Recensione iGIRL – performer e regia Federica Rosellini

ROMAEUROPA FESTIVAL 2025

Mattatoio

8 e 9 Ottobre 2025

E’ tra noi.

Ci aspetta.

Non è sola: ha eletto a compagna di viaggio, come un transumante, un animale.

Una gallina.

Animale che i Greci consideravano sacro e associavano alla dea della saggezza. Le galline cercano nutrimento sotto terra e questo, simbolicamente, allude ad una ricerca della verità non in superficie. La gallina poi è un animale che sa relazionarsi, sa vivere in gruppo e in quanto tale è capace di sostegno e collaborazione. 

(ph. Piero Tauro)

Lei (una straordinaria Federica Rosellini) è invece una creatura transumante, che si lascia abitare da diverse identità. Una creatura dal sentore di sacro e di innocenza.

Insieme alla sua compagna di viaggio ci aspetta per partire alla volta di un misterioso viaggio. Un viaggio che inizia annunciandosi ai nostri occhi attraverso la prospettiva di lande immense, ricoperte di neve. Strade ghiacciate e spezzate in lastre, che trovano una prosecuzione anche sul palco, fino in platea. Gli avvincenti video, sospesi tra pathos e distanza emotiva, sono di Rä Di Martino.

Un mondo candido. Innocente. Sembrerebbe.

Ma “che cos’è la felicità – ci chiede voltandosi da un lato – ma voi avete amato? E’ stato doloroso?”.

Inizia lei a raccontare: in un tempo scandito per numeri che si dilatano in quadri, è lei che si dà cura di cucire frammenti di ricordi, di riflessioni intime e universali, di testimonianze mitologiche.

Frammenti che sono affiorati dal sottosuolo sulla pelle candida del suo corpo: in forma di tatuaggi e graffiti. 

(ph. Andrea Macchia)

Il darsi di ogni quadro temporale è possibile attraverso l’inquadratura – e quindi il fare luce, il dedicare attenzione e il volgere lo sguardo – su un frammento che affiora sul suo derma. 

E poi canta, si campiona e lascia che si sovrappongano più tracce: perché questo, noi umani, siamo. Delle stratificazioni. Degli enigmi che credono di potersi muovere liberamente. Ma sotto alla terra, sotto alla sabbia, che crediamo di calpestare e conquistare liberamente, si cela uno scacchiere di enigmi. E di atrocità.

(ph. Piero Tauro)

Siamo quindi il risultato anche della testarda Antigone: donna dalla lingua e dalla capacità argomentativa di un uomo. E così innamorata del “mondo di sotto”. 


Siamo fatti anche di suo padre Edipo, che ha sofferto la peggiore delle ferite: l’abbandono di una madre attesa ma che non arrivava mai. “Se sopravvivo a questo dolore, distruggo tutto” – pensava mentre un chiodo d’argento gli bloccava i piedi: solo, sul Monte Citerone, all’addiaccio. Il problema dell’abbandono è che non ha una cittadinanza: è una ferita assoluta che niente potrà chiudere. Siamo gli aborti di Dio. E, allora, ho contaminato tutti quelli che potevo contaminare”.
Ma forse non si tratta solo di contaminazione: forse è “la macchia, quella che seguiamo”. E non un ideale di pulizia. 

(ph. Rä Di Martino)

Siamo fatti di Giocasta: “che lo sapeva e non lo sapeva che quello era suo figlio … era come una melma … era tutto così contorto”.

Siamo fatti di Giovanna d’Arco: così attratta dalle ali degli angeli e dai cespugli di lavanda, dove sapeva che li avrebbe trovati.

Ma noi, invece, ci riteniamo uomini sapienti e ci raccontiamo altre storie: ci piace consolarci con la logica. 

E, invece, “torneremo mai così innocenti come i transumanti, che viaggiavano insieme agli animali?”. 
Loro, strati del nostro sé interno ed esterno. “Abbiamo il loro sangue, abbiamo fatto sesso con tutti quelli che avevano pelle e polmoni”. Ma diciamo di credere nel bene separato dal male. E di essere una versione distante dall’uomo di Neanderthal.

In verità, siamo preda dell’incertezza.

E cosa aiuta ad attraversare tempi di incertezza? Quando quello su cui sedevi trema e minaccia di andare in pezzi?
Di cosa nutrirsi in quegli attimi, in quei mesi, in quegli anni?
E cosa invece si può lasciare andare?

