Anticipa il Melologo sci-fi
la Conferenza filosofico/scientifica
“La locusta non si alzerà più. Realtà aumentata e Archeologia politica”
il critico letterario Andrea Cortellessa riflette intorno ai temi dell’opera di Philip Dick
con la complicità del filosofo Dario Gentili

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IF/Invasioni (dal) Futuro_Legacy*2025
Dodicesima edizione
FESTIVAL
dedicato alle scritture e ai temi sempre più contemporanei della
FANTASCIENZA

Teatro India 25 – 31 agosto 2025
a cura di lacasadargilla / Lisa Ferlazzo Natoli, Alessandro Ferroni, Alice Palazzi, Maddalena Parise
e Gianluca Ruggeri / ARS Ludi
in collaborazione con Roberto Scarpetti
con il sostegno di Teatro di Roma – Teatro Nazionale

Guarda, sono arrivate !
Ma forse erano già qui perché le stavamo aspettando: ne temevamo e ne desideravamo ardentemente l’arrivo. Il ritorno. Che ogni volta è “come uno shock”: perché la loro e’ “una realtà potenziata”, è fantascienza!
Sono le IF/INVASIONI (dal) FUTURO_LEGACY*2025 de LACASADARGILLA

Teatro India
Invasioni e aggregazioni narrative attratte da particolari habitat: in passato dalla bellezza nascosta del “triclivio estivo” di Mecenate; più recentemente da quel Teatro industrial style sul Lungotevere, appassionato dalle sperimentazioni artistiche: il Teatro India, il teatro del futuro. Un futuro che c’è , che è già qui.
Anche altri siti limitrofi sono stati avvistati, scelti e invasi: un centro anziani sul Lido di Ostia e una biblioteca, quella del quartiere Quarticciolo.
La cittadella spaziale di IF ha stazionato infatti al Teatro India da 25 al 31 Agosto. Poi dal 4 al 7 settembre si è spostata sul sito del Centro Anziani del Lido di Ostia, dove si è potuta visitare l’opera corale sonora“Here There and Everywhere”. Resa fruibile a tutte quelle voci antiche che hanno contribuito a crearla. E ancora dal 12 al 14 Settembre IF/INVASIONI (dal) FUTURO ultimerà le sue esplorazioni di quest’anno alla Biblioteca Quarticciolo con IF_ARrchive: una postazione d’ascolto delle migliori registrazioni dei melologhi sci-fi di IF/ Invasioni (dal) Futuro.

La rassegna è curata dalla compagnia lacasadargilla: un ensemble allargato che pensa e crea in gruppo, composto da Lisa Ferlazzo Natoli, Alessandro Ferroni, Alice Palazzi, Maddalena Parise. Insieme a Gianluca Ruggeri / ARS Ludi e Roberto Scarpetti. Con il sostegno dal Teatro di Roma.

L’ensemble lacasadargilla
Quest’anno torna su Roma, e non solo – per il dodicesimo anno – titolandosi Legacy*2025 . Indagando cioè su come il mondo – per come lo conosciamo – ci si riveli, in fondo, un falso. E come invece la fantascienza, rinunciando al criterio di verosimiglianza, riesca a proporsi quale “realtà aumentata”. Le cui potenzialità si rintracciano già nel presente.
Il cartellone risulta ancora una volta ricchissimo di eventi, incentrati sulla fertilità dell’incontro con l’Altro, perché è attraverso l’Altro, ovvero il diverso da noi, che possiamo trovare tracce per conoscere meglio anche noi stessi.

Gli eventi in programma assumono svariate forme: installazioni, spettacoli multimediali e melologhi sci-fi, performance non frontali, workshop, installazioni immersive multimediali site specific, una conferenza tra letteratura e filosofia e un ricco palinsesto radiofonico quotidiano.
Nello specifico, nelle date del 30 e 31 Agosto u.s. la casadargilla ha presentato una nuova versione di “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” (Blade Runner) di Philip Dick.

