Recensione dello spettacolo SVELARSI regia di Silvia Gallerano

di e con Giulia Aleandri, Elvira Berarducci, Smeralda Capizzi, Benedetta Cassio, Livia De Luca, Chantal Gori, Giulia Pietrozzini, Silvia Gallerano

con il contributo di Serena Dibiase e la voce di Greta Marzano.

AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA, dal 10 al  14 Gennaio 2024 –

Quanti significati si nascondono dietro lo “svelarsi” ? Li esplora con gioia, ironia e commozione l’omonimo spettacolo di scrittura collettiva voluto e diretto da Silvia Gallerano, in scena fino a domenica 14 gennaio p.v. al Teatro Studio Borgna dell’Auditorium Parco della Musica.

Una performance scritta e pensata da donne, per sole donne e per chi si sente donna.

Silvia Gallerano (ph@ Giulia Ducci)

Svelarsi è un’epifania: una rivelazione, un portare alla luce qualcosa di bello, di sacro, precedentemente nascosto.

Svelarsi è un liberarsi: uno sciogliere o allentare i lacci, un nuovo respiro ampio e profondo. 

Svelarsi è un offrirsi con elasticità e generosità. Un aprirsi a se stessi e quindi agli altri. Un attraversamento di confini.

Svelarsi è sollevare il velo ma anche avere occhi adatti a vivere e a recepire la rivelazione. 

Svelarsi è un essere pronti.

Che cosa significa “farsi notare”? Perchè è così essenziale essere visti ? 

Ritrovarsi insieme, come invita a fare questo spettacolo, può essere utile per rintracciare delle risposte che finalmente diventino gesti. “Senza perdersi in chiacchiere”. 

Gesti che ci svuotino da ciò che non è nostro e lascino aperti dei vuoti, liberi di riempirsi di autenticità individuali. Uniche.

Regalandoci così la forma dell’acqua, che può entrare ovunque e prendere tutte le forme: cambiando ciclicamente stato.

Sì: lo spettacolo diretto da Silvia Gallerano è una fertile e gioisa occasione per conoscerci, per metterci a nudo. E scoprire quanto possano essere belle le diversità. Quanto possano essere attraenti certe imperfezioni.

Rompendo così il gesso degli imperativi categorici relativi all’essere costantemente “accettabili” e “composte”.

In verità “Svelarsi” è più di uno spettacolo: è un esperimento, l’avvio di un processo di ricerca e di apertura. Un rito collettivo tra l’apollineo e il dionisiaco. Grazie al quale riuscire ad iniziare ad emanciparci dalle definizioni e dalle etichette: così chiare ma così asfissianti.


SVELARSI

regia Giulia Gallerano

di e con Giulia Aleandri, Elvira Berarducci, Smeralda Capizzi, Benedetta Cassio, Livia De Luca, Chantal Gori, Giulia Pietrozzini, Silvia Gallerano

con il contributo di Serena Dibiase e la voce di Greta Marzano

allestimento luci Camila Chiozza

consulenza costumi Emanuela Dall’Aglio

una produzione Teatro di Dioniso

in collaborazione con PAV nell’ambito di Fabulamundi Playwriting Europe e Frida Kahlo Production

con il contributo del MiC – Ministero della Cultura, Regione Lazio e Roma Capitale

in collaborazione con SIAE – Società Italiana degli Autori ed Editori 

sì ringraziano per il supporto e l’ospitalità ATCL per Spazio Rossellini, Lottounico, Fortezza Est e Fivizzano27


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo CLITENNESTRA regia di Roberto Andò

da “La casa dei nomi” di Colm Toíbín

TEATRO ARGENTINA, dal 10 al 21 Gennaio 2024 –

Il suo sguardo è prigioniero di una visibilità opalescente. La Clitennestra di Colm Toíbín, a cui si ispira il regista Roberto Andò, è ossessionata dal tormento di non aver intuito l’intento omicida di suo marito Agamennone, nei confronti dell’adorata figlia Ifigenia.

Roberto Andò

Proprio lei, così ricca in dimestichezza con l’odore del sangue, si è lasciata sedurre dal riporre fiducia in Agamennone. “Ti ho creduto”: un imperdonabile errore.

Colm Toíbín

La partecipe commozione di Andò per lo sguardo sui fatti della Clitennestra di Toíbín fa sì che immagini la regina di Micene nell’atto di rievocare, con follia lucida e opalescente, i fatti che precedettero e seguirono la morte di Ifigenia.

Lo spazio scenico è la rappresentazione di un disvelamento della mente della donna, generalmente considerata tra le più spietatate del mito. Andò, come Toíbín, non è interessato a processarla per condannarla, quanto piuttosto a prendersi cura di svelarne le dinamiche relazionali e psicologiche. Come una donna estrapolata dal mito e immersa nelle incertezze della quotidianità. 

“Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín,
Foto di Lia Pasqualino – Teatro di Napoli

Cosa succede allora nella mente di una donna, di una madre e di una moglie tradita dalla fiducia riposta nel marito che, pur di proseguire con successo la guerra è disposto a sacrificare la vita di una figlia ? E pretende subdolamente la complicità della moglie, facendole credere che è un matrimonio quello a cui lei sta preparando la figlia ? Un marito che anche successivamente giustifica il suo atto come il male minore ? Meglio la morte di una persona, piuttosto che la morte di un esercito di persone.

“Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín
Foto di Lia Pasqualino-Teatro di Napoli

Nell’opalescenza della sua psiche, conseguenza di un inarginabile dolore, la Clitennestra di Andò cerca un varco. Può farlo solo procedendo con l’aiuto delle mani, come cieca: accecata dal dolore. Trova il varco: ci trova. 

Le sue palpebre, sipari scenici, faticano a sostenere il peso della luce. Vince la tentazione a chiuderle: così si affida alla voce, al racconto, a quello che resta del suo rievocare. Allucinato e ossessivo. Sono ombre che si allungano, l’odore della morte che permane, gradito come la visita di un grande amico. Lui sì, compagno fedele. Le palpebre riescono a risollevarsi: rivelano scenari di vuoto squallore, come dopo aver ripulito una mattanza. 

