Recensione dello spettacolo RISATE DI GIOIA – Storie di gente di teatro – da un’idea di Elena Bucci –

TEATRO VITTORIA, dal 19 al 24 Settembre 2023

Ma quanto è bello un teatro abbandonato ! Di quanto fascino resta impregnato ! Non quello, certo, tipico di una florida attività commerciale. No. Piuttosto quello di un luogo che riesce comunque a farci da perimetro, lasciandoci però liberi di volare. Ancora.

Marco Sgrosso (Umberto) e Elena Bucci (Tortorella) in “Risate di gioia” al Teatro Vittoria di Roma

Soprattutto se a scoprirlo per noi e a disvelarcelo, quasi come archeologi che sanno come muoversi tra le rovine dell’Arte, sono due “dipendenti” del mondo del teatro. Non quelli bagnati dalle luci della ribalta ma delle tinche teatrali: coloro, cioè, che generalmente si trovano ad interpretare solo piccole battute per di più di scarsa importanza nell’articolarsi della storia raccontata. Tortorella e Umberto sono delle tinche sì, ma innamorate perdutamente della vita: quella che fluisce continuamente dentro la magica scatola teatrale.

Marco Sgrosso (Umberto) e Elena Bucci (Tortorella) in “Risate di gioia” al Teatro Vittoria di Roma

In questo epifanico spettacolo, che nasce da un’idea di Elena Bucci – che ne condivide la drammaturgia, le scene, i costumi, l’interpretazione e la regia con Marco Sgrosso e che trova nel disegno luci di Max Mugnai un sublime contrappunto nel riuscire a “portare alla luce” ogni “rinvenimento” dell’anima – tutto accade durante una notte di Capodanno. La notte più magica ed evocativa di ogni altro giorno dell’anno. La notte in cui inevitabilmente si ripensa a ciò che è stato e – titubanti ma anche eccitati – ci si apre ad un futuro tutto da inventare.

Marco Sgrosso (Umberto) e Elena Bucci (Tortorella) in “Risate di gioia” al Teatro Vittoria di Roma

Spettacolarmente la scena si apre nel momento in cui – lontani dagli schiamazzi di fine anno – Tortorella e Umberto, prossimi al rinvenimento archeologico di un teatro diroccato e abbandonato, ne dilatano quel che resta della membrana-sipario. E quasi come entrando dentro il taglio di un quadro di Lucio Fontana, restano investiti da un nuovo “venire al mondo”. Nuovamente partoriti, i due sono invasi da una meraviglia totalizzante: che paralizza e insieme apre al desiderio di volare. L’interpretazione e l’uso della voce di Elena Bucci e di Marco Sgrosso è tale da rendere queste due spinte con palpabile metafisica. E assistervi come spettatore è un’estasi inebriante. La parola e il gesto passano, infatti, continuamente da una sorta di intorpidimento a una divina musicalità. Che rapisce. Perché “niente sta fermo” ma tutto fluisce in uno scorrere eracliteo. Dove anche la musica (è Raffaele Bassetti a curarne la drammaturgia e il suono) si mette a servizio della parola: ne cerca continuamente la radice, la sottolinea, l’accarezza, la segue quasi sussurrando. In un unicum di rara bellezza.

Elena Bucci (Tortorella) e Marco Sgrosso (Umberto) in “Risate di gioia” al Teatro Vittoria di Roma

Finalmente soli sulla scena, Tortorella e Umberto sono tentati di cogliere questa occasione per immaginare di essere, per una volta, ciò che non sono mai stati nella realtà: dei primi attori . In verità però su questa tentazione narcisistica finisce per prevalere ancora una volta la meraviglia. E quella che voleva essere un’esibizione individualistica, si impreziosisce di una sacra voglia di coralità e di altruismo. Perché loro sono l’Arte e non il Teatro. E al pronunciare le parole magiche “ti ricordi !?” vengono invasi – in un furore tra l’apollineo e il dionisiaco – dall’urgenza di riportare alla memoria, e quindi alla vita, tutti coloro che pur nei loro piccoli ruoli artigianali costituivano il “profumo” del teatro. Un insieme di funzioni – dal suggeritore al portaceste – che davano forma ad un micro linguaggio costituzionale del teatro. Un elogio del “piccolo” che piccolo non è. E come tale va salvaguardato, ricordato. Per tenerlo ancora in vita. Perché loro sono “gli antenati” e vanno menzionati non solo quale reticolo di indispensabili funzioni ma anche ricordandone i nomi e i cognomi. Perché “chiamare per nome” salva l’identità e cura l’unicità del valore di ciascuno.

