A COLPI D’ASCIA. UNA IRRITAZIONE – riduzione drammaturgica, regia e interpretazione Marco Sgrosso

TEATRO BASILICA

18 e 19 Marzo 2025

“Ma quanto siamo mostruosi ! “ – sembra volerci confessare, suo malgrado, Thomas Bernhard.

Tutti: è una postura anche dei deboli. La riceviamo a corredo, per natura, non appena gettati al mondo.

Questo testo avviluppante nel suo essere sferzante – e servito allo spettatore con irresistibile gustosità da Marco Sgrosso (attore, regista, pedagogo e co-fondatore assieme ad Elena Bucci della compagnia “Le belle bandiere”) e dal suo complice in musicalità Cristiano Arcelli (affermato sassofonista) – si apre e si chiude con un’innocente debolezza. 

Marco Sgrosso – Cristiano Arcelli

(ph. Luca Bolognese)

Ma così non è. Perché, paradossalmente, anche chi si tiene a distanza, e ben separato (come il protagonista), si scoprirà simile a coloro che depreca. Anche lui “coniuge” – diversamente coniugato – a loro: unito dallo stesso giogo, quello che ci porta ad essere per natura persone mostruose.

Lui però, il protagonista, è  anche “libero” e quindi capace di “mettersi in salvo”. Perché desideroso di trovare respiro a questa “irritante” e soffocante inclinazione, attraverso la scrittura.

“… e intanto correvo, come fuggendo da un incubo, correvo, correvo sempre più velocemente… e pensavo, mentre correvo, che le persone che ho sempre odiato e odio adesso e sempre odierò le maledico ma non posso fare a meno di amarle…e mentre correvo pensavo su questa cena artistica io scriverò, pensavo…non importa che cosa, solo subito, pensavo, subito e immediatamente, prima che sia troppo tardi…”

Eh sì, è davvero difficile entrare autenticamente in relazione con l’altro, investendo la propria libertà e il proprio tempo per sperimentare equilibri sempre nuovi con chi ci è diverso. Non a caso questo è il tema che acutamente il Teatro Basilica ha scelto di coniugare e declinare quest’anno all’interno della programmazione teatrale  2024-2025 intitolata “Persone”, ricordando come il padre della medicina Ippocrate invitasse i suoi pazienti – per conoscere meglio se stessi e quindi per relazionarsi meglio con gli altri – “ad allontanarsi dalla vita quotidiana” prescrivendo loro, oltre al riposo e al digiuno, di vedere almeno tre tragedie e una commedia.

Anche qui in “A colpi d’ascia. Una irritazione” di T. Bernhard, il protagonista da più di venti anni ha provato a “tenersi a distanza” dal mondo dall’ipocrisia di quegli artisti e intellettuali viennesi, soliti riunirsi in un’atroce mondanità. Così come prova, senza riuscirci, a declinare il recente invito dei coniugi Auersberger. E poi, pentitosi ferocemente, prova ancora a tenersi a distanza dal convivio del dopo teatro.

Ma lo fa morbidamente accolto nella sua Bergère, come su un trono. Da dove – apparentemente defilato ma in verità protagonista, com’è la natura stessa della poltrona con la quale entra in simbiosi – non fa che ridursi alla stessa ipocrisia di quegli ipocriti, che critica in quanto tali.

E’ il sax di Cristiano Arcelli ad aiutarci ad entrare ancor più in relazione con il protagonista di questo romanzo. Perché il sax è un’estensione dell’anima ed é sua la capacità di suonare bene sia da solista che in un ensemble. Lo stesso si può dire dell’estensione interpretativa di Marco Sgrosso che pur restituendo la verve egoica del protagonista, ce ne rende insieme la miriade di “variazioni”, proprie del suo (e nostro) condominio psichico.

(ph. Paolo Cortesi)

Sgrosso fa un uso potentemente inquieto degli occhi, a cui lega un efficacissimo e morboso gusto ad assaporare tutti i più reconditi sapori del disgusto, di cui possono essere farcite onomatopeicamente  (e non solo) le parole. Irresistibile, ad esempio, l’insostenibile scioglievolezza del sottotesto insito nel costrutto “bosco d’alto fusto a colpi d’ascia”. 

