Serata teatrale SHAKESPEARE SUL TITANIC – un libro di Giuseppe Manfridi

TEATRO BASILICA

11 Marzo 2025

“Nulla finisce tutto s’interrompe” : è il pensiero che ispira l’estetica di Giuseppe Manfridi, uno dei massimi drammaturghi italiani, autore di commedie rappresentate in tutto il mondo. 

Con questo stesso pensiero Manfridi “suggella transitoriamente” l’ultima pagina della sua nuova creatura editoriale: il testo in due volumi “Shakespeare sul  Titanic” (Edizioni Efesto), presentato ieri sera al Teatro Basilica di Roma.

E quale luogo poteva meglio incarnare questo pensiero estetico – “nulla finisce tutto s’interrompe” – se non quel centro d’accoglienza culturale, porto d’incontri imprevedibili, qual è il Teatro Basilica, che nasce proprio sulle fondamenta di una basilica “interrotta” ? Difronte all’area in cui sorgeva la più antica basilica romana, oggi occupata dalla basilica manierista di San Giovanni in Laterano. 

Lì, da anni, si era “interrotta” anche la gestione di un teatro. Riavviata e ricostruita poi come Teatro Basilica grazie all’entusiasmo e all’impegno dell’attrice Daniela Giovanetti, del regista Alessandro Di Murro, del collettivo Gruppo della Creta, di un team di artisti e tecnici. E con la collaborazione di Antonio Calenda. 

Un perfetto binomio d’intenti, quindi, quello tra l’estetica di Giuseppe Manfridi e la filosofia del Teatro Basilica: un magnifico intreccio di volontà e traiettorie, che amplia una comunità. I responsabili del Teatro Basilica, infatti, si sono fatti compagni di viaggio di questa nuova avventura, che ieri sera è stata festeggiata tra amici e che ora prenderà il largo.

Un viaggio nel viaggio: “Shakespeare sul Titanic” è esso stesso un libro-viaggio, che permette al lettore di navigare lungo rotte inaspettate, che ci parlano di un insolito Shakespeare. Ma è anche un libro che sa far scegliere al lettore quando fermarsi a largo: per lasciarsi andare a meditazioni filosofiche sulla giovinezza, ad esempio. Sul nulla, magari. Oppure lasciandosi trascinare da quello “sporgersi“ proprio della propalazione, che trova  terreno fertile anche in quella “teologica laica” chiamata Letteratura.

Un viaggio, questo “Shakespeare sul Titanic”, che è quindi una somma di imprevedibili viaggi. Anche perché l’orizzonte d’esplorazione è tale da ravvisare in ogni partenza sempre qualcosa che l’ha preceduta; così come in ogni approdo non la fine di un viaggio. Ma ancora uno “sporgersi” oltre.

Concetto-metafora splendidamente visualizzato da quella prua del Titanic e da quel balcone di Verona – installazioni dell’artista Antonella Rebecchini – che ieri sera hanno agito il palco del Teatro Basilica assieme ai tre compagni di viaggio di Manfridi, rappresentanza del Teatro Basilica: Antonio Calenda – tra i più prolifici registi italiani nonché supervisore artistico del Teatro Basilica; Daniela Giovanetti e Alessandro Di Murro co-fondatori del Teatro Basilica oltre che, rispettivamente, attrice e regista.

“Shakespeare sul Titanic” viaggerà nel tempo e nello spazio onorando antiche rotte e sperimentandone di nuove, grazie all’elegantissima versione cartacea alla quale se ne affianca una tecnologica, scaricabile dal sito della casa editrice Edizioni Efesto. Una preziosa occasione di lettura ma anche di scoperte, di curiosità inedite, di legami insospettabili, di approfondimenti, di ricerche. E ancora: i primi 100 acquirenti della versione cartacea riceveranno i due volumi che costituiscono l’opera in un prezioso cofanetto, confezionato artigianalmente da Alessandro Scura.

Il sapiente e accattivante racconto di Manfridi sulla genesi dell’opera – gravitante intorno alle rievocazioni delle forme assunte nel tempo dalla storia di Romeo e Giulietta – è stato gradevolmente intervallato da un’appassionata presentazione del regista Antonio Calenda e da un’intrigante lettura dell’attrice Daniela Giovanetti, che con la sua interpretazione ha cesellato alcuni passi dell’opera di Manfridi.

Una serata piena di gioia, quella di ieri, che forse – come sostiene Giuseppe Manfridi – è iniziata già prima e che proseguirà “sporgendosi” oltre noi.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo UNA STANZA AL BUIO di Giuseppe Manfridi – regia Claudio Boccaccini

TEATRO BELLI, dal 19 al 24 Novembre 2024

Il mistero è ciò che meglio ci racconta come individui: la sua penombra è quell’habitat fisico e psichico in cui riescono ad esprimersi le molteplici personalità che ci rappresentano. 

Differentemente da quanto accade alla luce del sole, dove invece scegliamo di palesare qualcosa di selezionato: il nostro “dover essere”.

Non siamo ciò che facciamo, ma ciò che ci capita di fare. 

Non è la volontà a parlare di noi, quanto piuttosto l’istinto, le nostre pulsioni più personali – dirà la Donna in scena (una Giulia Morgani efficacemente enigmatica).

E’ il sapiente disegno luci del regista Claudio Boccaccini ad immergerci in questo nostro “poter essere“, che ama stare in penombra e che così efficacemente ci dispone a prestare ascolto al mistero che ci abita. Quel mistero che, in una geniale esemplificazione, vedremo rappresentato in scena.

