Recensione dello spettacolo AMLETO di e con Michele Sinisi

TEATRO STUDIO ARGOT, dal 14 al 17 Dicembre 2023 –

Un coro di grilli abita questa riscrittura dell’ “Amleto” di Michele Sinisi: animali considerati i “cantori della luna”, malinconici per eccellenza. Perché è sulla particolare malinconia di Amleto che Sinisi vuole portare la nostra attenzione: una malinconia struggente e furiosa .


È un Amleto che ricorda un Pierrot.  E di questa maschera della Commedia dell’Arte ha un po’ dello Zanni astuto che si caccia sempre nei guai. Possiede poi l’espressività del Pierrot divenuto muto, grazie alla rivisitazione della maschera apportata dal mimo Jean-Gaspard Debureau (1796-1846). E infine è  suo anche un certo carattere bohemien: quello che Pierrot assunse con Adolphe Willette (1857-1926). Un Pierrot nero simbolo del poeta irriverente, perseguitato dalla sventura e vendicatore delle ingiustizie della società.

E con un’ invettiva esistenziale inizia la narrazione dell’ “Amleto” di Sinisi: “… perché si fanno traffici di guerre? Perché ci sono carpentieri che non distinguono la domenica dal resto della settimana? …Chi è che può dirmelo?”. Sono questi i suoi dubbi atroci, consapevole che l’istinto alla sopraffazione ci abita per natura ( “Siamo tutti furfanti immatricolati” ) e la nostra aspirazione alla libertà in verità ci spaventa terribilmente ( “La coscienza ci rende tutti codardi ” ).

Si rivolge a noi ma in realtà  è in colloquio con le parti di se stesso, tra loro in contraddizione. E poi è come se evocasse delle presenze assenti. Ma in fondo, cosa c’è di più presente di un’assenza?

Sono apparentemente seduti su sedie, i personaggi del testo originale che Sinisi ha eletto a protagonisti della sua riscrittura: sono Gertrude, Claudio, Ofelia, Laerte, Polonio e un attore.


Sono sedie spostate, gettate a terra, aperte e chiuse violentemente, rumorosamente: archetipi di rapporti umani problematici e irrisolti.  E ricordano un po’ quelle dei danz-attori di Café Muller, lo spettacolo-manifesto del Tanztheater di Pina Baush.


Ma alludono anche al chairwork: una modalità di lavoro esperienziale che utilizza le sedie e le loro possibili posizioni con una finalità terapeutica. Un’alternativa al lavoro della psicoanalisi: se questa infatti è incentrata intorno al potere terapeutico della “parola”, il chairwork lavora sul potere terapeutico dell’azione, invitando il soggetto a “mettere in scena” le parti di sé legate alle persone più coinvolte nel suo vissuto. Agire i loro ruoli conflittuali, lo conduce a rimettere insieme le loro parti.

Quindi, piuttosto che parlare “dei” suoi problemi, l’Amleto di Sinisi  parla “a” questi problemi”, interpretando tutti i “ruoli” più caldi e agghiaccianti del suo vissuto. “Sulle sedie”. Quasi come in un setting terapeutico.

Perché separarsi da qualcuno significa separarsi da una parte di noi: non si soffre solo per la separazione da quella determinata persona ma anche per il credere di aver perso quello che noi eravamo “con” quella persona. Nel bene e nel male.


La riscrittura di Sinisi è allora anche un appassionato ed accogliente tentativo di invitare Amleto ad un elaborazione dei suoi lutti. Lui che, colto da una furia maniacale, ha creduto di superare il dolore subito: attraverso la vendetta.

Ogni lutto chiede invece tempo e la capacità di stare nel dolore. E poi serve ricordare: riproiettare in sé e fuori di sé la narrazione che ci ha legato a chi non c’è più.

Qui Polonio è il teorico del “rapporto causa-difetto” e dell’artificio, inconsapevole che “darsi troppo da fare è pericoloso”. Laerte è colui che di fronte alla situazione fragile di Elsinore preferisce andarsene in Francia; Geltrude è una madre che si macchia di un duplice imperdonabile tradimento: la rabbia gelosa che assale Amleto è così insopportabile da dover essere sublimata attraverso il passaggio di Gertrude dal ruolo di carnefice a quello di vittima. L’allusione ad un amplesso tra sua madre e suo zio rimesso in scena attraverso le loro due sedie, è potentemente commovente. Suo zio Claudio è “la mano” della situazione. Ofelia è le sue pretese di innocenza. E poi lo spettro di suo padre: lui è un trasparente vaso di fiori, “violentato” dai suoi cari.


Questa è la verità dell’Amleto di Sinisi, che arriva attraverso un’intensa sublimazione a recuperare il rapporto (simbiotico) con la madre: “quel cuscino rosso” divenuto trono e trofeo di Claudio ora può tornare ad essere “il suo guanciale” per una buona notte.