Una lacerata e lacerante Isabella Ragonese tormentata dalle viscere e preda dell’incanto del dolore subìto e oramai ingovernabile – “sarò lasciata così, per gli anni che mi saranno riservati. Non di più ” – si dona a noi padri, madri. E figli: perche la condizione di figli tutti ci accomuna. E lei si danna per aver ricevuto un dna, un’eredità genetica, così luttuoso. Non se la prende con gli dei, o con il dio di Abramo ed Isacco. Qui, dallo scenario esistenziale, gli dei dono assenti. È la natura umana ad essere indagata in purezza da Toíbín, e quindi da Andò. 

I personaggi in scena (Isabella Ragonese, Ivan Alovisio, Arianna Bacheroni, Denis Fasolo, Katia Gargano, Federico Lima Roque, Cristina Parku, Anita Serafini e il coro Luca De Santis, Eleonora Fardella, Sara Lupoli, Paolo Rosini e Antonio Turco) non sono quelli della tragedia greca: sono uomini e donne del primo Novecento, attraversati dalle guerre mondiali e immersi in una sorta di nichilismo nietzschiano. Sono gli anni della diffusione della psicoanalisi, di una nuova attenzione per la malattia mentale. Abita la scena – e i costumi di Elettra e di Ifigenia – un’atmosfera anche da ospedale psichiatrico.

“Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín
Foto di Lia Pasqualino-Teatro di Napoli

Il coro perde la solennità della postura: è seduto, spesso a terra, come se la forza gravitazionale diventasse più difficile da sfidare. È il richiamo della terra a dominare, degli instinti alla sopraffazione: così connaturati in noi. Innati. Non è solo il dna di Clitennestra ad essere luttuoso.

I meandri della natura umana sono misteriosi. A volte irriducibili. E ci accomunano tutti. Sempre. Non solo nel mondo greco del V secolo a.C.

“Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín
Foto di Lia Pasqualino-Teatro di Napoli

La regia di Roberto Andò porta in scena una condizione esistenziale così credibile da essere di una bellezza agghiacciante. Ha l’audacia di proporre un diverso punto di vista su questa donna, madre e moglie, che ci è vicina più di quanto immaginiamo.

Così vicina da risultare quasi irresistibile correre sul palco a donarle solidarietà: quando la Ragonese si apre in quel filamento di urlo metallico, che fatica, come un cigolio, a farsi suono nella gola. 

Arianna Bacheroni (Ifigenia) e Ivan Alovisio (Agamennone)

in “Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín,
Foto di Lia Pasqualino – Teatro di Napoli

Così come strazia, fino a lasciarci quasi in brandelli, la dolcezza disarmata di Ifigenia: figlia che si scopre asciutta di lacrime e senza la persuasione necessaria per convincere il padre a non ucciderla. A preferirla alla guerra. Tanto risulta innaturale chiederlo. Tanto ci si aspetterebbe fosse innato, scontato. E invece no. Siamo anche così. 

“Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín,
Foto di Lia Pasqualino – Teatro di Napoli

Accattivante la coralità tragica e seduttiva della danza degli intrighi, delle ambiguità e delle macchinazioni proprie della psiche umana. In un crescendo parossistico. E disperato.

Umano.

“Clitennestra” di Roberto Andò da un testo di Colm Toíbín,
Foto di Lia Pasqualino – Teatro di Napoli



Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LETIZIA VA ALLA GUERRA: la suora, la sposa e la puttana – di Agnese Fallongo – regia di Adriano Evangelisti

TEATRO BASILICA, dal 9 al 14 Gennaio 2024 –

Spesso la vita ci chiude in una cornice, bloccando la nostra progettualità. O forse no: forse la vita, proprio mettendo un limite, ci ingegna a portare a compimento i nostri desideri per altre vie. Per altre vite.

Agnese Fallongo

L’estrosa circolarità di questa brillante e commovente trilogia drammaturgica di Agnese Fallongo regala un’apparente indipendenza alle tre storie raccontate. In verità, viste nel loro insieme, le storie mostrano numerose connessioni fra loro in quanto elementi di un’opera pensata nel suo complesso, dove ogni progettualità va letta in rapporto con le altre.

Tiziano Caputo e Agnese Fallongo

Le tre protagoniste delle tre storie ad una prima lettura sono legate tra loro dall’aver ricevuto lo stesso nome “Letizia” e dall’essere state “castrate” dallo scenario nel quale si ritrovano immerse. Poi si scoprirà altro. Ma la cosa più preziosa che la drammaturgia e la stessa regia di Adriano Evangelisti sembrano suggerire è che queste donne, al di là degli impedimenti esistenziali, vengono “salvate” e quindi riconusciute nel loro valore, proprio perché le loro storie sono state “raccontate”. Perchè abbiamo dedicato loro la nostra attenzione. Le abbiamo amate.

Etimologicamente “Letizia” è un nome proprio che ci parla di colei che, essendo fertile, crea e dona frutti. Nome omen: un nome, un destino. Le tre figure femminili infatti sanno fare, di quello che gli altri hanno fatto di loro, qualcosa di fertile e di donativo. Nonostante i condizionamenti del microcosmo familiare e del macrocosmo storico-sociale le tre femminilità, simbolo di un’intima trilogia a fondamento della psicologia della donna, proprio nel lasciasi spazio a vicenda, riescono a dare sostanza a progettualità. 

Tiziano Caputo

Mirabile la resa dello spazio scenico, la drammaturgia delle luci ma soprattutto quella affidata ai canti dei due protagonisti in scena (Agnese Fallongo e Tiziano Caputo), dove la malinconia drammatica sa legarsi ad una tenace propositività. Efficacissima la scelta di rendere alcuni canti (accompagnati dal vivo dalla chitarra di Tiziano Caputo) e piccoli monologhi indecifrabili. Ma solo se attraversati dai principi della logica: eloquentissimi invece per la nostra logica “arcaica”. Dei veri gioielli di elegante espressività.

