Recensione dello spettacolo MADDALENA, L’AMANTE DI GOLDONI – di Antonella Antonelli – regia di Massimiliano Milesi –

TEATRO ELETTRA , 8 Luglio 2024

Terza edizione “Re(s)print” – L’Estate Elettra , 1 -15 Luglio 2024

Quanto bisogno abbiamo di vivere “un incontro” che per anni abbiamo solo immaginato?

Quanto bisogno abbiamo di rivelare, chiedere e sentirci rispondere qualcosa di univoco, al di là delle mille ipotesi che abbiamo formulato nel tempo?

Anche su questo ci porta a riflettere il penetrante testo di Antonella Antonelli, autrice dello spettacolo di cui Massimiliano Milesi cura acutamente la regia, andato in scena ieri sera nel piccolo gioiello del Teatro Elettra, ad un passo dal Colosseo.

Massimiliano Milesi

La Antonelli, che con Milesi e la loro Compagnia “TeatroDaViaggio” condivide la passione e quindi il lavoro di ricerca pluriennale sulle opere di Carlo Goldoni, da queste si è lasciata attraversare fino ad arrivare ad interrogarsi sulla stessa personalità del celebre commediografo. Nello sguardo di Antonella Antonelli confluisce infatti oltre alla prospettiva di attrice e a quella di dramaturg della compagnia, anche quella di psicologa clinica.

Antonella Antonelli

E se è vero, come è vero, che è la capacità travolgente e sconvolgente di certi “incontri” a dare forma alla nostra vita, allora si può convenire che fosse necessario immaginare e dare realtà teatrale ad “un incontro” tra le due donne più amate dal Goldoni: sua moglie Nicoletta Connio e la presunta amante Maddalena Marliani, musa e prima interprete della Mirandolina de “La locandiera”.

E’ la Connio (qui resa da Barbara Bergonzoni) a sentire l’esigenza di contattare la Marliani, per chiederle di recarsi da lei, all’indomani della morte del marito. Ed è sulla qualità del suo attendere, resa mirabilmente dalla postura e dal sentire degli occhi, che si apre lo spettacolo di Milesi. 

Appassionato si rivela l’incontro tra le due femminilità così diversamente esuberanti: l’una, la Marliani, visibilmente vibrante; l’altra, la Connio, decisamente più composta ma parimenti partecipe in emozione. 

E la sensazione che arriva allo spettatore nel corso della rappresentazione è qualcosa di simile ad un fertile ricongiungimento di due costitutive parti del femminile. 

La moglie di Goldoni non può tacere la sorpresa nel vedere l’amante del marito senza l’abituale coronamento seduttivo dei lunghi capelli. “Pesavano” – le risponde con intensa profondità Maddalena. 

L’ Antonelli autrice – qui anche interprete di densa sensibilità nel ruolo di Maddalena – semina con questa allusiva risposta il primo dubbio e quindi il primo indizio che fa immaginare allo spettatore che una qualche ricerca di trasformazione interiore sia già in atto anche in Maddalena. 

Lei stessa lasciata da Goldoni, come le altre amanti di cui amava circondarsi, anche a causa di un disturbo di ciclotimia: un’estrema instabilità dell’umore che lo faceva scivolare in atteggiamenti depressivi per poi risalire al suo consueto ottimismo. Così ci rivela l’Antonelli nelle sue note d’autrice. 

“Ma voi non siete stata come le altre” – le rivela la moglie Nicoletta, restituendole quell’identità unica e necessaria che aveva così bisogno di contattare Maddalena. “Lui non ha mai smesso di pensarvi e di riconoscere il vostro talento, fino agli ultimi giorni: voi siete stata un sostegno per lui, non l’avete usato. Per questo io, di voi, non sono mai stata gelosa”. 

