto Latini ci fa dono, ancora una volta, di una splendida testimonianza dell’esigenza di prenderci cura di noi. Di tutti noi.

E lo fa indirizzando il nostro sguardo su chi – precedendoci – ha dovuto giá “scegliere le domande da infilare nelle tasche del tempo, dell’età, della speranza” –  come scrive splendidamente lui stesso, nelle note di regia allo spettacolo.

Domande che ci parlano di un desiderio che custodisce “una veritá vera, scomoda, incapace, parziale”. E cioé che “la nostalgia del vivere é precedente a tutti noi”.

Per questo, noi che ora siamo vivi, possiamo evitare di “dolcemente dimenticare” le tracce e le rovine lasciate da chi ci ha preceduti: é questo  quel “senso del passato” di cui questo Festival ha cura di parlarci. Perché quelle tracce e quelle rovine chiedono continuamente di essere riesaminate.

Perché il nostro passato – come ci ricorda Latini nel suo finale – é il risultato non solo delle scelte che abbiamo fatto, ma anche di quelle che NON abbiamo fatto.

Perché il passato é “un affare che ci riguarda”.

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Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo JAGO – di e con Roberto Latini

TEATRO ARGOT STUDIO, dal 19 al 22 Dicembre 2024

S’insinua tra noi. 

Nel buio.

Ci versa parole nell’orecchio.

Non sono solo parole. 

Sono un’amplificazione tridimensionale del loro significato. 

Sono la sua eco. 

Ma non solo: lui stesso si fa eco, distorce e si distorce, altera e si altera, deforma e si deforma, risuona ed è risuonato, è armonia e corrispondenza semantica. Si rende suono, si fa udire, si rende palese. 

E’ un concerto.

“Volete ascoltarmi ?”.

Questo il suo esordio: la sua proposta. 

La condizione affinché ci sia “teatro”. 

La condizione affinché Jago possa esistere. Perché prestargli attenzione significa riconoscergli un’identità: la sua, quella autentica. Non come ha fatto Otello.

Si rivela a noi come ad un cielo abitato da stelle: noi spettatori.

Seducentemente si confida: sa come usare le attese, i vuoti. E nel farlo ci fornisce come delle inedite “note di regia”. 

Perché Jago ha un autore, sì, ma poi si fa regista, attore e spettatore.

Entra in scena: la luce lo bagna appena, con sapienza inquietante. 

Si muove di un moto sinuoso, scivoloso, strisciante, quasi una danza. Perché, per far scivolare le volontà dei suoi nemici portandole in un’altra direzione – la sua – lui stesso deve farsi corpo che si lascia plasmare dalla scivolosa seduzione dell’incertezza. 

Ondeggia, s’avvita e si svita. 

Ansima, difatti: la fatica è notevole ma solo così può temprarsi per resistere e vincere (forse), laddove le sue vittime si lasceranno sopraffare.

Solo così potrà dire: “io ero, sono e sarò”.

Indossa un lungo impermeabile: l’impermeabilità vuole essere la logica conseguenza del suo allenarsi ad essere fluido. Così da non lasciarsi permeare dalla paura, dalle raccomandazioni, dai sentimenti gentili.

Ed è così, in questo continuo processo che abita il suo sottosuolo inconscio, che lo Jago di Roberto Latini stupefacentemente “diviene e contiene” tutti i personaggi della tragedia.

E in un’epifania visivamente sonora, ci rende consapevoli di come loro, ciascuno a suo modo, “sono quello che non sono”. 

Rivelazione resa particolarmente mirabile da Latini attraverso l’evocazione di un’immagine che riguarda Otello: “perché vi mordete le labbra – gli chiede sconcertata Desdemona pochi istanti prima di essere da lui uccisa – siete irriconoscibile”. E lui: “C’è una ragione”. Le labbra, qui in Latini, riescono a parlarci di un voler far altro di Otello, di cui resta solo una traccia in quel suo gesto di mordersi le labbra.

Perché “c’é una ragione” che non lo rende libero di essere libero.

Perché “c’è una ragione” che “lo costringe” ad essere libero, in un modo diverso da quello rivelato dal quel mordersi le labbra.

Perché i nostri gesti non coincidono con chi noi siamo, essendo noi un “poter essere”.

Dice infatti anche lo Jago di Latini: “E’ ancora presto. Sono in prova, sono in attesa di scegliere le parole”.

Anche lui, come noi, come i personaggi della tragedia, non è libero di essere libero. Siamo costretti a essere liberi: siamo costretti a scegliere. 

Perché “c’è una ragione”: perché c’é sempre una ragione.