Marco Sgrosso (Umberto) e Elena Bucci (Tortorella) in “Risate di gioia” al Teatro Vittoria di Roma

Ma dalla preziosa rievocazione di Tortorella e Umberto prendono corpo anche i turbamenti degli “stregati” : gli attori, perennemente in bilico tra “sono io o sono il personaggio?” e che proprio in questa fluidità, in questo perdersi, ci restituiscono il meglio di ogni essere umano. Perché il loro non è un semplice “fare finta” ma un essere disponibili a restare “stregati”. Ogni volta. Sono “le belle bandiere”, duttili ad essere invase dal vento della follia: una disposizione d’animo umana e divina, di cui non si riesce a dare una definizione esaustiva e categorica. Così come avviene per l’amore. Perché porta sempre altrove. Ed è la magia di ogni improvvisazione. Gli attori sono un mistero: vivono nella speranza di lasciare una scia, di essere ricordati. Vivono ossessionati dalla memoria: dapprima da quella relativa alla fedeltà al copione e poi da quella che deriva dall’aver saputo tradire il copione stesso. Struttura, rigore ma anche libertà e ribellione. Perché questo è il Teatro. Perché questa è la Vita.

Marco Sgrosso (Umberto) e Elena Bucci (Tortorella) in “Risate di gioia” al Teatro Vittoria di Roma

Uno spettacolo ricco e accurato come un archivio. Vivo, però: pulsante. Così attento al fascino delle minuzie da rapire. Totalmente.

Un teatro di ricerca, questo della Compagnia “Le belle bandiere” che si origina dal desiderio di imparare e di continuare a trasmettere il patrimonio tecnico-poetico dei maestri, in un fluire di esperienze e di pensiero.

Un teatro di incontri e di reciproche illuminazioni, che risveglia energie insospettate e nutre l’immaginazione.

Perché noi siamo chi abbiamo incontrato. E possiamo evolverci a seconda di chi e cosa vogliamo incontrare.

Perché apertura, confronto e curiosità sono necessità imprescindibili, nel Teatro e nella Vita: aiutano a prendere coscienza del proprio valore e dei propri limiti e a guardare il mondo da prospettive sorprendenti. Scongiurando l’autoreferenzialità.

Un Teatro sovversivamente amoroso – quello della Compagnia “Le belle bandiere” – di cui abbiamo un immenso bisogno.  

Marco Sgrosso (Umberto) e Elena Bucci (Tortorella) in “Risate di gioia” al Teatro Vittoria di Roma


Recensione di Sonia Remoli

TRE SORELLE di Anton Cechov – regia di Claudia Sorace

TEATRO INDIA, dal 9 al 14 Maggio 2023 –

Che cosa significa vivere?

Lentamente avanzare nel buio e nel silenzio. Ogni parto, non solo il primo – tante infatti sono le occasioni in cui si può rinascere – implica questo passaggio nel buio: é il “venire alla luce”.  

E così inizia lo spettacolo: con il parto mistico delle tre sorelle.

Lentamente, a fatica, un sipario di buio inizia a fendersi. Sono mani che cercano e aprono una fessura, quasi come il “Concetto spaziale” di Lucio Fontana.

Sono mani che danno vita ad un rito: scomposto, ancora non codificato. Sono mani che tagliano il buio creando, con il primo spiraglio di luce, “un effetto stroboscopico”.

Sono mani che si uniscono e si separano, quasi alchemicamente, creando un nuovo spazio e un nuovo tempo. Sono il linguaggio più primitivo, più efficace. Sono la parola prima della parola. Sono mudra che creano nuovi collegamenti energetici tra i vari livelli di percezione. 

“A Mosca tornerei” : le prime parole. Il primo desiderio. Confuso. E allora le tre “ri-nate” sorelle tornano a consultare le loro mani, come oracoli da decodificare per conoscere se e quando si tornerà a Mosca. 

