In ogni caso nessun rimorso

TEATRO VITTORIA, Dal 17 al 22 Maggio 2022 –

Chi è un sovversivo?

Chi cerca di portare il mondo “ideale” in quello reale?

Chi mette a paragone le possibilità e le ambizioni di una vita “normale” (e normata) e la potente solidarietà collettiva di una vita “rivoluzionaria” ?

Questo, uno dei temi portanti dello spettacolo e probabilmente il taglio che la regia collettiva Borgobonó ha voluto far emergere dal testo originale di Pino Cacucci

Sovversiva è la storia dell’uomo intorno al quale si sviluppa lo spettacolo: Jules Bonnot, l’anarchico fuorilegge francese, leader della banda: la banda dell’automobile. Fu lui il primo ad utilizzare l’automobile per fare furti contro la morale borghese e il crescente capitalismo. Nel corso della storia, veste sempre panni diversi rimanendo però fedele a sé stesso. Incapace di chinare il capo di fronte alle ingiustizie, incapace di tacere davanti ai soprusi. Incapace di mettere la propria felicità e serenità davanti alla pulsione ribelle che lo porta a lottare, anche se forse spesso in modo scomposto, contro il sistema capitalistico borghese che opprime lui e tutti coloro che sono come lui.

Sovversiva la stessa etimologia del termine “automobile”, così centrale nella storia e in questo adattamento. Nasce, in pieno pionerismo automobilistico, come sostantivo di genere maschile ma, come aggettivo, accordabile in entrambi i generi. Solo più avanti prevarrà in Italia, soprattutto su impulso di Gabriele D’Annunzio, l’attribuzione del sostantivo al genere femminile.

Sovversiva la scena, metamorficamente in evoluzione (o in rivoluzione), dove il bancale diventa il modulo scenografico per comporre e scomporre scene. Come in un’officina, dove si assemblano e dividono le parti di auto ma soprattutto come metafora dell’esistenza e simbolo di un progresso di accresciuta vitalità senza “morale”, destinato ad una parabola discendente di progressiva dissoluzione. 

Sovversiva l’idea di introdurre come quarto attore un violoncello: lo strumento ad arco più lirico ed espressivo. E il più simile alla voce umana, che una virtuosa Adele Pardi sa rendere vibrante, tintinnante, rimbombante, echeggiante. 

Elegantemente sovversiva la coreografia dei movimenti scenici , curati da Annalisa Cima, altro elemento fondamentale di questo adattamento. Rapidissime successioni si snodano in un crescendo che poi svanisce, evidenziandone il senso del veloce trapassare. Rotazioni, linee di forza, linee di fuga rendono il dinamismo dell’apparizione e la simultaneità della percezione, della quale si ricava l’essenza, lo stato rivelativo, reso da cerchi e triangoli. Un continuo fluire, come teorizzato dal filosofo francese contemporaneo Henri Bergson

I tre giovani attori Elisa Proietti, Andrea Sorrentino, Mauro Pasqualino (e la già citata Adele Pardi dal vivo al violoncello) risultano accordatissimi tra loro e regalano al pubblico una prova di notevole valore interpretativo ed energetico, misurandosi sui temi, sempre attualissimi, del teatro civile. Ma soprattutto ci lasciano un messaggio: “non esitare, fare, perchè così in futuro nessuno ci potrà recriminare che non abbiamo almeno tentato”.

Glory Wall

TEATRO VASCELLO, Dal 10 al 15 Maggio 2022 –

Immaginate un muro bianco che delimita il proscenio: una quarta parete che chiude, e quindi censura, la scatola teatrale, impedendo la visione e l’interazione globale con l’attore. Nessun regista, ne’ tecnici a garanzia.

Sopperite alle mancanze con le risorse della vostra immaginazione: dove vedete un singolo foro da cui sbuca una bocca aperta o un braccio, immaginate l’intero corpo dell’attore. Moltiplicate per mille un foro e con l’aiuto della fantasia createvi uno spazio dove corpi pulsanti, interagiscano liberamente.

E, a questo fine, permettete a quel che resta del Coro di entrare in questa storia nelle vesti di un prologo digitato sul muro e di ascoltare con benevola pazienza i paradossi che vi saranno presentati. E con molta arguzia giudicarli.

Questo è il potere dell’arte: ” …perché uno spettacolo sulla censura, la censura lo censura”. 

“Quando la Biennale Teatro 2020 mi ha commissionato uno spettacolo sulla censura, mi sono trovato davanti ad un muro” – dice Leonardo Manzan, il regista che con “Glory Wall” si è aggiudicato il premio Miglior spettacolo.