La condizione di incertezza in cui siamo ontologicamente immersi e che arriva a sommergerci in alcuni frangenti vitali, come ad esempio e’ successo nella scorsa pandemia – occasione di questa scrittura tremendamente seducente di Marina Carr – interroga e mette alla prova la qualità del nostro orientarci e del nostro saper trovare sempre nuovi equilibri esistenziali.

Marina Carr

L’incertezza infatti – se si riesce a sconfinare al di là di quel senso di confuso vuoto da eliminare assolutamente – si offre come terreno fertile per l’emergere di un desiderio autentico. Inconscio. Che si dà attraverso un’ “opacità” che resiste alla spiegazione razionale, ma che paradossalmente ci permette di trovare soluzioni proprio in questo non-sapere razionale. Di cui dobbiamo imparare a fidarci.

Come è accaduto qui a Marina Carr: nel riuscire ad attraversare la disperata incertezza dei tempi della pandemia, la drammaturga irlandese ci confida che ha sentito emergere in lei il desiderio, il richiamo, a ricollegarsi alla natura, al suo misterioso contatto. Perché “il mondo diventa ostile quando non si ha più un posto a tavola, intorno al fuoco della caverna”.

Lascia così emergere dal sottosuolo emotivo della sua incertezza, frammenti personali ed arcaici: un manto di risorse immateriali che ha cucito insieme, proprio in quanto frammenti. E – sprofondando in questo mondo fantasmatico, denso e misterioso, fatto di figure polimorfe e liminari – questi frammenti li ha tessuti in una tela misteriosa e caleidoscopica. Una tela in 21 quadri, che attraversa il tempo, per sconfinare in luoghi insondati e misteriosi. Opachi, appunto.

(ph. Andrea Macchia)

Federica Rosellini si lascia contattare intimamente da quella creatura indefinibilmente ferina narrata da Marina Carr, testo la cui traduzione è curata da Monica Capuani e da Valentina Rapetti. Ed è così che si origina in lei, per contagio creativo, un’entità che – rinunciando ad una coltre di pelliccia e al lungo crine – si propone in un total nude. Coperto solo di segni, che emergono dal suo derma (i tatuaggi sono di Simona D’Amico).

Il suo diviene un corpo-mondo, insieme microcosmo e macrocosmo: rappresentazione di un’identità individuale e collettiva, tesa tra rabbia e amore. Espressione di un processo creativo continuo, dove il “non finito” (il frammento) diventa il codice per cogliere la complessità.

(ph. Andrea Macchia)


Dono di questa performance – complici le musiche immersive di Daniela Pes e Gup Alcaro, che sfuggendo alle classificazioni favoriscono l’immersione dello spettatore nel flusso della multiforme narrazione – quello di aiutarci a sviluppare il nostro “sentire” certo e affidabile come un “sentore”, cioè come una vaga intuizione.

E lo fa in una maniera che è insieme sottile e di gusto forte: attraverso la riscoperta di quel grigiore proprio della “santa melanconia”, di quel lucore che si incontra solo in fondo alla discesa, di quella fulgente rabbia che sa aprirsi al nuovo. Atteggiamenti, questi, con un certo grado di indefinitezza, di sospensione, di impalpabilità, anche se radicati in una percezione sensoriale.

Mescolato e intrecciato, allora il sentore ci racconta la nostra finezza percettiva di un primo provvisorio sentire: quell’attitudine che riconosciamo in tanti altri animali. Potente come un presentimento.

(ph. Andrea Macchia)

Vigoroso e necessario questo rito della transumanza proposto dal corpo di Federica Rosellini.

Un rito insinuante, che arriva trasversalmente.

Un’iniziazione di cui, nel nostro sottosuolo, si sente gratitudine. Onorati verso chi, come lei, si fa veicolo per aiutare altri ad oltrepassare un confine: quello che ci porta un pò più in là delle nostre sicurezze.


Recensione di Sonia Remoli


Recensione della conferenza-spettacolo QUANDO LA SCIENZA FA SPETTACOLO -Dialoghi tra Scienza ed Arte

TEATRO ARGENTINA, 3 Novembre 2024 : ACQUA

QUANDO LA SCIENZA FA SPETTACOLO

Dialoghi tra Scienza e Arte – II edizione, 2024
Acqua, Aria, Terra, Fuoco
4 Elementi per 4 Domeniche

Federica Rosellini, Enrica Battifoglia, Roberto Danovaro

Entra in scena: il suo scorrere è musica. 

E già solo all’udirla, ci idrata. 

E’ lei: l’Acqua.