Ed è così che dalla penombra iniziano a prendere corpo delle voci: una donna insiste per poter entrare in un appartamento dove da poco si è consumato un delitto. L’uomo che è in possesso delle chiavi e che potrebbe gestire la situazione non riesce invece a prendere una decisione. Continua a ripetere “preferirei non entrasse”. E poi, ancora senza troppa convinzione, l’accompagna. 

Entrambi non hanno un nome. Opportunamente l’autore Giuseppe Manfridi – uno dei massimi drammaturghi italiani, autore di commedie rappresentate in tutto il mondo e che già in occasione della prima rappresentazione di questo testo (andata in scena al Teatro dell’Orologio esattamente trenta anni fa) ottenne un grande successo – non affida loro un solo nome. Perché ciascuno di loro, tutti li racchiude. L’Uomo e la Donna in scena infatti parlano di noi, in quanto rappresentano parti della nostra psiche.

L’Uomo (un irresistibilmente nebuloso Stefano Scaramuzzino) ha quel qualcosa di tapino disneyano e di inquietantemente inafferrabile, che per certi versi ricorda il Bartebly di Melville. 

La Donna invece è come se parlasse una lingua diversa: è misteriosamente raffinata, osserva tutto preferibilmente di nascosto, ama indossare guanti. Rappresenta il linguaggio proprio della nostra parte più inconscia.

Nonostante la sua apparente mediocrità, anche l’Uomo odora di clandestinità. Quella che cela è una profumazione più subdola rispetto a quella indossata dalla Donna, dove invece si intuiscono note di un sensuale afrore.

Entrambi, anche se in modo diverso, ci parlano del nostro essere mistero anche a noi stessi. Un mistero che, pur zelantemente nascosto, in certi frangenti manifestandosi violentemente perché troppo a lungo represso – infrange ogni illusione di integrità e di univoca identità personale.

L’appartamento in questione, quello dove insiste a voler entrare la Donna, prima che del delitto si macchia dell’onta dell’ “estraneità”: con il suo essere stato “messo in vendita” (anziché continuare a seguire la  prassi della successione di padre in figlio) ha rotto l’ordine sul quale per l’Uomo si reggeva il condominio. Il suo.

Un condominio che qui non è infatti solo un luogo fisico ma anche il luogo della psiche dell’essere umano, dove “l’estraneità” è rappresentata dal “diverso”, ovvero da ciò che risulta “straniero” al nostro “dover essere”.

Un’ estraneità di cui anche la Donna, spudoratamente, si fa interprete: lei – che non a caso – ha sempre sulla bocca la parola “piacere”, risulta profondamente destabilizzante per Lui che si definisce “uomo dai pruriti improvvisi e ostinati”.

Lei è infatti colei che insiste: atteggiamento proprio del nostro desiderare. E poi è colei che tentenna nel “restituire” ciò che custodisce (qui, la spilla e il tappo): materiali “rimossi”, necessariamente da recuperare per superare e quindi risolvere un evento traumatico (qui, il delitto). 

Ed è così che lo spettatore – per effetto dell’intrigante sinergia tra l’estro drammaturgico di Giuseppe Manfridi e l’estro registico di Claudio Boccaccini – si ritrova ad addentrarsi in quella misteriosa “stanza al buio”, attraverso una modalità insolita ed accattivante : quella di un Thriller.

Lo spettacolo resta in scena al Teatro Belli fino al 24 Novembre p.v.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione della presentazione-spettacolo del libro LE FAVOLETTE DI WITTGENSTEIN di Giuseppe Manfridi –

EDIZIONI EFESTO, Collana Satyrikà, 2024

Libreria Koob, 9 Novembre 2024

Prolungati in uno stato di frizzante sospensione, ci siamo lasciati guidare negli spazi favolosamente reali, immaginati dagli interrogativi preferibilmente insoluti di Giuseppe Manfridi, uno dei massimi drammaturghi italiani, autore di commedie rappresentate in tutto il mondo. 

Suoi complici in questa presentazione filosoficamente poetica, il rinomato critico teatrale e giornalista Marcantonio Lucidi e Dario Pisano, esperto di italianistica e divulgatore dei classici della letteratura italiana.

Marcantonio Lucidi

Dario Pisano

Il ritrovo per questa Festa del Pensiero era nella sala sotterranea della Libreria Koob di Piazza Gentile da Fabriano, 16: una libreria in purezza, deliziosamente accogliente.

Ingresso della Libreria Koob

L’occasione era quella di poter incontrare, in un felice tardo pomeriggio del novembre romano, l’autore del libro “Le favolette di Wittgenstein”: Giuseppe Manfridi.

Come anticipato dal tratto sagacemente raffinato dei disegni di copertina di Antonella Rebecchini, Manfridi immagina – esaudendo un desiderio irrealizzato di Wittgenstein – di proseguire il suo “Tractatus logico-philosophicus” con una raccolta di piccoli componimenti umoristici. 

Antonella Rebecchini, Giuseppe Manfridi

“Le favolette” sono infatti delle brevi e vivaci creazioni dove Manfridi narra in maniera sapientemente semplice verità fascinose, perché digressive. L’allontanarsi momentaneamente e in maniera mirata dal prevedibile, rende infatti l’ascolto e la comprensione disponibili al piacere irresistibile dell’imprevedibile. E la verità racchiusa nella favoletta se dapprima predispone al sorriso, poi indugia ad aleggiare nella mente e nel cuore di chi legge, in una sorta di solletico metafisico.

“Le favolette” non essendo ancora state scritte da Wittgenstein sono ciò che davvero è degno di importanza per Wittgenstein.  Quello di Manfridi è un Wittgenstein “picaro del positivismo” affascinato dall’incomprensibile. Non comprendere, infatti, al di là dell’essere un deficit, è un fecondo stato d’animo che permette alle cose di restare belle. Attraenti.

