Tornare a vedere ANTIGONE di Roberto Latini: quando “ogni variazione è Teatro”

TEATRO VASCELLO

dal 21 al 30 Novembre 2025

Già al debutto del Luglio scorso al “Teatro Ostia Antica Festival – Il senso del passato” dallo spettacolo ci si lasciava turbare per la bellezza notturna del suo sguardo.

Anfiteatro romano di Ostia

Nello spostarsi ora dal palco en plein air del teatro romano, alla complice intimità del palco al chiuso del Teatro Vascello di Roma – anch’esso spazio simile ad un anfiteatro, con platea a gradoni e palcoscenico a filo della prima fila – la sublime bellezza di quell’osmosi di profonda inquietudine è notevolmente salita.

Teatro Vascello

Effetto della “conclamazione” tra i due spazi scenici, ci confida Roberto Latini nelle sue poetiche note di regia. Effetto cioè di un vibrante rivelarsi dello spettacolo, grazie all’accordarsi degli spazi che lo accolgono, attraverso entusiastiche convergenze sulla “messa in voce di suoni e corpi”.  

Se ne trova luminosa traccia nell’incedere con cui ciascun personaggio entra in scena; nella diversa eppure uguale tessitura del racconto delle mani della nutrice (una calibratissima e affettuosamente ancestrale Manuela Kustermann) e in altro ancora che ciascun spettatore potrà avere il piacere di notare. 

Ne risulta un’ ”Antigone” bruciantemente vicina allo spettatore. 

Complice una diversa drammaturgia della luce curata da Max Mugnai in accordo alle trame di musica e suoni di Gianluca Misiti: una luminosità più oscura, più allusiva, evidente e impenetrabile. Arcana.

Una drammaturgia della luce delle ombre – proprie della natura umana – che sembra celare qualcosa carico di una dignità e di un potere tali, da dover restare inaccessibile in penetrali lontani. Un qualcosa da mantenere, cioè, come protetto dalla sfera pubblica e da cui la sfera pubblica deve essere protetta.

Un senso dell’arcano al quale la regia di Latini osa efficacemente avvicinarsi, rendendo ancora più fluida la “non distribuzione delle parti” degli interpreti. 

Lo spettatore finisce, allora, per farsi più prossimo alle intime e contraddittorie scelte – incluse le non scelte – di ciascun personaggio. Che qui si rivela in cambi di “habitus” (di modo di essere) attraverso una raffinata scelta registica che fa fluire determinate parti della psiche dell’uno in quella di un altro personaggio – con il quale può “conclamarla” – attraverso un’affascinante duplice distribuzione. “Siamo Antigone e Creonte insieme, o lo siamo già stati più volte, di più in certe fasi della vita e meno in altre e viceversa o in alternanza” – ci ricorda Roberto Latini.

Una fluidità esistenziale in bilico tra il sentirsi ora più uomini ora più umani. Ora convinti che si è arrivati a essere quel che si è in base alle scelte che si sono fatte. Ora in base alle scelte che “non” si sono fatte. Ora assecondando la Legge, ora il proprio sentire.

(ph. Manuela Giusto)

Ne è un fulvido esempio la presenza dell’elemento “polvere-sabbia” e la sua manipolazione. Ma anche il rapporto dei personaggi con la regola stradale del “passaggio pedonale”: nessuno ne fa l’uso previsto dal “Codice della strada”, ma quello più accordato al proprio sentire. Così come, al contrario, ci sono le guardie che – sprovviste di immaginazione – credono ciecamente che non esista altro se non ciò che viene ordinato loro dalla Legge.

Antigone, soprattutto quella di Jean Anouilh qui riletta da Roberto Latini, ci parla di questa fluidità e ci invita a non sfuggirla. A farla nostra ogni volta, lasciandola risuonare sempre in ogni nostro “habitus” (modo di essere) che l’altro, con il quale veniamo a contatto, ci riaccende. 

Un invito al quale Latini allude quando dice che il miglior modo di “incontrare” Antigone è quello di permetterle di parlarci sempre di qualcosa di nuovo. Di qualcosa che comunque ci riguarda.

“Sapendo che ogni variazione è già Teatro”: è vita che fluisce e resta.

“Come quando lo spettacolo incontra un altro palcoscenico oltre quello del debutto”.

“Come quando lo spettacolo incontra un’altra platea oltre quella del debutto”.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione di ATOMICA – di Muta Imago – regia Claudia Sorace

– Uno spettacolo di Muta Imago –

Perché l’uomo continua a ostinarsi a credere prepotentemente nelle proprie capacità logico-razionali, realizzando sempre più potenti soluzioni tecniche “come se non ci fosse più niente al mondo”?

Quando poi queste sue creazioni, perversamente scientifiche, possono rivelarsi fuori misura per la sua umanità, non riuscendo a gestirne fino in fondo le conseguenze? 

(ph. Tereza Zelenkova)

Dall’atmosfera rarefatta di un fondale evocativamente magrittiano prendono forma, in scena, le incongruenze di un mondo parallelo, scomposto e ricomposto secondo moduli allucinati. 

Una sorta di “cielo in una stanza”, luogo fisico e della mente, dove nell’inquietante habitat delle parole di soddisfazione pronunciate dal Presidente Harry S.Truman sul continuo sviluppo tecnologico del potere distruttivo umano, riesce comunque a manifestarsi la genesi di una forza di attrazione, che inizia a legare due individui in una profonda relazione umana (il disegno delle scene è di Paola Villani).

Sono molto diversi fra loro: sono il filosofo e scrittore tedesco,  Günther Anders , cofondatore nel 1954 del movimento antinucleare, interpretato da un acuto e raffinato Alessandro Berti e il meteorologo e aviatore  Claude Eatherly,  che guidò la spedizione per lo sganciamento della bomba su Hiroshima, interpretato dal seducente polimorfismo di Gabriele Portoghese).

Eppure, nonostante la loro diversità, non mancano occasioni d’incontro, di punti di contatto, di fertili dubbi, di sane divergenze, rese qui in scena da un’efficacissima prossemica. Un incontro epistolare, il loro, visualizzato fascinosamente dalla regia di Claudia Sorace attraverso un linguaggio rituale di gesti coreografici, che alludono alla comunicazione mediata dalla scrittura.

Scrittura che, come una danza, grazie al prendere forma di una coesione relazionale apre alla costruzione di una propria identità, attraverso l’incontro “con il corpo della scrittura” dell’altro. Facendosi così occasione per il raggiungimento di un benessere psicofisico e quindi di una crescita personale.

Scrittura simbolo di un legame che attraversa lo spazio e il tempo: un atto riflessivo che dà vita ad una raccolta, che diventa memoria, archivio di vite e di relazioni. 

Raccolta che i Muta Imago sentono l’urgenza di indagare – rileggendola con il loro stare al mondo artistico – per arrivare alla scoperta di ciò che è importante recuperare per l’oggi, partendo proprio da ciò che rimane di un’esperienza passata.

Un’analisi del reale, la loro, che si dà attraverso la costruzione di una finzione artistica che muove dalle vere tracce che quel reale lascia dietro di sé. Qui il carteggio tra Günther Anders e Claude Eatherly raccolto nell’opera di Anders “Fuori dai limiti della coscienza. Lo scambio epistolare tra Claude Eatherly, pilota di Hiroshima, e Günther Anders”  (Off limits für das Gewissen. Der Briefwechsel zwischen dem Hiroshima-Piloten Claude Eatherly und Günther Anders“) del 1961.

Riccardo Fazi (drammaturgo/sound designer) e Claudia Sorace (regista)

Perché scrivere, sosteneva Kafka, “significa aprirsi fino all’eccesso” riuscendo a “toccare” tramite la parola quel silenzio intriso di senso che altrimenti non sarebbe stato nominato, espresso, tradotto.

Ce ne parla la scelta di quel gesto coreografico, amplificazione del gesto dello scrivere, che entrambi i protagonisti ripetono sulla scena. E che parla di noi: anche a noi può capitare di trovarci in una situazione simile, anche noi possiamo rimanere spiazzati dal divario che può intercorrere tra un nostro gesto e le imprevedibili conseguenze emotive.  Così come anche a noi è data la possibilità di recuperare quel relazionarci, attraverso la carnalità delle parole, proprio del carteggio epistolare. 

Günther Anders (1902 -1992) è un filosofo e uno scrittore tedesco per il quale la data del 6 agosto del 1945 segna una nuova condizione umana: è, per lui, “il giorno zero di un nuovo computo del tempo”. 

Anders è così colpito da come nell’uomo una poderosa capacità tecnico-progettuale non corrisponda ad un’adeguata capacità immaginativa, da farne il suo oggetto privilegiato di studio. Chiama questa “discrepanza” tra un immaginario umano debole e una prepotente costruzione di oggetti, sistemi, macchine, ‘dislivello prometeico’.

Quello a cui progressivamente si sta dando forma dagli anni Cinquanta del Novecento, osserva Anders, è un mondo in cui diventa sempre più difficile per l’uomo essere all’altezza del Prometeo che è in lui, perché ciò che gli si chiede è esorbitante rispetto alle capacità della sua fantasia, delle sue emozioni e soprattutto del suo sentirsi responsabile.

In un mondo dove la tecnica «è ormai diventata il soggetto della storia», la discrepanza tra le attività umane e quelle dei suoi dispositivi è diventata maggiore da quando gli strumenti sono stati sostituiti da macchine dotate di una certa autonomia. Macchine che finiscono per rendere l’uomo “antiquato”, finanche superfluo, non potendo più far fronte emotivamente e cognitivamente ai vincoli pratici ed etici che esse comportano.

Quel cielo infatti che il giovane Eatherly deve ben scrutare per far sì che ci siano le condizioni “tecniche” per poter sganciare la bomba atomica è un cielo paradossalmente azzurro: magrittianamente reale e impossibile. Ma l’essere umano, a furia di vedere nella tecnica un’ossessione di potenza, fatica a cogliere attraverso il proprio potere immaginativo l’inganno insito nei pensieri che guidano le sue azioni. Finendo per perderne anche il senso di responsabilità. L’uomo è diventato – dice Anders – “pastore degli oggetti” (“Objektenhirt”) responsabile, ormai, solo della loro manutenzione. Il sogno umano dell’onnipotenza si sta trasformando nel suo contrario: gli uomini hanno il potere di porre fine al mondo e dunque sono diventati i “padroni dell’apocalisse”. 