Agnese Fallongo e Tiziano Caputo

Le cornici vuote che abitano la scena, regalando poliedriche prospettive, vengono utilizzate con acutezza (il coordinamento creativo è curato da Raffaele Latagliata) per rendere i vari sottovesti del concetto di “limite”: come elemento che sancisce una separazione; come luogo d’incontro e come confine da oltrepassare.

Agnese Fallongo e Tiziano Caputo

La regia e l’interpretazione dei due attori Agnese Fallongo e Tiziano Caputo regalano una magistrale resa, quasi cinematografica, dei passaggi narrativi (fluidi o a schiaffo), dei primi piani e degli a parte. 

Molto belle anche le scelte comunicative rese dalla prossemica e in generale il duttile e quindi generoso lasciarsi attraversare da parte degli interpreti dalle “anime” dei diversi personaggi.

Tiziano Caputo e Agnese Fallongo

Lo spettacolo resterà in scena al Teatro Basilica fino al 14 gennaio 2024.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo HYBRIS di Flavia Mastrella e Antonio Rezza

TEATRO VASCELLO, dal 3 al 14 Gennaio 2024 –

“Dio è morto”:  l’idea di Dio non è più fonte di alcun codice morale o teleologico. Così, rotto il principale cardine della cristianità, scomparso l’ordine divino che sorreggeva la società cristiana, tutto cade nel caos nichilistico.

Da qui sembra prendere avvio la feroce genialità dello spettacolo di Antonio Rezza e Flavia Mastrella: l’ hybris – l’orgogliosa superbia che porta l’uomo a ribellarsi contro l’ordine costituito sia divino che umano –  fa sì che protagonista dello spettacolo sia un tracotante che si crede Dio e che come lui simuli di morire e di risorgere. Ma si tratta, ordinariamente, di un passaggio dal sonno al risveglio.

L’habitat in cui è immersa questa specie umana è solipsisticamente tecnologico. A presidio del “letto-sepolcro”  del tracotante ci sono sua madre (un’affascinante e subdola Maria Grazia Sughi) seduta su una poltroncina da ufficio con ruote, un uomo, una donna e un simulatore ginnico di passeggiata immobile.

Anche i codici di comunicazione si sono moltiplicati: i principi della logica sono saltati (il letto può essere un sepolcro ma anche una porta) e con essi l’illusione di intendersi. Per sopravvivere vige, in purezza, l’istinto alla sopraffazione e l’abolizione dei tabù del vivere civile.

Scardinata da tutto il resto, il tracotante esibisce come uno scettro – e contemporaneamente vi si aggrappa come ad un’ancora – la porta divelta. La sua è una continua ricerca ossessivo-compulsiva di essere protagonista per dominare il vuoto esistenziale. E gli altri: stranieri da manipolare (in scena come un autentico ensemble Ivan Bellavista, Manolo Muoio, Chiara Petrini, Enzo di Norcia, Antonella Rizzo, Daniele Cavaioli e con la partecipazione straordinaria di Maria Teresa Sughi). La sua porta diventa allora anche un’arma per tagliare fuori ciò che ci risulta straniero.

Perché la libertà è inebriante quanto angosciante.  E gli uomini, staccati da qualcuno che a posto loro fa ordine, come se la cavano a gestisce il vuoto errante offerto dalla libertà? Che “gioco sacro” occorrerà inventarsi ora ?  Come si fa a capire ciò che è dentro e ciò che è fuori? Un confine può ancora essere anche un punto d’incontro? Meglio l’amicizia o la manipolazione ? Quanto è facile scivolare nell’ipocrisia? Come si fa a “gustarsi” l’attesa dell’ignoto senza incorrere nella violenza, che brutalmente ti fa capire però se sei “dentro o fuori”? Perché “è la curiosità che ti buggera”. 

E la famiglia? È davvero un nido accogliente e rassicurante?  O il luogo delle ombre? E l’amore? Si divora compulsivamente senza dare valore all’identità. Anzi protegge ed eccita rimuovere per far sì che, perversamente, con la stessa persona “ogni volta sia come la prima volta”. Finendo per confondere la realtà e le proiezioni mentali.

Con energizzante ferocia Antonio Rezza ci scuote e ci percuote. Veste e si spoglia di tutte le nostre ipocrisie. E noi del pubblico ridiamo: velenosi e avvelenati. Sul confine tra il compiacimento e l’imbarazzo. 

Rezza sa, con acume, trovare e cogliere – senza subordinarsi ad un precedente testo scritto ma lasciandosi di volta in volta scrivere dai vuoti dell’habitat e dalla sinergia, inclusi i suoi ammanchi, con gli attori e con il pubblico – i tempi e le temperature giuste per scatenare il riso. Le sue sono feroci iperboli, acrobazie logiche, linguistiche e performative che arrivano a scavalcare il senso anche dei gesti e delle prospettive associate. Fino a sfondare tutto. Anche il confine con il pubblico. Ed è contagio. Anche tattile.

È un far teatro civile involontario, per frammenti dissacranti e dissacratori. Necessario.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL CAVALIERE INESISTENTE di Italo Calvino – regia di Tommaso Capodanno

TEATRO INDIA, dal 4 al 17 Dicembre 2023 –

Troppo spesso “dorme sepolto in un campo di grano”, sopraffatto dall’istinto a dominarci l’uno sull’altro, fino a farci guerra. È quel tendere verso il desiderare, che sa fare di un certo senso di mancanza, proprio di noi umani, l’arte di individuare e quindi di poter esprimere la nostra unicità, il nostro talento. Regalandoci la “prova”, il senso, della nostra esistenza.