Ludwig Wittgenstein

Veniamo a conoscere così che “la favoletta” preferita da Marcantonio Lucidi, critico dal guizzo fertilmente polemico, è quella del “francobollo”, massimo esempio di come l’arte di Manfridi riesca a contattare in un istante ciò che il ragionamento logico catturerebbe solo dopo una lunga trattazione. 

Dario Pisano invece è impareggiabile nel suo fiorire dentro le dissertazioni attraverso improvvisi slanci, nei quali propone citazioni poetiche imprevedibilmente calzanti. E tutte rigorosamente a memoria.

Perché la fertilità è sempre nell’imprevedibile, nel non ancora conosciuto. E “Le favolette di Wittgenstein” di Giuseppe Manfridi ne sono un luminoso esempio.

Giuseppe Manfridi

Da questa momentanea interruzione della Festa del Pensiero – perché come ama ricordare Manfridi “nulla finisce, tutto s’interrompe” – siamo usciti pieni di stupore, guardando alla realtà così com’è: un luogo delle meraviglie, da immaginare più che da catturare. 

Una realtà indissolubilmente legata al desiderio che qualcosa accada.

Qualcosa di miracoloso.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo L’ UOMO CHE VOLO’ OLTRE SE STESSO di e con Giuseppe Manfridi – regia di Claudio Boccaccini

TEATROSOPHIA, dal 17 al 19 Maggio 2024


Quanto bisogno abbiamo – per natura – di essere visti e letti dagli altri, commentati e quindi oggetto di un loro racconto?  

Quanto bisogno abbiamo di essere ricordati per qualcosa di unico e quindi deviante dalla normalità?

Quanto ci fa sentire davvero vivi tutto questo?

E cosa succede invece quando si verifica un deficit di vitalità e quindi di visibilità, preda di quell’ “autunno del nostro scontento” che ad esempio da anni affligge l’indolente e fedele Wakefield e la sua silenziosissima moglie, che sceglie di abdicare anche ai piaceri insiti nel dialogare per rinchiudersi in una muta e fedele osservazione del marito?

Succede che ci s’impoverisce sempre più del nostro potere erotico-immaginativo, finendo per non trovare più le parole per poter definire ciò che davvero desideriamo comunicare, o che sospettiamo danneggiarci. “La sua mente – dice la moglie di Wakefield nel racconto che, del fatto di cronaca, ne fa Nathaniel Hawthorne – s’intratteneva in lunghe e oziose meditazioni che non tendevano a nessun fine o non avevano forza sufficiente per raggiungerlo, i suoi pensieri erano di rado abbastanza risoluti da trovare espressione nelle parole”. E’ quello che succede quando ci si uniforma al sistema dei sistemi, rinunciando a perdere la nostra singolare individualità, le nostre aspirazioni, in cambio dell’essere riconosciuti in una massa di “normalità omologata” .

E il vero danno è che non trovare le parole per dire ciò che ci interessa davvero comunicare – ovvero non ascoltare il nostro demone creativo – fa smettere di esistere i desideri. Perché questo è il potere della parola e quindi della scrittura: far esistere le cose. Se non si hanno le parole per dirle, le cose che pensiamo non trovano realizzazione.

Giuseppe Manfridi (ph@Grazia Menna)

Per questo lo spettacolo che Giuseppe Manfridi costruisce come un gustosissimo gioco per intarsi dinamici, che sanno incastrarsi e insieme lasciarsi liberi di saltare oltre se stessi, risulta prezioso. Anche politicamente, in quanto veicola e rende fruibilissimo il concetto di “comunità”. Che al di là di una perversa vocazione all’omologazione, sa invece accogliere quei preziosi salti, quelle devianze dalla dritta via, che regalano gusto e nutrimento al nostro stare al mondo.

Ce ne parla Wakefield con quella sua “disposizione all’inganno che di rado aveva prodotto effetti maggiori di qualche piccolo segreto che teneva celato” ma che un venerdì di ottobre il suo demone persuade a far si che prenda la forma di un vero e proprio salto lungo 20 anni.

Ce ne parla Bob Beamon con il suo “chi lo sa! “: carma, dalla magnifica apertura ad uno sterminato salto dì possibilità, sussurratogli dal suo demone (racconta Manfridi) e da lui ripetuto come in trance prima di confezionare in 7 secondi un salto lungo 8 metri e 90 centimetri.

Ce ne parlano i piedi scalzi e il pugno in guanto nero di Tommie Smith e John Carlos, rispettivamente medaglia d’oro e di bronzo nei 200 metri piani ai Giochi Olimpici del 1968. Salti (ovvero coraggiosi gesti simbolici contro il razzismo) lunghi il tempo della squalificazione dalle gare successive. 

Ce ne parla, facendo un salto di pochi giorni e di pochi metri dal villaggio olimpico del 1968, la mattanza di Tlatelolco nella quale furono massacrati migliaglia di studenti con le loro famiglie per aver osato chiedere pacificamente il rispetto dei loro diritti.

E ce ne parlano ancora altri interessantissimi personaggi della letteratura, che la magia di Giuseppe Manfridi andrà a contattare.

Giuseppe Manfridi (ph@Grazia Menna)

Questo racconto dei racconti intessuto da Giuseppe Manfridi  ed interpretato – sotto il cesellante sguardo registico di Claudio Boccaccini – con una complicità fascinosamente dotta, predispone il pubblico a gustare la succulenza dell’enunciazione del ricamo di storie, che si dispiegano richiamandosi incredibilmente tra loro, in un intendersi di analogie.

La speciale sinergia artistica che si sprigiona tra Claudio Boccaccini, Giuseppe Manfridi e Antonella Rebecchini – estrosa autrice delle immaginifiche installazioni sceniche – è tale da riuscire a far “volare oltre se stesso” questo fantastico spettacolo.