“La condizione umana”, Renè Magritte

Ecco allora che chiedersi che cosa è tecnicamente possibile e cosa la mente umana può immaginare e sostenere, rileva una discrepanza che si collega poeticamente a quel cosa è vero e cosa non lo è insito nelle opere di Renè Magritte intitolate “La condizione umana”. Dove «la menzogna fa parte dello statuto di ogni rappresentazione» e intento dell’artista è quello di privare lo spettatore delle proprie certezze, per spingerlo a riflettere sulla “propria condizione”. 

Proprio come ci invitano a fare i Muta Imago con questo interessante lavoro.

Quando quindi Anders viene a conoscenza della notizia che Claude Eatherly non riuscendo a posteriori a sostenere il peso emotivo del suo gesto di ok allo sgancio della bomba atomica (peso aggravato dalla diversa percezione del gesto da parte di tutti gli altri, che lo accolsero invece come un eroe) inizia a compiere furti, tentare il suicidio, abbandonare la famiglia fino ad essere rinchiuso a tempo indeterminato nell’ospedale psichiatrico militare di Waco, Anders prova l’irresistibile trasporto di contattarlo, inviandogli una lettera. La prima di un lungo carteggio: era il 3 Luglio del 1953.

E’ una lettera decisamente energizzante e motivante, come tutte le successive: il suo errore – gli scrive Anders – e il successivo ravvedimento possono diventare un esempio per tutti, essendo ognuno di noi potenzialmente capace di commettere un errore di valutazione simile. Molto suggestiva l’idea di visualizzare questo concetto rendendo visibile l’Altro proprio all’interno dell’ombra di Eatherly (la direzione tecnica e il disegno luci sono curati da Maria Elena Fusacchia).

Eatherly, abituato a ricevere solo lettere di consolazione, sente di essere compreso da Anders come da nessun altro. E decisamente efficace si rivela l’idea di portare lo spettatore nello spazio della mente di Eatherly anche attraverso la costruzione simbolica di una mappa neuronale luminosa. 

La regia di Claudia Sorace e la drammaturgia di Riccardo Fazi – alla quale collabora anche Gabriele Portoghese e Paolo Giordano ne fornisce una consulenza letteraria – non mancano infatti di portarci a scoprire le diverse anime che abitano la psiche di Eatherly: la tendenza a “sagomarsi” quasi come un redentore; quella a lasciarsi guidare da una sorta di “febbre”, per dare spazio attraverso la danza ad una dimensione creativo-immaginativa e quella “diabolica” attratta dalla dismisura. Perché di tutto questo siamo fatti, come Eatherly.

Sarebbe interessante poi, scrive ancora Anders nelle sue lettere, far sapere all’opinione pubblica come ora Eatherly riconsideri il suo gesto: da qui la decisione comune di pubblicare il loro carteggio. Perché questo recupero di un’umanità personale risulta prezioso anche per un possibile recupero da parte della collettività.

Anders allora aiuta Eatherly a rinvenire tracce fertili dalle rovine della propria vita e contemporaneamente immagina e concretizza soluzioni pratiche per salvarlo dal suo destino. Diffondendo insieme anche un messaggio di pace tra gli esseri umani. 

Perché, come sosteneva il filosofo Hans Jonas (1903-1993) nel suo testo più noto Il principio responsabilità – Un’etica per la civiltà tecnologica (1979), l’uomo autentico non è quello ideale e perfetto dei sogni utopistici. Che quando si realizzano, peraltro, producono solo danni. Perché fanno capo ad un atteggiamento «immodesto», fondato su un’idea di benessere e abbondanza come derivati dal progresso tecnologico, per cui sapere è potere. Non la speranza utopistica in un uomo ideale quindi deve guidare le nostre scelte, ma piuttosto la paura, ovvero la consapevolezza della necessità di porci un limite. Per evitare l’apocalisse.

Anche Hollywood si interessa alla storia di Eatherly e gli propone un film su di lui. Ma Anders gli consiglia di iniziare lui stesso a scrivere le sue memorie, partendo proprio da ciò che di prezioso resta nelle sue rovine esistenziali, recuperabile attraverso un profondo lavoro di analisi e di scavo interiore. Una forma di cura e di intelligenza che aiuta a conoscere meglio se stessi.

Uno spettacolo, questo dei Muta Imago, dal quale ci si sente avvolti, avviluppati, travolti, trascinati. Complici le musiche originali di Lorenzo Tomio e la cura del sound design di Riccardo Fazi.

E che predispone lo spettatore a riflettere sui lati oscuri del nostro attuale stare al mondo: merito della sinergia tra luce, suono e spazio che contribuisce a creare una percezione, e quindi una costruzione di significato, davvero intrigante.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione di OLTRE – ideazione e regia Fabiana Iacozzilli

– Come 16+29 persone hanno attraversato il disastro delle Ande –

DRAMMATURGIA

Linda Dalisi e Fabiana Iacozzilli

Tutto è respiro, il respiro è tutto.
Questo di Fabiana Iacozzilli è un racconto di respiri.

Un racconto di come il ritmo del respiro può generare gesti che prima ha immaginato. 

Un racconto delle tracce che il respiro lascia sui finestrini di quel che resta di un luogo accogliente, divenuto passaggio verso una nuova mèta: la fusoliera dell’aereo del volo 571 dell’aeronautica militare uruguaiana, che trasportava i membri della squadra di rugby Old Christian Club, alcuni amici e familiari. E che il 13 ottobre del 1972 si schiantò sulle Ande.

Un racconto delle tracce che il respiro lascia nelle parole di chi c’era e c’è ancora. Parole che attendono di essere ricordate, ricercate, riesplorate. Per far sì che si esprima ciò che ancora non è stato colto. Come sempre lascia fare il passato.

La regia della Iacozzilli ci riporta allora a quel momento: a immaginare, immersi nel buio, di essere a bordo. Lascia parlare il suono del motore del veivolo, che ad un certo punto stona e poi s’infrange.

E poi “ci vediamo” in quello che appare in scena: una sublime rappresentazione iconografica di corpi traumatizzati, irrigiditi. E, insieme, friabili.

Ma a riemergere riesce il respiro, il soffio vitale, il desiderio. E’ meravigliosamente visualizzato dai performer Andrei Balan, Francesco Meloni, Marta Meneghetti, Giselda Ranieri, Evelina Rosselli, Isacco Venturini, Simone Zambelli che fanno vivere i puppets, regalando loro tutte le variazioni dell’impeto e della ritrosia; della delusione e dell’entusiasmo, della cura e della paura. “Le vediamo”, queste variazioni emotive: quasi fino a toccarle, tanto sono ricche in espressività. 

C’è cura, c’è soccorso, c’è conforto, tra i sopravvissuti: ci si assist-e. E’ una particolare partita quella che prende forma: questa volta tra la vita e  la morte. E, ci sarà in qualche modo anche un ”terzo tempo”.



Sulla scena si delineano due squadre: da un lato i superstiti, dall’altro i morti. Questi sono a terra, quasi come in “un ruck”. Gli altri sono sofferenti ma ricchissimi in espressività. Sguardi, i loro, di cui si colgono finanche i sottotesti. La sinergia tra la surreale disponibilità delle sculture di Paola Villani e il sensibile contaminarsi con esse dei performer, e’ davvero di sconcertante bellezza. Una magia.

“Quando sei a 4.500 metri” – racconta un superstite in un contributo audio – la mente rallenta e il cuore impenna. Si perdono le coordinate del reale e ci si sente come in un sogno.

Il freddo invece resta reale e fa tremare. Così come i morsi della fame. E pure il rumore di un aereo che sorvola sopra le loro teste. Ma come fare ad uscire dal “sogno” per farsi notare? Allora ciascuno immagina, ciascuno gioca il proprio ruolo, tutti “uniti” per raggiungere un’insolita mèta.

C’è poi chi trova una radio e tutti – ognuno con un proprio assist – concorrono a far sì che funzioni. E poi, ancora, tutti a capire come eliminarne le interferenze. Ignari di andare incontro all’ascolto proprio della notizia dove si dichiara la chiusura delle ricerche su di loro. 

Stringe il cuore “vedersi” in loro: vedere nei loro occhi e nelle loro posture la frustrante delusione.
Ma è un attimo. Che lascia spazio alla fiera consapevolezza che ora la responsabilità della propria salvezza è tutta nelle loro mani. Serve immaginare ora: serve riuscire a vedere con la mente quello che si cerca, che si desidera. Serve “passarsi” la speranza dell’immaginare, come se fosse una palla ovale. Serve immaginarsi una ritualità del fare: serve una nuova partita.

Ed è così che ogni giorno – raccontano – sembrava di rinascere: ogni giorno con la sensazione di aver superato un limite impossibile. Molti di loro hanno meno di vent’anni, nessuno ha mai scalato una montagna, anzi la maggior parte di loro è gente di mare che non ha mai visto la neve. 

Ma servono assolutamente anche delle proteine: i pochi cibi messi in comune finiscono e si cerca di assecondare l’illusione di masticare qualcosa provando con le suole delle scarpe, con la pelle degli accessori. 

L’essere umano si abitua a tutto. Anche a cercare e a trovare Dio “fuori da se stessi, per poter aiutare anche Lui”. Scegliendo di cantare tutte le volte che si ha paura. Cosicchè, nonostante tutto, si possa continuare ad immaginare una mèta.

Anche quando “ci si vede” come un puntino. Anche quando per capire di essere vivi si cerca la propria ombra. Anche quando guardando l’altro per averne cura, si prova terrore specchiandosi nella sua tentazione a mollare. 

Una segreta consapevolezza però li sostiene: quella che “ciascuno fa dell’altro un uomo migliore”. E che verso la civiltà si può riuscire ad arrivare insieme. “Insieme”, come insegna il rugby. 

Ed è così che alla fine in 16 riescono a salvarsi. Ma solo perché “sono insieme” agli altri 29. Una modalità, un “come”, che la Iacozzilli sottolinea con efficacia già dal sottotitolo.

Come un vero collettivo, i ragazzi infatti prendono, dopo alcuni giorni dal disastro, la decisione di mettere ciascuno a disposizione del gruppo i propri corpi. Anche una volta che il proprio respiro si sarà separato dal corpo: per poter continuare così a giocare ancora “con” la squadra il proprio ruolo. “Sostenendo” cioè chi riuscirà a continuare a tenere unito il respiro al corpo, portando avanti la mèta. 