Suoi narratori nel viaggio-spettacolo che si è tenuto ieri al Teatro Argentina sono stati Roberto Danovaro, Presidente della Fondazione Patto con il Mare per la Terra; Enrica Battifoglia, giornalista scientifica Ansa; Federica Rosellini, attrice, scrittrice e regista teatrale.

E un po’ come rispondendo all’invito inscritto sul frontone del Teatro Argentina – “Alle arti di Melpomene, di Euterpe e di Tersicore” – i tre narratori si sono avvicendati sulla scena “cantando”  – su variazioni – il potere di questo elemento naturale: l’Acqua.

Teatro Argentina

La giornalista Battifoglia ha giocato il ruolo di stimolare sinapsi tra la trascinante narrazione scientifica del Prof. Danovaro e l’ammaliante interpretazione di testi letterari da parte di Federica Rosellini.

Enrica Battifoglia

Se dal  Prof. Donovaro apprendiamo come l’acqua sia insieme sfuggente ed invadente ma anche 830 volte più densa dell’aria e quindi capace di trasportare suoni,

Roberto Danovaro

la Rosellini  ci incanta nel trovare e nell’insufflarci nell’occhio e nell’orecchio la magia di un corrispettivo letterario in Eraclito (filosofo greco vissuto tra il VI e il V secolo a. C. ): 

“Dalla terra nasce l’acqua, dall’acqua nasce l’anima. È fiume, è mare, è lago, stagno, ghiaccio e quant’altro. È dolce, salata, salmastra, è luogo presso cui ci si ferma e su cui si viaggia, è piacere e paura, nemica e amica, è confine ed infinito, è cambiamento e immutabilità, ricordo e oblio.”

E a seguire propone un ulteriore corrispettivo in Emily Dickinson:

“Come se il mare separandosi
svelasse un altro mare,
questo un altro, ed i tre
solo il presagio fossero

d’un infinito di mari
non visitati da riva
il mare stesso al mare fosse riva
questo è l’eternità”.

E qui, nel suo interpretare, la Rosellini stessa diventa “mare visitato da riva”: nel suo ritmo se ne sente tutto il separarsi e lo svelarsi ripetuto.

Federica Rosellini

E poi è di nuovo il Prof.  Danovaro a illuminarci su come il mare, che esiste prima di ogni altra forma di vita, sia la porzione meno conosciuta del nostro pianeta. Quello che sappiamo sugli oceani ad esempio è solo qualcosa di “epidermico”: facciamo fatica a scendere più in profondità. E se da un lato la scienza è un continuo superamento di se stessa,  il mare – che unisce e spaventa – è la più grande sfida per noi umani: cambia continuamente e si rivela spesso illusorio prevedere l’andamento di questo “personaggio principale” della nostra storia.  

Qui, la Rosellini risponde al richiamo della Scienza con un brano tratto dal “Moby Dick” di Melville:

 “Ogniqualvolta mi accorgo di mettere il muso; ogniqualvolta giunge sull’anima mia un umido e piovoso novembre; ogniqualvolta mi sorprendo fermo, senza volerlo, dinanzi alle agenzie di pompe funebri o pronto a far da coda a ogni funerale che incontro; e specialmente ogniqualvolta l’umor nero mi invade a tal punto che soltanto un saldo principio morale può trattenermi dall’andare per le vie col deliberato e metodico proposito di togliere il cappello di testa alla gente – allora reputo sia giunto per me il momento di prendere al più presto il mare. Questo è il sostituto che io trovo a pistola e pallottola”.

E poi, ancora,  con “Mediterraneo” di Eugenio Montale:

“Antico, sono ubriacato dalla voce ch’esce dalle tue bocche
quando si schiudono come verdi campane
e si ributtano indietro e si disciolgono.
La casa delle mie estati lontane,
t’era accanto, lo sai,
là nel paese dove il sole cuoce
e annuvolano l’aria le zanzare.
Come allora oggi in tua presenza impietro, mare,
ma non più degno mi credo del solenne ammonimento del tuo respiro.

Tu m’hai detto primo
che il piccino fermento del mio cuore
non era che un momento del tuo;
che mi era in fondo la tua legge rischiosa:
esser vasto e diverso
e insieme fisso:
e svuotarmi così d’ogni lordura
come tu fai che sbatti sulle sponde
tra sugheri alghe asterie
le inutili macerie del tuo abisso”.

Qui l’ interpretazione della Rosellini ci rapisce in un modo nuovo: assumendo la musicalità di un canto medioevale a due voci.