Nicoletta infatti, sebbene avesse sempre accolto con paziente disponibilità le incursioni del marito nel femminile delle altre donne, al femminile di Maddalena sente il bisogno di congiungersi, riconoscendo a qualche livello in esso il sano completamento del suo femminile. Esclusivamente di natura comprensiva, prudente e devota, in omaggio al quale il Goldoni scrisse la commedia “La buona moglie”. Ma solo conoscendola di persona Nicoletta scopre che Maddalena chiama il “suo” Carlo, Osvaldo. Nome che Nicoletta sapeva che il Goldoni detestasse, ma di cui ora scopre si lasciasse “rinominare” in esclusiva da Maddalena.

Ecco allora che, attraverso il potere del “racconto”, l’Antonelli rende possibile una fertile contaminazione tra le due femminilità, a cui la regia di Massimiliano Milesi sa donare corpo con guizzo naturalistico. Entrano così nello spazio scenico – spazio della memoria delle due donne – i compagni complici e rivali di tante giornate e di tante avventure artistiche ed umane.  Sono Arlecchino (Alessio Serafini), Brighella (Giovanni Pratichizzo), il Giovane Innamorato (Manuel Kilani), la Giovane Innamorata (Maria Elena Pagano), il Poeta (Marco Laudani), Silvestra (Laura Nardi), Teodora (Maria Grazia Bordone) e il Goldoni (Fabio Di Valentino).

Molto interessante il lavoro sulla prossemica – opportunamente calibrato per un palco così “intimo” come quello del Teatro Elettra – nel quale è riuscita ad esprimersi un’appassionata sinergia attoriale.

Grazie alla quale noi del pubblico riusciamo a condividere il prender forma di un personaggio così moderno come quello di Mirandolina, al quale il Goldoni si era ispirato conoscendo Maddalena. Ciò che non immaginava però è quanto la stessa fosse disposta ad osare, non solo nell’interpretarlo – consapevole di rischiare di non assecondare il gusto del pubblico e della morale vigente – ma anche contribuendo alla stesura stessa del testo, con sempre accresciuta audacia.

Audacia decisamente non ipocrita in quanto dichiarata, anche all’interno della compagnia, alla luce del sole e non garbatamente alle spalle: “Ma io sono l’amante del Goldoni !” – soleva rispondere alle insinuazioni dei compagni di lavoro.

Quell’audacia di cui ci parlano le volute di quel filo rosso di cui Maddalena si adorna il collo e i piedi, segno – e non solo oggetto – di quell’amore per se stessa che solo in quanto tale poteva essere così generoso verso l’Altro. Segno e non solo oggetto di quel suo desiderare, a cui si è sempre mantenuta fedele. Disponibile ad accoglierne tutti i possibili disequilibri; proprio lei che per così tanto tempo si era allenata invece a curare il proprio equilibrio fisico, così come richiesto ad una ballerina di corda.

Ma sarà proprio questa accoglienza verso il disequilibrio ontologico al nostro desiderare a restituirle la consapevolezza dell’instabilità della vita e delle relazioni che la tessono: “occorre vivere il momento !”. Stabile, può e deve essere la nostra follia all’interno del teatro della vita.

Un testo e una regia – questi di Antonella Antonelli e di Massimiliano Milesi – che ci parlano con poetica bellezza del bisogno, che tutti ci accomuna, di essere riconosciuti e quindi apprezzati nella nostra unicità.  E dell’esigenza, sempre più consapevole, che tale unicità sia la risultante di un lavoro di ricerca su noi stessi aperto ad accogliere  – e quindi ad “incontrare” in fertile “dialogo” – parti differenti e in continua evoluzione di noi stessi.

Un’evoluzione esistenziale non meno necessaria dello scardinamento della fissità delle parti attoriali, di cui si avvertiva così tanto il bisogno nel teatro goldoniano. 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA CASA NOVA di Carlo Goldoni – regia di Piero Maccarinelli

TEATRO INDIA, dal 14 al 24 Marzo 2024 –

“  Ti piace “  ?