Una storia così vera, che nessuno riesce a dimenticarla.

Una filosofia vitale la cui essenza è alla base dello stesso rugby. Perché una delle caratteristiche più distintive di questa disciplina è la sua natura inclusiva, che predispone alla creazione di comunità solide e unite: attraverso la passione condivisa per il gioco che sa andare “oltre” la squadra.

Passarsi la palla vuol dire infatti che da solo non ce la puoi fare, ma che avanzi solo se riesci ad avere una solida intesa col tuo compagno e ad essere il suo sostegno se scatta lui in avanti. Nel rugby il leader non esiste, perché è con l’aiuto di tutti che è possibile arrivare in mèta.

Consapevoli che “il mondo va avanti grazie a quei pazzi, che immaginano cose impossibili”. Insieme.

Come quella di non arrendersi, finché non si riuscirà a raggiungere la civiltà. Insieme.

E la civiltà arriva. E qui, in scena, è l’incontro con noi della platea.

Un incontro che ci permette di ri-esplorare “insieme” come si attraversa un disastro: un evento che parla della vulnerabilità dell’essere umano di fronte a forze incontrollabili, siano esse naturali o provocate dall’uomo.

Un evento che si dà prepotentemente – per un’avversità degli astri – come un punto di svolta che costringe a ripensare il futuro, la gestione delle risorse, le priorità. 
E che diventa parte della memoria collettiva contribuendo a plasmare l’identità di una comunità, con un forte impatto psicologico ed emotivo.

“In quel fuori radicale, dove non ci sono le condizioni per la vita e solo ci si arriva per colpa di una forma di violenza verticale, si palesa la domanda sull’arrivo dell’uomo all’esistenza (Gabriel Galli).


Una domanda che si fa strada nei frangenti più oscuri della vita: quando la vita prende le sembianze di una tragedia. Una tragedia dove non valgono più le regole che ci siamo costruiti con la mente, ma entrano in gioco quelle dettate dal corpo. E dalla capacità di immaginare.

Fabiana Iacozzilli




Cifra stilistica estetica e poetico-filosofica dell’autrice e regista teatrale Fabiana Iacozzilli è il suo darsi attraverso la “contaminazione”: un andare “oltre”, il suo, verso una generosa accoglienza di fertili diversità. 

“Contaminare” significa infatti andare al di là del dictat della purezza: fondendo, incrociando, “sporcando”. Rendendosi duttili e pronti ad entrare in relazione con nuovi habitat.

“Contaminare” significa “evolversi”, anziché estinguersi chiudendosi al diverso. 
“Contaminarsi” significa “vivere insieme”.

Come ci racconta questa potentissima storia di sopravvivenza, di metamorfosi e di rinascita. Dove la Iacozzilli, per riuscire a raccontare che tipo di filosofia di vita prende forma all’indomani di un disastro, contamina la narrazione scenica, con i linguaggi visivi e la ricerca documentaria; il teatro di figura con le voci delle testimonianze. 

Ed è così che – attraverso la complicità della splendida drammaturgia di Linda Dalisi, dei sette performer e dei puppets progettati da Paola Villani – lo spettatore giunge a contattare l’esperienza umana attraversando tutte le profondità delle sue falde sotterranee. “Oltre” ogni comprensione logica. Con amore.

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Recensione di Sonia Remoli


Recensione dell’episodio n.3 della Saga NELLE PUNTATE PRECEDENTI – regia Pier Lorenzo Pisano e Alessandro Di Murro

Una saga familiare 

ideata 

dal Gruppo della Creta e da Pier Lorenzo Pisano

per riflettere

sulla trasposizione della narrazione seriale a Teatro 


Episodio n.3

Titolo: “Giro di vite”

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Continua la dilagante affluenza di giovani al Teatro Basilica, intrigati dal seguire ogni episodio della saga familiare “Nelle puntate precedenti”.

Ieri sera si era tutti in attesa dell’Episodio n.3, scritto da Lorenzo Fochesato, intitolato “Giro di vite”.

Provoca infatti una reazione simile “a un giro di vite”, il colpo di scena con il quale si conclude l’episodio precedente: la rottura del segreto finalizzato a far credere alla 25enne Giulia di essere l’unica figlia di Chiara e Max.

Un giro di vite che drammaturgicamente si dà attraverso l’inasprirsi dello sguardo che ciascun personaggio rivolge su se stesso, e di conseguenza sull’altro. E che porterà ad una nuova situazione tragica.

L’attanagliante struttura con cui è stata pensata, scritta e realizzata questa saga familiare, prevede infatti che ogni episodio si dia sia come risultante del colpo di scena con cui si è chiuso l’episodio precedente, sia come crogiolo nel quale viene di nuovo a prendere forma un colpo di scena, i cui effetti apriranno l’episodio successivo.      

Un po’ come in poesia, infatti, anche la serialità è un’espressione artistica che insegue l’invenzione formale, rispettando le regole del genere che si è scelto. Anzi, è proprio il “genere” (qui, quello della “saga familiare”) con i suoi vincoli e le sue specificità a farsi ostacolo indispensabile alla scrittura, senza il quale la creatività non avrebbe ragione di trovare nuove soluzioni. 

Metafora e “forma metrica” di questo terzo episodio è quella del “giro di vite”: una stretta, e quindi un inasprimento, che in alcuni personaggi nasce dalla sana in-tenzione a vivere “le prossime puntate” (ovvero, il futuro) con una maggiore solidità esistenziale e relazionale. E che in altri personaggi nasce invece dall’in-tenzione di chiudere totalmente con le “puntate precedenti” (ovvero il passato), nell’illusione di riuscire ad eliminarne ogni traccia.

Le mura del castello di segreti e di manipolazioni che fino all’episodio precedente continuavano a stare in piedi, dopo l’infrangersi del segreto legato all’esistenza di una precedente figlia di Chiara e Max, crollano ora sui personaggi della saga familiare. Molto interessante si rivela, a questo riguardo, il lavoro registico – reso con grande efficacia dagli interpreti – volto a visualizzare il tipo di relazione, che si spinge fino alla simbiosi, tra ciascun personaggio e il proprio muro di menzogne.

Nello specifico:

La coppia genitoriale si scioglie. Mentre il marito Max attraversa il peso incombente del suo muro di complicità, finendo per aprirsi ad una nuova possibilità per affrontare il presente e il futuro; la moglie Chiara non entrando in tensione con il proprio muro, finisce per costruirne un altro, che taglia fuori suo marito.

La coppia dei giovani, Giulia e Francesco, vivono il muro familiare come elemento di occultamento della realtà. E mentre lui si dà come punto fermo disposto ad ospitare, nella confusione, il nuovo che vuole entrare e il vecchio che va filtrato; quello di lei è un continuo muoversi nello spazio, nell’ostinazione contraddittoria a scovare- buttare-tenere habiti (ovvero, modi di essere) del passato nel presente.

Che poi scopre poter accogliere nello spazio di uno zaino. E di un bacio. Nuovi scenari da condividere con Francesco.

Rassicurata e stimolata anche da un’eredità paterna, che si dà come viatico per sentirsi vicini anche guardandosi da lontano. Per non affogare nella palude delle iper protezioni familiari. Ma soprattutto per imparare ad appassionarsi alle “puntate successive” della vita: così, proprio per la loro affascinante incertezza. Senza avere troppa fretta di sapere come andrà a finire.

E poi c’è la coppia madre-figlio, ovvero Agnese e Riccardo. 

E sarà Agnese la mater familias, nonché nonna di Giulia, che con un colpo di scena si spalmerà, ostinatamente in simbiosi, sopra il muro delle sue manipolazioni. Continuando a confondere e a manovrare i desideri dei suoi figli: ora quelli di Riccardo. Che “insignisce” – con (subdola) menzione di grande fiducia nei suoi confronti – del compito di bruciare tutto. Inclusa la sua amata vigna che, stressata dalle continue pretese di raccolta, da tempo non produce più un buon vino.

In verità Riccardo si era curato di aprirsi creativamente al futuro, dopo il caos familiare provocato dal disvelamento del segreto sulla prima Giulia, piantando una nuova piccola vigna, proprio come fece Noè all’indomani del diluvio. Oltre a continuare a prendersi cura della vigna di famiglia. 

E ora non ce la fa proprio a rinunciare a tutto. Proprio ora che, invece, avrebbe tanto voluto aspettare e conoscere “le nuove puntate” della storia della sua vigna. Piantata e curata da solo. O meglio, con il suo Rino, ora che Max se ne è andato.

Ma la mamma insiste. 

E occorre trovare la forza di trasformare l’acqua in fuoco: il miracolo della vita, nel suo sterminio. 

Occorre un ulteriore “giro di vite”. E di lacerante bellezza si rivela la resa registica di questa tragedia personale.

Splendidi echi di malinconica vitalità cechoviana punteggiano la scrittura di Lorenzo Fochesato, regalando alla narrazione tragica di questo episodio momenti di luminosa poesia. Di cui gli attori – Laura PanniaDaniela GiovanettiAlessio EspositoMatteo BaronchelliShadi RomeoVittorio Bruschi  – sanno farsi seducenti interpreti.

E così ben predisposti alle “prossime puntate”, vien da proiettarsi ancora una volta a fantasticare sugli esiti che si manifesteranno ora nel quarto episodio: quello scritto da Valeria Chimenti, dal titolo “Due passi indietro e uno avanti”.

In scena il 18 e il 19 Novembre p.v.


NELLE PUNTATE PRECEDENTI


Recensione di Sonia Remoli

Recensione NELLE PUNTATE PRECEDENTI – regia Pier Lorenzo Pisano e Alessandro Di Murro – (episodio 2)

Una saga familiare

ideata

dal Gruppo della Creta e da Pier Lorenzo Pisano

per riflettere

sulla trasposizione della narrazione seriale a Teatro 






EPISODIO N.2

Titolo: “Replica”

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Ma che meraviglia questo sperimentare a Teatro una narrazione seriale!

E quanti giovani!

In tantissimi stanno invadendo ogni settimana il Teatro Basilica.

Tanto che sono state aggiunte repliche ad ogni prossimo episodio della saga. 

L’idea del progetto porta la firma del Gruppo della Creta e di Pier Lorenzo Pisano, per la regia di Pier Lorenzo Pisano e di Alessandro Di Murro.