Il Prof. Danovaro allora – riallacciandosi all’ultimo verso di Montale – ci ricorda che noi deriviamo dall’Acqua come l’ultimo dei suoi materiali di scarto. E se è vero che il mare da sempre è il luogo del mostruoso, è altresì vero che se noi respiriamo, lo dobbiamo proprio agli oscuri e mostruosi abissi, che producono quel fertilizzante di cui poi si nutrono le alghe. 

Qui la seducente ambiguità del mare viene resa dalla Rosellini con un canto come di sirena, che ci incatena non appena accenna le prime note di “By This River” di Brian Eno. 

Federica Rosellini, Enrica Battifoglia, Roberto Danovaro

E poi tanto altro ancora, in un crescendo pieno di meraviglia: come se “i tre 
solo il presagio fossero
/d’un infinito di mari/non visitati da riva/il mare stesso al mare fosse riva/questo è l’eternità”.

I tre narratori Roberto Danovaro, Enrica Battifoglia, Federica Rosellini con le loro parole, nate da interrogazioni, esplorazioni e da un generoso desiderio di condivisione, ci hanno fatto assaporare infatti – pur nella nostra  finitudine – il gusto dell’eternità.


I prossimi appuntamenti con i restanti 3 elementi della natura si terranno:

domenica 1° dicembre 

Aria 
Massimiliano Pasqui, ricercatore Istituto di Bioeconomia del Cnr 

Lorenzo Pinna, giornalista scientifico e autore Superquark 

Letture poetiche Donatella Finocchiaro

domenica 15 dicembre 

Terra 
Carlo Doglioni, Presidente Ingv 

Enrica Battifoglia, giornalista scientifica Ansa

Letture poetiche Lino Guanciale

domenica 12 gennaio 

Fuoco 
Salvatore Passaro, ricercatore dell’Istituto di Scienze Marine del Cnr 

Guido Ventura, ricercatore dell’Ingv 

Lorenzo Pinna, giornalista scientifico e autore Superquark 

Letture poetiche Silvia D’Amico


Recensione di Sonia Remoli

Recensione del film CAMPO DI BATTAGLIA – regia Gianni Amelio –

Con

Alessandro Borghi

Gabriel Montesi

Federica Rosellini

 Film presentato all’ 81ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica 

Quante forme può assumere il nostro slancio vitale, immerso nell’emergenza traumatica della guerra?

Nella cornice che si avvia a chiudere il Primo Grande Conflitto Mondiale e ad aprire il fuoco dell’attenzione sull’esplosione della successiva guerra pandemica della Febbre Spagnola, lo sguardo poeticamente lacerato di Gianni Amelio riesce a relazionarci alla guerra da un’insolita prospettiva: quella che la vede campo di battaglia tra inedite forme di slancio vitale.

Il regista Gianni Amelio

Il film si ispira, realizzandone un libero adattamento, al libro di Carlo PatriarcaLa sfida” e ha, tra le altre cose, il merito di riaccendere l’attenzione cinematografica sulle conseguenze – mediche ed esistenziali – provocate dalla guerra e dalla pandemia della febbre spagnola, che raggiunse il suo picco nell’ottobre del 1918. Un trauma di cui si è poco parlato al tempo, per vari motivi, non ultimo quello per cui all’epoca costava troppo ammettere di brancolare nel buio. 

Ma ogni trauma è tale proprio perché accade un evento per il quale le attuali risorse per affrontarlo non si rivelano più efficaci. E seppur immersi nel buio, ne vanno ricercate delle altre. Perché “sopravvivenza” non equivale più solo a “resistenza”. Perché diverse sono ora le paure e le aspettative. Perché mutando i confini della libertà, emergono necessariamente altre identità di noi stessi.

Ed è  all’interno di questo disperato campo di battaglia civile che desidera indagare il prezioso film di Gianni Amelio.

Gabriel Montesi (Stefano)

Stefano (Gabriel Montesi) è uno dei due ufficiali medici di un ospedale militare del fronte trentino-friulano. Pur dichiarando di essere ormai insopportabilmente insoddisfatto del lavoro che svolge, non ce la fa ad uscir fuori da questa situazione stagnante che lo sta spegnendo. E che equivale – proprio nel suo rimanere cieco e sordo a come si stia modificando il suo sguardo sulla guerra – ad una sorta di automutilazione del suo slancio vitale.

Federica Rosellini (Anna) e Gabriel Montesi (Stefano)

Un accecante senso del dovere verso la patria e verso l’appartenenza allo status borghese lo portano allora a riversare la sua insoddisfazione in una disamina ossessiva tra chi, dei malati ricoverati, “deve” tornare a combattere al fronte e chi invece “deve essere giustiziato” avendo mentito sul proprio stato di salute, traumatizzato dall’esperienza di guerra appena fatta. 