E’ la frase che, forse, meglio racconta questa commedia del Goldoni – così perfettamente equilibrata ed elegante – che ruota intorno alle vicende di Anzoletto (uno Iacopo Nestori dalla multiforme sensibilità) : un uomo “nuovo”, continuamente alla ricerca di conferme al suo operare. Lui così insicuro, così “nuovo” nel gestire un patrimonio, nel dare forma ad una casa “nuova”. Così borghese, sebbene da poco arricchito, eppure così in buona fede. 

E si sente come lo sguardo del Goldoni ami dipingerlo con tenerezza. E Gianluca Sbicca (a cui è affidata la cura dei costumi di questo spettacolo) vestirlo di verde : il colore dell’abbondanza. Ma anche del fluire costante di ciò che ci arriva.

Il regista Piero Maccarinelli

Ma “Ti piace?” – come con estro ha saputo cogliere il regista Piero Maccarinelli – è una frase simbolo anche del nostro tempo, così abitato dai social network. Anche noi ci costruiamo una “nuova casa”, una nuova immagine, soprattutto in risposta ai “Mi piace” di chi ci legge, di chi ci guarda, di chi ci invidia. 

E non ci accorgiamo, come Anzoletto, di dare forma ad un mondo dove – sebbene crediamo di essere noi l’attrazione – in realtà sono gli altri ad attrarci. Con il loro consenso. 

Un magnetismo perverso che l’impianto scenico di Maccarinelli riproduce fascinosamente.  Una scena, la sua, dagli echi iconografici hopperiani che riesce a far sentire lo spettatore al tempo stesso dentro e fuori dal racconto. 

Un realismo emblema della paradossale solitudine dell’uomo: ieri come oggi.  Come l’acuta cameriera Lucietta (una Mersilia Sokoli ricca di quella preziosa forza, di quell’eros, che riesce a tenere uniti elementi diversi e talora contrastanti) ci confessa: prima si poteva “ciancolare”, ora invece sembra di essere state sepolte. Prima lei e la sua signora Meneghina avevano “i morosi”, ora qua “tutte e due senza un ca”. E forse non a caso Gianluca Sbicca la veste dell’austerità del nero, che però la sua forza vitale (metafora di un ceto sociale ancora autenticamente sano) tende a limitare, ad accorciare, a modellare.

Perché “il nuovo” non è automaticamente sinonimo di avanzamento, di apprezzamento, di realizzazione, di felicità, come la mentalità piccolo borghese immaginava e l’attuale ideologia capitalistica da un po’ vorrebbe farci credere. 

Perché il nuovo è tale – come direbbe Massimo Recalcati – in quanto “piega dello stesso”. Dietro al “sempre nuovo” è in agguato infatti la stessa insoddisfazione che stagna nel “già conosciuto”. E così facendo, il presente si svuota di senso perché lo si lega ad un futuro destinato a non realizzarsi mai: irraggiungibile, perché fondato sulla natura insaziabile del desiderio. Altrui. 

Le insicurezze di Anzoletto, seppure proprie di un uomo appartenente ad un diverso periodo storico, riusciamo a sentircele vicine. Vicinissime. Perché come a lui, anche a noi capita di restare incastrati nel desiderare sempre e solo quello che non abbiamo. Liquidi.

Ecco allora che anche sulla scena, vira alla subdola tonalità del verde-stagno la luce ( il cui disegno è curato da Javier Delle Monache) sulla maxi parete del fondo, la cui “fluidità” spaventa – quasi fosse la tela bianca di un artista – tante le possibilità che potrebbe ospitare. E si arriva così a scoprire che quella parete che “sembrava” avere la solidità di un muro capace di ospitare un maxi-televisore led si rivela in tutta l’impalpabilità di un velo. E mette a nudo la curiosità e il piacere voyeristico di chi abita al piano di sopra, proprio come fossero dietro ad uno schermo digitale.

E scoprono così che Anzoletto si trova costretto, per compiacere la sua neo-moglie che lo ha scelto credendo che fosse ciò che non è, ad un trasloco in un appartamento al di là delle sue possibilità. Non tanto e non solo economiche, quanto piuttosto “identitarie”: anche lui “fluido” nel non aver consapevolezza dei propri desideri. Della propria identità.