Philip Dick (1928- 1982)
All’opera di Philip Dick, focus tematico dell’edizione di quest’anno, è stata dedicata anche la conferenza filosofico/scientifica dal titolo “La locusta non si alzerà più. Realtà aumentata e Archeologia politica”. Il 30 Agosto u.s. infatti il critico letterario e storico della letteratura Andrea Cortellessa ha riflettuto intorno ai temi dell’opera di Dick, con la complicità del filosofo Dario Gentili. Proprio dai microfoni di Radio IF: la radio dal vivo della cittadella stellare, curata da Silvio Impegnoso e ospitata negli spazi interni del Teatro India.

Dario Gentili, Andrea Cortellessa, Lisa Ferlazzo Natoli, Silvio Impegnoso
La metafora della “locusta” si presta acutamente a farsi preziosa traccia-legame con uno degli orizzonti del substrato, dal quale prende forma il romanzo di Dick : “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”.
La si rintraccia nel dodicesimo capitolo del “Qoèlet”:
“Ricòrdati del tuo creatore nei giorni della tua giovinezza, prima che vengano i giorni tristi e giungano gli anni di cui dovrai dire: «Non ci provo alcun gusto»; prima che si oscurino il sole, la luce, la luna e le stelle e tornino ancora le nubi dopo la pioggia; quando tremeranno i custodi della casa e si curveranno i gagliardi e cesseranno di lavorare le donne che macinano, perché rimaste poche, e si offuscheranno quelle che guardano dalle finestre e si chiuderanno i battenti sulla strada; quando si abbasserà il rumore della mola e si attenuerà il cinguettio degli uccelli e si affievoliranno tutti i toni del canto; quando si avrà paura delle alture e terrore si proverà nel cammino; quando fiorirà il mandorlo e la locusta si trascinerà a stento e il cappero non avrà più effetto, poiché l’uomo se ne va nella dimora eterna e i piagnoni si aggirano per la strada; prima che si spezzi il filo d’argento e la lucerna d’oro s’infranga e si rompa l’anfora alla fonte e la carrucola cada nel pozzo, e ritorni la polvere alla terra, com’era prima, e il soffio vitale torni a Dio, che lo ha dato”.

Siamo anche qui in uno scenario di progressiva desertificazione della vita: una vita dove arriveranno ad essere dominanti le tenebre e quindi quel “Non ci provo alcun gusto”. Che permea anche il romanzo di Dick e la rivisitazione dello stesso fatta da lacasadargilla, attraverso la forma aperta di un melologo sci/fi, ovvero di una lettura concertata con musica dal vivo ad esso ispirata.
Quel sapore pieno di “gusto” che manca, quando non si riescono più a vedere le stelle: quando si perde la spinta a desiderare che qualcosa avvenga o ritorni.

In uno scenario siffatto la locusta – metafora di una capacità di avanzare nella vita senza paura – qui in Qoèlet si dice che “si trascinerà a stento “ e nel titolo della conferenza si immagina che “non si alzerà più “.
Ma il pessimismo del Qoèlet e quello espresso dal titolo della conferenza sono davvero una rigida fatalità ? O la resilienza a desiderare della specie umana e la relativa capacità relazionale possono ancora vitalizzare la vita?
Magari includendo anche eventuali invasori, senza necessariamente fuggire in altri pianeti?

Perché questo scenario esistenziale allude anche ad uno scenario proprio della mente umana in alcuni frangenti vitali. L’oscurità in cui si convive con la polvere, ma anche con “la palta” (cumuli di oggetti in disuso), ci parla infatti di qualcosa che non è stato smaltito, ovvero rimosso.
Così come efficacemente visualizzato dall’istallazione scenica in cui viene immerso il melologo della casadargilla. Al quale lo spettatore fa accesso dopo aver varcato la soglia fluidamente osmotica, resa dalla restituzione di habitat visivi distopici, proiettati su tracce di presente (gli accattivanti paesaggi visivi sono curati da Maddalena Parise).
Habitat che continuano a riaffiorare e a mutarsi abitando il fondale dello spazio scenico interno, occupato prevalentemente da grovigli di materiale inutilizzato. Il cui invadente accumularsi riduce lo spazio vitale degli umani e degli androidi, confinandoli in un semicerchio lungo i margini del palco.