Claudio Boccaccini

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Recensione di Sonia Remoli

IL PREMIER di Giuseppe Manfridi – regia a cura di Piero Maccarinelli

TEATRO ARGENTINA, 12 Febbraio 2024

In occasione del terzo appuntamento della Rassegna promossa dal Teatro Parioli “LINGUA MADRE -Il teatro italiano non fa schifo – drammaturgua italiana a confronto tra commedia e dramma“, su gentile concessione del Teatro di Roma, il Teatro Argentina ha ospitato la rappresentazione del testo di Giuseppe Manfridi “Il Premier”. Sul palco un cast d’eccezione diretto da Piero Maccarinelli: Gabriele Lavia, Stefano Santospago, Galatea Ranzi, Duccio Camerini, Federica Di Martino e Mersila Sokoli.

Il drammaturgo Giuseppe Manfridi

Fin dalle prime battute – rese con la mirifica intimità di un flusso di coscienza dal Giovanni Cravero di Gabriele Lavia – la raffinata eleganza della scrittura di Giuseppe Manfridi inizia a diffondersi nell’aria e a solleticare l’immaginazione di chi ascolta . Tanto che al vivido entrare in battuta degli altri personaggi della vicenda - Stefano Santospago, Galatea Ranzi, Duccio Camerini, Federica Di Martino e Mersila Sokoli – lo spettatore si ritrova irrimediabilmente invischiato nel fascino della narrazione. 

È quello che può manifestarsi quando una preziosa drammaturgia si fonde sinergicamente alla plausibile voluttuosità di voci che sanno farsi corpo. E trovano la chiave per entrare ed aprire quel “non detto” – di cui è così ricca la drammaturgia di Manfridi – che si cela nelle aree della coscienza dove si vanno a depositare certe parole, certe immagini, certi dubbi, che il dialogo “aperto” non riesce ad accogliere. Ma che gli interpreti rendono rintracciabili quali micro-dettagli, ad esempio, all’interno della prossemica delle vocalità. Oppure facendo emergere quelle particolari manomissioni narrative che – interferendo con il discorso previsto – ne rivelano il discorso reale.

Gabriele Lavia

Cura e capacità interpretative necessarie in un testo dove il tema della gestione del potere risulta fondante assumendo così tante declinazioni, sia sul versante politico che relazionale.

Su tutte l’eccitazione irrinunciabile di Cravero a sentirsi dire da tutti “lo faccio” ma che per essere tale deve confrontarsi con la tensione a non farsi scoprire nella sua fragile natura vitrea. Perchè proprio da questa tensione – che lo avvicina pericolosamente alla morte – lui si rigenera. E così può, come in un perverso rituale di purificazione, ‘ri-candidarsi”: ritornare candido. E farsi rappresentare dallo slogan: “Cravero nonostante tutto”.

Il regista Piero Maccarinelli

Questa interessante Rassegna, promossa da Piero Maccarinelli, Lingua MadreIl teatro italiano non fa schifo – drammaturgua italiana a confronto tra commedia e dramma è dedicata alla drammaturgia contemporanea italiana rappresenta un’occasione per riflettere sul tema e rimuovere quegli ostacoli che impediscono una fruizione popolare della scrittura scenica di qualità, così come accade in molti altri Paesi. Un veicolo per realizzare un osservatorio attivo di pubblico partecipe, che sia da stimolo e confronto tra le diverse espressioni del fare teatro oggi.

L’ultimo appuntamento si terrà il 26 febbraio 2024 ore 21.00 – TEATRO PARIOLI –

L’ORA NOSTRA

di Sergio Pierattini

regia a cura di Piero Maccarinelli

personaggi e attori

Giada – Sandra Toffolatti

Mauro – Emanuele Salce

Milvia – Claudia Coli

Enrico – Francesco Bonomo

Oscar – Noli Sta Isabel

La morte improvvisa della proprietaria di un’importante azienda vinicola Toscana riunisce i due figli che da anni vivono uno, Mauro a Milano e l’altro, Giada, in Cina.

La natura dell’improvviso decesso non è chiara.  Quel giorno nell’azienda era presente solo Oscar, fedele tuttofare filippino della defunta.

Costretti da una bufera di neve a una convivenza forzata, nell’attesa che si possa celebrare il funerale, figli e i loro coniugi preparano l’organizzazione delle esequie in un crescendo di tensioni che assumono, con il passare delle ore, tinte tragicomiche.

I sospetti che iniziano a gravare sul domestico troveranno conferma nella scoperta del testamento e in una sconvolgente rivelazione.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo OTELLO di William Shakespeare – regia di Andrea Baracco

TEATRO QUIRINO, dal 6 all’11 Febbraio 2024 –

“Sono intorno a noi, in mezzo a noi. In molti casi siamo noi …”

Con un prologo che potrebbe essere anche un epilogo, l’estro del regista Andrea Baracco con acuta provocazione sceglie di orientare il pubblico in sala disorientandolo. Sì, quella che va in scena è una finzione; ma anche no.

Il regista Andrea Baracco

Se è vero – come è vero- che ciò che può l’animo umano è questione che ci riguarda tutti indistintamente, allora ha senso permettersi di additare qualcuno ? In che rapporto sono il vero con il falso ? È proprio vero che il dolore sia così inutile ? 

In un’evocativa scena indistintamente bianca (curata da Marta Crisolini Malatesta), che allude alla Venezia del ‘500 ma non solo, prende vita quella dinamica così tragicamente umana da sorprendere in trappola molti dei protagonisti in scena: quella di cosa arriviamo a fare quando sentiamo che ci viene a mancare il riconoscimento del nostro ruolo sociale ed esistenziale. 