E’ un gioco di specchi quello che lui inconsapevolmente mette in atto: anziché prendersi cura dell’effettivo stato di salute fisica e morale dei militari, punisce e obbliga chi non dimostra (un ottuso) slancio vitale nel ritornare al fronte, per compensare il fatto di non riuscire lui stesso ad affrontare la guerra con lo stesso slancio iniziale. Il suo fanatismo politico si trascina dietro allora un fanatismo medico, pur di non trovarsi lui stesso faccia a faccia con la nausea che lo pervade e che gli parla della necessità, ora, di un cambio di slancio vitale.

Gabriel Montesi (Stefano)

Come se cambiare punto di vista significhi esclusivamente essere inefficienti e traditori. E non anche avere la capacità di rimanere in contatto con la natura autentica del proprio sentire, che necessariamente muta immersa in un diverso contesto socio-esistenziale.

E infatti non è un caso che l’ossessione verso l’efficientismo predisponga alla prepotenza tipica degli intolleranti, che attribuisce paranoicamente all’Altro le proprie responsabilità.

Impotente quindi di fronte all’ascolto del suo desiderare, e di conseguenza anche verso quello degli altri, Stefano si auto elegge allora allo status di un dio che ogni giorno – quasi come in un contesto da “giudizio universale” – si sente chiamato a giudicare tra Bene e Male. E soprattutto a ben separarli. 

Gabriel Montesi (Stefano) e Alessandro Borghi (Giulio)

Con Stefano, nell’ospedale militare, lavora anche un suo amico d’infanzia – Giulio (Alessandro Borghi) – dalla vocazione di ricercatore e che, anche sbattuto in prima linea, non può fare a meno di continuare a chiedersi cosa significhi “aver cura” degli altri ora, quasi al termine della guerra. La sua postura medica ed esistenziale ci parla del continuo essere in ascolto se il suo sentire resta confermato o se invece propone delle variazioni. 

Alessandro Borghi (Giulio)

Scopre così che ora non ce la fa a “giudicare” e a “separare nettamente” – come fa il suo amico Stefano – il Bene dal Male. E clandestinamente prova compassione per i soldati che si ritrovano a desiderare di mentire pur di non tornare ancora sul campo a combattere. La sua compassione – paradossalmente al concetto istituzionale di cura – si concretizza nell’amplificare, dietro consenso, le ferite di guerra dei soldati, ancora ricoverati ma “giudicati” ottusamente idonei al ritorno in guerra dal “dio Stefano”.  Così enfatizzata, però, la nuova non idoneità elimina ogni dubbio e di conseguenza legittima il congedo autorizzato dal campo di battaglia.

E così, un luogo deputato alla cura e alla riabilitazione finisce per rivelarsi – in un contesto fuori dall’ordinario com’è la guerra – il campo dove si gioca la battaglia tra chi insensibilmente non si cura delle ferite dell’anima oltre che di quelle del corpo e chi, per curare le ferite dell’anima, mutila ancor di più il corpo.

Federica Rosellini (Anna)

I due amici e colleghi saranno poi raggiunti a sorpresa da una loro compagna di studi, ora ridimensionata a volontaria della Croce Rossa – Anna – (Federica Rosellini): una studentessa troppo brava per essere donna e quindi per poter essere riconosciuta nel suo autentico valore anche di medico.  Una figura femminile “mutilata” nel suo slancio vitale ma che fino alla fine- nonostante tutto – riesce a non abbandonare la sua vocazione verso la medicina, accogliendola come un fertile enigma, anche esistenziale, dalle molteplici soluzioni. Un po’ come l’amore.

Federica Rosellini (Anna)

Quasi in sciopero dalle parole – sono in lei i silenzi a prevalere – è nei suoi occhi che lo spettatore può leggere tutta l’ondivaga sublime inquietudine che la abita. S’ intuisce che in passato fosse molto vicina a Giulio e così continua a fare ora. Scoperto il suo insolito slancio vitale verso “il concetto di cura”, dopo un iniziale tentennamento, sceglierà di seguirlo fino a farsi testimone della sua vita.

Federica Rosellini (Anna) e Alessandro Borghi (Giulio)

Un film, questo di Gianni Amelio, che contribuisce a guarirci dalla tentazione all’assuefazione che la guerra tende ad ispirarci. Un film che tonifica l’elasticità del nostro slancio vitale.