Su questa realtà ci illumina, come solo la luce del buio sa fare, lo “Jago” di Roberto Latini.

Una performance, la sua, dove la luce è gesto. E dove il gesto, così come la parola e il suono, incarnano la cifra del “verde”: il colore la cui definizione ha per lungo tempo predato la curiosità degli artisti, tanto indecifrabile si rivelava il suo essere mescolanza fluida. 

Uno studio, un approfondimento, un’amplificazione, necessari.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo SMARRITA E SOAVE – Adriano poeta tra i poeti – di e con Roberto Latini –

Rassegna sotto l’Angelo di Castello – danza, musica, spettacolo – IV Edizione – Castel Sant’Angelo, 3 Luglio – 26 Settembre 2024

CASTEL SANT’ANGELO, 10 Luglio 2024


SMARRITA E SOAVE

Adriano, poeta, tra poeti

di e con Roberto Latini 

musiche Gianluca Misiti 

eseguite dal vivo da

Luisiana Lorusso violino

Claudia Della Gatta violoncello

luci e direzione tecnica Max Mugnai

produzione Compagnia Lombardi-Tiezzi


Era una certa sera, quella di ieri a Castel Sant’Angelo. Colma di stupore.

Avevamo ricevuto il suo invito e ci siamo trovati tutti ad aspettarlo nella straordinaria cornice del cortile Alessandro VI. Noi, nella sua casa dell’eternità, come sulla soglia del confine tra la vita e la morte.

E poi arriva lui: luminosamente vestito di ombre, esoticamente scalzo. Lo accompagnano due giovani donne con i loro strumenti musicali.

Ci saluta tutti, vorrebbe chiedere a ciascuno di noi ma poi sceglie di iniziare col parlare di sé. 

Lui è lo spirito dell’Imperatore Adriano, incarnatosi in Roberto Latini.

Claudia Della Gatta, Luisiana Lorusso, Roberto Latini

Ci ha convocati spinto dall’urgenza di vederci e di parlarci. Perché “chi parla non è morto”. E perché per lui è necessario che noi sappiamo qualcosa di essenziale che lo riguarda, al di là di quello che le fonti hanno scritto.

A partire dal mistero che avvolge la sua nascita:  a lui non fu dato sapere con certezza quale “luogo” gli diede  i natali, né gli fu riservata la cura di essere subito “ufficialmente” adottato da coloro che, una volta restato orfano all’età di nove anni, si occuparono di lui. Avvenne molto più tardi. 

Il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su se stessi: la mia prima patria sono stati i libri” – scriverà di lui la Yourcenar . 

E poi patria fu “il  viaggio”costante della sua vita , lui che confessa di non aver «mai avuto la sensazione di appartenere completamente a nessun luogo, […] straniero dappertutto, non mi sentivo particolarmente isolato in nessun luogo»

Publio Elio Traiano Adriano (117 – 138 d.C)

Ma nonostante  questo essere privo di autentiche origini, Adriano seppe farsi amare: perché fu lui il primo ad amare gli altri. Fu generoso in tolleranza:  dimostrò una  brillante sopportazione delle proprie fragilità e contemporaneamente seppe far dono di accoglienza alle varie differenze altrui.

Lui ci sapeva fare con i confini: non solo quelli a valorizzazione delle Province dell’Impero. Ci sapeva fare nel restituire “la qualità del valore” di un luogo e di un uomo. Era attento, accurato:  fece suo il metodo della “conoscenza diretta” degli uomini e dei luoghi.

Vallo di Adriano – confine tra la provincia romana della Britannia e la Caledonia –

Si mescolò a loro per capire e per dare l’esempio.  Durante il suo ventennio di pace relativa riuscì, ad esempio, nel ristabilire la disciplina nelle basi militari. Caduta l’aspettativa di nuove conquiste, i soldati tendevano a condurre una vita più rilassata e a circondarsi di comodità inadatte alla vita militare. E allora si trasformò lui stesso in un esempio per i suoi soldati: marciava con loro, dormiva all’aperto e mangiava lo stesso rancio. Fu così che scoprì il valore formativo che costituiva per un esercito la realizzazione di opere pubbliche. Con esse i soldati si forgiavano, non si abbandonavano a un’esistenza oziosa e per di più scoprivano l’importanza di saper lavorare in squadraMa soprattutto la realizzazione di opere pubbliche era destinata a consolidare “la frontiera”.

Vallo di Adriano – confine tra la provincia romana della Britannia e la Caledonia –

Il valore del muro, del confine, stava per Adriano nella capacità di “regolare” i limiti della vita civilizzata e di “canalizzare” gli scambi fra il territorio romano e quello barbaro. E’ una frontiera aperta, la sua, ma controllata.