Per Iago è la sua mancata promozione, che vede ingiustamente favorito Cassio; per Roderigo è l’amore per Desdemona, che quest’ultima ricambia però verso Otello; per Brabanzio è il non essere più riconoscito nel ruolo di padre da una figlia risolutamente incline a riconoscere rispetto a un padre ma di più ad un marito e obbedienza a nessuno; per Otello è il lacerante sospetto di perdere la propria virilità e il proprio valore sociale a seguito del supposto tradimento di Desdemona. Una sensazione che può diventare umanamente insopportabile: un po’ un “essere presi a calci come asini che non servono più”. 

Viola Marietti (clown), Federica Fracassi (Iago) e Federica Fresco (Bianca)

Baracco nella sua messa in scena – sinergica alla traduzione e alla drammaturgia curate da Letizia Russo – onora l’eredità dello Shakespeare fine conoscitore, anzi “inventore” dell’umano, come lo definì Harold Bloom: nessuno prima di lui, infatti, ha saputo intercettare e tradurre attraverso l’esercizio del linguaggio e del pensiero le sfumature caratteriali di così tante inclinazioni umane.

E anche qui, in questa tragedia, Shakespeare ci rivela quante forme diverse può assumere la medesima dinamica psicologica nella quale restano incastrati vari personaggi. Tra loro, Iago è l’unico a mettere in campo una reazione più complessa, più maleficamente raffinata. Pur essendo abitato dall’ossessione del suo odio per il Moro, dimostra non solo di gestire magnificamente la sua ansia – così da non cadere preda dei cattivi consigli della fretta – ma soprattutto è l’unico a riuscire a non prendere le distanze dal suo nemico, perversamente escogitando il modo di continuare a servirlo servendo in verità solo se stesso. Un mettersi a servizio, il suo, non dell’amore, della stima e del rispetto verso il suo superiore ma esclusivamente del proprio personale odio, tremendamente vendicativo, nei suoi confronti.

Viola Marietti (clown), Ilaria Genatiempo (Otello) e Federica Fracassi (Iago)

Il taglio registico scelto da Baracco è tale da andare oltre “la questione del genere”: in scena fa salire solo interpreti femminili proprio per rendere manifesto come tali dinamiche più che essere legate a un genere sono la risultanza di sempre nuove combinazioni e dosaggi del maschile e del femminile, che costituzionalmente abitano la psiche di ognuno di noi.

L’effetto sullo spettatore è decisamente spiazzante come è naturale che sia, abituati e viziati qual siamo ad avere solo uno sguardo sull’argomento. E intenzione (dichiarata) del regista Baracco è proprio quella di saggiare le nostre certezze, metterle alla prova, verificarle. Suscitare in noi la fertilità del dubbio e far sì che ci accompagni come saggio consigliere dello stare al mondo. Per vedere oltre le apparenze, per cogliere le meravigliose e tragiche sfumature della nostra natura.

ph Gianluca Pantaleo

Federica Fracassi è mirabilmente “a servizio” dello Iago di Baracco: ci restituisce tutto il godimento – che arriva fino all’eccitazione parossistica – del subdolo celarsi per avvelenare e così manipolare chi ancora non conosce se stesso. Metereologicamente divina nel tessere trame narrative come piogge piuttosto che come tempeste, si manifesta “terapeutica” come l’oracolo di Delfi.

Federica Fracassi è Iago

E autenticamente proprio così vogliono essere i personaggi shakespeariani, nelle cui vene scorre il male assieme al bene; il tragico assieme al comico; il dolore assieme alla terapia. È l’incantesimo della scrittura shakespeariana che Baracco riesce a esplicitare, a rendere fruibile. Perché – come sottolineava Harold Bloom – Shakespeare è un drammaturgo analitico e molto subdolo e man mano che procede nella sua carriera, quello che intende dire al pubblico supera di gran lunga quanto invece è contenuto nei versi. 

Cristiana Tramparulo (Desdemona) e Ilaria Genatiempo (Otello)

Davvero suggestiva poi la scelta registica di ambientare lo spettacolo in una scena poeticamente “vaga”, universale, e portare tutto il sapore, gli odori e i suoni della Venezia della seconda metà del ‘500 dentro i personaggi, dove le donne ad esempio godono di uno status particolare, unico nel mondo di quel periodo. Shakespeare ne viene a conoscenza leggendo il libro di viaggio di Thomas Coryat “Crudezze” scoprendo così donne dal temperamento consapevole e provocante che alla maggiore età potevano rinunciare alla patria potestà, aprire attività commerciali e pochi anni più tardi laurearsi. Donne curiose, esultanti per quel cosmo agitato e imperscrutabile che era la Venezia del ‘500 e così ben descritto nel testo di Giuseppe Manfridi “Shakespeare family”.

Ilaria Genatiempo (Otello), Cristiana Tramparulo (Desdemona) e Francesca Farcomeni (Emilia)

Ricco in fascino e in efficacia il clown interpretato da Viola Marietti: sacro per le sue polarità e per le sue acrobatiche metamorfosi. Per il suo far ridere e far piangere: lui stesso un po’ pierrot di decadente bellezza bohémien. Dapprima quasi marionetta nelle mani di Iago, poi libero di esprimersi nella sua autentica natura.  

Interessante anche la Bianca interpretata da Federica Fresco che porta in campo la tempestosa natura dell’eros e ricorda l’audacia nel mostrarsi delle donne dei pittori del ‘500 veneziano, dal Tiziano al Giorgione.

Giorgione, “Laura”, 1506

Baracco sceglie una recitazione in cui il corpo delle interpreti – di un’incantevole femmilità androgina – diventi linguaggio: quello proprio di ciascun personaggio. Corpi parlanti lingue e vissuti diversi tra loro. Eppure uguali. Corpi che traducono parlando agli occhi.