Dopo il primo episodio – scritto da Pier Lorenzo Pisano e intitolato “Scatenare incendi” – ieri sera è andato in scena il secondo episodio della saga familiare “Nelle precedenti puntate”, intitolato “Replica” e scritto da Giulio Fabroni e Veronica Penserini –  

Un titolo scelto argutamente, per lasciare fin da subito nello spettatore la sensazione di quanto ciò che ci precede – le “puntate precedenti”, ovvero il nostro passato – ci costituisca. Fino a invaderci. 

Già dalla nascita veniamo alla luce non solo grazie al dna organico dei nostri genitori, ma anche grazie al dna dei loro desideri, delle loro aspettative su di noi. A partire dalla scelta del nostro nome, spesso associato a chi dovremmo assomigliare. Così loro sperano, spesso fino a pretenderlo.

Intrigantemente qui il concetto è reso, anche, attraverso la riproposizione di un habitus (un modo di fare) che si desidera tramandare, simboleggiato dal tipo di dono che la mamma fa a Giulia: un abito uguale a quello che indossa la nonna e che Giulia già indossava da bambina.

Questa specie di destino a cui si dà forma – in scena, così come nella vita – sarà la causa scatenante dell’accendersi di certi meccanismi emotivi incendiari, dalle conseguenze sotterraneamente divampanti.

Incendi il cui trasporto si può rivelare attraverso un forma di mania, condizione capace di svelare il presente nella sua verità più profonda. Soprattutto nei frangenti in cui il futuro si dà come incerto e oscuro.

Qui il racconto si snocciola intorno a Giulia e alla sua famiglia. 

E’ una storia antica, che inizia molto prima di lei: negli anni settanta, prima che sua madre Chiara e sua zia Serena smettessero di parlarsi. E che arriva ai giorni nostri. 

Il primo episodio ci ha presentato i personaggi festeggiare il primo compleanno della piccola Giulia che, pochi giorni dopo, è morta accidentalmente mentre era sotto la custodia della zia Serena. Zia che viene allontanata dalla famiglia, essendo ritenuta rea di essersi macchiata di questa colpa. 

Nel secondo episodio si riparte ancora da un compleanno: è di una giovane donna che si chiama ancora Giulia e che ha 25 anni. Lei è la sorella della Giulia morta, ma ancora non lo sa.  Lo scoprirà per caso, spinta dalla curiosità di vedere una misteriosa cassetta VHS, titolata “Primo compleanno di Giulia”. 

Questa cassetta VHS è l’unico ricordo preservato dall’incendio che i suoi genitori hanno appiccato a tutte le foto che raccontavano la loro attesa della prima Giulia, così come il primo anno trascorso insieme.  Credendo di liberarsi così, di una tremendamente dolorosa “puntata precedente”. 

Ma questa cassetta VHS – che il papà desidera ardentemente rivedere con sua moglie proprio alla vigilia del 25esimo compleanno della seconda figlia Giulia, e che poi lascerà incustodita – rappresenterà un vero e proprio deus ex machina. Creerà cioè un colpo di scena che sovvertirà il corso della storia di Giulia. Così come l’avevano immaginata i suoi genitori, tenendole cioè segreto il suo destino di “replica_nte”. Segreto portato avanti per 25 anni.

Di accattivante bellezza artigianale ed esistenziale la costruzione scenica di questo deus-ex machina che – proprio perché confezionato dal papà quasi come un’esca, rende allo spettatore l’incendio del suo desiderio sotterraneo. Complice anche un’accattivante modalità scenica che sa rendere l’effetto di un piano sequenza a teatro. E che quindi parla allo spettatore di come noi stessi, possiamo essere artefici del nostro destino. Anche quando, apparentemente, pare caderci addosso involontariamente.

Destino che spesso siamo noi a far sì che ingrigisca non solo i nostri capelli, ma anche la nostra vita. Di struggente poesia la visualizzazione di questo messaggio attraverso il gesto della mamma di Giulia dell’incipriare e dell’incipriarsi i capelli e il viso di quel grigiore che sa di triste distacco. Ma che odora ancora di borotalco.

La saga familiare “Nelle precedenti puntate” è infatti la storia quotidianamente epica di una colpa generatrice che, come nelle tragedie antiche, continua a tramandarsi senza scampo. 

È una storia esistenziale di scoperta del proprio ruolo nel mondo e nella famiglia, nonché di liberazione da quello che si è ereditato dal passato. Perchè, per dirla con Sartre, “l’importante non è ciò che hanno fatto di noi, ma ciò che facciamo noi stessi di ciò che hanno fatto di noi”.

La coralità degli attori – Laura PanniaFederica DordeiDaniela GiovanettiAlessio EspositoMatteo BaronchelliAlessia SantaluciaElena VanniShadi RomeoVittorio Bruschi,  Lorenzo Garufo -restituisce allo spettatore tutta la pulsante e naturale visualizzazione del nostro stare al mondo incendiario e incendiato.

Grazie anche ad un diverso modo di vivere il tempo, proprio della serialità: scegliere di raccontare una storia dilatandola in diversi episodi, alimenta infatti un rapporto di maggiore confidenza tra attore e spettatore. Il quale ha la possibilità di sintonizzarsi sulle frequenze del personaggio, seguendolo nella sua evoluzione psicologica nel tempo. Fino a portarlo nella propria quotidianità. Dando vita così ad una nuova forma di ritualità teatrale, che si ripete e si rinnova ad ogni episodio. Con cadenza settimanale. Geniale l’aver visualizzato questo concetto anche attraverso la serialità del tempo scandito dalle 25 bottiglie di vino (una per ogni anno della festeggiata), anziché attraverso un’unica torta di compleanno.

Il tipo di narrazione seriale scelto dagli ideatori del progetto – Il Gruppo della Creta e Pier Lorenzo Pisano – è quello della “saga”, ovvero l’insieme dei racconti sul decorso storico-evolutivo (qui brillantemente ridefinito “puntate precedenti”) di un personaggio o, meglio, di una genealogia di personaggi con radici comuni. 

Un insieme di racconti che si articola in episodi, che possono essere visti anche singolarmente.

Episodi dove i fatti si tramandano oralmente, quasi come leggende, regalando allo spettatore un senso di continuità e di appartenenza, che fa sì che le esperienze individuali si colleghino ad una dimensione collettiva, vivificandone la memoria.

Episodi dove, altresì, si affrontano sfide con il proprio destino: attraverso un meccanismo testuale che prevede il ritorno di strutture costanti e allo stesso tempo la loro variazione.

E forse è questa l’esigenza che porta al Teatro Basilica maree di spettatori, soprattutto giovani: l’esigenza che trova soddisfazione nella ritualità seriale del riconnettersi ad un’idea collettiva di realtà. Come già evidenziava Umberto Eco nel saggio “L’innovazione nel seriale” del 1985, dove analizzava i meccanismi che regolano il piacere della serialità.

Ed è così che già da oggi, ci si ritrova ad immaginare cosa ci riserverà il Terzo episodio della saga familiare “Nelle puntate precedenti”. Episodio scritto da Lorenzo Fochesato, in scena l’11 e il 12 Novembre, dal titolo “Giro di vite”.


NELLE PUNTATE PRECEDENTI


Recensione di Sonia Remoli

Recensione di QUANNO FERNESCE ‘A GUERRA (Mussolini a Ponza) – scritto da Rita Bosso – regia Mariella Pizziconi

TEATRO COMETA OFF

dal 28 Ottobre al 2 Novembre 2025

Luglio 1943: a Ponza si aspetta il sole, quello che viene “quanno fernesce ‘a guerra”.

E invece il 28 Luglio, a quattro giorni dall’affondamento del piroscafo Santa Lucia – “il tram di Ponza” che collegava le Isole Ponziane con Gaeta e Napoli – arriva a bordo di una barca, separatasi dalla  nave corvetta Persefone, un civile accompagnato da sei carabinieri. 

Il piroscafo Santa Lucia: “il tram di Ponza”

Per lui in un’ora è stata fatta sgombrare la zona abitata di Santa Maria, che dovrà ospitarlo in sicurezza. E’ il Duce Benito Mussolini (1883-1945) che – all’indomani della notte del Gran Consiglio dove si determinò la fine del Fascismo – fu preso per essere deportato lontano dalla Capitale.  Rifiutato dal direttore del carcere di Ventotene – perché, a suo avviso, gli antifascisti lì reclusi lo avrebbero sicuramente ucciso – approdò a Ponza. Proprio in quell’isola che lui aveva scelto per confinare tanti suoi nemici con la vana speranza di fiaccarne la volontà di lotta”.

Nave corvetta Persefone

Ma loro, gli abitanti, ancora non lo sanno chi è lui. Tranne Pietro Nenni (1891-1980) lì in confinio da due mesi, per essere stato arrestato dai nazisti nel febbraio del 1943 in Francia, estradato in Italia e deportato sull’isola di Ponza. Ne restituisce tutta la vitale malinconia politica, l’evocativa interpretazione di Mauro Toscanelli.

Nenni, osserva con il binocolo Mussolini dalla sua casa di Via Corso Umberto, dove si trovava in libertà vigilata. E così, annota sul suo diario: «Ora vedo col cannocchiale Mussolini: è anch’egli alla finestra, in maniche di camicia e si passa nervosamente il fazzoletto sulla fronte. Scherzi del destino! Trenta anni fa eravamo in carcere assieme, legati da un’amicizia che paresse sfidare le tempeste della vita […] Oggi eccoci entrambi confinati nella stessa isola: io per decisione sua, egli per decisione del re …”.

L’impianto scenico dello spettacolo allude – in sinergia con un suggestivo montaggio della drammaturgia della luce – a un incrocio di sguardi sui ricordi di questo frangente della passata guerra. Ed è così che lo sguardo di Nenni s’intreccia a quello di Mussolini e quest’ultimo a quello della popolazione locale.

Vediamo così che le donne dell’isola vanno in continuo pellegrinaggio all’altare della Madonna di Pompei: a lei chiedono chi è che ancora non vuole il sogno della pace, quello che “comm’a viento de lu mare vene pe’ te fa’ sunnare, tras’arinto e nun te lassa cchiù (quello che come il vento del mare viene per farti sognare, entra dentro e non ti lascia più).  

Quel vento, e quindi quel soffio, di cui si fa mirabile interprete il suono della fisarmonica, la cui musicalità fortemente aggregante è simbolo di bellezza nostalgica e duratura. Splendida la scelta della regista Mariella Pizziconi di fare del suono della fisarmonica uno dei protagonisti del suo spettacolo. Se ne fa appassionato interprete Alessandro Severa.