Eclettico, versatile e multiforme è Adriano: un uomo assetato di conoscenza e allo stesso tempo dotato di virtù pratiche. Animo raffinato e sensibile ma anche spirito inquieto, attratto dal mistero. Inclinazioni che lascerà in eredità al luogo – sul quale nessuno questa volta dovrà nutrir dubbi – che ne custodirà le sue ceneri: il Mausoleo di Adriano oggi conosciuto come Castel Sant’ Angelo.

E come per osmosi tale luogo – situato sulla sponda destra del Tevere di fronte al pons Aelius (attuale ponte Sant’Angelo), a poca distanza dal Vaticano e collegato ad esso attraverso il corridoio fortificato del “passetto” – si è rivelato “testimone” della versatilità del suo “padrone di casa”. Mausoleo, fortilizio, carcere e oggi “simbolo delle Arti”: luogo dove corpo, suono e immagine trovano un linguaggio comune proprio nella coreografia.

Un omaggio al modo di stare al mondo, e quindi alla “qualità” del regnare di Adriano, caratterizzato dalla tolleranza, dall’ efficienza e dallo splendore delle arti e della filosofia. Adriano si fece infatti appassionato promotore di molti edifici pubblici in Italia e nelle province: terme, teatri, anfiteatri, strade e porti. Nella villa che fece costruire a Tivoli riprodusse i monumenti greci che amava di più e trasformò la sua dimora in museo. Ma è a Roma che volle lasciare un segno indelebile: attraverso l’edificazione del suo mausoleo (Castel S. Angelo) e attraverso la ricostruzione del Pantheon, distrutto da un incendio.

Villa Adriana – Tivoli –

Perché i luoghi continuano a parlarci di chi li ha voluti, di chi li ha generati e di chi in essi ha voluto incarnarsi per “manomettere la morte”. Con questo desiderio Adriano ha donato vita anche a Antinopoli, la città dedicata – nonché suo nuovo corpo – al grande amore della sua vita: Antinoo. Affetto del quale ieri sera, con squisito riserbo, ha preferito non parlarci.

E cambiando argomento, Adriano inizia a parlarci di Castel Sant’Angelo: il luogo dove ieri sera ci ha riuniti e nel quale lui continuerà a sopravvivere alla morte. Ce lo descrive “anatomicamente” e in tutte le sue trasformazioni eclettiche. Ma in questa nuova narrazione sceglie che a fissarne la punteggiatura siano gli strumenti ad arco delle due giovani e virtuose musiciste che ha portato con se:  Luisiana Lorusso (violino) e Claudia Della Gatta (violoncello).

Fa il suo ingresso anche un refolo di vento: presenza inquieta del suo raccontarsi e del suo gettare ponti verso altri confini: quelli della poesia di altri poeti a lui particolarmente cari.

Roberto Latini

Dicono che l’uomo prima di parlare abbia cantato e che prima di scriver prosa abbia fatto poesia: funzione del linguaggio non era “descrivere” il mondo ma “farlo sentire”.  E l’Adriano di Roberto Latini, nel lasciarsi attraversare dalla poesia, s’inebria come preda della sublime bellezza di una passione amorosa. Ce ne parla il suo disarmato accogliere quel prezioso e tormentato disequilibrio creativo di cui si fa strumento e che trova un varco nei suoi piedi, per poi riuscire a salire fino a colonizzare tutto il corpo, incluso il corpo della voce. L’avvio al “viaggio poetico” è dato dai suoi versi, quelli pronunciati da Adriano prima di morire:

Piccola anima smarrita e soave / compagna e ospite del corpo / ora t’appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli / ove non avrai più gli svaghi consueti.

Non c’è in Latini manifestazione della volontà: lui lascia che la parola poetica “dica” tutto il suo potere prestandosi, lui stesso in quanto “luogo”, a contrazioni e dilatazioni morfologicamente sonore. E il suo “fare esperienza” diventa, per osmosi, anche il nostro.

In analogia al profondo desiderio di viaggiare che animava l’Imperatore Adriano, quello che ci propone Roberto Latini è un viaggio che ci porta “ad incontrarci” sulla soglia di quei confini che regalano un’identità a ciascuno dei poeti da lui scelti per questa avventura poetica ma di cui lui e noi possiamo fare “compagni di viaggio”.