Perché “ quando non c’è più nessuno a controllarla, la palta si riproduce”.
Così come le cause delle guerra: evento traumatico che ha concorso a produrre questa situazione di desertificazione del paesaggio fisico e psichico, le cui ragioni scatenanti nessuno ricorda. Essendo state accantonate chissà in quale parte della psiche individuale e collettiva. E che alla Polizia di San Francisco non interessa ricercare: anzi. Preferibile è sostituire questa memoria – e più in generale quell’inconscio collettivo in cui tutti ci si ritrova preservando ciascuno la propria unicità – con un nuovo inconscio decisamente più controllabile e quindi manipolabile.
Come quello che si cela dietro al principio morale dell’empatia proprio del culto di Wiburn Mercer: “un’entità archetipica proveniente dalle stelle, sovrimposta alla nostra cultura attraverso una specie di matrice cosmica” dispensatore di un dono , quello dell’empatia, che “rende indistinti i confini tra vittima e carnefice, tra chi ha successo e chi è sconfitto”.
Una simbiosi sterile che rende tutti dipendenti da uno strumento meccanico: “l’oggetto più personale che si possa avere, una prolunga del proprio corpo, lo strumento che ci mette in contatto con gli altri umani, che ci fa smettere di essere soli”.

Uno strumento che con perspicacia nel melologo della casadargilla prende il nome di “organo” dell’empatia. Un dispositivo che al di là dall’essere una “gioviale scossetta elettrica” mira a “fondere” tutto e tutti in un’indistinta “poltiglia umana” facilmente modellabile. Perché, proprio come la palta, toglie identità ad ogni dettaglio paesaggistico individuale.
“…con il tempo tutto ciò che c’era nel palazzo si sarebbe fuso: una cosa nell’altra avrebbe perso individualità, sarebbe diventata identica ad ogni altra cosa, un mero pasticcio di palta ammonticchiato dal pavimento al soffitto di ogni appartamento. E dopo di ciò lo stesso palazzo, senza che nessuno ne curasse la manutenzione, avrebbe raggiunto uno stadio di equilibrio informe, sepolto dall’ubiquità della polvere”.

Una continua e inesorabile riduzione delle diversità ad un’unica identità, ad un unico sguardo sulle cose, ad un unico modo di stare al mondo. Una castrazione vitale facilmente gestibile.
“… la fusione fisica accompagnata dall’identificazione mentale e spirituale con Wibur Mercer aveva avuto di nuovo luogo. Ed era accaduto lo stesso a chiunque in quel momento stesse stringendo le maniglie (dell’organo dell’umore) sia qui sulla Terra che su uno dei pianeti colonizzati.… Isidore continuava a stringere le due maniglie e a provare l’esperienza di un io che conteneva ogni altro essere vivente…”.

Magnifica la restituzione di Isidore da parte di Marco Foschi, nella cui vocalità convoglia e dona tutte le disperate sfumature proprie di un blocco emotivo e insieme di una trattenuta ribellione e ancora il tentativo di mantenere un controllo di fronte ad un’esperienza ritenuta insostenibile.
Va anche detto, peraltro, che esiste ontologicamente un’inclinazione tutta umana a preferire non voler decidere, a preferire non voler scegliere: “ … almeno così aveva sentito dire. Aveva lasciato che quell’informazione rimanesse di seconda mano; come la maggior parte della gente, non ci teneva a farne esperienza diretta”.
Lasciando così margine di manovra a chi di questa inclinazione è ben consapevole e pensa di poterne fare una leva di potere. Ad esempio riducendo le fertili contraddizioni insite in ogni scelta all’illusione di una facile semplificazione, raggiungibile attraverso l’utilizzo di algoritmi.