In una sorta di proemio, questa tensione vitale a desiderare prende forma attraverso un motivo musicale: un canto primordiale ricco in mancanze. Quasi una lallazione. Solo successivamente il motivo musicale, declinato in “variazioni”, torna in alcune situazioni chiave della storia prendendo la forma di parole dotate di quell’univocità propria dei principi della logica.

Francesca Astrei, Evelina Rosselli, Giulia Sucapane e Maria Chiara Bisceglia

In un geniale procedere per cerchi concentrici, le quattro interpreti del canto del proemio sono anche i personaggi stessi del romanzo – a loro affidati attraverso una triplice partitura per ognuna – abitati diversamente dalla presenza-assenza della tensione a desiderare. Ma non solo: a loro è affidata anche la voce narrante della storia, resa attraverso degli a-parte con lo spettatore. Una struttura decisamente convincente.

Nell’allontanarsi o nel sopprimere la tensione a desiderare, i personaggi di questo romanzo sentono di “non esistere” e ognuno a suo modo compensa questa “mancanza” con qualcosa di diverso.

Agilulfo con lo zelo “fascista” e con l’ordine maniacale. Che però non riesce a salvarlo quando in lui si insinua la mancanza di autostima, dono sociale. Socialità dalla quale lui dipende meccanicamente, attenendosi strettamente alle disposizioni. E se le disposizioni vengono meno è la fine, non avendo mai educato un suo spirito critico. Commovente, in questa scena, la capacità dell’interprete Evelina Rosselli a trasferire anche all’armatura il diverso respiro che abita Agilulfo, preda del terrifico dubbio sulla sua “etichetta” da cavaliere. Lui sa solo nozionisticamente che vivere significa “lasciare un’impronta particolare” sul mondo. E inoltre giustifica il suo “aver venduto” il proprio corpo e il proprio giudizio critico ad altri, con il fatto che chi un corpo e quindi “una capacità di sentire” ce l’ha non la utilizza.

Rambaldo preferisce l’ansia di vivere alla pace di chi è morto ma non sa gestirla. Compensa con la vendetta ma resta inerme – almeno inizialmente – di fronte alla follia più  grande, quella dell’amore.

Bradamante oscilla tra una compulsività nell’amare e una ricerca di rigore assoluto, che prima sublimerà – attraverso l’identità di Suor Teodora – con la scrittura, per poi imparare che vera bellezza è entrare “in relazione” con l’altro.

Gurdulù “è uno che c’è, ma che non sa d’esserci”: risponde meccanicamente all’istinto, quasi come un animale, confondendo se stesso con le cose che lo circondano .”Tutto è zuppa”: bellissima, in questa scena, l’espressività delle mani di Francesca Astrei.

“Un po’ è un macello, un po’ è un tran tran” – dice Bradamante – e chi “vince” ci riesce “per caso”, non per la capacità di “riuscire a riuscire”. Poi c’è l’armatura “a reggerli tutti dritti”.

Ma “imparare ad essere, si può… e la paura ha senso, se dietro c’è la vita che spinge !”.

Tommaso Capodanno

Molto fluida e fertile la sinergia con la quale l’interessante taglio registico di Tommaso Capodanno si lega all’adattamento di Matilde D’Accardi, alla resa interpretativa delle attrici in scena – Francesca Astrei, Maria Chiara Bisceglia, Evelina Rosselli, Giulia Sucapane – e alla cura delle scene di Alessandra Solimene. Complice anche una drammaturgia delle luci che rende con efficacia poetica luci, ombre – e luci delle ombre – di ciascun personaggio. Molto suggestivo, soprattutto in alcuni momenti dello spettacolo, quel sapore proprio della drammaturgia del Teatro Povero di Monticchiello.

La coralità eterofonica delle interpreti brilla nel rendere le variazioni della “follia” delle parole e del ritmo del testo di Calvino. Guizzi, laddove emergono, sono accolti e messi a servizio, come chiede lo stile di un “ensemble”. Che trova la sua forza nel riuscire a rendere ciascuno, insostituibile parte di un tutto.

E il pubblico lo percepisce.

Perché così può essere il Teatro. Perché così può essere la Vita.

Soprattutto in questa nostra epoca così “miope”, in cui siamo tentati a lasciare in custodia altrui il porta occhiali con il nostro “sguardo”.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo QUESTA NON E’ CASA MIA di e con Giulia Trippetta

TEATRO BASILICA, dal 7 al 10 Dicembre 2023 –

Quando si diventa adulti ?

Che tipo di rito di formazione hanno attraversato i Millennial ? Su quale “terreno” sociale e politico sono cresciuti ?

Su queste domande ci interroga e ci invita a riflettere il graffiante monologo – scritto, diretto e interpretato dalla caleidoscopica Giulia Trippetta – fino a ieri in scena al Teatro Basilica.

Una generazione, la sua, apparentemente con il massimo delle opportunità. Ma vista più da vicino, che generazione è ? Di quali dubbi e di quali certezze si è nutrita?

Che futuro siamo stati in grado di offrire come Paese e cosa sono diventati i rappresentanti di questa generazione? Perché sono loro il nostro futuro più prossimo.

Giulia Trippetta

Con carismatica duttilità Giulia Trippetta dà forma ad una sua personalissima “narrazione di formazione” dove, parlando del proprio microcosmo, ci rimanda il riflesso del macrocosmo nel quale affondano le sue radici.

Un macrocosmo che ha perso la riconoscenza verso il valore sacro dell’unicità, della diversità irripetibile di ciascuna persona. Il paese di fantasia che tra finzione e realtà le dà i natali si chiama Fossoperduto: un “nome omen” dove “i fossi”, e quindi i confini personali, sono andati persi. Dove tutti si permettono di giudicare tutto, quasi fosse un nuovo perverso “cogito” : giudico quindi sono. 

Giulia Trippetta

E lei crede, e convive, con quello che le dicono le amiche e le sue parti interiori. Assediata, si lascia sabotare: lascia che gli altri, ma anche lei stessa, minino le sue mura. Ma l’autostima si sa: è un dono sociale; gli altri possono nutrirla.