È nel mondo ancestrale del rito che le “Tre sorelle” dei Muta Imago riescono a trovare una nuova condizione di esistere, nella quale l’assenza dei principi della logica, che permea comunque anche il loro mondo “reale”, riesce qui, nel sacro, a far loro assaporare l’ebrezza e l’angoscia del sentirsi libere di sperimentare di essere se stesse.

Riccardo Fazi (drammaturgo e sound design) e Claudia Storace (regista) de i Muta Imago

In questa nuova dimensione, riescono a spogliarsi dalla sottomissione apatica o meccanica al “reale” fino a contattare finalmente il mondo dell’istintualità. In questo nuovo campo energetico i loro corpi “desiderano” e osano perdere la loro forma rigida per sciogliersi in una danza singolare e plurale. Maschile e femminile.

Anche la pelle più esterna, l’abito, perde i connotati del testo originale; inclusi quelli cromatici del blu, del nero e del bianco, che le irrigidivano in “ruoli” e in una nazionalità ben precisa (i tre colori compongono la bandiera estone).

Qui, prima di tutto, le “Tre sorelle” sono creature in continua metamorfosi (inclusa quella dal maschile al femminile) vestite da abiti disponibili a prendere le forme che il loro sentire, di volta in volta, desidererà assumere.

Il colore è un volutamente indefinito blu elettrico: una sfumatura insieme eterea e abbagliante, divenuta il colore dell’elettricità nell’immaginario comune, dove le molecole di azoto e di ossigeno si eccitano con violenza, rilasciando fotoni visibili ad occhio nudo.

In questa nuova dimensione possono essere “demiurghe” di luce e quindi di nuovi spazi. Magici. Dove la morte non viene più anelata come fuga dalla disperazione impotente ed apatica dal reale ma come preludio ad una nuova ri-nascita. Le “Tre sorelle” se ne vanno dal fondale. Buio. È di nuovo una fenditura a permettere il loro passaggio in un nuovo spazio. Luminoso.

Questo interessantissimo lavoro di ricerca dei Muta Imago, creando nuove sinapsi tra immaginazione e realtà, ci regala una rilettura ipnotica e magica dell’originale cechoviano, complici un uso della luce e del suono davvero ammaliante. Che apre ad una diversa percezione del tempo.


Leggi l’intervista ai Muta Imago su Harpers Bazaar


Recensione di Sonia Remoli

Fontana Project

TEATRO VASCELLO, dal 26 al 30 Aprile 2023 –

In un efficace dosaggio di fedeltà e necessario tradimento dell’eredità di Lucio Fontana, la compagnia di arti performative “NoGravity” porta in scena al Teatro Vascello un visionario prender vita nel tempo dell’opera-simbolo di Fontana “Concetto Spaziale Bianco”. Geniale idea con la quale Fontana vinse il primo premio per la pittura alla Biennale del 1966. 

Lucio Fontana, Concetto Spaziale Bianco

Nell’immaginario collettivo Lucio Fontana è “l’artista dei tagli” ma queste opere furono il risultato finale di una lunga e complessa ricerca: quella di un uomo che cambiò il corso dell’arte contemporanea, superando le limitazioni legate alla bidimensionalità della tela.

Per qualche motivo, un incantesimo forse, le suggestioni che questo spettacolo suscita portano lo spettatore a “rileggere” l’artista. Ad averne curiosità. Ad averne cura.

Lucio Fontana, pittore, ceramista e scultore

Sulla scia della grande tradizione barocca italiana del teatro delle meraviglie, l’artigiano-filosofo teatrale Emiliano Pellisari (fondatore della compagnia NoGravity, diretta insieme a Mariana/P.) progetta e costruisce un apparato straordinario per lo “Studio su Lucio Fontana”, applicandolo alla messa in scena per il Teatro Vascello.

E incanta il pubblico: proprio come si usava fare nelle corti europee del Cinquecento e del Seicento.

Emiliano Pellicani e Mariana Porceddu

Al centro della scrittura filosofica del “teatro delle meraviglie” della NoGravity sta il concetto scenografico e drammaturgico di “specchio”. Un modo di “guardare” che apre alla molteplicità dei punti di vista. E quindi alla “relazione”, all’inclusione, al conoscere e al conoscersi attraverso l’ “Altro”. Ma soprattutto lo specchio è quel “mezzo tecnologico” di cui parla il movimento artistico dello Spazialismo (fondato da Fontana nel 1946): una nuova forma di linguaggio, prodotta da nuove invenzioni. Perché fine della tecnologia è essere lo strumento attraverso il quale l’homo faber può controllare gli elementi naturali. Esplorando, e poi superando, il concetto di “limite”, così centrale nella ricerca di Lucio Fontana.