Sul palco un cast accordatissimo: Iago / Federica Fracassi; Otello / Ilaria Genatiempo; Desdemona / Cristiana Tramparulo; Cassio / Flaminia Cuzzoli; Brabanzio – Emilia / Francesca Farcomeni; Roderigo / Valentina Acca; Clown / Viola Marietti; Doge – Ludovico – Bianca / Federica Fresco.

Andrea Baracco ci consegna uno spettacolo avvincente fino a far male. Crudo e magnifico. Intimo e catartico.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IN TRENO IN TRE NO di e con Giuseppe Manfridi

TEATROSOPHIA, dal 13 al 15 Ottobre 2023 –

È versatile, di grande smalto, spettacolare. Davvero brillante. Di più: spumeggiante. Insomma di grande effetto. 

Giuseppe Manfridi, uno dei massimi drammaturghi italiani, come un autentico acrobata cammina sulla punta delle parole. E stupisce per l’agilità funambolesca nel trovare sempre nuovi equilibri. Stupisce il suo piroettare osando numeri complessi di giocoleria e di agilità linguistici.

Un autentico equilibrista: abile nel “camminare” in situazioni difficili, destreggiandosi con maestria o con temerarietà. 

Giuseppe Manfridi

I suoi “fuochi pirotecnici” si originano dall’applicazione di un’arte umana speciale: quella del fare luce attraverso la complicità delle ombre. Con un taglio fantasmagorico che sorprende e incalza in maniera serrata. È fascino, è incanto. È magnetismo.

Un piacevolissimo divertimento che ci apre: che inaspettatamente ci fa espandere. Sublimando le tensioni accumulate nel corso della giornata. Perché sì, questo tipo di divertimento, è anche terapeutico.

Particolare dell’installazione scenica di Antonella Rebecchini

È la bellezza dei pensieri insolitamente connessi. Che escono dalla vorticosa mente dell’acrobata Manfridi e come per magia si stagliano alle sue spalle, visualizzati oniricamente dal fascino enigmatico dell’installazione dell’ artista Antonella Rebecchini.

È l’epifania di una sacra investitura: un’aureola che ossessivamente si replica e si rinnova, generata da un caos che visionariamente prende forma attraverso l’istallazione della Rebecchini. 

L’installazione scenica di Antonella Rebecchini

Un binomio artistico, quello tra Giuseppe Manfridi ed Antonella Rebecchini, efficacissimo. Vicendevolmente valorizzante. E quindi vincente. Due mondi, quello della parola e quello dell’immagine tridimensionale, in continuo dialogo, legati in un movimento circolare che generosamente si lascia attraversare.

Lo spettatore, rapito, si ritrova immerso in un universo che preda nel momento in cui sfugge. In verità, l’evocatività della parola lascia una traccia che, almeno per un attimo, riusciamo a trattenere. Ed è magia !

Antonella Rebecchini e Giuseppe Manfridi

Un’esperienza immersiva quella proposta da Giuseppe Manfridi a Teatrosophia, fino a domenica 15 ottobre. Un viaggio al centro delle parole, dove regina regna l’ambiguità e il suo fascino diabolico. Di cui bisogna imparare a godere.

Perché questa meravigliosa avventura linguistica è un gioco stupefacente. E giocare significa sperimentarsi, crescere.

Vivere: entrare nel gioco della vita, dove la vera vittoria è l’atto stesso del giocare.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA CASTELLANA di Giuseppe Manfridi – regia di Claudio Boccaccini

TEATRO PORTA PORTESE, dal 12 al 14 Maggio 2023 –

“Io sono ciò che ho fatto” : questo l’altero cogito della Castellana di Giuseppe Manfridi, ovvero della contessa Erzsébet Báthory , realmente vissuta in Transilvania tra il 1560 e il 1614. 

Convinta da folle lucidità che il sangue delle fanciulle vergini le garantisse un’avvenenza eterna, fece del suo castello uno spaventoso luogo di sterminio seriale: “la fabbrica del suo candore”. I documenti del processo che la condannarono a essere murata viva, parlano di centinaia e centinaia di vittime. La Báthory aveva creato un sistema perfetto per adescare giovani ragazze al fine di tradurre il loro sangue nel cosmetico di cui aveva bisogno. 

Nella sua personalissima applicazione di uno dei principi della logica, il principio di causa-effetto, per la Castellana il sangue costituiva la causa di un effetto: l’eterna giovinezza della sua pelle. Per uno scopo universale: il “vanto del paesaggio”, all’interno del quale le giovani vittime, sacrificandosi, davano forma alla loro massima realizzazione vitale. 

Giuseppe Manfridi, autore del testo “La Castellana”

Desta l’interesse dell’autore Giuseppe Manfridi, uno dei massimi drammaturghi italiani, immaginare narrativamente il suo testo concentrandolo su un particolare momento della vita della Castellana: quello in cui i gendarmi arrivano sul luogo dei delitti per cercare e trovare le prove dello sterminio. Da qui, l’arresto e la condanna.

Della drammaturgia ricca in fascino di Giuseppe Manfridi, l’acuto sguardo di Claudio Boccaccini sa contattare e dare adeguato respiro a quel “quid” impenetrabile della natura umana femminile, che solitamente resta, o si preferisce lasciare, celato. Quel lato oscuro della luna che declina il “coraggio” in sfumature diversamente epiche.