Un giorno arriva la svolta: la recisione dei ponti. Seguiranno avventure e sventure, come avviene ad ogni “eroe” in formazione. Ma qualcosa non va: non ne nasce un’evoluzione, una vera formazione. Essere libera è ancora più difficile che essere sottomessa al giudizio degli altri. Cerca, ma non trova, quella capacità di desiderare sufficientemente solida per dare frutto. Oltre che per resistere.

Gioia Trippetta

Fino a che prepotentemente inizia a farsi spazio quell’insensibilità ai morsi di qualsiasi passione: “piuttosto che fare una cosa bene, meglio farne tante male “. Ma ciò che fa tanta paura fino a paralizzare può raggiungere anche la potenza improvvisa di un’energia soffocante. Nonostante tutto la protagonista non si arrende: non ha ancora capito in che direzione cercare quella che può essere “la sua casa” ma continua a cercare.

Soprattutto se stessa: chi è davvero, nel bene e nel male. E a regalarsi comunque rispetto: per il proprio corpo e per la propria interiorità. Consapevole, ora, che fuori di sé l’attende una società “liquida”: che non riesce più a trattenere e a dare densità e corpo a degli autentici valori. Se non quelli legati alla rivoluzione digitale: che avanza veloce senza curarsi delle difficoltà di adattamento delle menti umane.

Il risultato è che i 30enni di oggi sono i 18enni di un tempo: impantanati nel “dovrei”. E che non riuscendo ad orientarsi per capire “come si vive”, rischiano di marcire.

Così, protetti e avvolti nel limbo di una pellicola di domopak, in attesa di essere presi in considerazione, rischiano di fare muffa.

Teatro Basilica

Ma la muffa – come ricorda programmaticamente questa stagione del Teatro Basilica – è uno dei microorganismi più resistenti, in grado di sopravvivere anche nelle situazioni più avverse. È un fungo microscopico che aiuta la natura a decomporre ciò che è morto, per ridargli vita. In un passaggio dall’ordinario, allo straordinario.

Una prova attoriale, quella della 34enne Giulia Trippetta, davvero piena di “spezie”. Preziose. Più della “giada”.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo TRE SULL’ ALTALENA di Luigi Lunari – regia di Claudio Boccaccini

TEATRO DELLE MUSE, dal 6 al 10 Dicembre 2023 –

E’ qualcosa di nuovo: anche per questo la morte ci fa impressione.

Ma siamo sicuri che sia davvero una cosa nuova, “al di là” della vita?

Non altaleniamo forse costantemente tra gli alti e bassi “nella” vita ?

Non sarà che quando l’oscillazione ci turba, ci viene da chiudere gli occhi per non vedere? E siamo tentati di chiedere ad un altro di guardare e di dirci cosa fare?

Perché un po’ di morte c’è sempre: è quel senso di ignoto ingovernabile che ci fa morire di paura. C’è tutti i giorni. E allora per non “starci dentro” chiediamo cosa fare a qualcun altro: a un “ipse dixit” religioso, militare o filosofico. Così da “sentire senza avvertire”. 

E pensare, che avere paura è in linea con la nostra natura: è quello che Gian Battista Vico chiamava “avvertire con turbamento”. 

Allora cosa si può fare?

Intanto possiamo – come consiglia il geniale autore della commedia Luigi Lunari – non complicare maggiormente la situazione pretendendo di venire alla luce percorrendo vie ancora più strette. Tipo, ostinarsi a “voler capire”: un atteggiamento che ci illude di poter tenere tutto sotto controllo ma soprattutto ci fa credere di poter escludere la morte dalla vita. “Capire” ci fa sentire al sicuro. Anche dal giudizio degli altri. Ma poi “quando usciamo dal bagno” rischiamo di non essere soddisfatti. Insomma, per il piacere di liberarsi occorre allentare i lacci del controllo.

Luigi Lunari

Questa inebriante commedia di Luigi Lunari, scritta nel 1990, tradotta in ventisei lingue e correntemente rappresentata in tutto il mondo, non è una commedia comica, come lui non mancava di ripetere. Sebbene provochi il riso.

Piuttosto gode del favore di riuscire a ricollegarci con una dimensione pre-linguistica, che ci permette di accedere agli enigmi della vita “senza forzare la serratura” con i principi della logica: quello di causa-effetto e quello di non-contraddizione. 

Claudio Boccaccini

Il personaggio femminile che il regista Claudio Boccaccini individua e caratterizza intorno a Caterina Gramaglia ne è un luminoso esempio. Lei ha la rara capacità di portare in scena qualcosa di prodigioso: la manifestazione di un’entità così fisica da accedere ad una realtà al di là della fisica. Tutto in lei – pur essendo (anche) disarmonico, oscuro e vagamente terrifico – affascina e fa fare un passo indietro. Come di fronte ad un’entità ancestrale. Ha trovato, inoltre, una resa vocale così metafisicamente “idraulica” da lasciare lo spettatore spiazzato tra il serio, il faceto e il sacro. 

Caterina Gramaglia

Ed è proprio questa la chiave magica non solo di lettura e resa del testo – come il regista Boccaccini ha dimostrato di cogliere per poter restituire allo spettatore – ma anche la chiave di accesso alla vita, secondo Lunari.

Quella dimensione pre-linguistica, al di là dei principi della logica, che si manifesta attraverso quel tipo di risata che non è solo una reazione fisiologica di maggiore irrorazione vascolare e nervosa, quanto un arcaico modo di entrare in contatto con i misteri che la logica chiamerebbe assurdità.

Massima aspirazione di Luigi Lunari era infatti quella di riuscire, attraverso le sue opere, nel tentativo di aiutare lo spettatore “a far pace” con l’idea della morte. Che in lui non prende mai toni tragico-nichilistici. Piuttosto quelli di una fraterna presenza che “vigila” su ciascuno verso la serena accettazione del fine vita.