La regista Mariella Pizziconi – L’aiuto regia Serena Canali

Ma soprattutto le donne di Ponza chiedono alla Madonna del Rosario: “Quanno fernesce ‘a guerra?”.

La guerra  che sempre “bugiarda e ladra” si ruba un pezzo di cuore, portandosi via il bene più prezioso: la fantasia:

Guerra tu sì busciarda, sì mariola,
te sì arrubbato ‘nu piezz”e core,
te sì pigliata la fantasia,

Vediamo poi lo sguardo del Pietro Nenni di Mauro Toscanelli: uno sguardo che abita l’attesa di una progettualità futura, contrappuntandola al lirico ricordo della sua amata Carmen, la cui mancanza soffre struggentemente. Ma Nenni conosce il potere evocatore della parola e così torna costantemente a rievocarne la presenza, attraverso il vento del ricordo. Che gliela restituisce nella poesia di una velata immagine, resa vibrante dal suo cantare. Raffinatamente intensa l’incantevole presenza fantasmatica della Carmen di Simona Ciammaruconi.

Ponza – Palazzo Martinelli sede del fascio

Nell’orizzonte scrutato da Mussolini, invece, tutto tace. E non si dà pace nel constatare come i tedeschi non abbiamo saputo cogliere l’occasione di porre fine, ad esempio, al suo trasporto da Roma a Gaeta. 

Invaso da una rabbia che cela una forte umiliazione, è il Mussolini di Fabio Fantozzi: i suoi occhi e la sua prossemica urlano il crollo della sua presunta onnipotenza. Nei suoi frequenti contatti con il carabiniere che dimostra una particolare cura nei suoi confronti (un Fabrizio Nalli dal cortese sussiego), la sua prossemica invadentemente altera parla più di mille parole. Complice lo sguardo reverenziale del garbato carabiniere.

Il quale – pur di placare la sete di attenzioni di Mussolini – non solo chiede al quattordicenne proprietario di una radio a galena Giannino Conte (interpretato dalla giovanile passionalità di Flavio Nalli) di trascrivere le notizie del radiogiornale, ma si offre anche di andare a cercare aggiornamenti su Roma e sui tedeschi da Rusinella, la meretrice dell’isola.

Da lei “è passata mezza Italia”. Ma ora – in questo particolare frangente storico, in cui dalla “legge della serratura” si è passati alla “legge della maniglia” – le occasioni d’incontro si sono sensibilmente ridotte. Eppure, se qualcosa ancora si muove, è da Rusinella che finisce per propagare il suo moto. Tanto che ora è lei ad assurgere a “canale istituzionale ancora in funzione”. Ad interpretarla è un’elegantemente maliziosa Titti Cerrone che, con perspicace seduttività, sa come e quando far strategico uso dell’apertura della sua vestaglia.

Sarà sempre la cortesia del carabiniere a mettere poi in contatto Mussolini con un’altra donna dell’isola: una magnetica e pragmatica donna di servizio (interpretata dall’incandescente Marina Vitolo) che si prenderà cura anche dell’abitazione dell’ex Duce. Consapevole della sua femminilità creativamente fresca e decisa, la donna ha il dono di una capacità attrattiva, in grado di sviare intenti e distrazioni nei suoi riguardi. 

La spiaggia di Santa Maria e la casa-prigione di Mussolini

Mussolini non resterà immune al suo charme imperativo, finendo per apprezzare la sua solida intelligenza, non incline a perdersi dietro vane fantasie. Suo interesse è infatti attirare l’attenzione del Duce su come la guerra e il recente affondamento del ”vapore” stiano privando drammaticamente gli abitanti di Ponza di affetti e di cibo. La vita sull’isola è ormai alla paralisi. Non resta che ricostruire la pace.

Sarà “con lei” che Mussolini scriverà la lettera indirizzata al parroco di Ponza per chiedergli di celebrare una messa in occasione dell’anniversario della morte di suo figlio Bruno. Letterà che arriverà nelle mani della sua perpetua (qui interpretata efficacemente da Carla Carfagna) e di cui lei fornirà un’interpretazione letterale, sostenuta dal parroco D. Luigi Maria Dies e ancora oggi da studiosi di storia locale. Ma quella redatta dal Duce è davvero una lettera per richiedere una messa? Un interessante dubbio sul quale s’interroga acutamente la drammaturgia di Rita Bosso, ipotizzando che la lettera sia indirizzata ai tedeschi.

Ma è nel finale dello spettacolo che Mussolini – complice un accattivante colpo di scena – riceverà “in dono” qualcosa di inaspettato: una sconcertante denuncia degli effetti del suo operare, pronunciata da qualcuno di insospettabile.

E in questo poetico montaggio di sguardi politici, quello più graffiante si rivelerà proprio quest’ultimo sguardo: quello di chi solitamente non ha parola. Ma che più di tutti ha bisogno di vedere il sole: quello che viene “quanno fernesce ‘a guerra”. 

Ieri come oggi. 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione a LA DIVA DEL BATACLAN – regia, drammaturgia e liriche Gabriele Paolocà

Musiche originali Fabio Antonelli

con Claudia Marsicano e con Gabriele Correddu


Lo spettacolo si apre con la pronuncia di una sentenza di colpevolezza verso colei che si è spacciata come una sopravvissuta alla strage del Bataclan del 13 Novembre 2015.

A lei si ispira l’irresistibile Audrey di Gabriele Paolocà, interpretata da una candida e perturbante Claudia Marsicano, che incanta lo spettatore con il suo caleidoscopico appeal. E con una voce da sirena di Ulisse, che sa raggiungere profondità segretamente orrorifiche.

(ph. Manuela Giusto)

Per la Legge dello Stato lei è uno sciacallo: una donna che si è approfittata di un trauma collettivo per trarne profitto personale.

Per la legge dell’umano stare al mondo – sulla quale l’autore e regista Gabriele Paolocà investiga con sollecita cura – Audrey è anche una donna tentata dall’opportunità, in qualche modo offerta dai social, di cogliere l’occasione di continuare a crearsi una nuova identità (ma non più in solitaria), per poter essere – ora finalmente – oggetto di quelle attenzioni da sempre a lei negate. 

Gabriele Paolocà

Con acuta genialità Paolocà immagina e mette in scena un sistema concentrico di cortocircuiti drammaturgici, per arrivare a solleticare lo spettatore laddove meno se lo aspetta. E lo fa provocando quei continui cedimenti emotivi, che sanno smuovere le prime considerazioni dello spettatore sul modo di reagire di questa giovane donna.

Un personaggio ispirato al fenomeno delle cosiddette “false vittime” fiorite, successivamente al trauma collettivo del 13 Novembre 2015, quando Parigi fu colpita da una serie di attentati terroristici di matrice islamica, poi rivendicati dall’Isis. Il più sanguinoso e tristemente noto dei quali, avvenne al Teatro Bataclan, dove era in corso il concerto del gruppo americano «Eagles of death metal»: vi morirono novanta persone.

La solidarietà e l’attenzione con le quali per la prima volta furono investiti i sopravvissuti, i parenti e i conoscenti delle vittime, grazie al clamore mediatico, sollecitarono nell’animo umano reazioni di partecipazione emotiva di varia intensità. Non ultima, una sorta di cortocircuito emotivo tale che, per alcuni, coloro che furono toccati da vicino da tale tragedia divennero occasione di invidia.

Attraverso la sua appassionata indagine, Gabriele Paolocà ci invita a prestare attenzione a questa insolita reazione – ma in dosi omeopatiche presente nelle corde di ogni essere umano – accompagnandoci nel conoscerla meglio: andando un po’ più in là della prima analisi dei fatti.

Per “seguire” Audrey occorre infatti “accettare la sua amicizia” osservandola più da vicino: scendendo sotto la prima impressione che ci suscita e iniziando ad averne cura. Cioè immaginando di “avere a che fare” con lei. Mettendo così in campo la possibilità di un secondo sguardo che – proprio come una seconda chiave di lettura – ci può permettere di aprire varchi, che altrimenti rimarrebbero chiusi. 

Ed è allora che Audrey inizia con l’arrivarci anche come un personaggio dalla verve shakespeariana: che fino al momento della strage vive la sua quotidianità di bambina e di ragazza “seguendo” e assecondando la fulgida musa della fantasia. Per esistere e resistere alle brutture di un passato familiare di deplorevole violenza.

“Seguendo” l’invito shakespeariano, lei riesce infatti a vedere, ad esempio, la mamma come una duchessa e le lenzuola, dalle quali mai si separa, come una dorata distesa di grano.

Finché crescendo non entra in scena lui: il computer e la rete di “connessioni” e di “sguardi” offerti dai social network.

Ora la valvola di esistenza e di resistenza del raccontarsi attraverso la lente della fantasia shakespeariana assume nuovi connotati.

Ora la rete social permette al suo personaggio shakespeariano di varcare quel sipario, dove prima era come in solitaria attesa, dietro le quinte.

Ora, pirandellianamente, il suo personaggio in cerca d’autore incontra la complicità pubblica offerta da altri “sopravvissuti”. Anche loro colpiti da vicino da una forma di violenza e in attesa di elaborare un lutto familiare. 

(ph. Manuela Giusto)

Ed è così che, in un continuo e fertile attentato ai rigidi principi di identità e di non contraddizione e di causa-effetto propri della logica, Gabriele Paolocà  ci porta a sentire il fascinoso bilico del nostro stare al mondo.

Lo fa mandando in scena una concatenazione di cortocircuiti drammaturgici, che coinvolgono sinergicamente la regia, la drammaturgia e le liriche (di sua cura), così come la composizione delle musiche (di Fabio Antonelli), lo spazio scenico (di Rosita Vallefuoco), il disegno delle luci (di Martin Emanuel Palma), la drammaturgia fisica (di Carlo Massari), i costumi (di Anna Coluccia).

(ph. Manuela Giusto)

Nello specifico ci ritroviamo coinvolti in cortocircuiti come quello che scaturisce dal contatto tra l’innocua briosità del musical e l’efferatezza rock della tragedia; oppure dal contatto tra l’ingenuità di una bimba mai riconosciuta nel suo esistere e la perversione del suo chiedere (e ottenere) attenzione da patologica manipolatrice narcisista. Ma ci ritroviamo coinvolti anche nel cortocircuito che scaturisce dal contatto tra la realtà da rifiuto organico delle origini di Audrey e la sua abilità trasformativa capace di fare, ad esempio, del suo letto, un vitale luogo d’incontro con la fantasia.