Geniale ed effervescente, in equilibrio tra  tradizione e tradimento, l’adattamento del testo del Goldoni da parte di Paolo Malaguti – che ne ha curato anche la traduzione – raffinatamente punteggiato dalle musiche composte da Antonio Di Pofi.

Del “quotidiano parlare” della lingua veneziana del Settecento mantiene la succulenza del sentore di una fragranza calda e sinuosa, che ben si lega sinergicamente alle movenze di una scena così contemporanea. E’ una lingua che sa raccontare anche il nostro reale: una lingua materica, così voluttuosa da sconfinare a tratti nel metafisico.

La consapevole interpretazione, così ricca in calviniana leggerezza, propria dei 10 giovani attori e attrici diplomati all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’AmicoLorenzo Ciambrelli, Edoardo De Padova, Alessio Del Mastro, Sofia Ferrari, Irene Giancontieri, Andreea Giuglea,
Ilaria Martinelli, Gabriele Pizzurro, Gianluca Scaccia
– si coniuga mirabilmente con “la rustega” e fertile sapienza di Stefano Santospago nei panni di un magnifico zio Cristofolo.

Stefano Santospago (zio Cristofolo)

E nonostante gli innumerevoli errori alimentati dalla ricerca di un continuo e asfissiante piacere agli altri (“cosa dirà la gente?”), la morale di Goldoni – attualissima anche oggi – c’insegna che c’è sempre qualcosa di bello che si salva nel passaggio dal vecchio al nuovo. E – come direbbe l’Alessandro Baricco de “I barbari” – questo qualcosa non è tanto ciò che abbiamo tenuto al riparo dai tempi ma “ciò che abbiamo lasciato mutare perché ridiventasse sé stesso, in un tempo nuovo”. 

Lo spettacolo, da non perdere, è in scena al Teatro India fino al 24 Marzo p.v.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo UN CURIOSO ACCIDENTE di Carlo Goldoni – regia di Gabriele Lavia

TEATRO ARGENTINA, dal 31 Ottobre al 19 Novembre 2023 –

Cosa c’è di più stimolante e di più vitale di un curioso accidente ?

Di uno, cioè, di quegli incontri ( perché questo è quello che Goldoni chiama un “accidente” ) che all’improvviso ci scombinano l’abituale e noiosamente confortevole tran tran delle nostre giornate.

Un “accidente” che si origina con la complicità della tensione più fertile di cui disponiamo: la “curiosità”. Colei, cioè, che ci spinge a prenderci cura di ciò che ci accade. Lei, così sollecita nell’investigare, è il piacere di conoscere e di accrescersi nel sapere. E quindi, ciò che più autenticamente ci permette di dare continue svolte alla nostra vita.

E forse anche per questo motivo, acutamente il Lavia-regista sceglie di aprire lo spettacolo con un inno al Teatro, quale luogo dei continui nuovi inizi. Sia per gli interpreti, che per gli spettatori.

E ancora, è sempre per sensibilizzare il pubblico a questo concetto di Teatro, che Lavia in collaborazione con il Teatro Argentina decide di lanciare, prima della messa in scena della programmazione dello spettacolo qui a Roma, un contest sui social network – #curiosoaccidente – premiando coloro che avrebbero meglio tradotto in una “storia di Instagram” il proprio curioso accidente più significativo. Una poltrona sul palco il premio: sì, poter sedere insieme a una trentina di altre persone all’interno di una mini platea, allestita proprio su un lato del palco. Una geniale forma di teatro nel teatro: un nuovo inizio, appunto. Un nuovo inizio dentro continui nuovi inizi.

E i nuovi inizi infatti non finiscono qui: c’è anche un Lavia-narratore esterno, infatti, che desidera mettere gli spettatori a parte di quei significati reconditi, celati nel “a chi legge” di questa commedia. E così scopriamo che il Caffè della Sultana, il luogo in cui si narra si fosse raccontato di questo curioso accidente della commedia come fatto realmente accaduto, in realtà non è un luogo. Piuttosto è un particolare modo di fare il caffè: un rituale di ospitalità, di apertura alla vita e ai suoi nuovi inizi. E la Sultana- ci confida Lavia- è una misteriosa e affascinante donna tutta da scoprire. Lui, infatti, non va oltre e rimanda a noi la curiosità di esplorare e sciogliere il mistero.