E in effetti Lunari riesce a trovare quella specialissima modalità di accoglienza, tale da riuscire a farci sentire consolati. Che però, lungi dall’indurci alla rassegnazione, ci fa invece sprizzare quel pizzico di coraggio in più. Quel tanto che riesce ad essere efficace affinché il desiderio di fare qualcosa, superi la paura di realizzarlo.

Massimiliano Buzzanca

Il ritmo riprodotto dagli efficaci attori in scena Massimiliano Buzzanca, Stefano Scaramuzzino e Claudio Scaramuzzino – diretti dalla capacità d’ascolto musicale di Claudio Boccaccini – è tale che l’altalenarsi tra impennate di velocità ed estatici rallentamenti, regali allo spettatore sensazioni di esaltante vertigine. Quasi un’ebbrezza.

Stefano Scaramuzzino

Un risultato che non è solo merito di un consapevole muoversi all’interno delle tecniche attoriali. C’è di più: c’è il raggiungimento di una musicalità che si percepisce attraverso l’ascolto esterno ed interno. I tre attori in scena oltre ad essere tecnicamente efficaci sanno regalare a ciascun personaggio “il sapore” di tre diverse modalità di stare al mondo. E s’avvitano vorticosamente fra loro in un crescendo e in uno scemando decisamente trascinante. Lunari raccontava che, per lasciarsi guidare nella coloritura a tutto tondo dei tre personaggi, durante la stesura immaginava che ad interpretarli fossero Walter Matthau, Jack Lemmon e Woody Allen.

Claudio Scaramuzzino

Acutamente poi Claudio Boccaccini ha saputo sottolineate quanto fosse decisivo restituire la sensazione che le domande comunque prevalgano sulle risposte e che spesso quelle più enigmatiche si risolvano in battute di spirito. Uno “spirito” fuori dalla comune comicità, che scaturisce dall’ insolita capacità di Lunari di unire sinergicamente alla scrittura drammaturgica quella musicale: Lunari aveva studiato infatti composizione, contrappunto, armonia e direzione d’orchestra.

Ecco allora che il regista Boccaccini, in sintonia con questa stratificazione linguistico-musicale, sceglie quale cornice iconografica ai diversi momenti della drammaturgia, l’altalenante dondolio proprio del swing jazz.

E in accordo a tale genere musicale imposta il tipo di restituzione attoriale: gli interpreti in scena dimostrano infatti di disporre ciascuno di un proprio “swing”, di una propria espressività comunicativa.  

Uno spettacolo dal portamento ritmico e stilistico davvero interessante.

In scena al Teatro delle Muse fino a domenica 10 dicembre p.v.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL DELITTO DI VIA DELL’ORSINA di Eugène Labiche – regia di Andrée Ruth Shammah –

TEATRO AMBRA JOVINELLI, dal 6 al 17 Dicembre 2023 –

Dopo la luminosa accoglienza ricevuta alla Festa del Cinema di Roma 2023 con il docufilm “Scarrozzanti e spiritelli”, è approdato ieri a Roma il primo dei quattro spettacoli che la produzione del Teatro Franco Parenti di Milano ha portato in scena dal palco dell’Ambra Jovinelli: “Il delitto di via dell’ Orsina”.

La splendida occasione offerta al pubblico romano nasce dal desiderio della Direttrice artistica e Regista Andrée Ruth Shammah di condividere anche con la Capitale i “50 anni di vita” dell’eclettico Teatro di via Pier Lombardo 14. 

Andrée Routh Shammah

Da una fusione creativa tra la briosa vaporosità di un vaudeville e il cupo magnetismo di un noir, prende forma “Il delitto di via dell’Orsina”: la riscrittura drammaturgica – dal fascino alchemico – de “L’affaire de la rue de Lourcine” (1857) di Eugène Marin Labiche

Eugène Marin Labiche

Uno spettacolo che è in tournée da tre anni e che quindi è stato attraversato dal trauma del Covid 19. Ma che deve la sua geniale singolarità proprio all’oscurità emotiva che ha caratterizzato quell’indimenticabile periodo. E la sagoma in proscenio, raffigurante un attore che è restato chiuso per lungo tempo dentro la sua stessa valigia, sembra parlarcene.

Un evento, il trauma del Covid, che ci ha colti al buio, inermi – nel sonno, come avviene ai due protagonisti principali in scena – senza le risorse necessarie per affrontarlo. Una “poca luce” rivelatasi invece necessaria alla Shammah per valutare “i colori” che si sarebbero mostrati nel corso della lavorazione drammaturgica fino alla “tempera”, con la quale decidere la giusta flessibilità della materia.

Antonello Fassari e Massimo Dapporto

Perché quello della pandemia è stato un trauma che ci ha fatto sperimentare sulla nostra pelle come nessuno si può salvare da solo: che non siamo fatti per vivere isolati. Ma contemporaneamente, e paradossalmente, abbiamo vissuto anche la drammatica consapevolezza che l’Altro, oltre ad essere imprescindibile per il nostro stare al mondo, può essere un nemico, uno straniero.

Riflessioni, queste, che con dosata leggerezza s’intrecciano come ulteriori fili nella trama del tessuto dell’opera della Shammah, contribuendo al confezionamento dell’ “habitus” di questo speciale adattamento.

Ne avvertiamo l’eco nella nuova ambientazione storica della vicenda: i primi anni del Novecento, quelli che precedono il futuro “virus” del fascismo. Ma altri echi arrivano anche dentro la dimensione microcosmica legata al ciclico passaggio – ma non per questo meno traumatico – di consegne generazionali.

L’avvicendarsi dei due servi, il giovane (Christian Pradella) e il vecchio (un sempre poetico Andrea Soffiantini) che sta ultimando i suoi quarant’ anni di onorato servizio, sembra fondarsi soprattutto sulla capacità a saper “strofinare via” questo trauma: “A monsieur piace star bene, è il suo senso della vita”.