E poi il cortocircuito finale: quello che paradossalmente passa dalla fulvida fantasia shakespeariana, all’eccitante occasione d’incontro offerta dalla postazione pc.

(ph. Manuela Giusto)

Cortocircuito ben visualizzato anche cromaticamente da quel rosa morbidamente immaginifico, che diviene poi brillante e impudentemente shocking lasciandosi attrarre dalla scabrosità del nero. E che ci parla di ciò che “esiste” ma soprattutto di ciò che “resiste” (nel bene e nel male) nel nostro stare al mondo di esseri umani.

Lei, Audrey, un Amleto dei nostri giorni che – in bilico tra l’essere e il non essere – è portata a scegliere di esserci non essendoci.

E se l’inizio dello spettacolo si apriva con una lapidaria condanna alla quale con soddisfazione aderivamo, alla fine dello spettacolo qualcosa vacilla nel giudizio iniziale. Qualcosa è cambiato. E ci arriva la sensazione che essere rigidamente al sicuro nelle nostre idee, ci “acceca” nella capacità critica. E umana.

Questa generosa faglia si verifica perché “nel mentre”, ovvero tra l’inizio e la fine dello spettacolo, Gabriele Paolocà – con la complicità di Claudia Marsicano e di Gabriele Correddu (un intrigante servo di scena nonché fulgente personificazione della musa della fantasia) – attenta costruttivamente i nostri confini difensivi.

Proponendoci , attraverso questa sua indagine drammaturgica, la testimonianza di un possibile “stare insieme aperto”. 

Un fare comunità cioè dolce e devastante, perché racconto di un insieme distinto, che partecipa di un valore che è insieme onere e dono. 

Un fare comunità che si basa sul tenere viva l’attenzione su “ciò” e “chi” è stato e ora non è più. Ma che resta. Grazie alla diponibilità di accettare di parlarne in tanti modi differenti.

Un fare comunità realizzabile attraverso un uso sempre migliore dell’apertura critica offerta dalla cultura. E quindi anche dal Teatro.

Perché, per noi esseri umani, “non è possibile esistere, se non in rapporto all’Altro”.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione a LE BELLE NOTTI – regia Claudio Boccaccini

Una commedia di Gianni Clementi


TEATRO MARCONI

dal 23 al 26 Ottobre 2025

dal 13 al 16 Novembre 2025

La notte cade su di noi
La pioggia cade su di noi
La gente non sorride più
Vediamo un mondo vecchio che
Ci sta crollando addosso ormai

(Ma che colpa abbiamo noi, The Rokes 1966)

Si apre così, con un inno al cambiamento, lo spettacolo scritto da Gianni Clementi per la regia di Claudio Boccaccini, andato in scena ieri sera in un Teatro Marconi stracolmo di giovani, in fermento durante tutta la messa in scena dello spettacolo.

Una rappresentazione che dal 2008 viene continuamente proposta sui palchi della Capitale e che trovarla in scena ora, proprio in questo frangente storico, la rende ancora più necessaria. 

Sono parole, quelle scelte per aprire lo spettacolo in musica, che sanno parlare di un’urgenza di cambiamento. La canzone dei Rokes, definiti “i Beatles italiani”, è divenuta il simbolo di un periodo di trasformazione sociale e culturale, catturando lo spirito di un’intera generazione. Il testo di Mogol, con il suo ritornello interrogativo, riflette la complessità dei tempi, lasciando un’impronta duratura nella memoria collettiva. 

La contestazione individuò proprio nella musica, infatti, un canale particolarmente incisivo per la diffusione dei propri valori. E Boccaccini, in questo suo spettacolo, ne fa un utilizzo appassionato.

Claudio Boccaccini

Il testo di Gianni Clementi porta luce sul diverso senso d’appartenenza che ha animato la contestazione dei valori del ‘68, rispetto a quello che ha caratterizzato la contestazione di trenta anni dopo, quella degli anni 2000. Quella che, qui, è interpretata dai figli di coloro che avevano occupato nel ’68.

Il sipario si apre su una vitalissima scena di coralità, relativa all’occupazione di un liceo romano: il Dante Alighieri. Cifra della regia di Boccaccini è una particolare sensibilità nel rendere le sue messe in scena affollatissime, piene di grazia. Qui di Boccaccini è anche la cura dell’impianto scenico: ricco in fermento, non meno dei pensieri e degli ideali di questi 17 adolescenti. Uno spazio fisico specchio di un luogo della mente.

Siamo alla fine degli anni ’60, un periodo storico di grande fermento trasformativo: in Italia, dopo la ricostruzione successiva alla fine della Seconda Guerra Mondiale, si vive il periodo del “boom economico”. Le condizioni di vita migliorano decisamente, ma non per tutti: persistono infatti disuguaglianze che alimentano tensioni sociali e politiche.

A livello internazionale lo scenario è condizionato dalla “Guerra fredda” che vede contrapposto il blocco comunista, guidato dall’Unione Sovietica, a quello capitalista, con gli Stati Uniti in testa. Gli effetti di questa divisione globale si sentono anche in Italia, dove il Partito comunista (Pci) diventa il più grande d’Europa e inizia, anche negli Stati Uniti, ad essere visto come una potenziale minaccia.

In questo contesto di fermento trasformativo, matura una stagione di proteste e rivendicazioni, animate soprattutto da giovani, che attraversa quasi tutto il mondo.

E’ il Movimento del ’68: il primo fenomeno di protesta globale che contribuisce a creare un’identità collettiva transnazionale, come accade con il movimento anti-guerra del Vietnam. 

Nel crogiolo di questa protesta prendono forma cambiamenti sociali, culturali e politici improntati ad una maggiore democratizzazione del sistema e ad una maggiore libertà di espressione. Incluso un nuovo impulso verso le tematiche femministe.

Ma dove c’è fermento, dove si fa sentire una forte spinta verso la trasformazione, capita di incontrare una forte resistenza da parte di chi invece vuole mantenere lo “status quo”.

Gianni Clementi, autore dalla fine sensibilità “intelligentemente popolare”, partendo dall’humus di questo macrocosmo in fermento, sceglie qui di sagomare il suo guardo sul microcosmo, non meno sintomaticamente effervescente, dell’occupazione studentesca da parte di 17 esuberanti adolescenti di un liceo romano.

Siamo nel dicembre del 1969, più precisamente la narrazione prende avvio il 12 Dicembre del ’69: una data che diverrà indimenticabile, uno spartiacque nella storia della Repubblica.

La prima sensazione che arriva allo spettatore è come – in un caos organizzato quale quello di questa occupazione liceale del ’68 – le diversità individuali risultino sempre evidenziate, per essere poi con naturalezza accolte e ben integrate fra loro. I ragazzi sono tutti molto particolari: ciascuno unico per le proprie fragilità, più che per i propri punti di forza, eppure tutti ospiti di una prima forma di koinè. Tutti immersi in una lingua/cultura comune e unificante che trascende le barriere, per diventare efficace veicolo di comunicazione e di condivisione di valori. 

Opportunamente Gianni Clementi sceglie di sottolineare questa prima forma di comunità utilizzando una lingua calda e ospitale come il dialetto romanesco. Una lingua che mette a nudo la verità di ciascun personaggio e il desiderio autoironico di piacere all’altro, con un’adesione semplice e umana. Concetto efficacemente visualizzato anche dai costumi di scena: tutti diversissimi tra loro, eppure tenuti insieme da un guizzo di rosso.

La successiva sensazione che arriva è il dissidio tra la voglia di condividere tutto, per poi restare sorpresi dalla gelosia: dalla paura della perdita e della rivalità. E’ l’ontologico istinto alla sopraffazione, del quale in questa età – in cui si cerca di “scoprire quale sia il proprio odore”, ovvero la propria unicità – si inizia ad essere consapevoli.

Ma del tutto inaspettatamente, proprio nel momento in cui i 17 studenti iniziano a prepararsi per trascorrere la prima notte insieme, accade un fatto che pone termine al loro modo di immaginare se stessi e il mondo:  arriva la notizia della strage di Piazza Fontana. 

Un atto terroristico progettato per colpire persone a caso e creare paura.

Un attentato terroristico compiuto il 12 dicembre 1969 nel centro di Milano, all’interno della sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana. Causò 17 morti e 88 feriti. Fu definito “il momento più incandescente della strategia della tensione” e diede avvio al periodo stragista, che vide realizzarsi numerosi attentati come la Strage di Piazza della Loggia del 28 maggio 1974 (8 morti), la Strage del treno Italicus del 4 agosto 1974 (12 morti) e la più sanguinosa Strage di Bologna del 2 agosto 1980 (85 morti).

In quel 12 dicembre oltre che a Milano, altre bombe furono fatte esplodere o posizionate in altre città italiane, come Roma, ma senza causare lo stesso numero di vittime che a Milano. Un attacco coordinato, iniziato con altri attentati precedenti, seppur meno clamorosi e dolorosi, effetto di un disegno più grande: la strategia della tensione. Utile per manomettere il clima di fermento trasformativo di una stagione che dal 1960 al 1968 aveva portato a importanti riforme.

Dopo un appassionato ricordo della strage di Piazza Fontana, lo spettacolo traghetta l’attenzione dello spettatore trenta anni più avanti, ovvero agli inizi degli anni 2000. Immaginando che nuovi studenti inizino la loro occupazione proprio laddove quella dei giovani del ’68 si era interrotta. Sono i loro figli.

Lo scenario in cui si affaccia l’anno 2000 è caratterizzato dalla fine della Guerra Fredda e dal relativo emergere di un nuovo ordine mondiale, con gli Stati Uniti come unica superpotenza. Nonché  dalla crisi economica e finanziaria globale, causata da una deregolamentazione dei mercati finanziari e dalla speculazione. Tutto ciò provoca un aumento delle disuguaglianze sociali e della crescita di movimenti di protesta. Si tratta di movimenti no-global: manifestazioni contro la globalizzazione economica e le politiche neoliberiste, poi culminate nei fatti del G8 di Genova del 2001, con scontri violenti tra dimostranti e forze dell’ordine. 

Più in generale, gli anni 2000 – attesi nel timore del “millennium bug” – si caratterizzano per la frenesia in cui si susseguono innovazioni, così come attentati e crisi economiche. 