Molto interessante e’ stato a questo proposito il dialogo, in conferenza, tra il filosofo Dario Gentili e il critico letterario Andrea Cortellessa sulle due ossessioni di Philip Dick: la robotica e la cybernetica.
Lo stesso “organo dell’umore”, solo per fare un esempio, nasce come risposta manipolativa di questa inclinazione umana a delegare ad altri la propria libertà di scegliere. Preferendo all’esplorazione di un orizzonte aperto a varie possibilità – e che come tale potrebbe fertilmente rimanere ragionando di volta in volta “sull’alternativa” – la subdola somministrazione dall’esterno di una sola scelta.
In un certo senso anche dall’ Oracolo di Delfi si correva in soccorso quando ci si trovava nello stato di caos, tipico di un orizzonte ricco di angoscianti possibilità. E si finiva spesso per interpretare l’oracolo alla lettera, come un comando. Sebbene l’indicazione non si desse volutamente in una risposta netta e limpida, proprio per promuovere un lavoro su se stesso di colui che doveva scegliere.
Analogo è il ricorso dei personaggi di Philip Dick alle carte dell’ I Ching: meglio interrogare e ubbidire, piuttosto che interrogarsi e sospendere per il tempo necessario la scelta sulle alternative.

Collegata a questa inclinazione a preferire non stare nell’orizzonte delle possibilità di scelta, esiste un’altra inclinazione che ci caratterizza: l’uomo non può vivere da solo. Ama vivere in compagnia: il nostro stare al mondo è “uno stare con”.
Ma troppo difficile, e quindi pericoloso, si rivelerebbe controllare uomini che si confrontino e si scontrino con le loro menti e con i loro corpi, per arricchire e modificare le proprie idee.
Meglio affidare la funzione di compagnia ad una macchina, ci fa notare Philip Dick: nello specifico ad un animale elettrico per chi ancora si attarda nel lasciare la Terra; ad un androide, per chi si è lasciato convincere ad emigrare su Marte. Con il fine ultimo di far diventare anche gli umani come animali elettrici o come androidi. Infatti nè gli uni nè gli altri sono in grado di rendersi conto dell’esistenza dell’ltro: dello “stare con l’altro”. E quindi della preziosità dell’altro per la propria vitalità. Ignorando per di più anche il piacere, pericolosamente generoso, di desiderare prendersene cura.

Anche per questo si fa di tutto nel romanzo di Dick per dissuadere coloro che tentennano ad emigrare su Marte: il loro “rincuorarsi” già solo per la reciproca presenza prossemica, può divenire troppo pericoloso per un’eventuale unione di gruppo verso il sistema – come ha sottolineato in conferenza il filosofo Dario Gentili.
Non solo: meglio sostituire le parole – soprattutto quelle relative alle emozioni – con dei numeri: così tiepidamente rassicuranti. La parola, invece, è pericolosamente evocativa: può far esistere ciò che viene pronunciato. E per di più apre a vari sottotesti, a varie sfumature di senso.
Ecco perché, ad esempio, sia nel romanzo di Dick che nel melologo sci-fi della casadargilla si evidenzia la propaganda verso un uso univoco dell’espressione “permettersi qualcosa”. Riducendolo cioè ad una mera valenza economica capitalistica, subdolamente etico-merceristica. Interessante in conferenza è stato il collegamento acceso da Andrea Cortellessa con lo scenario proprio del “Capitalismo come religione” di Walter Benjamin, scenario fondato sull’insinuante utilizzo della matrice comune esistente tra il concetto di “debito” e quello di “colpa”.

E poi c’è la TV ad evangelizzare determinati atteggiamenti per rendere gli umani sempre più innocui: un unico canale, un unico programma, un unico presentatore.
Efficacissimo in scena il ciarlare allegro di Buster Friendly “ il più importante uomo vivente, certo se si eccettua Wiburn Mercer”. Entrambi in concorrenza per il controllo della psiche dei cittadini.
E se poi ci fossero ancora delle tentazioni verso un inspiegabile gusto per la diversità, basta digitare i tasti 888: il comando del “desiderio di guardare la TV, qualsiasi cosa trasmetta”.
Come spesso Rick Deckard consiglia a sua moglie Irene: riluttante a modificare il suo sottotono emotivo attraverso la fredda digitazione di comandi numerici compensativi.