Una scena dello spettacolo “Fontana Project” di Emiliano Pellisari

Qui al Teatro Vascello, ci si trova, infatti, di fronte ad uno spazio teatrale dove si annulla la fisica della realtà per dare forma ad un esperimento teatrale sognato ad occhi aperti. Fedele a quanto dichiarato da Lucio Fontana nel “Manifesto Tecnico dello Spazialismo” del 1951 (dove si dichiara, nello specifico, che il movimento è la condizione base della materia) la NoGravity utilizza il movimento per dare vita al tempo ma soprattutto per aiutare lo spettatore a percepirlo.

Una scena dello spettacolo “Fontana Project” di Emiliano Pellisari

In una suggestiva relazione tra luce, tempo e spazio, proiettori wood aprono la scena. Dal 1948, infatti, la luce diventa la tecnica più importante per Fontana, in quanto capace di aprire alla percezione dello spazio: da quella al neon, all’effetto delle luci indirette; dalla retroilluminazione alla luce radente, fino ad arrivare alla luce di Wood.

Alla luce wood si mescola una sorta di “racconto onomatopeico” che conduce lo spettatore a rendersi disponibile ad esplorare una dimensione da rituale magico; così come accade ai corpi, che si intravedono dietro la tela: impegnati a sondare il limite della “membrana” bianca.

La “sperimentano” con tutto il corpo, in una sorta di conoscenza tattile. Delicata, frusciante. Senza fretta. Fino a che uno dei due corpi trova il varco del taglio. E da lì, ebbro di un nuovo spazio-tempo, si espande. E come in una croce, si libra e ne gode. È un corpo femminile (una elegantissima Mariana Porceddu): come Eva è lei la prima ad osare in questo nuovo “paradiso”.

Poi è il momento dell’uomo che trasforma l’ingresso (il taglio) in un “habitus” per la donna. Prende avvio così un conoscere e un conoscersi come in una danza, che dà vita a sempre nuovi spazi, nuove forme. Un continuo origami di maschile e di femminile, separati e fusi. Una rete di sempre nuove connessioni.

Una scena dello spettacolo “Fontana Project” di Emiliano Pellisari

In questo fruire fisico e spirituale dell’Infinito, si rende immanente l’intervento trascendente di un coreografo demiurgo: Emiliano Pellisari, che rompe i piani della rappresentazione, permettendo anche a noi del pubblico una partecipazione immersiva. Attivi e passivi nella costruzione di nuove geometrie.

Ma il demiurgo Pellisari è anche colui che taglia la tela e nel farlo continua il processo di creazione e di conoscenza, che vede la forza dilaniante della creazione restare sempre unita alla tentazione continua a tornare indietro. A morire. Per poter rinascere. Come avviene nella vita.

E nel teatro: ora infatti sembrano prendere vita, per l’attività poietica dei corpi sulla tela, dei sipari teatrali che, come cornici fluide, rimandano a ” I Teatrini” di Fontana (1964-1966).

Un esemplare de “I Teatrini” di Lucio fontana

Poi nuovi suoni, più materici, sembrano condurci in sculture d’intrecci d’amore, così simili alle ceramiche di Fontana.

Lucio Fontana, “Ballerina” 1952 ceramica policroma smaltata 

Ma basta una torsione, un voltarsi dei corpi, per uscire da questa nuova cosmologia.

Tornando con i piedi per terra. Ma con gli occhi ancora pieni di Infinito.

Una meraviglia di spettacolo.

Recensione dello spettacolo NOTTUARI ispirato alle opere di Thomas Ligotti – regia di Fabio Condemi –

TEATRO INDIA, dal 22 Febbraio al 5 marzo 2023 –

È un elegante ed asettico agglomerato di “baracche” la scena di un bianco abbacinante, scelta dal poliedrico Fabio Cherstich per ambientare i “Nottuari” dell’intuitivo Fabio Condemi. Ricorda un po’ anche l’agglomerato pensato da Jaques Tati per “Mon oncle“: qui da Condemi però esiste solo la coordinata orizzontale.