E che ci racconta come “il prendersi cura” – così come la democrazia – si fondino sul principio dell’instabilità, del pluralismo, del mediare, del tradurre, dell’accogliere e del comporre le differenze e le diversità. 

Un “prendersi cura” che non trova compimento una volta per tutte: la vita, la democrazia e la medicina non si danno infatti per sempre: sono il frutto di una continua ricerca.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione del film CONFIDENZA – tratto dal romanzo di Domenico Starnone (Einaudi) – con Elio Germano, Federica Rosellini, Vittoria Puccini, Pilar Fogliati, Isabella Ferrari – un film di Daniele Luchetti

Stupefacente è come questo film riesca a destabilizzarci, anche senza esserne totalmente consapevoli. 

Indubbiamente ha la capacità di insinuarsi seducentemente in quella quotidianità, che crediamo di saper tenere sotto controllo. 

Non è necessario aver vissuto qualcosa di simile ai protagonisti per rimanere profondamente turbati, perché la narrazione ha il potere di arrivare in “un luogo” dove tutti confluiamo e che ci fa vedere quanto è labile il confine tra “amare” e “sopraffare”. 

Amare è quanto di più distante dalla nostra natura: ciò che riceviamo in corredo dalla natura é infatti un istinto alla sopraffazione utile per sopravvivere, senza andare troppo per il sottile sul “come” . 

Amare si impara: amare richiede un desiderio e un insegnamento erotico, un’educazione sentimentale, dove si apprende, per seduzione, a sublimare l’istinto all’individualismo nell’arte di entrare in relazione. Se ne occupa anche il prof. Pietro Vella (un Elio Germano investito della grazia della mediocrità).

Elio Germano è il prof. Pietro Vella

Ma allora, se questi sono i presupposti, quanto può risultare pericoloso chiedere e concedere di affidare una confidenza – qualcosa cioè di intimo e segreto tanto da essere quasi impronunciabile – ad un’altra persona?

Siamo spinti a correre questo rischio forse perché a prevalere sulla consapevolezza a riconoscere che il patto d’intimità si regga sul ricatto della paura reciproca ad essere smascherati, è l’idea che la confidenza implichi un grado di conoscenza così profonda tra due persone, raggiungibile solo quando si è disposti vicendevolmente a riconoscere all’altro un’accoglienza altruistica. Un atto quindi di grande fiducia, un investimento emotivo che non esclude un possibile tradimento dell’intimità della parola data, seppur suggellata dal segreto a custodirla entro le mura delle due persone coinvolte.

Non a caso Teresa (una Federica Rosellini dalla densità propria di una divinità mitologica) alla richiesta del suo insegnante Pietro Vella di tentare di definire cos’è l’amore risponde che l’amore non è mai alla pari: l’amore è sempre sopraffazione. Che un po’ è quello che lui, il prof, aveva poco prima scritto alla lavagna. Lui, però, separando l’amore dalla paura. 

Elio Germano è il prof. Pietro Vella

Ma invece al centro della nostra psiche, sotto la superficie di educate finzioni, giace inconfessata e perenne proprio lei: la paura. Non disgiunta nemmeno dall’amore e dai suoi fantasmi, che aleggiano nel buio delle nostre emozioni: sono i vari terribili “e se …” (“e se sapesse che …”; “e se la perdessi …”; “e se pensassero male di me …”; “e se fallissi …”). Per non parlare poi delle paure a cui non riusciamo nemmeno a dare un nome: vere e proprie angosce, perché quello che temiamo è proprio l’ignoto (il futuro, l’incomprensibile e la nostra stessa inettitudine). Tic, tic, tic: un vero stillicidio. 

Un po’ quello che si trova a vivere Pietro Vella: da sempre e per sempre, ma con un’impennata incontrollabile dopo lo scambio di confidenze con la sua ex studentessa Teresa. 

La quale, invece, sembra avere un diverso rapporto con la paura: quasi fosse un altro nome della fantasia. Un sintomo, il suo, della bizzarra potenzialità di una psiche che non si accontenta. Soprattutto delle cose così come appaiono: delle maschere che si tende ad assumere per difesa. Un sintomo che trasforma l’esistenza, soprattutto se animata come nel caso di Teresa dalla vendetta, in un thriller a puntate pieno di colpi di scena, di suspense e sobbalzi. Godendo proprio di quei misteri impossibili da svelare: le angosce dell’Altro, di Pietro appunto. 