Perché il concetto di “viaggio” gemma da quello di “viatico”, cioè da ciò che riteniamo utile portare con noi per il viaggio stesso. Ecco allora che il viaggio poetico al quale l’Adriano di Latini ci ha invitati ieri sera è saluto, è appoggio, è presenza persistente . E’ il non rimanere “solo”, è il non ricevere ancora “il dono dell’abbandono” .

Un invito che sul momento rapisce lasciando sbalorditi. Come solo ciò che sa provocare stupore riesce a fare. Ma che poi, ricontattando l’esperienza a posteriori, dilata il tempo in una dimensione nuova

Investire nel teatro e nell’arte in generale rende viva una città, testimoniando la sua collettività e la sua democrazia.  Come questa rassegna “sotto l’Angelo di Castello: danza, musica, spettacolo, guidata dal Direttore generale Musei Massimo Osanna e curata da Anna Selvi, ne è un luminoso esempio, nel suo promuovere – quale valorizzazione del monumento – il dialogo tra l’arte dell’attore, del danzatore e del musicista con gli spazi del museo.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione del film CONFIDENZA – tratto dal romanzo di Domenico Starnone (Einaudi) – con Elio Germano, Federica Rosellini, Vittoria Puccini, Pilar Fogliati, Isabella Ferrari – un film di Daniele Luchetti

Stupefacente è come questo film riesca a destabilizzarci, anche senza esserne totalmente consapevoli. 

Indubbiamente ha la capacità di insinuarsi seducentemente in quella quotidianità, che crediamo di saper tenere sotto controllo. 

Non è necessario aver vissuto qualcosa di simile ai protagonisti per rimanere profondamente turbati, perché la narrazione ha il potere di arrivare in “un luogo” dove tutti confluiamo e che ci fa vedere quanto è labile il confine tra “amare” e “sopraffare”. 

Amare è quanto di più distante dalla nostra natura: ciò che riceviamo in corredo dalla natura é infatti un istinto alla sopraffazione utile per sopravvivere, senza andare troppo per il sottile sul “come” . 

Amare si impara: amare richiede un desiderio e un insegnamento erotico, un’educazione sentimentale, dove si apprende, per seduzione, a sublimare l’istinto all’individualismo nell’arte di entrare in relazione. Se ne occupa anche il prof. Pietro Vella (un Elio Germano investito della grazia della mediocrità).

Elio Germano è il prof. Pietro Vella

Ma allora, se questi sono i presupposti, quanto può risultare pericoloso chiedere e concedere di affidare una confidenza – qualcosa cioè di intimo e segreto tanto da essere quasi impronunciabile – ad un’altra persona?

Siamo spinti a correre questo rischio forse perché a prevalere sulla consapevolezza a riconoscere che il patto d’intimità si regga sul ricatto della paura reciproca ad essere smascherati, è l’idea che la confidenza implichi un grado di conoscenza così profonda tra due persone, raggiungibile solo quando si è disposti vicendevolmente a riconoscere all’altro un’accoglienza altruistica. Un atto quindi di grande fiducia, un investimento emotivo che non esclude un possibile tradimento dell’intimità della parola data, seppur suggellata dal segreto a custodirla entro le mura delle due persone coinvolte.

Non a caso Teresa (una Federica Rosellini dalla densità propria di una divinità mitologica) alla richiesta del suo insegnante Pietro Vella di tentare di definire cos’è l’amore risponde che l’amore non è mai alla pari: l’amore è sempre sopraffazione. Che un po’ è quello che lui, il prof, aveva poco prima scritto alla lavagna. Lui, però, separando l’amore dalla paura. 

Elio Germano è il prof. Pietro Vella

Ma invece al centro della nostra psiche, sotto la superficie di educate finzioni, giace inconfessata e perenne proprio lei: la paura. Non disgiunta nemmeno dall’amore e dai suoi fantasmi, che aleggiano nel buio delle nostre emozioni: sono i vari terribili “e se …” (“e se sapesse che …”; “e se la perdessi …”; “e se pensassero male di me …”; “e se fallissi …”). Per non parlare poi delle paure a cui non riusciamo nemmeno a dare un nome: vere e proprie angosce, perché quello che temiamo è proprio l’ignoto (il futuro, l’incomprensibile e la nostra stessa inettitudine). Tic, tic, tic: un vero stillicidio. 

Un po’ quello che si trova a vivere Pietro Vella: da sempre e per sempre, ma con un’impennata incontrollabile dopo lo scambio di confidenze con la sua ex studentessa Teresa. 