Fanno il loro ingresso da protagonisti sul mercato – ma soprattutto nelle nostre vite – telefoni cellulari, fotocamere e videocamere digitali, viene lanciato il social network facebook, si diffonde il commercio elettronico, dilaga il fenomeno della pirateria on-line e l’iPhone apre la strada alla produzione e alla diffusione di massa degli smartphone nel decennio successivo.

E come in uno specchio, ciò che accade nel macrocosmo esterno si riflette nel microcosmo dell’occupazione del liceo romano, visto trenta anni dopo. Anche qui ora ad essere protagonisti sono i cellulari, estensioni delle fragili individualità giovanili. A dire il vero i giovani “non ne hanno colpa”: sono i genitori a fare del cellulare un oggetto di morboso controllo della vita dei figli. Invadendola con la loro insoddisfazione, che credono di colmare pretendendo dai figli quello che non hanno potuto realizzare loro stessi. 

In scena non possiamo non notare una nuova generazione senza guizzi creativi, omologata anche nel modo di vestire: più spaventata e fragile di quella di trenta anni prima perché eccessivamente protetta. E travolta dai nuovi modelli di stile di vita proposti dalla TV .

Quasi totalmente perso l’interesse per la politica. E’ una generazione fluida, che ha smarrito la capacità di desiderare e che finisce per “sdraiarsi” nella vaga attesa di un futuro opaco.

Dove alla passione per le divise, simbolo di impegno diretto sul reale, si tendono a preferire i pigiami.

Dove le diversità fanno molta fatica ad essere accolte: ora occorre essere tutti uguali, obbedienti a un certo trend, somministrato dai social, per poter essere accettati.

Non si nota più la caleidoscopica varietà di forme e di colori osservando il loro abbigliamento: vestono tutti gli stessi capi, proposti da un subdolo richiamo capitalista che li vuole massa indistinta: uguali, per potersi sentire al sicuro. Uguali, per non essere pericolosi.

Anche la passione per l’universo femminile perde smalto. E lo stesso mito di Che Guevara, fuoco che bruciava gli animi dei loro genitori, ora viene reso blando e innocuo, condendolo con sonorità che ne pervertono il potente significato simbolico.

Sono giovani più inclini alla sopraffazione e quindi all’uso delle mani, perché è andato perso anche il potere creativo della parola. Ora la tendenza su cui spalmarsi, senza alcuna velleità critica, è quella di interpretare la realtà, non nella pluralità dei suoi significati, ma in base a piatte statistiche elaborate da algoritmi.

Se nell’occupazione di trenta anni prima ci si interrogava e ci si confrontava sui dubbi e sulle diverse (ma comuni) fragilità, ora la cosa più creativa che emerge sono i dubbi di pochi sul senso di fare un’occupazione teleguidata dai genitori.

Ma in un ennesimo momento di sterile stordimento dance, prende forma pirandellianamente fantasmatica – complice un accattivante disegno drammaturgico delle luci – quel desiderio che non riesce a concretizzarsi. Le cui origini possono rintracciarsi in sintomi comportamentali della generazione precedente, la cui insoddisfazione ora passa attraverso il riversamento dei propri desideri in quelli dei figli. A partire dalla scelta dei loro nomi, che già contengono l’imprinting del desiderio dei genitori. 

“Ma ora basta!” – riescono a dire i figli ai genitori.

E le belle notti, quelle che non sono ancora arrivate, ma che possono ancora venire, saranno solo loro.

I giovanissimi interpreti in scena – Angelica Accarino, Corinna Angeloro, Mattia Aquilani, Niccolò Bambi, Iulia Bonagura, Tommaso Bocconi, Margherita Cellini, Chiara Colonna, Alessia De Simone, Luca Materazzo, Ignazio Martorano, Leonardo Pandolfi, Camilia Pujia, Aramis Reibenspiess, Manuel Rosati, Luca Salzarulo, Chiara Silano – brillano per ritmo, sapiente spontaneità e calibrato uso del corpo e del gesto.

La regia di Boccaccini lavora accuratamente nel mandare in scena uno spettacolo dove la continua rottura dei piani – fisici e simbolici – sa tenersi legata alla testimonianza di come un autentico concetto di libertà si regga sul rispetto della coralità.

E se quindi la strage di Piazza Fontana ci ricorda cosa può accadere quando si decide di mettere in atto una strategia di manipolazione della paura, ci ricorda altresì che contro questo tipo di violenza esiste un antidoto: la memoria collettivabase per la costruzione di un futuro plurale e consapevole.

“Non dimenticarmi”: installazione urbana dell’artista Ferruccio Ascari per ricordare le 137 vittime delle otto stragi che hanno segnato la storia italiana durante il periodo della “strategia della tensione“.

Un monito per tutte le generazioni di cui l’Arte – e quindi il Teatro – si fa potentissimo mezzo di comunicazione.  

Per aiutare a capire cosa sia la partecipazione: il contrario dell’indifferenza.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione a L’ANALFABETA – Fanny & Alexander – Federica Fracassi

TEATRO VASCELLO

18 e 19 Ottobre 2025

C’è un confine. Ma non ci separa davvero. E’ uno specchio.


Difronte a questo specchio la luce permette di vedersi riflessi. Ma quando si scende nel buio, in quello stesso specchio vediamo l’altro da noi. 

E’ uno specchio che ci parla della possibilità di entrare in relazione con noi stessi: esperienza che ci avvicina e ci allontana. Da noi stessi e dall’altro. 

Proprio come fa un confine: luogo che permette di separarci, di individuarci, ma anche di incontrarci con l’altro. Perché ogni confine è anche una soglia. E’ anche uno specchio. 



Splendido questo primo approccio alla scrittura di Ágota Kristóf – su traduzione e adattamento di Chiara Lagani – offerto agli spettatori dall’allestimento scenico di Luigi Noah De Angelis (fondatore assieme alla Lagani della Bottega d’arte Fanny&Alexander).

Di De Angelis qui è la cura della regia, delle scene, delle luci, dei video: elementi di una sinfonia drammaturgica declinata – proprio come la scrittura della Kristóf – attorno al sentire del celarsi, pur desiderando attirare l’attenzione dell’altro. Pur desiderando che l’altro si faccia prossimo e che veda “in primo piano” ciò che si tende ad allontanare.


Quella che intravediamo nel buio è infatti una Kristóf che ci si dà “di spalle”, intenta al suo tavolo da lavoro. E’ interpretata da una stupefacente Federica Fracassi, che la drammaturgia delle luci di De Angelis ci restituisce dapprima in un’ inquietante bidimensionalità fantasmatica ma che poi, man mano che il nostro sguardo le si avvicina, si dà in forma e sostanza. Pur continuando a celarsi all’incontro con il nostro sguardo.


Entrati ormai nello specchio, accade che sul confine con questa scena un’altra se ne dischiuda, svelandoci le mani della Kristóf al lavoro. E’ qualcosa di più di una tecnica di meccanica di precisione, la sua. Così come l’incessante sottofondo sonoro, non è solo il rilascio dell’energia accumulata e trasferita nel treno del tempo. 

(ph. Masiar Pasquali)



È una nuova forma di conoscenza. E’ l’iniziale recupero di un’originaria forma linguistica: una lingua fatta di parole, di corpi e di tatto. Una lingua che permette alla Kristóf di nascere una seconda volta, essendo proprio qui, nell’ habitat della fabbrica, raggiunta da una nuova modalità di conoscenza, da una nuova modalità d’apprendere. Se stessa e gli altri.

“E’ diventando assolutamente niente che si può diventare uno scrittore” – la Kristóf farà dire a Tobias, protagonista del suo “Ieri”. Occorre, come è accaduto anche a lei, perdere tutto per poter sentire il bisogno urgente di far scaricare la molla, che “la corona“ del proprio vissuto ha avvolto su se stessa, serratamente. 

(ph. Masiar Pasquali)


E così, ormai definitivamente esiliata dalla sua lingua madre, sarà lasciando che le sue mani vengano guidate da un nuovo sentire, fatto di cura verso i corpi dei componenti degli orologi, che la Kristóf inizierà ad imparare a “scrivere” il suo tempo.

Già a partire dal momento in cui, provando e riprovando a contarlo, inizierà col misurarlo in francese.
Ma anche quando la stessa ripetitività di questa lingua meccanicamente tattile darà asilo alle eleganti figure retoriche del suo sentire. Ad esempio, a quella dell’anafora, che racconta così bene la Kristóf :

Sono svanite le corse a piedi nudi per il bosco sulla terra umida fino alla ‘roccia blu’; svaniti gli alberi su cui arrampicarsi, da cui cadere quando un ramo marcio si rompe; svanito anche Yano che mi aiuta a rialzarmi; svanite le passeggiate notturne sui tetti; svanito Tila che va a fare la spia alla mamma” (da “L’analfabeta”).

E’ attraverso la complice visualizzazione delle “proiezioni” simboliche della Kristòf – artisticamente realizzata da Luigi Noah De Angelis – che lo spettatore ricontatta lo sguardo più intimamente autentico della Kristòf su se stessa. Dove, proprio come le lancette di un orologio, il duplice ruotare delle posture del suo corpo, segna le progressive torsioni della sua apertura emotiva ad entrare in relazione con l’altro da se. 

A questo nuovo approccio auto-conoscitivo, la Kristòf avrà occasione di associare anche un libero uso di un altro tipo di corpo, quello umano: il quadrante del volto quale quadrante dell’orologio. Saranno le sue colleghe di lavoro infatti che, attraverso il proprio indice, le in-segneranno il nome francese di ciascuna parte del proprio volto.

Ed è così che quel rumore continuo delle macchine in fabbrica, che toglie voce alla parola, permette però lo scaturire di un’altra lingua: una lingua mescolata al corpo. 

Di profonda bellezza poetica è la scelta di sagomare l’attenzione dello spettacolo su questa meravigliosa lingua della cura e della tattilità, capace di riattivare in Kristòf un dialogo con se stessa. E quindi con la lingua originaria: quella che Jacques Lacan chiama “lalangue”. Una lingua che non esce fuori dal corpo ma che si mescola al corpo. Una lingua depositata nell’inconscio, che precede quella alfabetica e prima ancora quella del lessico familiare.