Manzan non sceglie mezze misure ma la pura provocazione, il muro contro muro, alludendo così al corpo contro corpo. Utilizza cioè un approccio che parte dalla serietà, passa per la ridicolizzazione e arriva alla dissacrazione, al fine di poter vivere e far vivere davvero il tema della censura.

Da qui la scelta di coprire, chiudere, censurare il palco con un muro sulla quarta parete per spostare tutta l’attenzione sul pubblico. Nascondendogli di proposito il corpo dell’attore e negandogli la garanzia del lavoro di creazione ordinata del regista e dei tecnici.

Scegliere di proporre uno spettacolo che si svolge dietro ad un muro, significa iniziare a sperimentare la necessità di perdere, almeno un po’, il controllo sulla situazione. Il risultato che arriva è quello di sentirsi più importanti e più liberi: effetti collaterali della censura.

Uno spettacolo “scomodo” nel senso letterale del termine: dove si mette in difficoltà sia l’attore che lo spettatore. Un gioco sì ma un gioco serio, radicale, intelligente, ironico. Perché quando si censurano gli altri, si sta censurando anche se stessi.

E allora tutto si riduce a frammentarietà: il corpo si riduce a piccole parti anatomiche (bocche, dita, braccia, ecc.) che interagiscono con il pubblico da liberi frammenti di vuoto: i piccoli fori del muro. Senza la libertà, caotica e quindi anche angosciosa, del vuoto creativo che scatena l’immaginazione, la fruibilità della realtà si riduce a un’ordinata sterilizzazione.

“Ma noi, vogliamo fare davvero quello che possiamo?”. Vogliamo immergerci nel caos, aperti, in attesa di essere accesi? “Qualcuno ha da accendere?”

Recensione dello spettacolo VENERE E ADONE – Siamo della stessa sostanza di cui sono fatti sogni – di e con Roberto Latini –

TEATRO VASCELLO, Dal 6 all’8 Maggio 2022 –

L’amore nasce dal caso e può diventare un destino. Per un caso Venere s’innamora perdutamente di Adone: per baciarla, suo figlio Cupido, le si avvicina troppo e per errore una freccia parte dal suo arco. È un amore non ricambiato quello di Venere ma che ugualmente altera il respiro, fa ansimare, produce pensieri ossessivi, mette le ali, fa cadere.

Roberto Latini

Di ferro sono le ali immaginate dal regista Roberto Latini, collegate ad una cassa toracica anch’essa di ferro. Così come l’arco, che nasce da una fusione con l’asta del microfono, metamorfico oggetto di scena. Questo è il suo Cupido: appesantito, rigido e insieme languido. Innamorato della sua mamma. Quasi geloso. Anche lui patisce un amore non ricambiato, anche lui ansima e parla dell’angoscia della libertà, come nella celebre aria di Händel:

“Lascia ch’io pianga

Mia cruda sorte

E che sospiri la libertà!”

E che sospiri

E che sospiri la libertà!”

Roberto Latini

I suoi piedi poggiano su di “un indegno tavolato” ridotto, o amplificato, a una minuscola pedana ospitante la sua tecno-orchestra, replicante ossessive, lacerate e distorte sonorità. È il tormento dell’amore, che ci trova e ci lascia disarmati. Senza parole, senza un senso: “mi è cresciuto dentro un vuoto … come mai, non so dirlo, non so dirlo, ancora”. È l’ambivalenza del potere dell’impotenza, che ci strugge e ci affascina. E ci sorprende a dire sempre “ancora”. Così si chiude il primo capitolo del racconto del regista.

Roberto Latini

Latini immagina che ciascuno dei personaggi coinvolti nel mito desideri raccontare la propria narrazione al pubblico. La ricerca di questa intimità è necessaria, urgente e sentita da tutti, anche dal cinghiale che ferì mortalmente Adone. Con un guizzo di genialità, Latini lo fa entrare in scena nelle vesti di Riccardo III, cinto da una corona di freccette. È l’antagonista dell’arciere Cupido. Lui che pare centrare ogni bersaglio che si prefigge ma che alla fine resterà vittima di una freccia altrui.

Pronuncia il suo più famoso monologo con il ritmo trotterellante di un solitario cinghiale prima che punti il bersaglio e galoppi lungo la sua rossa e rettilinea traiettoria (qui immaginata come un lungo red carpet) ad azzannarlo. Latini ci restituisce l’immagine di un uomo immerso nel risuonare ossessivo della parola RE, suffisso di altre parole, come ad esempio re-spiro, anche lui, a suo modo, vittima di un amore negato, a causa delle sue forme.