La quale, invece, sembra avere un diverso rapporto con la paura: quasi fosse un altro nome della fantasia. Un sintomo, il suo, della bizzarra potenzialità di una psiche che non si accontenta. Soprattutto delle cose così come appaiono: delle maschere che si tende ad assumere per difesa. Un sintomo che trasforma l’esistenza, soprattutto se animata come nel caso di Teresa dalla vendetta, in un thriller a puntate pieno di colpi di scena, di suspense e sobbalzi. Godendo proprio di quei misteri impossibili da svelare: le angosce dell’Altro, di Pietro appunto. 

Elio Germano è Pietro Vella

E quello che sembrava essere un felice “incontro” si tramuta in una sorta di “incantesimo”: nel rito magico della parola, prima magia dell’uomo e nella genesi dell’impossibile, che passa per l’intonazione della voce, per la scelta delle parole, per il ritmo del respiro. E’ quindi questa consapevolezza di Teresa sul potere dell’asserzione a travalicare le frontiere del fantastico, invadendo la realtà.

Sì, perché l’asserzione è quell’affermazione attraverso la quale si tesse una posizione e quindi un’identità. E’ il superamento delle dichiarazioni rabbiose – proprie della Teresa che scopre di essere stata tradita – così come delle dichiarazioni cerebrali, spesso prive di catene dimostrative. Ecco allora che l’affermazione, quella versata shakespearianamente da Teresa nell’orecchio di Pietro, viene data per vera, sebbene sia la prospettiva umana quella che veramente ne svela la cifra. E’ un po’ quello che Iago fa con Otello. 

Federica Rosellini e Elio Germano

Ecco, forse è proprio questo che risulta stupefacente: scoprire fin dove le possibilità umane possano bloccarsi dietro maschere (come accade a Pietro Vella), o invece spingersi oltre, verso quel qualcosa di “divino” che ci abita. Federica Rosellini, infatti, ci restituisce una Teresa Quadraro dalla densità di una divinità: che ha qualcosa delle Erinni (divinità vendicatrici dei torti subiti) e insieme qualcosa dello Zeus che sceglie la punizione per Tantalo. Come Zeus, Teresa sceglie infatti di infliggere a Pietro il tormento di chi desidera tantissimo qualcosa, apparentemente a portata di mano (in questo caso la conferma del silenzio sul segreto rivelatole) ma scopre che questo desiderio è destinato a rimanere perennemente inappagato. Un tormento che fa cadere la maschera buonista di Pietro, rivelandole l’indole da bestia pavida.

Quanta poca cosa è allora un tradimento umano rispetto alla punizione eterna, e quindi divina, di disporre del “laccio” di una “confidenza segreta”! Fino a quanto può stringere questo “laccio” ? Fino a quanto possiamo sopportarne il giogo?

Federica Rosellini è Teresa Quadraro

Perché mantenere il silenzio non è solo il contrario del comunicare. Il silenzio non racchiude un vuoto ma un pieno, non un’assenza ma una presenza: contiene infinite possibilità. E’ lo spazio dell’infinito.  E’ lì dove abita il silenzio, che tutto può essere detto.

Ed è questo tipo di intimità sospesa, senza cioè il vincolo della paura da parte di Teresa e quindi volutamente in dubbio relativamente al voto del silenzio sul segreto – quella sensazione di possibile tradimento di un patto di fedeltà orale che Teresa vuol far provare a Pietro, punendolo del tradimento del patto di fedeltà fisica. Che al confronto diventa davvero ben poca cosa. 

Da qualche tempo Daniele Luchetti  e Domenico Starnone ci stanno educando alle profondità abissali alle quali conducono ta erotika: le cose dell’amore. Profondità nelle quali sanno muoversi bene – come ci annunciava già Platone nel Simposio – le donne, perché dotate per natura di una psiche predisposta a orientarsi con più agilità nella “relazione” e nell’ambiguità delle sue dinamiche. 

“Confidenza” è un film potentissimo, irresistibile, che ci fa sentire disarmati: non confortandoci con una soluzione, con un finale definito.  E ci lascia senza parole, scegliendo di condividere con noi le infinite possibilità che ci confida il silenzio.  


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo PAGLIACCI ALL’USCITA – da Leoncavallo a Pirandello – di Roberto Latini

TEATRO VASCELLO, dal 29 Settembre all’ 8 Ottobre 2023 –

Panta rei: tutto scorre.

Fluidità: questa la parola chiave dell’elegante crasi avanguardistica realizzata dall’eclettico regista Roberto Latini. Quella cioè che permette, opportunamente dosando tradizione e tradimento, di rintracciare ed evocare l’intima meraviglia che lega due testi – “Pagliacci” di Ruggero Leoncavallo (1892) e “All’uscita” di Luigi Pirandello (1916-1922) – che scorrono tra un secolo e l’altro, quasi uno nell’altro, come dentro un fiume. Un fiume che produce e sa lasciare sedimenti. Fertili.  