Elio Germano è Pietro Vella

E quello che sembrava essere un felice “incontro” si tramuta in una sorta di “incantesimo”: nel rito magico della parola, prima magia dell’uomo e nella genesi dell’impossibile, che passa per l’intonazione della voce, per la scelta delle parole, per il ritmo del respiro. E’ quindi questa consapevolezza di Teresa sul potere dell’asserzione a travalicare le frontiere del fantastico, invadendo la realtà.

Sì, perché l’asserzione è quell’affermazione attraverso la quale si tesse una posizione e quindi un’identità. E’ il superamento delle dichiarazioni rabbiose – proprie della Teresa che scopre di essere stata tradita – così come delle dichiarazioni cerebrali, spesso prive di catene dimostrative. Ecco allora che l’affermazione, quella versata shakespearianamente da Teresa nell’orecchio di Pietro, viene data per vera, sebbene sia la prospettiva umana quella che veramente ne svela la cifra. E’ un po’ quello che Iago fa con Otello. 

Federica Rosellini e Elio Germano

Ecco, forse è proprio questo che risulta stupefacente: scoprire fin dove le possibilità umane possano bloccarsi dietro maschere (come accade a Pietro Vella), o invece spingersi oltre, verso quel qualcosa di “divino” che ci abita. Federica Rosellini, infatti, ci restituisce una Teresa Quadraro dalla densità di una divinità: che ha qualcosa delle Erinni (divinità vendicatrici dei torti subiti) e insieme qualcosa dello Zeus che sceglie la punizione per Tantalo. Come Zeus, Teresa sceglie infatti di infliggere a Pietro il tormento di chi desidera tantissimo qualcosa, apparentemente a portata di mano (in questo caso la conferma del silenzio sul segreto rivelatole) ma scopre che questo desiderio è destinato a rimanere perennemente inappagato. Un tormento che fa cadere la maschera buonista di Pietro, rivelandole l’indole da bestia pavida.

Quanta poca cosa è allora un tradimento umano rispetto alla punizione eterna, e quindi divina, di disporre del “laccio” di una “confidenza segreta”! Fino a quanto può stringere questo “laccio” ? Fino a quanto possiamo sopportarne il giogo?

Federica Rosellini è Teresa Quadraro

Perché mantenere il silenzio non è solo il contrario del comunicare. Il silenzio non racchiude un vuoto ma un pieno, non un’assenza ma una presenza: contiene infinite possibilità. E’ lo spazio dell’infinito.  E’ lì dove abita il silenzio, che tutto può essere detto.

Ed è questo tipo di intimità sospesa, senza cioè il vincolo della paura da parte di Teresa e quindi volutamente in dubbio relativamente al voto del silenzio sul segreto – quella sensazione di possibile tradimento di un patto di fedeltà orale che Teresa vuol far provare a Pietro, punendolo del tradimento del patto di fedeltà fisica. Che al confronto diventa davvero ben poca cosa. 

Da qualche tempo Daniele Luchetti  e Domenico Starnone ci stanno educando alle profondità abissali alle quali conducono ta erotika: le cose dell’amore. Profondità nelle quali sanno muoversi bene – come ci annunciava già Platone nel Simposio – le donne, perché dotate per natura di una psiche predisposta a orientarsi con più agilità nella “relazione” e nell’ambiguità delle sue dinamiche. 

“Confidenza” è un film potentissimo, irresistibile, che ci fa sentire disarmati: non confortandoci con una soluzione, con un finale definito.  E ci lascia senza parole, scegliendo di condividere con noi le infinite possibilità che ci confida il silenzio.  


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo NELLA SOLITUDINE DEI CAMPI DI COTONE di Bernard-Marie Koltès – regia di Andrea De Rosa

TEATRO INDIA, Dal 17 al 29 Maggio 2022 –

Qualcuno ci sta spiando, laggiù in fondo al palco. Oltre il palco. La scena è senza argini: si dà senza pudore. Il sipario c’è ma ha perso la sua funzione: ne resta solo una parte ed è relegato verso la metà del palco, raccolto solo sul lato sinistro. Il suo rosso acceso è l’unica nota di colore in uno spazio indefinito.

Anche le luci sono dislocate: lasciano l’alto e s’incarnano su due treppiedi che dominano la scena: loro i primi personaggi che si palesano. Il flusso luminoso non è libero, a differenza dello spazio in cui sono immerse. È contenuto, delimitato e indirizzato verso la destra del proscenio, verso qualcuno o qualcosa che deve arrivare E poi c’è sempre quella donna laggiù, in fondo, oltre il fondale.