E allora, quasi come in un quadro di Chagall, scopriamo un uomo leggero nella sua pesantezza, maneggiare un arco come un violino e viceversa. Un uomo sprofondato e sollevato nel seguire ossessivamente la parola MI, se stesso: mi accorgo, mi fingo e poi però ti spingo, ti infilzo, ti piango, t’ammazzo. E ti abbraccio.

Al suo uscire entra un tipo in vestaglia di seta, con fantasie giapponesi (ovviamente sempre il metamorfico Latini) . Si siede su un Chesterfield gonfiabile. Ai suoi piedi una glacette di plastica (un secchio), in distratto ascolto di una specie di karaoke di pensieri, proiettati su schermo. Una lettera d’addio. La brutta copia di un commiato d’amore. È Adone. Dietro di sé Venere, che lo invoca da un giradischi che suona:

“… c’è solo mezza luna stanotte

Niente può accadere

Perfino lontano da niente succede qualcosa.

Ma non qui…”. 

“Siamo della stessa mancanza di cui sono fatti i sogni”. E quella che vediamo nel capitolo successivo è una Venere ridotta quasi alla condizione di barbona. Coperta di stracci, ha perso l’eleganza del suo incedere. E trascina un carrello della spesa in cerca di cibo. Perché l’amore è mancanza: Eros nasce in una notte d’amore rubato da Penia (la dea della povertà) a Poros (colui che è la Via), dormiente ubriaco, compagni nel mendicare briciole, alla fine di un banchetto al quale non erano stati invitati. Qui, nel carrello della spesa di Venere, c’è solo qualcosa di secco, ricordo o speranza di ciò che poteva essere vivo e pulsante.

Il racconto si chiude con il capitolo intitolato “Chiunque”, affidato ad un cane telecomandato: in amore noi non abbiamo nessun controllo di noi stessi. Qualcun altro ci accende. E ci spegne.

Roberto Latini. Foto ©Masiar Pasquali

Roberto Latini non smette di sorprendere come interprete e come regista. La sua è una sensibilità piena di estro che incanta e scuote la platea (di giovanissimi).


Recensione di Sonia Remoli

Le canzoni di Pasolini

TEATRO VASCELLO, Dal 21 al 24 Aprile 2022 –

Intermittenze del cuore: così Pier Paolo Pasolini amava definire le canzoni.

Lo conosciamo come poeta, innanzi tutto, ma la sua vastità d’interessi lo portò ad essere anche romanziere, saggista, regista cinematografico, autore teatrale, sceneggiatore, pittore. E poi c’è la musica. Pasolini suonava il violino ed ebbe un periodo di infatuazione totalizzante per la musica, in Friuli, mentre infuriava la Seconda Guerra Mondiale. Era ossessionato da Johann Sebastian Bach, nella cui musica trovava il punto di congiunzione tra i due poli di una dialettica della passione, opposti e contraddittori ma sempre in relazione. Sarà poi negli anni Sessanta, ormai cittadino di Roma, a dedicarsi alla scrittura di testi per canzoni: quelle che lui definisce “poesia folclorica” e che raccoglie nella poderosa antologia della poesia popolare “Canzoniere italiano” . Ma è solo l’inizio di un lungo percorso di collaborazioni e di esplorazioni musicali.

In occasione dei 100 anni dalla nascita, dopo i debutti a Casarsa e a New York, dal 21 al 24 Aprile il Teatro Vascello offre la possibilità di rivivere la magia delle “intermittenze del cuore” pasoliniane attraverso lo spettacolo-concerto “Le canzoni di Pasolini”: quattordici pezzi arrangiati dal Maestro Roberto Marino e interpretati a tutto tondo da Aisha Cerami e da Nuccio Siano, che ne firma anche la regia.

Le appassionanti e appassionate voci dei due protagonisti, sono accompagnate dal Maestro Roberto Marino al pianoforte, da Andrea Colocci al contrabbasso e da Salvatore Zambataro alla fisarmonica e al clarinetto. Sul fondale, la video proiezione, realizzata dal regista cinematografico Daniele Coluccini, fa scorrere preziose immagini di archivio che raccontano la vita di Pasolini.