Ma l’essenza del personaggio di Sgrosso è opportunamente rigida. E solo perifericamente lo abita un brio furiosamente scattante. Tutto in lui recita: finanche i capelli. E’ lui il gallo del pollaio: ce ne parla anche la drammaturgia del disegno luci (curata da Loredana Oddone). E la stessa prossemica.

E ancora il sassofono: strumento meravigliosamente imperfetto. Come la condizione umana, che secondo Bernahard rischia l’autodistruzione se si prefigge un ideale di “perfezione”. “Ogni cosa è ridicola, se paragonata alla morte” – fu il suo commento quando ricevette un premio nazionale nel 1968. Confrontarsi con qualcuno migliore di noi può essere una tragedia: può rendere troppo vulnerabile la nostra intima natura di “soccombenti”.

 “Non necessariamente dobbiamo essere dei geni per poter essere unici al mondo” – fa dire Bernhard al narratore de “Il soccombente”: il primo volume dedicato all’arte della musica della Trilogia delle arti, di cui “A colpi d’ascia. Una irritazione” è il secondo (dedicato all’arte del teatro) e “Antichi maestri” il terzo, dedicato all’arte della pittura. 

Il nostro essere imperfetti è infatti un tema che avviluppa moltissimo Bernhard e che esplora in tutte le sue variazioni, passandole allo spietato vaglio della razionalità.

Quelle persone credono, poiché si sono fatte un nome e hanno ricevuto molti premi e pubblicato molti libri e venduto quadri a molti musei e pubblicato i loro libri presso le migliori case editrici e sistemato i loro quadri nei migliori musei, poiché questo Stato disgustoso ha concesso loro tutti i possibili premi e ha appeso al loro petto ogni possibile medaglia e decorazione, quelle persone credono per questo di essere diventate qualcuno, e invece, pensavo, non sono diventate nessuno”.

O anche:

“…E una simile persona ha il coraggio di sostenere come se niente fosse che lei scrive meglio di quella Virginia Woolf che io, da quando ho cominciato a riflettere sulla letteratura, ammiro e considero la prima di tutte le scrittrici al mondo”.

Il suo feroce odio verso tutti coloro che credono di essere diventati, o di poter diventare, “qualcuno” ci parla di quanto sia importante per Bernhard capire dove trovare comunque una sua personale “identità”.

Una possibile risposta può essere rintracciata nel suo stile di scrittura, che è lo specchio del suo particolare, e quindi unico, modo di stare al mondo: uno stile che si basa sull’ossessione del ritmo quasi maniacale che è la riproposizione del suo ritmo esistenziale. Vitale, anche se è un respirare che si dà in una continua ripetizione di concetti che produce l’effetto di un andamento a spirale, piuttosto che quello di una consequenzialità lineare. Ma la consequenzialità implica “legami”, o almeno “relazioni”, dai quali Bernhard si tiene accuratamente alla larga, traumatizzato com’è dalla sua origine.  Un’origine che vive non tanto nel passato ma nel presente, nell’istante che fugge.

E seppure il mondo risulti così orrendo e le ruminazioni della mente non lascino spazio ad alcun ottimismo, i meccanismi trovati da Bernhard per esprimere il disastro in cui viviamo sono davvero esilaranti.


Uno spettacolo questo di e con Marco Sgrosso che fin da subito, nonostante la complessità dello stile di Bernhard, è riuscito ad avviluppare l’attenzione e il gusto dello spettatore. Che si è poi scatenato avviluppando, a su volta, Marco Sgrosso e Cristiano Arcelli in  un lunghissimo applauso. 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo RISATE DI GIOIA – Storie di gente di teatro – da un’idea di Elena Bucci –

TEATRO VITTORIA, dal 19 al 24 Settembre 2023

Ma quanto è bello un teatro abbandonato ! Di quanto fascino resta impregnato ! Non quello, certo, tipico di una florida attività commerciale. No. Piuttosto quello di un luogo che riesce comunque a farci da perimetro, lasciandoci però liberi di volare. Ancora.