Federica Rosellini

Ci osserva, uno ad uno, mentre prendiamo posto in sala. Ci legge. Sembra saperne più di noi. È una presenza imbarazzante. Ma ad un certo punto non resiste. E avanza verso di noi: scalza, dal crine sciolto, indossando (ancora) un costume d’epoca. Arriva fino in proscenio: ci guarda tutti, si spoglia del soprabito e lo stende a terra. Come a deporre le armi. Solo ora le luci si abbassano e si diffonde la prima Variazione Goldberg: “Aria”. La donna ci rivela che quello che stiamo condividendo con lei è un particolare momento del giorno: “l’ora che volge al crepuscolo”, quella in cui s’incontrano solo persone alle quali “manca qualcosa”. Come noi. Come colui che si sta avvicinando da fuori, rasentando il muro, dal quale con difficoltà e di malavoglia si stacca.  

Federica Rosellini e Lino Musella

La donna si dichiara, con spavalda e seducente umiltà, come colei che possiede la capacità di soddisfare i desideri altrui. Ma anche lei può e vuole desiderare. E per farlo ha bisogno “che le sia chiesto” di soddisfare quel particolare desiderio. Questa è la sua “mancanza”, di cui è consapevole, e che anela fino ad esigere di soddisfare. Come “la sporgenza cerca l’incavo”. In una geometria di prossemici avvicinamenti e fughe, sui quali sono costruite le stesse Variazioni Goldberg, qui interpretate da Glenn Gould.

Federica Rosellini

Una geometria che non rifugge l’ampio spettro delle emozioni, anzi le esalta, le scova, toccandone ogni possibilità espressiva. Ma occorre saper modulare “le altezze” dalle quali si guarda. Lei attacca, dall’alto della sua consapevolezza, sfoderando tutte le sue arti di seduttiva venditrice. Ma lui le resiste. Sebbene riconosca che lo sguardo di lei “potrebbe far venire a galla il fango”, si trincera dietro i canoni dell’omologazione. Ora, però, è avvenuto questo incontro e nulla è più come prima.

Federica Rosellini e Lino Musella

Nonostante ciò, resiste alla forte spinta eversiva: si posiziona più in alto e si gloria di “saper dire no”. E lei, di “conoscere tutti i sì”. Ovviamente non succede nulla e la venditrice retrocede all’indietro, di spalle, senza voler riconoscere e offrire la propria vulnerabilità. Torna a quel che resta del suo sipario e da lì ricava nuova energia per risorgere dalle due ceneri, come solo la fenice sa fare. E così farà più volte, per tutti i “no” che lui le dirà.

Federica Rosellini

Fino a che non inizierà a guardarlo da “una nuova altezza” concedendogli di non guardarla, di immaginare “di chiederle” di esaudire il suo desiderio nella solitudine tipica di un campo di cotone. Ancora un “no”: lei è troppo “strana”. “Laddove mi aspetterei pugni, arrivano carezze”- si difende lui. Ma la donna sa aspettare e sa che ognuno ha i suoi tempi per riconoscere dignità ai propri desideri. E solo quando lei, iniziando a scendere dal suo piedistallo, si confesserà “povera” per il bisogno che la abita costantemente, anche lui allenterà le redini.

Lino Musella e Federica Rosellini

Troveranno un piano comune sul quale incontrarsi senza difese, dove riuscire a scambiarsi la propria pelle, quella più sospettosa. Perché il desiderio ci vuole disarmati, poveri, aperti. E i proiettori che prima erano indirizzati solo sull’ “altro”, con fare inquisitorio, ora la donna li indirizza verso il sipario: il luogo del “noi”, che ci vede tutti inclini ad abbassarci fino al più profondo degli inchini. Per poterci, poi, librare alti come aquile. E poi di nuovo anelanti del “basso”: condizione indispensabile per poter spiccare davvero nuovi e intrepidi voli. Altissimi.

Federica Rosellini e Lino Musella

Magnifica, la scelta del regista Andrea De Rosa di affidare ad una donna la parte del “venditore”. I sospetti verso chi è interessato a creare o scoprire bisogni in noi sono amplificati esponenzialmente da ciò che risulta più difficilmente traducibile: la natura femminile. Lo straniero più straniero. La più ricca di variazioni. Ma anche nell’uomo abita una donna difficile da tradurre (anche per una donna).

Il regista Andrea De Rosa

Federica Rosellini e Lino Musella ne sono stati enigmatici ed illuminanti interpreti. Uno spettacolo sulla potenza vitale dell’incontro. Perché ciò che dà sapore alla vita è il carattere rivoluzionario di certi incontri. Come il teatro ci insegna da sempre.

Teatro India


Recensione di Sonia Remoli