Roberto Latini (Foto ©Masiar Pasquali)

Latini ha l’attitudine alla creazione, alla creatività. Una qualità complessa che si modella sull’originalità del pensiero e sulla capacità di osservare da punti di vista inusuali. Questo suo spettacolo è infatti sia un rinvenimento archeologico che l’effetto di una fertile esondazione.

L’ habitat “naturalissimo”, eppure così meravigliosamente metafisico, in cui immagina di restituire e di restituirci il fascino del legame tra queste due drammaturgie fa propria la cifra dell’evanescenza, della nebulosità, dell’opalescenza: condizioni storiche, sociologiche e psicologiche autenticamente accoglienti, inclusive e quindi fertili. Umide. Come limo. Quel prezioso mix di terra e resti organici che resta ( appunto ) in sospensione sulle acque e che, proprio per questo suo essere sospeso, può essere trasportato. Può continuare a vivere e a far vivere. 

Così come la creatività: una qualità alla base dell’attitudine umana di adattarsi alle circostanze e di adattare le circostanze a sé. Un’attitudine che va esercitata: attraversare la vita senza creare è puro ristagno. Intuire, invece, il modo inedito in cui combinare elementi antichi; chiamare a essere reale ciò che prima non era neppure immaginato; rinnovare lo stupore davanti a una creazione che prende forma davanti ai nostri occhi, questo sì può la creatività. E lo spettacolo di Roberto Latini che ieri sera in prima nazionale è andato in scena al Teatro Vascello di Roma ne è una testimonianza. 

Così “quel che resta” della Commedia dell’Arte confluisce nel fiume del tempo insieme alla poesia del film muto, alla mobile rigidità della meccanizzazione dei gesti, agli echi dell’opera lirica, alla tentazione alla simbiosi con il fango, con l’istinto animale, con la lallazione onomatopeica. Contaminando preziosamente il gesto e il linguaggio. La finzione e la realtà. La vita e la morte. 

Con un centro di gravità non permanente: la risata. In tutte le sue declinazioni. In tutti i suoi effetti. In tutti i suoi colori: il bianco, il rosso e il nero. Colori “elementari” che contaminano la drammaturgia scenografica, quella delle luci (di Max Mugnai), quella delle musiche e dei suoni (di Gianluca Misiti) e quella dei costumi (di Rossana Gea Cavallo) restituendo, soprattutto in alcune scene, quell’elegante e sublime bellezza dei quadri di Jack Vettriano. Risata fulcro dell’ambiguità insita nella profondità dell’animo umano. Chiave di lettura del mondo che scorre tra 800 e 900. E non solo. Smascheramento dell’ipocrisia e quindi epifania del vero. 

Luigi Pirandello

C’è la risata prodotta e subita dal pagliaccio Canio; quella che ricorda la musicalità di un canto d’amore di Nedda – che qui in Latini è essa stessa pagliaccio, oltre che Colombina e poi la risata “scura della moglie dell’Uomo grasso. Anche lei pagliaccio. Geniale questa declinazione al femminile della maschera del “pagliaccio” che dal femminile si arricchisce di tutta la carica più straniera, più difficilmente traducibile dal maschile.

La risata ci parla, infatti, della nostra multiforme identità: ossessione che prende consapevolezza proprio in questo corso di tempo. E Pirandello non smette di immergervisi dentro. Già qui in questa novella del 1916 che già contiene quel limo che confluirà fino a “I giganti della montagna”. Senza arrestarsi. 

Perché la natura dell’identità è qualcosa di sfuggevole. È un po’ uno straniero che ci preme dentro. Che vorrebbe rompere gli argini che noi per tutta la vita, infaticabilmente quanto inutilmente, ci assicuriamo di manutenere. 

Perché la vita nella sua incontrollabilità fa paura. Ci eccede. E allora cosa c’è di meglio di darle la parola? Di farla esondare fertilmente? Di includerla cioè insieme a tutto ciò che ci dà una forma, in continua necessità di mutamento? Non farlo porterebbe inesorabilmente alla violenza.

Perché Canio esonda senza essere fertile, anzi procurando una duplice cessazione di un ciclo vitale? Perché l’amante della moglie dell’Uomo grasso arriverà a mettere fine alla sua sublime e vitale risata? Per il loro non riuscire ad accettare la fluidità della vita. Per non riuscire a morire alla vita per vivere alla morte. Per “il bisogno di costruire case ai sentimenti”.