La scena ideata da Fabio Cherstich per lo spettacolo “Nottuari” di Fabio Condemi

Anche l’associazione a un cimitero di lussuosi loculi non è da escludere: qui sono gli stessi defunti ad inventarsi qualcosa per essere ricordati.

Una scena dello spettacolo “Nottuari” di Fabio Condemi

Ma non è difficile immaginare la scena anche come un dispiegarsi di locali museali, dove le presenze simil umane sembrano addetti che ivi lavorano, o corpi raccolti e conservati per installazioni. Temporanee.

Una scena dello spettacolo “Nottuari” di Fabio Condemi

Le porte, vie di una im-possibile comunicazione, sono di varia natura: cigolanti, scorrevolissime oppure “tende-quadro” che si aprono come Lucio Fontana fa con le sue tele. Un addetto-guida ci propone un esperimento sul funzionamento della coscienza: tema dell’esperimento, ma anche di tutto lo spettacolo, una possibile anatomia dello sguardo.

La scena ideata da Fabio Cherstich per lo spettacolo “Nottuari” di Fabio Condemi

Etimologicamente “guardare” significa “osservare” solo nell’accezione transitiva. In quella intransitiva significa anche “guardarsi alle spalle, difendersi”. Quindi lo sguardo è oggettivamente sia una soggettiva “apertura” che una soggettiva “chiusura”. E quindi è solo la soggettività dello sguardo a dare vita oggettivamente ad una possibile relazione tra “il bello” e “l’orrore”. Tra ciò che è “mondo” e ciò che è “immondo”. L’ uno è contenuto nell’altro.

Paul Rubens, Medusa (1617)

È il mito di Medusa a parlarcene e a rivelarci che allo sguardo umano piace indugiare anche nell’orrido, nell’immondo. Tale è tutto ciò che ci circonda: la natura stessa. Per questo, la più autentica condizione vitale umana risulta quella della depressione: quella dell’essere schiacciati da ciò che vediamo.

Michelangelo Merisi detto Caravaggio, Medusa, 1598

Tragico diventa “avvicinarsi troppo”. I nostri occhi sono una tragica tentazione. Il nostro corpo non obbedisce al nostro controllo. Non siamo noi a sognare: siamo sognati. I sogni si nutrono di noi come fanno i parassiti. I nostri sogni sono i vermi della testa di Medusa. E ci rapiscono la possibilità di essere “angeli, puri, calmi ed eterni”. Il mondo ci risulta sconosciuto, inaccessibile, non manipolabile. Regna l’incomunicabilità. La nausea. Vivere è insopportabile.

Fabio Condemi, il regista di “Nottuari”

Il rigore inventivo del giovane e talentuoso regista Fabio Condemi ci regala un viaggio dove regna sovrana la sensazione del riuscire ad intravedere il baratro. Il suo è un modo di creare per intuizioni, libere associazioni, viaggi onirici. Interessantissima la sua scelta di ispirarsi alle opere di Thomas Ligotti, definito dal Washington Post «il segreto meglio custodito» della letteratura horror contemporanea, dove l’umanità è tormentata da un panico cosmico generato dalla coscienza, che ci svela quanto sia terribile essere vivi.

Thomas Ligotti

Condemi riesce nel tentativo di mettere in scena di Ligotti anche la sua narrazione sui generis, costituita da riflessioni sparse di una serie indistinguibile di voci narranti. Appunti. Uniche modalità per poter parlare del mondo infero in cui abitiamo, dove nessun rito, nessuna separazione, nessuna regolamentazione di alterità ci separa dal caos.

A Ligotti non interessa la storia, né la Storia: i suoi racconti avvengono in uno spazio virtuale e metafisico, le sue figure sono cavie da laboratorio prive di qualsiasi personalità psicologicamente connotata. Come in Kafka e in Beckett non c’è narrazione ma situazione, non ci sono personaggi ma figure, non c’è evento ma teatro.

Rappresentazione dell’indicibile e sospensione della cronologia: il mondo dentro di noi e il mondo fuori di noi non coincidono. Non si dà nessun senso se non nella nostra (personale e limitata) interpretazione del mondo, di cui l’universo fa tranquillamente a meno.

Gli attori: Carolina Ellero, Francesco Pennacchia e Julien Lambert.

Il regista Fabio Condemi e lo scenografo Fabio Cherstich


Recensione di Sonia Remoli