Ma in testa, nella memoria, resta comunque “un buco nero”, uno strappo : come quello reso attraverso la carta da parati di un fondale (la cui cura è affidata a Rinaldo Rinaldi), parte di una scena che riproduce metaforicamente non solo un interno borghese ma anche la condizione emotiva dei protagonisti (le scene, costruite presso il laboratorio del Teatro Franco Parenti e FM Scenografia, sono curate da Margherita Palli). Una “copertura”, quella della carta da parati, che viene meno parlandoci di un’autentica vulnerabilità.

Interventi drammaturgici decisamente efficaci, guidati da un giusto equilibrio tra tradizione e tradimento e inseriti all’interno di un’operazione culturale nata dalla consapevolezza di essere stati anche noi traghettati in un passaggio storico epocale ancora da metabolizzare. 

Il prodotto della lavorazione in cui si è calata la Shammah ci arriva allora con la grazia tempestosa di un dono: una narrazione compassatamente gioiosa ma seducentemente noir, attraverso la quale avvertiamo la coscienza di essere protagonisti di una di quelle fasi di transizione che fanno della vita, la vita. Ma che il Teatro sa aiutarci ad affrontare con coraggio: senza farci sopraffare dallo spettro del fallimento, né da quello del giudizio altrui.

Perché ciò che ci accomuna tutti è proprio la predisposizione a fallire.

A fare la differenza, invece, è ciò che riusciamo a fare dell’errore. Quanto riusciamo a renderlo fertile. 

In scena i due ex compagni del collegio Labadoni, oltre a condividere una complicità goliardica, si ritrovano ad essere sodali anche nell’architettare soprusi. Pur di non sostenere il buio del dubbio (che li avrebbe resi più attenti a valutare tutti gli elementi della situazione) e pur di non assumersi la responsabilità dell’accaduto e il conseguente fallimento momentaneo del loro status sociale (qualora fossero state confermate tutte le prove della loro responsabilità nel delitto di via dell’Orsina).

Un autentico perdere i punti di riferimento esteriori ed interiori, il loro. Un tono che, goliardicamente, forse si può recuperare con qualche sorso di curaçao.

Ma ecco che ombre interiori iniziano a palesarsi: sono ombre/sagome di un nuovo sapore magrittiano (tratte dalle opere di Paolo Ventura) che s’insinuano anche sulla scena. E che possono prendere la forma di un’inconscia confessione ad alta voce nel sonno, come capita al cugino Potardo (un efficace Marco Balbi).

Perché così è la natura umana: l’istinto alla sopraffazione è in noi il più arcaico e quindi il più potente. Lo ereditiamo tutti per natura. A differenza dell’amore (e quindi della compassione e del rispetto) che invece è tutto da imparare nel corso della nostra esistenza. 

La declinazione di questi contenuti nel brio, opportunamente non esasperato, e nella gioia del vadeville è anche un modo per onorare “lo spirito”, oltre che “i meccanismi”, delle opere di Labiche del secondo periodo.

In esse è racchiuso uno sguardo diverso, più profondo – ma mai giudicante – sul modo di vivere della borghesia, a cui lo stesso Labiche apparteneva e al cui nuovo orizzonte era stato formato già ai tempi del Liceo Condorcet.

Uno spirito d’osservazione capace di leggere penetrantemente nell’animo umano e attraverso il quale l’autore esprime delle idee molto sottili.

È ricco questo borghese, o quantomeno benestante: una ricchezza che spesso però diviene terreno fertile per coltivare il fiore della stupidità. Infatti pur avendo vissuto molto, sembra non aver imparato nulla dalla vita: le sue poche esperienze si convertono inevitabilmente in aforismi o formule prive di un autentico significato: ” l’appetito vien mangiando, l’oblio non pensando”.

Un uomo che si presta a cadere negli “equivoci” anche perché lui stesso, in qualche modo, “equivoco”: uno che si impegna ad essere “scambiato” per essere altro da sé. 

Massimo Dapporto e Antonello Fassari

Massimo Dapporto (Zancopè) e Antonello Fassari (Mistenghi) sono due “simpatiche canaglie” alle quali, come nell’intento di Labiche, si tende a perdonare tutto. O quasi.

Portano perfettamente a compimento quel brio di soluzioni sceniche, che tien luogo a delle soluzioni interiori: non le sostituisce, ma ce le fa volentieri dimenticare.

Complice il sublimare i momenti d’empasse nel canto e nel ballo (nei quali, con un loro stile, sanno davvero brillare). Le musiche originali, eseguite da una piccola orchestra – pianoforte, clarinetto e flauto – sono di Alessandro Nidi.

Dapporto è di un’eleganza irresistibile, almeno quanto la mirabile capacità a tradurre i suoi pensieri attraverso il gesto e la voce. Pensieri che scorrono nella mente parallelamente alla loro visualizzazione attraverso l’espediente di un piccolo sipario mobile.

Fassari è straordinariamente morbido e insieme grossolano. La Shammah lo fa brillare, proprio come amava fare Labiche, con un accessorio stravagante che ne accentua la sua goffaggine.

Susanna Marcomeni (Norina, la moglie di Zancopè) è inappuntabile: precisa ed efficace. Lieve e piena di grazia. Una “passerottina” – come ama vezzeggiarla suo marito – che indossa abitini “dal piumaggio” aranciato che mutano tonalità parallelamente alle sue emozioni, ai suoi dubbi. Fino a raggiungere i toni dell’entusiasmo del rosso ( i costumi sono curati da Nicoletta Ceccolini e realizzati presso la sartoria del Teatro Franco Parenti, diretta da Simona Dandoni).

La cura della drammaturgia delle luci è affidata a Camilla Piccioni

Con questo spettacolo Andrée Ruth Shammah dimostra di conoscere l’arte alchemica di sottrarre parti del mondo materiale alla tirannia del tempo, restituendoci appieno la descrizione di quale libertà è concessa alla natura umana, qui sulla Terra. 