La figlia del grande scrittore e sceneggiatore Vincenzo Cerami, amico di Pasolini e divulgatore delle sue opere, definisce questi brani “vere e proprie storie: “cantare Pasolini significa interpretare dei ruoli”. In queste serate i ruoli che lei interpreta sono quelli di prostitute: donne di strada ma ribelli e forti. “Tecnicamente queste canzoni sono una sfida – continua l’interprete – prevedono pathos e delicatezza. Essendo canzoni-personaggio occorre lavorare molto sui cambi di registro”. Nel caso del “Valzer della toppa” il tono trasmette tutta la forte energia vitale del mondo di borgata:

“Me so’ fatta un quartino | m’ha dato alla testa, | ammazza che toppa!… An vedi le foce! | An vedi la luna! | An vedi le case!… Me so’ presa la toppa | e mò so’ felice!”. 

Ne la “Ballata del suicidio”, invece, la vitalità e l’energia del mondo di borgata sono ormai soppresse e la voce della donna è schiacciata e rassegnata, incapace di reagire alla durezza della vita e al mutamento che investe e cancella il suo mondo. 

Ad aprire lo spettacolo la voce del poeta nei versi della sua “Meditazione orale” sulle note di Ennio Morricone, in un’incisione del 1970 realizzata da Roma Capitale. Poi, l’avvio dello snodarsi della selezione dei brani, a testimonianza del profondo rapporto di Pasolini con la musica. Canzoni scritte per il cinema, canzonette scritte per puro piacere, poesie messe in musica. Alcuni brani sono molto famosi come i titoli di testa del film”Uccellacci e uccellini”, interpretati dalla voce di Domenico Modugno, così come il brano “Che cosa sono le nuvole?” . Tutti portano la firma di grandi musicisti: da Morricone, Hadjidakis e Umiliani a Endrigo, Modugno e De Carolis.

L’interpretazione e gli arrangiamenti dei quattordici brani (tra cui cinque inediti del Maestro Roberto Marino) riescono a trascinare perdutamente lo spettatore, attraverso il percorso storico-emozionale proposto da questo incantevole spettacolo-concerto. 

Così, nel pieno rispetto del valore che Pasolini attribuiva al pensiero musicale, dove alla musica e ai suoni annidati nelle parole risiede la capacità di oltrepassare i confini visibili del reale, evocarne il mistero e condurre l’espressione a un livello così complesso e profondo da fargli dire : ” …vorrei essere scrittore di musica, vivere con degli strumenti dentro la torre di Viterbo che non riesco a comprare ….”.

Vite a scadenza

TEATRO BELLI, Dal 12 al 14 Aprile 2022 –

Cosa sarebbero gli uomini senza la morte? Senza l’attesa angosciosamente incerta del suo progressivo o balenante incedere? 

Il rosso di un immenso quadrante d’orologio infiamma la scena buia: è immediatamente riconoscibile la densità della cifra registica di Claudio Boccaccini. Un’umanità di sagome in controluce si impossessano dello spazio scenico: “partorite” ed espulse dal liquido amniotico, iniziano a rianimarsi con una gestualità dapprima ancora acquatica ma poi automatica, sfociante in una corsa fine a se stessa. Individuale.

Boccaccini, seguendo il progetto di Elias Canetti (Premio Nobel per la Letteratura nel 1981), mette in scena una possibile umanità a cui è stata tolta l’incertezza del momento in cui la morte vincerà sulla vita. Un’umanità “partorita” con una data di scadenza: chi nasce sa quando morirà. Ma a quale prezzo?

Il numero di anni di vita sostituirà i nomi propri e sarà vietato comunicare agli altri la propria età effettiva. In un mondo dove tutti conoscono il tempo a loro disposizione, dove è sospesa ogni imprevedibilità, dove solo le “cifre alte” possono concludere qualcosa, le persone non sentono più l’urgenza di comunicare, di pensare, di amare. E rischiano di morire di noia.

Si cercano ma la loro è una vicinanza solo spaziale, sottolineata per contrasto dalla selezione musicale, calibrata dal regista Boccaccini, che arriva a rendere insospettatanente laceranti dilemmi etici ed esistenziali. Andando oltre il racconto, il regista infatti punta in primis all’azione drammatica, che arriva al cuore del pubblico prima ancora che al cervello.

In questa operazione è sostenuto efficacemente sia dal suo gruppo di interpreti, dei quali non si può non apprezzare la sintonia che li plasma, nonché il prezioso binomio di freschezza e insieme di profondità d’interpretazione; sia dall’efficace contributo del tecnico delle luci e del suono Andrea Goracci.

Esalta la chiusura dello spettacolo la forza di un Coro, dove la musica originale di Alessio Pinto si coniuga ad un testo che, con una pirotecnica miscela di perfidia, tenerezza, rabbia e surrealtà, ci propone l’idea di un’umanità armonicamente forte e gioiosa.