Sua, della Kristòf, è infatti una particolare difficoltà – dovuta ai traumi della sua vita – ad entrare “in relazione” con l’altro: dentro e fuori di sé. La dimensione del “due” per lei, anziché sinonimo di relazione, è piuttosto terrore della sopraffazione: l’altro è un nemico da cui difendersi, perché intenzionato ad uccidere. E questo stesso atteggiamento l’accompagna anche nell’apprendimento emotivo di una seconda lingua:

“Parlo il francese da più di trent’anni, lo scrivo da vent’anni, ma ancora non lo conosco. Non riesco a parlarlo senza errori, e non so scriverlo che con l’aiuto di un dizionario da consultare di frequente. È per questa ragione che definisco anche la lingua francese una lingua nemica. Ma ce n’è un’altra di ragione, ed è la più grave: questa lingua sta uccidendo la mia lingua materna” (da L’analfabeta). 

“E’ nella lingua, che si deposita tutto ciò che è familiare – spiega Hans Georg Gadamer – gli usi, i costumi, il nostro mondo abituale, risuonano tutti dai suoni del nostro mondo linguistico. E’ lì che ci sentiamo a casa. Ed è la distanza da questo mondo che ci fa sentire esiliati”. 

Ed è affascinante come questo spettacolo, fin dall’inizio, ci immerga in sonorità che solleticano nello spettatore la suggestione dell’essere in presenza di un diverso habitat, di un diverso mondo emotivo (la cura del sound design è di Damiano Meacci). Un po’ come se la pratica di creazione performativa dell’eterodirezione, da tempo sperimentata con successo dalla bottega d’arte Fanny & Alexander sugli interpreti, fosse sperimentata indirettamente anche sullo spettatore. Portato così ad abbandonarsi, in un invito all’affido, al suono che gli viene versato nelle orecchie, per viversi intimamente lo spettacolo.

(ph. Masiar Pasquali)

“Se l’incapacità di parlare è l’esilio da cui tutti veniamo, vivere significa trovare asilo in una lingua tentando di rendere abitabile la sua estraneità”. Ciò può avvenire nel dialogo – o per dirla con Gadamer  “con quel lento risvegliarsi dello scambio di sguardi, in quel primo tastare, in quel primo balbettare suoni somiglianti alla lingua e infine nelle prime parole». Ed è quello che accade alla Kristòf nell’habitat fascinoso della fabbrica di orologi, occasione per scendere a guardare e a toccare gli ingranaggi del suo vissuto.

Àgota Kristòf (1935 – 2011)

Ne deriverà una scrittura scarnita, eppure essenzialmente preziosa, cifra del suo stile. Assieme ad una modalità d’intesa con il lettore/spettatore cruda, eppure erotica: quella del tenersi vicina nella distanza. Una modalità, dal sapore dell’ossimoro, che ricorda una sorta di imprinting paterno, rintracciabile quando lei racconta che completamento delle punizioni materne era il doversi recare dal padre, che l’accoglieva dicendole di avvicinarsi per poi ordinarle di sedersi lontana.

Sarà questa scrittura a poter dare asilo ai personaggi delle sue opere. E della sua vita, che qui Federica Fracassi incarna con irresistibile inquietudine.

Sarà questa scrittura a riportarla in contatto con il ruggito del suo sé interiore, fino ad avvicinarla consapevolmente alla propria autostima.

Sarà questa scrittura a suggellare la sua sfida: la sfida di un’analfabeta.

Un’incredibile Federica Fracassi mirabilmente restituisce quell’inclinazione vitale della Kristòf, dove la pesantezza di tutto il dolore accumulato s’incontra con la leggerezza di un’ostinazione di infantile stupore. Lei, narratrice di (sue) storie, che espone con la lucidità con cui si spiegherebbero le regole di un gioco. Un gioco serio: tremendo e ammaliante. Così com’è la vita.

Dove si vince tutte le volte che “si scrive un libro”, ovvero tutte le volte in cui si decide di entrare nel buio dello specchio. Nel buio del relazionarsi con se stessi. Come Àgota Kristòf invita a fare in questo libro. E non solo in questo.

“Ogni essere umano è nato per scrivere un libro, e per nient’altro. Un libro geniale o un libro mediocre, non importa, ma colui che non scriverà niente è un essere perduto, non ha fatto altro che passare sulla terra senza lasciare traccia” ( da “Trilogia della citta di K” ).

Damiano Meacci, Chiara Lagani, Luigi Noah De Angelis, Federica Fracassi


Recensione di Sonia Remoli

Recensione de IL RITRATTO DELLA SALUTE – di Mattia Fabris e Chiara Stoppa – Regia Mattia Fabris – con Chiara Stoppa

TEATRO TOR BELLA MONACA

11 e 12 Ottobre 2025

Sa essere dolcissima e travolgente: la sua è un’energia caleidoscopica.

Lei è Chiara Stoppa e, il suo, è uno spettacolo tenero e graffiante. Ma soprattutto rivitalizzante.

Sua la capacità di catturare e restituire, in tutta la tremenda bellezza, un frangente della sua vita di 26enne: quando, ormai lanciata nel mondo delle tournee teatrali, inizia a lamentare una stanchezza cronica, fino a scoprire di essere affetta da una patologia. Per poi guarirne. E farne una memoria, che trascende il tempo e lo spazio. Proprio grazie ad una esplosiva messa in scena teatrale.

Chiara Stoppa

Quello che lei propone è “il suo” ritratto della salute: la storia di chi ha esplorato il concetto di salute, incluso quello di malattia, per poi risalirne. E raccontarlo. Proponendosi quale testimone di uno stare al mondo complesso e vitale. Ma soprattutto, consapevole. E quindi libero e responsabile.

Che parte dall’incoscienza e dalla trascuratezza, passa per il colpo di scena della scoperta di una neoplasia, attraversa la via crucis dei trattamenti e poi arriva ad uno snodo creativo, maturo e informato.

Chiara ci conduce in questa descensus ad inferos con successiva risalita a riveder le stelle, con brio e leggerezza calviniana. Il suo monologo – che tiene per tutto il tempo gli occhi dello spettatore incollati su di lei – è pieno di vita, frullata in un vortice di pazienza, fragilità, risate, lacrime, reunion tra amici, complicità familiari, vergogna, audacia, voglia di protezione. 

Il suo corpo è pieno di verve; la sua voce sa donare ospitalità e unicità a tutti i personaggi della sua storia; i suoi occhioni – che le hanno viste tutte – sono ancora grati e desiderosi di restituire il meglio agli altri. Perché quando sei sul confine e quel brivido ti viene a trovare, e ci stai dentro, poi è diverso: diventa tutto terribilmente seducente. E si ha voglia di condividerlo.

Le basta solo un piccolo tavolino di legno come scenografia, che sa far entrare nello sguardo dello spettatore in tutta la sua fulgida polivalenza. Sua l’abilità di muoversi intorno a questo elemento scenico, rimanendo – anche se continuamente in maniera diversa –  sempre a stretto contatto con esso. Metafora del problema-opportunità sul quale lei dapprima si è seduta, per poi salirci sopra, fino a riuscire a vederlo con lucidità critica nella sua tridimensionalità. Davvero un bel lavoro, la cui regia è curata da Mattia Fabris.

L’idea del “ritratto” – oltre che occasione di dono – diviene per Chiara anche opportunità per continuare ad esplorare la sua identità: sia attraverso il processo della creazione, che attraverso quello dell’osservazione. Lavorando sulle sue fragilità, con creatività – “come reagirebbero i protagonisti dei miei spettacoli di fronte a questa situazione?” – e in continuo ascolto del bisogno di dar corpo e visibilità alla molteplicità dei volti della sua identità: “è come conoscermi di nuovo”. 

Uno spettacolo dall’energizzante drammaturgia, che si origina da una sete di vita mai totalmente appagata, che ci ricorda come il valore della salute si estenda oltre la semplice assenza di malattia. Rappresentando la capacità di vivere pienamente la vita: affrontando le sfide quotidiane, godendo delle relazioni, adattandosi ai cambiamenti. E vivendo sempre a stretto contatto con il Teatro: da attori o da spettatori. Come non ha smesso di fare Chiara, se non nei momenti più invalidanti.

Senza curarsi troppo dei luoghi comuni, propri di certe esortazioni legate alle metafore del “combattere una guerra” o del “giocarsi una partita”, che si aprono a solo due possibilità: quella di vincerla o di perderla. Magari provando invece a interrogarsi sul contesto vitale che ha potuto dare ospitalità alla malattia. Ma, soprattutto, l’invito di Chiara è quello di continuare a vivere, possibilmente senza limitarsi ad attendere la guarigione totale: “respira, mettiti in ascolto di ciò che davvero desideri, e fidati di te”.

Perché è “un percorso” quello che si fa. Al di là della contesa tra vincitori e vinti.


“Il ritratto della salute” è uno spettacolo che fa parte del Piccolo Festival di Drammaturgia Contemporanea LE VOCI DEL PRESENTE 2025, fortemente voluto dalla Compagnia Orsini, con l’obiettivo di dare spazio sia a Compagnie emergenti di giovani artisti che indagano nuovi linguaggi, sia ad Artisti di fama nazionale, che vantano riconoscimenti nel teatro di ricerca. La cooperazione tra “nuovi talenti” e teatranti più esperti sarà certamente occasione d’accrescimento per gli artisti e stimolante per il pubblico.

Come dichiara Umberto Orsini:  “Le Voci del Presente 2025” – Piccolo Festival di Drammaturgia Contemporanea – è una iniziativa fortemente voluta dalla mia Compagnia per far convivere innovazione e tradizione, e superare in tal modo quelle barriere ideologiche che le vorrebbero separate e inconciliabili”.

Il Festival

– che è alla sua seconda edizione –

si svolgerà dal 4 al 31 ottobre 2025 al Teatro Tor Bella Monaca.

I sette spettacoli sono ad ingresso libero ed è vivamente consigliata la prenotazione 

(Teatro Tor Bella Monaca tel: 062010579 – WhatsApp: 3920650683)

Ad arricchire il programma, per il ciclo “Dialoghi al presente”, sono previsti incontri di approfondimento fra gli artisti e un relatore per indagare le tematiche sociali toccate dai testi.

Il progetto è realizzato con il sostegno del Ministero della Cultura – Direzione Generale Spettacolo ed è vincitore dell’Avviso Pubblico Roma Creativa 365. Cultura tutto l’anno promosso da Roma Capitale – Assessorato alla Cultura in collaborazione con Zètema Progetto Cultura.

Prossimo spettacolo

OLD FOOLS

24 e 25 ottobre 2025


Recensione di Sonia Remoli