Ma in verità lo stesso Rick Deckard – come l’avvincente interpretazione in doppia partitura di Marco Foschi è riuscito a far emergere – non ha soppresso del tutto il suo guizzo desiderante: quella “famelica e gioiosa sensazione di attesa”. Che convive con la sua tendenza alla desertificazione delle relazioni umane, in cui tanto si disciplina. Soprattutto anestetizzandosi attraverso un ossessivo senso del dovere per il lavoro. Fin dall’incipit il romanzo e il melologo ci fanno notare come questo personaggio, in apparenza diligentemente inserito nel meccanismo del sistema, sia abitato in realtà da una tensione di ricerca di sé stesso. Una riappropriazione che non è solo quella del passaggio dal sonno alla veglia – il testo si apre infatti con la descrizione di un risveglio – ma quella dell’uscita dallo stato di fusione indotto dal sistema, all’individuazione di sé come entità unica e irripetibile.

Apaticamente la moglie gli ricorda chi il sistema vuole che lui sia: “sei un assassino al soldo degli sbirri”. Ma qualcosa “stona” dentro Rick. E non basta più digitare i numeri giusti scegliendo di dare priorità al lavoro, rispetto a tutto il resto del suo sentire, per non sentire il turbamento di questa crepa. A compensazione trova però la possibilità di attaccarsi ad un oggetto del desiderio, come invita infidamente a fare ogni sistema capitalistico. Ecco allora che il desiderio di poter acquistare – ed esibire – un animale vero gli ridarà quell’autostima di sé stesso che non ha. Così crede. Ma l’autostima è un dono sociale. Sono gli altri a potercela riconoscere. Sinceramente o ambiguamente.

Succede però – come fertile invasione di un imprevisto – che Rick Deckard si ritrovi ad incontrare androidi inspiegabilmente interessanti, davvero difficili da “ritirare”. Perché innamorati del bello artistico (come Luba Luft), o disposti a confidargli la scandalosa permeabilità dei propri confini (come Phil Resch), che li porta a sognare “di essere riconosciuti capaci” (anche loro) di prendersi cura di un animale.
E poi c’è Rachel (intensamente restituita anche in scena): l’adolescente dagli occhi di femmina, in equilibrio su una sola gamba, come uno splendido fenicottero. Costruita per pensare solo a ciò che serve e a ciò che non serve, non c’è la fa ad aderire totalmente alla seduzione attrattiva della terra. E si mantiene prevalentemente sulle punte. Lei, un apparente vuoto freddo, “un alito dal nulla”.
Perché gli androidi non si riconoscono da quello che fanno o dicono ma “da quello che non fanno e non dicono”: non colgono infatti quando l’altro getta verso di loro “ponti” d’empatia. Qualcosa di ben diverso dalla fusione mistica e annullante del Mercerianesimo

Ma allora che cosa rende “veri”?
La fredda e rigida perfezione della macchina o la pulsante tortuosità del desiderare umano, resa accattivante dall’affacciarsi continuo dell’ imprevisto?
Cosa rende davvero “vivi”?
La sicurezza di riuscire a domare il caos dei propri umori o sentire i morsi della fame di quell’attendere, necessario per conquistare qualcosa di contraddittoriamente avventuroso?
Anche gli androidi, almeno alcuni di essi, non sfuggono dal desiderare – e quindi dal sognare – di riuscire a prendersi cura di qualcuno diverso da sé stessi: un animale, almeno.
Perché ciò che dà sapore alla vita è la difficile tessitura delle trame dell’entrare in relazione con l’Altro.