Claudio Boccaccini, il regista dello spettacolo “La Castellana”

In una situazione da “orto degli ulivi” tale per cui “la ricercata” ha la consapevolezza che la sua tremenda attesa precederà la cattura, il processo e la condanna, Boccaccini sceglie, per dare carne e sangue alla bellezza della sua protagonista (un’intensa Giulia Morgani dalle mille temperature) una Castellana corvina e vagamente androgina. Volutamente pervertendo il canone del periodo rinascimentale che vedeva coincidere la bellezza con il biondo crine unito alla succulenza delle forme. All’acconciatura “a sella” preferisce il crine libero e, spettinato, lascia che le eclissi parti del volto.

Giulia Morgani, interprete dello spettacolo “La Castellana” di Claudio Boccaccini

Voluttuosamente ingorda di sangue, la bocca: una bellezza straniante la sua, così consapevole di femminile e di maschile, da insufflare turbamenti. Ma, in verità, lei ama solo auto-sedursi: il massimo degli eccessi, proprio perché consumato in solitudine.

Giulia Morgani in una scena dello spettacolo “La Castellana” di Claudio Boccaccini

Partenopeo, poi, è l’afrore sanguigno dell’idioma che la Castellana emana e con il quale riesce, attraverso un’inusuale ed estrema vitalità che le scorre sotto pelle, a contaminare tutta la scena. Fino a sedurne l’intera platea. 

Una donna capace di innalzarsi fino alle stelle più lucenti del sapere e insieme strisciare nel seminterrato più oscuro della psiche, invocando antichi demoni. Infernalmente paradisiaco il guizzo che le pulsa negli occhi. Con un che di maligno, che rimanda al suo modo di essere orgogliosamente sola. 

“La contessa Báthory assiste alla tortura di alcune fanciulle” – Museo delle Belle Arti di Budapest

Ma proprio sola non è: tra le argute innovazioni del nuovo adattamento di Claudio Boccaccini c’è la reale presenza del “solerte nanerottolo” lacchè Janos. Creatura nata dall’estro e dalle attenzioni demiurgiche di Antonella Rebecchini, che ne realizza una copia nell’atto di chi si inchina sì con il massimo della reverenza ma con la tentazione di fuggire.

Il nano Janos nell’istallazione scenica di Antonella Rebecchini

Procastinata in un’esigenza disperata di tapparsi le orecchie e gli occhi. Come nel clima emotivo dell’ “orto degli ulivi, anche qui “la ricercata” anela un conforto dal suo “discepolo” . Che ne è incapace: spaventato com’è fino alla paralisi. Sprovvisti entrambi di capacità relazionale, condividono singole solitudini.

Locandina del film “Le vergini cavalcano la morte ” di Jorge Grau (1973), ispirato alla storia della contessa Báthory

La sua ossessione per l’eterna giovinezza della pelle, l’organo più esteso del nostro corpo, confine tra noi e l’esterno, é espressione di un profondo disagio. La pelle, infatti, ci parla del difficile equilibrio tra il bisogno di proteggerci e l’esigenza di avvicinarci all’Altro. Rappresenta sia “il confine” che ci protegge, che “il luogo dell’incontro” con l’Altro.

Paloma Picasso interpreta la parte della contessa nel film “Contes Immoraux” di Walerian Borowczyk (1974)

Ma ciò che davvero è degno di nota, e la regia di Boccaccini lo sottolinea raffinatamente nella drammaturgia di Manfridi, non è tanto che la Castellana non riesca a trovare un equilibrio tra queste due spinte, quanto piuttosto riconoscere come proprio queste deviazioni e disequilibri comportamentali ci rivelino qualcosa di “vero” sull’essere umano.

Giulia Morgani (La Castellana di Boccaccini) e il nano Janos di Antonella Rebecchini

“Solo ciò che degrada, appartiene alla vita”: il crimine, la perversione, la follia, infatti, rappresentano paradossalmente espressioni essenziali dell’umano. Nel mondo animale non esistono, perché le bestie rispondono solo al comando univoco dell’istinto. Noi umani possiamo, invece, declinare le pulsioni per-vertendole e stravolgendole in svariate modalità. Ecco allora la folgorante scelta di vestire la Castellana di un vaporoso abito bianco: cromaticamente simbolo di purezza e insieme di summa emotiva, di mescolanza di bene e di male.

La locandina del film “Stay alive”,  film horror del 2006, scritto e diretto da William Brent Bell e ispirato alla storia della contessa di Báthory

Nella follia più folle, quella che non conosce dubbi e confina l’errore solo nell’Altro, arriva la condanna per i suoi crimini: un muro asfissiante che sancisce definitivamente la fine di ogni possibile relazione osmotica con il mondo esterno. Una seconda pelle impermeabile: inumanamente eterna.

Claudio Boccaccini

Potentemente evocativa la scelta registica di immergere lo spettacolo in una drammaturgia musicale, costituita da un tramestio uditivo di movimenti cadenzati, sensazioni, suoni e grida. Uno spettacolo, questo di Claudio Boccaccini, che apre e alimenta suggestioni che non si esauriscono con la fine spettacolo. Anzi.

Quel che resta del castello di Cachtice in Slovacchia


Recensione di Sonia Remoli

Tommy

TEATROSOPHIA, dal 20 al 22 Gennaio 2023 –

Quanto bisogno abbiamo di uno spazio tutto nostro, solo nostro, da tutelare e che ci tuteli, per poterci sottrarre alla luce accecante degli occhi degli altri? E a quella, ancora più insopportabile, dei nostri occhi ? Quando non basta più far calare il sipario delle palpebre per non vedere. E per non farsi vedere. Quando il voltare la testa dall’altra parte o il cambiare discorso da parte degli altri ci rinnega. Un luogo non solo fisico ma anche mentale, dove andare a ritrovare noi stessi. E gli altri: così come li vorremmo. Un luogo che ci accolga: che come una madre ci faccia riscoprire la voglia di vivere e che come un padre ci inizi all’arte del desiderio di desiderare. Attraverso sane regole. Sani divieti.