Una libertà racchiusa nella frase di commiato che mette in bocca al vecchio servo: “Ruba ogni giorno un po’. Io l’ho sempre fatto. Con eleganza”.

Un rubare che al di là del significato letterale vuol essere un invito, che è poi l’ontologia del Teatro, a saper entrare in relazione con l’Altro. Riconoscendogli ciò che noi (ancora) non abbiamo e divenendo così eredi di un’umanità condivisa, che ci rende “liberi”. Davvero.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione IL MINISTERO DELLA SOLITUDINE – regia Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni – uno spettacolo lacasadargilla –

TEATRO ARGENTINA

dal 23 Novembre al 3 Dicembre 2023 –

“Only you” : così recita l’insegna del locale dove si svolge una delle scene finali dello spettacolo. Quasi a voler fare di un “problema” antropologico, una moda. E quindi una nicchia di mercato, che poi tanto nicchia non è. Un locale per persone sole, che soffrono di solitudine. 

E pensare, che un altro possibile sottotesto dell’insegna potrebbe alludere anche al suo opposto: alla “soluzione” per vivere bene. Infatti essere riconosciuti per la nostra unicità (“only you”) è ciò che ci soddisfa sopra ogni cosa. Esserne consapevoli (e questo è ancora un altro sottotesto che ammicca al “conosci te stesso” scolpito sul tempio dell’oracolo di Delfi) – e incontrare qualcuno che riesca a cogliere la nostra unicità – è ciò che ci fa sentire autenticamente realizzati come persone. 

Ma come si fa?

Beh, serve che accada un vero incontro: di quelli imprevisti però, che dirompono nella routine della quotidianità. Così rassicurante ma stantia. Anche se frenetica. Perché la nostra vita è il risultato degli incontri che abbiamo fatto: quelli che ci hanno attraversato e ai quali abbiamo permesso di metterci in discussione. Sperimentando i continui nuovi inizi della vita.

Ma oltre ad auspicare che si manifesti epifanicamente “un incontro”, occorre essere disposti a mettersi in gioco. Perché entrare in relazione con l’Altro/a è complesso. È impegnativo. È l’arte di vivere.

Sul palco del Teatro Argentina la geniale sensibilità registica di Lisa Ferlazzo Natoli e di Alessandro Ferroni porta in scena proprio questa nostra difficoltà ad entrare in relazione con gli altri – e prima ancora con noi stessi. Senza sconti, senza edulcorazioni. L’effetto sullo spettatore è decisamente catartico. Si prova fastidio, imbarazzo ma anche compassione, a vedersi così spudoratamente rappresentati allo specchio. E qualcosa, dentro al travaglio, scatta. O scatterà. Perché questa è la natura e la vocazione del Teatro.

Foto di Claudia Pajewski

Al centro della scena, indiscusso protagonista, un elegante totem contemporaneo : un dispenser dei “vorrei ma non posso”, contenitore cioè di quegli oggetti con i quali ci illudiamo di dare vita ad una nostra personalità “altra”. E come fondale, la facciata stilizzata di un insolito Ministero: quello della Solitudine. Un’accecante e oscura normalizzazione istituzionale di un problema sociale, che in fondo così grave non è. Dà lavoro ad altre persone – apparentemente immuni da questo “contagio” – e garantisce un “servizio” sociale. Di cui è stato causa, forse, ma che poi così grave non è. Anzi, contribuisce a mantenere un’ottima stabilità. Presi singolarmente, così chiusi nelle nostre solitudini, che male possiamo fare ? 

Foto di Claudia Pajewski

Cinque le storie di solitudine raccontate e ambientate sotto un gravoso cielo d’attesa: un’attesa impotente, da teatro dell’assurdo. Storie immerse in uno stato di allarme perenne: una continua ansia che però non stimola nulla di fertile. A nessuno dei personaggi in scena manca qualche bene primario, eppure dentro ciascuno di loro urla un desiderio diverso.

Per Primo è il desiderio di essere guardato, anzi notato (essere il primo, appunto): incontrare qualcuno che sappia riconoscerlo così da poter finalmente riuscire, per la prima volta forse, a provare delle emozioni. Imparando a sporcarsi e a tollerare lo sporco.

Foto di Claudia Pajewski

Per Alma è il desiderio di non aver paura dei cambiamenti ma di imparare a nutrirsene. Tuffandosi nel mare della vita, piuttosto che rifugiandosi nel sonno e nel sogno.

Per F. è il desiderio di smettere di essere ossessionato dal timore dell’estinzione. Che poi è il timore di non essere ricordarti: il suo nome proprio, che lo dovrebbe identificare, è già prossimo all’estinzione.

Foto di Claudia Pajewski

Per Simone, simbolo della nomenclatura, dell’ordine e del rigore nonché dell’obbligo alla cortesia e al buon umore ma soprattutto simbolo dell’ascolto, è il desiderio di trasgredire nel feeling Blue.

Foto di Claudia Pajewski

Per Teresa è il desiderio di uscire dagli stereotipi della mamma o della scrittrice, accogliendo la sua anima selvaggia.

Foto di Claudia Pajewski

Gli attori in scena – Giulia Mazzarino (Alma), Emiliano Masala (Primo), Francesco Villano (F.), Tania Garribba (Simone), Caterina Carpio (Teresa) – complice una scrittura drammaturgica visionariamente neorealistica, sono così credibili da fare male.

Particolarmente, la scrittura drammaturgica di Fabrizio Sinisi è efficacissima nel rendere epidermicamente il senso di quanto sia difficile la gestione della libertà, anche se si sta da soli. Anche se non ci si deve avvicinare sul confine dell’altro. 

I paesaggi sonori di Alessandro Ferroni sono una parallela drammaturgia che, seppur sembri liberare respiri più lievi nello spettatore, in verità cela crepe e traumi esistenziali. Dei personaggi e non solo.

La casadargilla ci fa dono di uno spettacolo terapeuticamente scomodo. Quindi necessario.


Recensione di Sonia Remoli