Applausi emozionati per Savino Paparella, Ilaria Drago, Marcello Sambati, Elena Bucci e Roberto Latini

Questo spettacolo, che si avvale di interpreti straordinariamente fluidi ed efficacissimi – Elena Bucci, Ilaria Drago, Savino Paparella, Marcello Sambati e lo stesso Roberto Latini – ha il merito di restituirci quelle sinapsi più nascoste che fondano la storia del Teatro. E della vita: soprattutto in questo periodo storico in cui siamo così tentati dall’irrigidirci in posizioni decisamente poco fluide. Poco politiche. Poco inclusive.

Grazie.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo VENERE E ADONE – Siamo della stessa sostanza di cui sono fatti sogni – di e con Roberto Latini –

TEATRO VASCELLO, Dal 6 all’8 Maggio 2022 –

L’amore nasce dal caso e può diventare un destino. Per un caso Venere s’innamora perdutamente di Adone: per baciarla, suo figlio Cupido, le si avvicina troppo e per errore una freccia parte dal suo arco. È un amore non ricambiato quello di Venere ma che ugualmente altera il respiro, fa ansimare, produce pensieri ossessivi, mette le ali, fa cadere.

Roberto Latini

Di ferro sono le ali immaginate dal regista Roberto Latini, collegate ad una cassa toracica anch’essa di ferro. Così come l’arco, che nasce da una fusione con l’asta del microfono, metamorfico oggetto di scena. Questo è il suo Cupido: appesantito, rigido e insieme languido. Innamorato della sua mamma. Quasi geloso. Anche lui patisce un amore non ricambiato, anche lui ansima e parla dell’angoscia della libertà, come nella celebre aria di Händel:

“Lascia ch’io pianga

Mia cruda sorte

E che sospiri la libertà!”

E che sospiri

E che sospiri la libertà!”

Roberto Latini

I suoi piedi poggiano su di “un indegno tavolato” ridotto, o amplificato, a una minuscola pedana ospitante la sua tecno-orchestra, replicante ossessive, lacerate e distorte sonorità. È il tormento dell’amore, che ci trova e ci lascia disarmati. Senza parole, senza un senso: “mi è cresciuto dentro un vuoto … come mai, non so dirlo, non so dirlo, ancora”. È l’ambivalenza del potere dell’impotenza, che ci strugge e ci affascina. E ci sorprende a dire sempre “ancora”. Così si chiude il primo capitolo del racconto del regista.

Roberto Latini

Latini immagina che ciascuno dei personaggi coinvolti nel mito desideri raccontare la propria narrazione al pubblico. La ricerca di questa intimità è necessaria, urgente e sentita da tutti, anche dal cinghiale che ferì mortalmente Adone. Con un guizzo di genialità, Latini lo fa entrare in scena nelle vesti di Riccardo III, cinto da una corona di freccette. È l’antagonista dell’arciere Cupido. Lui che pare centrare ogni bersaglio che si prefigge ma che alla fine resterà vittima di una freccia altrui.

Pronuncia il suo più famoso monologo con il ritmo trotterellante di un solitario cinghiale prima che punti il bersaglio e galoppi lungo la sua rossa e rettilinea traiettoria (qui immaginata come un lungo red carpet) ad azzannarlo. Latini ci restituisce l’immagine di un uomo immerso nel risuonare ossessivo della parola RE, suffisso di altre parole, come ad esempio re-spiro, anche lui, a suo modo, vittima di un amore negato, a causa delle sue forme.

E allora, quasi come in un quadro di Chagall, scopriamo un uomo leggero nella sua pesantezza, maneggiare un arco come un violino e viceversa. Un uomo sprofondato e sollevato nel seguire ossessivamente la parola MI, se stesso: mi accorgo, mi fingo e poi però ti spingo, ti infilzo, ti piango, t’ammazzo. E ti abbraccio.

Al suo uscire entra un tipo in vestaglia di seta, con fantasie giapponesi (ovviamente sempre il metamorfico Latini) . Si siede su un Chesterfield gonfiabile. Ai suoi piedi una glacette di plastica (un secchio), in distratto ascolto di una specie di karaoke di pensieri, proiettati su schermo. Una lettera d’addio. La brutta copia di un commiato d’amore. È Adone. Dietro di sé Venere, che lo invoca da un giradischi che suona:

“… c’è solo mezza luna stanotte

Niente può accadere

Perfino lontano da niente succede qualcosa.

Ma non qui…”. 