Lo stesso Goldoni proprio con questa commedia “inizia” a distaccarsi dalle stereotipate maschere della commedia dell’Arte dando vita a personaggi multi sfaccettati, proprio perché sottoposti alla casualità assurda della vita reale.

La scena riproduce con magnifica essenzialità la rete delle casualità tessuta dalla vita. E da noi stessi. Tutto è a vista eppure tutto cela nuove sorprese. A partire dai bauli, per arrivare al sipario, posto dove meno ce lo saremmo aspettato: dietro la platea sul palco. Passando, poi, per il camerino a vista di Lavia: luogo di meravigliosi nuovi inizi. Il tutto collegato da un’obliqua struttura lignea: cielo di possibili congiunture.

Gabriele Lavia (Monsieur Filiberto)

“Nudi” anche i personaggi: entrano vestiti in un casual total black contemporaneo e solo successivamente vestono una seconda pelle: quella del robone (un ampio soprabito lungo fino ai piedi) rigorosamente sempre aperto: disponibile ad accogliere ogni evento. E a colorarsi di volta in volta di un’emozione diversa. Nessun robone è infatti di un colore unico ma è costellato da una miriade di colori. Da “accendere” di volta in volta, a seconda del sentimento chiamato in causa.

Simone Toni (Monsieur de la Cotterie) e Federica Di Martino (Madamigella Giannina)

L’amore, ad esempio, è il “curioso accidente” per eccellenza: accende, acceca e fa delirare. E così “apre”, causa quell’imbarazzo che ci provoca, ad una serie di congiunture diversamente assurde. L’imbarazzo è un rimanere “allacciati”, cioè impacciati, nel disagio e nell’incertezza e proprio questo senso di costrizione, o ci paralizza o ci “slaccia” verso tentativi di compensazione emotiva.

Un momento dello spettacolo “Un curioso accidente” di e con Gabriele Lavia

Questa leggiadra commedia, infatti, è tutta costruita su una rete di equivoci, che permettono allo spettatore di “compatire” i personaggi, per la spontanea immedesimazione che ne scaturisce. E insieme di prendersene gioco, e quindi di divertirsi, non appena l’immedesimazione si alleggerisce del senso di vergogna.

Federica Di Martino e Gabriele Lavia

La regia di Lavia rende limpido allo spettatore il lavoro del cercare nuovi inizi emotivi da parte di ciascun personaggio, anche i più sicuri e quindi ancorati al rassicurante ménage dei costumi etici del passato. Lo percepiamo dai toni della lingua, dai gesti, dalle posture: tutti in bilico tra un prima e un dopo. Come avviene per ogni “inizio”.

E questi “passaggi” suscitano ilarità nel pubblico: anche la risata, infatti, è un modo per liberarsi, slacciarsi, dall’imbarazzo di un nuovo aprirsi. Lasciandosi attraversare. Splendido in poesia questo “cercare poetico” degli attori, che rende credibilissimo ogni loro sentire. Emergono Federica Di Martino e Simone Toni ma anche Giorgia Salari, Andrea Nicolini, Lorenzo Terenzi, Beatrice Ceccherini, Lorenzo Volpe e Leonardo Nicolini. Brilla e si libra – anche in un atletico ripetuto rotolare a terra – Gabriele Lavia.

Federica Di Martino

In questa capacità di sperimentarsi e quindi di aprirsi agli accidenti della vita risultano più audaci le donne. E’ la natura che le predispone: la loro psiche è più aperta all’entrare in relazione, al mettersi in gioco, al rischiare. Gli uomini invece tendono ad essere molto cauti e quindi a sottrarsi al rischio. Insomma, non decidendosi a rompere le uova, non arrivano facilmente a “fare la frittata”. Ma “la vita comincia ogni giorno” e forse anche più volte al giorno.