Isidore, ad esempio, lo scopre lasciandosi pervadere dal potere dell’amore: quella spinta vitale che lo porta a sentire piacere nell’aiutare un altro. Generosamente. “Io mi sto prendendo cura di loro”.
Rick Deckard ancora non lo sa. Ma sarà anche grazie alla complicità del commesso di un negozio di animali veri, che riuscirà a capire che per lui ci vuole un animale “fedele ma anche libero”. Un animale che gli faccia da specchio, insomma. Una capretta.

E poi ci sono gli androidi. Alcuni di essi si scoprono a “sognare” la vita degli umani: la loro generosità capace di altruismo; la loro cattitudine a provare misericordia verso l’altro, loro che sono invece così individualisti.
Addirittura c’è chi sceglie di avvicinarsi alla modalità di stare al mondo degli umani procurandosi deliberatamente un difetto di fabbricazione. Loro, troppo perfetti.
Desiderano sapere, infatti, cosa si sente a nascere, a crescere, a invecchiare.

Ma soprattutto “sognano” la resilienza degli umani: il nostro ostinarci a combattere per riuscire ad ottenere qualcosa che ci sta a cuore. Loro che invece conoscono prevalentemente la rassegnazione.
E l’egoismo: “ non si può dire – osservó Rick Deckard – che voi androidi siate molto bravi a proteggervi a vicenda quando la situazione si fa critica”.

Ma feconda si potrebbe rivelare la sinergia tra l’inclinazione a guardare le cose e le persone “da lontano”, propria degli androidi e l’inclinazione, tutta umana, a confondere la capacità di creare legami propria dell’empatia con la fusione simbiotica. Che riduce quella preziosa distanza, che invece permette di non fondersi in un unico stile di vita, ma di concertare – proprio come in un ensemble – le preziose diversità di ciascuno.

Allo spettatore ancor più che al lettore viene versato nelle orecchie questo messaggio. Il melologo sci-fi di casadargilla e’ infatti immerso in un universo di sonorità vibrazionali: calde e sintetiche; morbide e taglienti. Espressione di diversi modi di sentire, di diverse capacità relazionali; di diversi ritmi di stare al mondo. La scelta di utilizzare strumenti a percussione ci parla poi di un bisogno di entrare in contatto con se stessi, promuovendo una nuova percezione di sé: della propria fisicità’ e insieme di un’acuta urgenza di spiritualità. La cura delle musiche e dei paesaggi sonori è di Gianluca Ruggeri.

Ma quanto sono preziose queste continue ri-visitazioni di testi di fantascienza!?
Come risultano ricche di spunti nuovi, eppure già presenti, che ci solleticano ad interrogarci entrando in esplorazione dentro molteplici verità !
Lo sguardo lungo a cui ci allena da 12 anni lacasadargilla apre un orizzonte più ampio e più ricco di ospitalità verso sempre nuove forme di vita possibile. Verso sempre nuove forme di umanità. Verso sempre nuovi racconti. Tutti da non perdere, tutti da tenere insieme.
Non c’è infatti niente di peggio – come scopre nel finale Rick Deckard – di “una caduta senza fine e senza testimoni”. Avere dei testimoni significa infatti raccontarsi, potendo contare sul fatto che poi qualcuno continuerà a raccontare di noi.
Così da “non scomparire senza lasciare traccia” come gli animali del racconto del “Gigante nello stagno”. Racconto che dà il nome alla versione italiana della raccolta di racconti di fantascienza dello scrittore britannico J. G. Ballard (1930 – 2009). Racconto con il quale il melologo sci-fi de lacasadargilla sceglie di suggellare la propria rilettura del testo di Philip Dick.

spettacolo a cura di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni
adattamento Silvana Natoli
musiche e paesaggi sonori Gianluca Ruggeri
ambienti visivi Maddalena Parise
con Marco Foschi, Tania Garribba, Fortunato Leccese, Alice Palazzi, Stefano Scialanga
e con Elisa Astrid Pennica violoncello
disegno luci Omar Scala
disegno del suono Pasquale Citera
Recensione di Sonia Remoli



















