“Siamo della stessa mancanza di cui sono fatti i sogni”. E quella che vediamo nel capitolo successivo è una Venere ridotta quasi alla condizione di barbona. Coperta di stracci, ha perso l’eleganza del suo incedere. E trascina un carrello della spesa in cerca di cibo. Perché l’amore è mancanza: Eros nasce in una notte d’amore rubato da Penia (la dea della povertà) a Poros (colui che è la Via), dormiente ubriaco, compagni nel mendicare briciole, alla fine di un banchetto al quale non erano stati invitati. Qui, nel carrello della spesa di Venere, c’è solo qualcosa di secco, ricordo o speranza di ciò che poteva essere vivo e pulsante.

Il racconto si chiude con il capitolo intitolato “Chiunque”, affidato ad un cane telecomandato: in amore noi non abbiamo nessun controllo di noi stessi. Qualcun altro ci accende. E ci spegne.

Roberto Latini. Foto ©Masiar Pasquali

Roberto Latini non smette di sorprendere come interprete e come regista. La sua è una sensibilità piena di estro che incanta e scuote la platea (di giovanissimi).


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IN EXITU – di Giovanni Testori – regia di Roberto Latini

TEATRO VASCELLO, dal 3 al 5 Maggio 2022 –

Quella che il talentuoso regista, attore e drammaturgo Roberto Latini porta in scena al Teatro Vascello di Roma fino a stasera, è la via crucis  a cerchi concentrici della “passione” del tossico omosessuale, della Milano degli anni ’80, protagonista dell’ultima opera di Giovanni Testori “In exitu” .

Roberto Latini

La scena si apre e si chiude con il passaggio di dolci raffiche di soffi vitali (e mortali) che sconvolgono bianchi teli.  Quasi a ricordarci che osmotico è il passaggio tra la vita e la morte. E che basta una luce che entra di taglio per proiettare ombre su quel bianco abbacinante.

Il protagonista Rivolsi Gino entra in scena, ovvero in un bagno della Stazione Centrale (suggestivamente evocata da un fumoso binario in proscenio), con una postura che non lascerà quasi mai per tutto lo spettacolo e che lo rende quasi la personificazione dell’asta-microfono che non smetterà di impugnare.

Roberto Latini

Come lei  resta piegato a 45 gradi  fino a raggiungere, nei momenti di maggiore travagliamento fisico e mentale, anche angolazioni più feroci. Quasi come in un virtuosismo allucinogeno da star del rock. Pavimento del peso delle sue parole, un frammentato tappeto di materassi nei quali affonda e sprofonda con una fatica che riesce a vivere anche lo spettatore.

Sarebbe bastato abbassarli ma invece lui li sfila via e li tiene in mano, i pantaloni. Le sue gambe, per noi, sono il suo volto (che invece resta quasi costantemente rivolto verso il basso, per la contorsione posturale): dalla loro tensione nervosa e muscolare ricaviamo segnali con i quali entrare in empatia. Fino a diventare panicamente “goccia” con la sua “goccia” ; respiro con il suo respiro. 

Roberto Latini

I suoi passi, o meglio il suo affondare e il suo sprofondare, sono i suoi pensieri: ossessivi, compulsivi. Strazianti come una confessione, o accorate come una preghiera, le invocazioni alla madre, al padre, agli angeli, al water. E insieme comico-grottesche: vagamente, a tratti, petroliniane. Assurdamente comiche.

Nonostante l’incomprensibilità: orrendamente insopportabile, anche fisiologicamente. Un pastiche  di inflessioni dialettali, di termini dedotti dallo spagnolo, dal francese, dal latino, e non pochi neologismi. Lo sperimentalismo linguistico testoriano, viene ulteriormente approfondito da Latini, con particolari ricerche di vocalità e di linguaggio.

Una lingua lacerata ma sempre sorprendente e straordinaria. Continuamente strappata metricamente, in disequilibrio. Flagellata. Straniera. Intraducibile ma respirabile. E alla fine, come in un’emanazione divinamente umana, comprensibile: “quanti l’indomani si affrettarono ai treni, lo videro coperto da un lenzuolo bianco. La barella attraversò tutta la stazione con una sorta di luce, che pareva sollevarsi dal cadavere”.

Roberto Latini 

Come deposto dalla croce, quel che resta di una fusione chiasmica tra Riboldi Gino e Latini Roberto, ci si offre nel massimo della gratitudine: con il più estremo degli inchini.

Come a dire “tenez !” ( Prendete !).

Tra sacralità eucaristica e sacra laicità sportiva, alla fine del rito teatrale si rivela l’ostensione della parola-palla da tennis.

A noi, ora, il servizio.

Qui maggiori informazioni su Roberto Latini


Recensione di Sonia Remoli