Marco Sgrosso (Umberto) e Elena Bucci (Tortorella) in “Risate di gioia” al Teatro Vittoria di Roma

Soprattutto se a scoprirlo per noi e a disvelarcelo, quasi come archeologi che sanno come muoversi tra le rovine dell’Arte, sono due “dipendenti” del mondo del teatro. Non quelli bagnati dalle luci della ribalta ma delle tinche teatrali: coloro, cioè, che generalmente si trovano ad interpretare solo piccole battute per di più di scarsa importanza nell’articolarsi della storia raccontata. Tortorella e Umberto sono delle tinche sì, ma innamorate perdutamente della vita: quella che fluisce continuamente dentro la magica scatola teatrale.

Marco Sgrosso (Umberto) e Elena Bucci (Tortorella) in “Risate di gioia” al Teatro Vittoria di Roma

In questo epifanico spettacolo, che nasce da un’idea di Elena Bucci – che ne condivide la drammaturgia, le scene, i costumi, l’interpretazione e la regia con Marco Sgrosso e che trova nel disegno luci di Max Mugnai un sublime contrappunto nel riuscire a “portare alla luce” ogni “rinvenimento” dell’anima – tutto accade durante una notte di Capodanno. La notte più magica ed evocativa di ogni altro giorno dell’anno. La notte in cui inevitabilmente si ripensa a ciò che è stato e – titubanti ma anche eccitati – ci si apre ad un futuro tutto da inventare.

Marco Sgrosso (Umberto) e Elena Bucci (Tortorella) in “Risate di gioia” al Teatro Vittoria di Roma

Spettacolarmente la scena si apre nel momento in cui – lontani dagli schiamazzi di fine anno – Tortorella e Umberto, prossimi al rinvenimento archeologico di un teatro diroccato e abbandonato, ne dilatano quel che resta della membrana-sipario. E quasi come entrando dentro il taglio di un quadro di Lucio Fontana, restano investiti da un nuovo “venire al mondo”. Nuovamente partoriti, i due sono invasi da una meraviglia totalizzante: che paralizza e insieme apre al desiderio di volare. L’interpretazione e l’uso della voce di Elena Bucci e di Marco Sgrosso è tale da rendere queste due spinte con palpabile metafisica. E assistervi come spettatore è un’estasi inebriante. La parola e il gesto passano, infatti, continuamente da una sorta di intorpidimento a una divina musicalità. Che rapisce. Perché “niente sta fermo” ma tutto fluisce in uno scorrere eracliteo. Dove anche la musica (è Raffaele Bassetti a curarne la drammaturgia e il suono) si mette a servizio della parola: ne cerca continuamente la radice, la sottolinea, l’accarezza, la segue quasi sussurrando. In un unicum di rara bellezza.

Elena Bucci (Tortorella) e Marco Sgrosso (Umberto) in “Risate di gioia” al Teatro Vittoria di Roma

Finalmente soli sulla scena, Tortorella e Umberto sono tentati di cogliere questa occasione per immaginare di essere, per una volta, ciò che non sono mai stati nella realtà: dei primi attori . In verità però su questa tentazione narcisistica finisce per prevalere ancora una volta la meraviglia. E quella che voleva essere un’esibizione individualistica, si impreziosisce di una sacra voglia di coralità e di altruismo. Perché loro sono l’Arte e non il Teatro. E al pronunciare le parole magiche “ti ricordi !?” vengono invasi – in un furore tra l’apollineo e il dionisiaco – dall’urgenza di riportare alla memoria, e quindi alla vita, tutti coloro che pur nei loro piccoli ruoli artigianali costituivano il “profumo” del teatro. Un insieme di funzioni – dal suggeritore al portaceste – che davano forma ad un micro linguaggio costituzionale del teatro. Un elogio del “piccolo” che piccolo non è. E come tale va salvaguardato, ricordato. Per tenerlo ancora in vita. Perché loro sono “gli antenati” e vanno menzionati non solo quale reticolo di indispensabili funzioni ma anche ricordandone i nomi e i cognomi. Perché “chiamare per nome” salva l’identità e cura l’unicità del valore di ciascuno.