Perché “la felicità è pura follia”. 

Uno spettacolo avvincente e propiziatorio. 

Uno spettacolo che nell’invitarci a “slacciarci” alla vita, ci salva. 

Ci salva cioè dalle rigidità di pensiero e dall’esasperato individualismo che avvelenano la nostra quotidianità. E che, in un crescendo, portano agli orribili scenari di guerra che stiamo attraversando. Scenari che si sono trovati a vivere anche i personaggi di questa commedia, ambientata durante la Guerra dei sette anni (1756-1763): la prima guerra mondiale della storia.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione HOTEL GOLDONI – La Locandiera – regia di Antonio Latella

TEATRO INDIA, 17 giugno ore 21.00 – 19 giugno ore 15.00 (maratona) – 20 giugno ore 21.00 –

“La locandiera” del regista Antonio Latella (Premio Ubu nel 2001 e Premio Gassman nel 2004) è un inno a ciò che di diverso, di “straniero” e quindi di unico brilla in ciascun personaggio. “Fra voi e me vi è qualche differenza”: così l’incipit allo spettacolo. Per esaltare ciò al massimo grado, Latella veste tutti i personaggi in maniera identica. Come dentro una divisa che li uniforma tutti: giacca nera, sotto-giacca nero, bermuda nero e calze nere che svettano, con più o meno audacia, da scarpe scure. Tutti: uomini e donne; servi e padroni.

Tutti si originano dalla stessa “forma”, dando vita però, ciascuno, a qualcosa di meravigliosamente diverso. È un “muro” di legno quello che delimita il proscenio. Forse, la porta della locanda. Al suo interno ospita due aperture, due “buchi della serratura”: quelli delle sagome vettoriali di un uomo e di una donna.

Da qui i personaggi si affacciano, sostano, si incastrano. Solo quando trovano il giusto impeto, sbucano, sfondano, oltrepassano “la forma”, rompono lo stampo che li unifica. Aprono. Si aprono. E quale migliore modalità di differenziazione esiste se non quella che si esprime nel sedurre, nel corteggiare?

Latella sceglie di mettere in scena allora una presentazione collettiva dei pretendenti della locandiera: come in una “giostra”, in una parata. Dove però tutti hanno già il loro “fazzoletto”: sarà la dama a scegliere se e da chi accettarlo. La locandiera: lei che “incatena, parla bene ed è di ottimo gusto”. Lei che “ha qualcosa di più delle altre: unisce gentilezza e decoro come nessuna mai”.

Il corteggiamento, la giostra, è fatta prevalentemente di parole. Ma se è vero che “il punto g” è nelle orecchie, è vero anche che la locandiera è una donna concreta: “mi piace l’arrosto. Del fumo non so che farmene … mio piacere è vedermi servita e vagheggiata”. Soprattutto “vagheggiata”: inseguita irresistibilmente nella sua volubilità.

Il suo gioco infatti sarà, almeno finché le sarà concesso, quello di scegliere di non scegliere. Quale piacere più grande si può ricavare, se non seducendo per farsi sedurre dal più scontroso e misogino degli ospiti della locanda? E poi lasciarlo andare. Rischiando. Ma non fino in fondo. Obbedendo, e forse lasciandosi schiacciare, dal consiglio paterno di sposare Fabrizio. Un’eredità, una “forma”, dalla quale la locandiera non riesce a plasmare qualcosa di diverso e quindi unico. Solo suo.

I giovani attori incantano lo spettatore dando prova di sapersi misurare in un originale uso dell’eredità dei frizzi e dei lazzi della commedia dell’arte. Sapendo punteggiare il mare di parole con accattivanti pause e dardeggianti sguardi. Delizioso contrappunto quello messo in scena dalle due commedianti Ortensia e Dejanira: nuove, fresche e conturbanti baccanti.


Recensione di Sonia Remoli