Giuseppe Manfridi, autore del testo “Tommy”

Questo testo frammentato e frammentante fino al parossismo, uscito dalla già acuta penna di un giovanissimo Giuseppe Manfridi appena ventenne (ora uno dei massimi drammaturghi italiani e autore di commedie rappresentate in tutto il mondo) e interpretato da un altro ventenne, il talentuoso Giuseppe Arezzi, con trasporto fremente e abbandonato, allucinato e lucido, ci agguanta.

Giuseppe Arezzi (Tommy) in una scena dello spettacolo “Tommy” di Giuseppe Manfridi

E lo fa così tanto, da farci riuscire a tollerare il suo dilaniante stare “dentro”, con un “fuori” che continua a bussare. Complice la natura della spazio scenico del Teatrosophia: un ambiente “uterino”, in simbiosi con questo singolare taglio che il regista Vittorio Bonaccorso ha scelto di dare al testo originale. Dove tutto è a soqquadro: da quel che resta del mobilio, fino ai micro elettrodomestici.

Giuseppe Arezzi, il protagonista del monologo “Tommy” di Giuseppe Manfridi

Uno scompiglio quello del soqquadro causato, come anche la natura della parola ci suggerisce, dal togliere un elemento di sostegno che tiene a squadra un argine. Evento ambientale che trova già un primo significativo sintomo nello “starnuto”, per di più continuo fino a divenire compulsivo, di Tommy. Non si direbbe ma è uno dei momenti della vita in cui siamo più vicini alla morte, quello dello starnuto. La pressione interna dei polmoni aumenta enormemente, prima della “deflagrazione”. Per un attimo le vie aeree si ostruiscono e il battito cardiaco subisce un’impennata. Ma se compulsivo, lo starnuto è anche una disfunzione dell’attività mentale, manifestata da pensieri la cui ansia può essere eliminata solo eseguendo azioni ossessivo-compulsive. Lo starnuto ne è un esempio.

Un po’ come Cosimo ne “Il barone rampante” di Italo Calvino, Tommy sente l’urgenza di trovare asilo altrove: non in alto tra querce, ontani e lecci ma in basso, in uno sgabuzzino. Buio. Inizialmente risulta sufficiente evadere per mezz’ora ma poi l’esigenza diventa più pressante fino a portarlo a scegliere di rimanere lì costantemente. Perché lì, dice, riesce a non starnutire. Ma davvero?

Vittorio Bonaccorso (il regista), Giuseppe Arezzi (l’interprete) e Giuseppe Manfridi (l’autore)

Il contenuto non corrisponde al titolo

TEATRO MARCONI, 12 Gennaio 2023

Gremiti gli spazi del Teatro Marconi per trattenere ed accogliere l’attesa dell’inizio della Festa del Pensiero. Apre la serata happening, un trio del Pensiero “in musica”: arte che dona la possibilità di trasformare la semplice aria in qualcosa che trasporta gli animi ben oltre i sensi. Ad accompagnare il cantautore Luigi Turinese (che presenterà il suo nuovo album “Passaggi – Il volo di Mangialardi” al Teatro Garbatella, sabato 21 gennaio alle ore 21:00) la chitarra di Adriano Piccioni e la ritmica di Piero Tozzi.

Il cantautore Luigi Torinese in un momento della Festa del Pensiero

In un raffinato gioco di affinità elettive, il pensiero in musica ha attratto (per poi di volta in volta momentaneamente sottrarsi) gli interventi del trio del pensiero critico, tesi a presentare in maniera sui generis l’ultimo libro di Giuseppe Manfridi ‘Il contenuto non corrisponde al titolo”.

Giuseppe Manfredi, autore del libro “Il contenuto non corrisponde al titolo”

L’ autore, uno dei massimi drammaturghi italiani e autore di commedie rappresentate in tutto il mondo, sceglie che a presenziare il “debutto” della sua ultima creazione letteraria sia lo sguardo dalla coinvolgente sapienza, densa di sfuggevolezza, dello storico d’arte Claudio Strinati (anche autore della prefazione del libro),

Claudio Strinati

alchemicamente coniugato allo sguardo dall’effervescente “libridinosità” dell’autore Dario Pisano.

Dario Pisano

Quest’insolita “preparazione chimica” di pensieri ha dato vita ad una serata squisitamente spiazzante; divertente e fertile di stimolanti riflessioni. Si è parlato, tra l’altro, di come l’oscillazione tra il pieno e il vuoto sia il contenuto del libro (ma non del titolo); del fatto che chi scrive lo fa essenzialmente per leggersi. E che si legge sperando di rimanere affascinati da ciò che non si capisce.

Costante la concentrazione del pubblico, che ha seguito sempre con molto interesse e partecipazione. Il libro “Il contenuto non corrisponde al titolo” raccoglie un mosaico di aforismi, brevi elzeviri, poesie e brani a tema, che alludono al paradosso secondo il quale raramente diciamo cose che davvero intendiamo dire. “Le cose che ci stanno attorno parlano e hanno senso soltanto nell’arbitrario in cui per disperazione ci viene di cambiarle”, direbbe Pirandello. E nel parlare di rapporti di coppia, di linguaggio e di dinamiche creative, il libro si pone come un invito a sviluppare e ad allenare continuamente “la capacità di osservare”. Questa sì, d’aiuto per la comprensione del mondo.

La serata, ricca in fascino, si è conclusa nel cordiale Bistrot del Teatro Marconi, dove l’autore e i suoi “attori” si sono mescolati al pubblico, ancora desideroso di approfondimenti e curiosi aneddoti.