Marco Sgrosso (Umberto) e Elena Bucci (Tortorella) in “Risate di gioia” al Teatro Vittoria di Roma

Ma dalla preziosa rievocazione di Tortorella e Umberto prendono corpo anche i turbamenti degli “stregati” : gli attori, perennemente in bilico tra “sono io o sono il personaggio?” e che proprio in questa fluidità, in questo perdersi, ci restituiscono il meglio di ogni essere umano. Perché il loro non è un semplice “fare finta” ma un essere disponibili a restare “stregati”. Ogni volta. Sono “le belle bandiere”, duttili ad essere invase dal vento della follia: una disposizione d’animo umana e divina, di cui non si riesce a dare una definizione esaustiva e categorica. Così come avviene per l’amore. Perché porta sempre altrove. Ed è la magia di ogni improvvisazione. Gli attori sono un mistero: vivono nella speranza di lasciare una scia, di essere ricordati. Vivono ossessionati dalla memoria: dapprima da quella relativa alla fedeltà al copione e poi da quella che deriva dall’aver saputo tradire il copione stesso. Struttura, rigore ma anche libertà e ribellione. Perché questo è il Teatro. Perché questa è la Vita.

Marco Sgrosso (Umberto) e Elena Bucci (Tortorella) in “Risate di gioia” al Teatro Vittoria di Roma

Uno spettacolo ricco e accurato come un archivio. Vivo, però: pulsante. Così attento al fascino delle minuzie da rapire. Totalmente.

Un teatro di ricerca, questo della Compagnia “Le belle bandiere” che si origina dal desiderio di imparare e di continuare a trasmettere il patrimonio tecnico-poetico dei maestri, in un fluire di esperienze e di pensiero.

Un teatro di incontri e di reciproche illuminazioni, che risveglia energie insospettate e nutre l’immaginazione.

Perché noi siamo chi abbiamo incontrato. E possiamo evolverci a seconda di chi e cosa vogliamo incontrare.

Perché apertura, confronto e curiosità sono necessità imprescindibili, nel Teatro e nella Vita: aiutano a prendere coscienza del proprio valore e dei propri limiti e a guardare il mondo da prospettive sorprendenti. Scongiurando l’autoreferenzialità.

Un Teatro sovversivamente amoroso – quello della Compagnia “Le belle bandiere” – di cui abbiamo un immenso bisogno.  

Marco Sgrosso (Umberto) e Elena Bucci (Tortorella) in “Risate di gioia” al Teatro Vittoria di Roma


Recensione di Sonia Remoli

La tempesta

TEATRO ARGENTINA, Dal 28 Aprile al 15 Maggio 2022 –

Apre lo spettacolo un nero roboare di tuono, punteggiato solo dalle piccole luci delle applique dei palchetti: stelle di un insolito firmamento. L’ alzarsi del sipario rivela una situazione atmosferica e psichica primordiale, dove un conico fascio di luce infilza dense e frattaliche nuvole di fumo. Grida di uccelli anticipano l’ascesa di una gigantesca luna di tulle nero: sipario di nuovi sconvolgimenti.

Il regista Alessandro Serra ci trascina quasi dentro a un quadro, ad esempio “Pescatori in mare” di William Turner, dove l’imbarcazione è simboleggiata dal fluttuare danzato di uno spirito dell’aria. La luna nera accoglie, modellandosi e rimodellandosi, tutto l’impeto del vento e dà avvio alla sua metamorfosi. Si fa liquida, assorbendo anche l’irruenza dell’acqua, fino a scomporsi in onda proprio nell’attimo in cui si avvicina troppo alla Terra. Scroscia il primo fragoroso applauso.

William Turner, Pescatori in mare, 1796

Al termine della tempesta, la scena si apre su un’isola rappresentata da un semplice rettangolo di tavole, dove udiamo Prospero dire di aver scatenato “per puro caso” tutto questo. Prospero, con la sua narrazione, incanta l’amata figlia Miranda, nell’orecchio della quale versa parole che destano l’etimologica meraviglia che la caratterizzano. Suggestivamente shakespeariana la scelta prossemica del regista, che ci propone il colloquio tra i due immaginando Miranda stesa a terra su un fianco, nel massimo della ricezione uditiva: con un orecchio riceve le parole del padre seduto dietro di lei, con l’altro si appoggia ad una conchiglia che le fa come da cassa di risonanza.

Serra ci propone un Prospero quasi nelle vesti di schermidore, teso a proteggersi dalle proprie, più che dalle altrui, intemperanze. Può contare sull’aiuto di una deliziosamente insinuante Ariel, che riesce con tenera eleganza (quasi come la Titty di Gatto Silvestro) a piegarsi e ad infilarsi, anche fisicamente, ovunque lui voglia. Solo lei può plasmare quel che resta della Luna, trasformandolo in un nuovo mare, in coltre o in un elegante abito nel quale ingabbiarsi e poi librarsi.

Da una feritoia di luce prende corpo il luciferino Caliban, che lamenta il passaggio da “re di se stesso” a servo di Prospero. Il rapporto nostalgico con il sacro permea tutto: dall’adattamento al disegno luci. Il valore simbolico della figura geometrica del triangolo (che rimanda alla spiritualità) si ritrova ad esempio in alcuni abiti di Caliban, oppure nei triangolari coni di luce da cui è sempre abitata la scena: questi sembrano conficcarsi in un tempo reale e insieme ancestrale. Un tempo indefinitamente lontano eppure così presente, tanto da vibrare meraviglia. 

Ambiguo e affascinante è il tempo del sonno che qui, come in altri spettacoli di Serra, assume un valore potentissimo. Tempo, sì, in cui il corpo si ritempra e il cervello rielabora tutti i dati e gli stimoli ricevuti durante la veglia. Ma soprattutto tempo che si sposa ad una morte momentanea: Hypnos, dio del sonno, e Thanatos, la Morte, erano fratelli gemelli e figli di Nyx, la notte. Il sonno di Serra si consuma su un fianco (“dando il fianco”, come a rappresentare la massima delle vulnerabilità) e porgendo l’orecchio a ciò a cui di giorno preferiamo non prestare attenzione.

Il tempo del mito torna anche nella rappresentazione dell’Amore: il regista mette in scena oltre all’amore eroticamente romantico di Miranda e Ferdinando, messo alla prova dal padre di lei e rappresentato come un gioco altalenante intorno ad un’asse di legno, anche quello descritto ne Il Simposio di Platone. Coinvolge Caliban e Trinculo: il loro incontrarsi assume la forma di quella fusione indivisibile rappresentata dagli uomini-palla, che solo successivamente furono separati da Zeus. E poi va oltre, coinvolgendo anche Stefano: di nuovo l’allusione è alla forma geometrica “sacra” del triangolo.

Uno spettacolo che sa ammaliarci e turbarci parlandoci della difficile gestione del potere da parte degli uomini: un potere che “nasce dal desiderio e dalla ricerca dell’intero e che si chiama Amore”. E la cui massima espressione è il perdono. E poi, soprattutto, ci parla del potere del Teatro: un omaggio al teatro con i mezzi del teatro, trucchi da due lire che però possiedono una forza che trascende la realtà .

Questo testo, con il quale Shakespeare si commiata dalle scene, sembra porci di fronte alla domanda: siamo davvero liberi di scegliere se vendicarci o perdonare? E la libertà, è davvero ciò che desideriamo? I momenti più speciali dello spettacolo, che danno la cifra della rilettura di Alessandro Serra, forse sono quelli senza dialoghi dove emerge, con una chiarezza che a volte toglie il fiato, lo straordinario modo con il quale gli attori occupano il quadrato della scena: attraverso il potere evocativo di ogni gesto e la forza sovrannaturale della presenza. “E’ lo spirito del teatro” – direbbe Ariel: è l’arte della drammaturgia, capace di plasmare l’immaginario e creare così l’uomo.