Questa pulsante riscrittura dell’ “Amleto” shakespeariano di Michele Sinisi ci immerge in un necessario rito collettivo: accattivante e terapeutico. Perché – come aveva acutamente  intuito Harold Bloom – Shakespeare contiene tutto e tutti: i suoi drammi sono intessuti di pulsioni alle quali non possiamo resistere. E per questo motivo non siamo noi che li leggiamo ma piuttosto sono loro che ci leggono fino in fondo.


Michele Sinisi oltre a saper immaginare fino alla restituzione una riscrittura e uno sguardo che completa l’identità di un personaggio-cult della nostra esistenza, ci conduce con cruda poesia al coraggio di guardare anche dentro di noi. Con feroce misericordia.

Le multiformi identità della sua voce, i suoi tremendi silenzi e la sua potentissima espressività mimica creano un varco nello spettatore. Che accetta di essere anche protagonista.

Michele Sinisi


Recensione di Sonia Remoli

Un Amleto

TEATRO GOLDEN, dal 14 al 19 Febbraio 2023 –

Le notizie da Elsinore arrivano dalla radio, voce narrante dell’antefatto. Una geniale cronaca giornalistica che fa tornare alla mente “La guerra dei mondi” (1938) di Orson Welles. 


È un adattamento, quello immaginato dalla regista Loredana Scaramella e portato in scena da attori di qualità ed esperienza accanto a un gruppo di giovani interpreti diplomati alla Golden Academy, che trova un interessante equilibrio tra il rispetto verso un’essenziale fedeltà e l’apertura a un legittimo tradimento.

Giacomo Faccini (Amleto ) e Antonio Tintis (Polonio) in una scena dello spettacolo “Un Amleto”

Farne una “cronaca”, cioè l’esposizione di uno dei fatti giornalieri di un Paese (incluso l’intreccio delle voci che corrono) lo rende “carne e sangue” del nostro inconscio collettivo. Perché, come sosteneva Harold Bloom, Shakespeare “inventa la psicanalisi”.

Antonio Frazzoni (Orazio) e Giacomo Faccini (Amleto) in una scena dello spettacolo “Un Amleto”

Efficacissima la scelta di rinunciare alle scene. Unici oggetti: un pianoforte nero a coda (in un angolo) e due sedie “viennesi”. Proiezioni fanno vivere, quando serve, il fondale. Ma tutto il vasto “globo”, prima di dissolversi (alla fine della rappresentazione) è riuscito a “levarsi al fulvido cielo dell’immaginazione”.

Mauro Santopietro (Spettro) e Giacomo Faccini (Amleto) in una scena dello spettacolo “Un Amleto”

Non è stato chiesto invece alla nostra “fantasia di pubblico di vestire di sfarzo” i reali: lo erano già, anche se contemporaneizzati. Deliziose coreografie hanno regalato un’elegante energia giocosa alla “rutilante azione”.

Mauro Santopietro (Claudio/Spettro), Giacomo Faccini (Amleto) e Laura Ruocco (Gertrude)

La sinergia della recitazione densa e profonda dei professionisti commista a quella fresca e talentuosa dei neo diplomati della Gold Accademy riesce a farci immedesimare nelle dinamiche di questa famiglia: archetipo, carne e sangue di ogni famiglia. E quindi dell’intera umanità.

Matteo Milani (Laerte ) e Angelica Pisilli (Ofelia)

Su tutti, alcuni “quadri” restano impressi nel ricordo: in primis quello della morte di Ofelia, destinata a spingersi in cima a un dirupo (umano) per poi cadere e lasciarsi trascinare da un inconsolabile fiume (umano). Ma anche l’insolito e accattivante party per il matrimonio di Gertrude e Claudio; un Polonio quasi divertente nel suo “efficientismo”; il complice rapporto fraterno tra Laerte ed Ofelia… E molto altro ancora.

Giacomo Faccini (Amleto) e Laura Ruocco (Gertrude) in una scena dello spettacolo “Un Amleto”


L’amalgama tra realismo e immaginazione è risultato alchemicamente così efficace, che molti spettatori non si sono accorti della finzione. Come accadde nella trasmissione radiofonica di Orson Welles.

Giacomo Faccini (Amleto) e Angelica Pisilli (Ofelia) in una scena dello spettacolo “Un Amleto”

Recensione dello spettacolo AMLETO di William Shakespeare – regia di Giorgio Barberio Corsetti –

TEATRO ARGENTINA, dal 15 Novembre al 4 Dicembre 2022 –

Amleto siamo noi.

Amleto è uno di noi: immerso qual è in dinamiche familiari ed esistenziali sempre attuali.

Amleto è un mito moderno: un uomo alla continua ricerca di una ragion d’essere ma soprattutto un uomo dilaniato da una prepotente dualità. 

Il regista Giorgio Barberio Corsetti

Dualità che, com’è nel destino da sperimentatore del regista Giorgio Barberio Corsetti , trova sviluppo in questo adattamento prendendo le sembianze di una interessantissima “metamorfosi” globale. 

In fieri, in trasformazione, non è solo Amleto ma tutto l’universo in cui è immerso. Ad iniziare dalla leviatanica struttura multiscenica (così cara al teatro shakespeariano) rappresentante il castello-prigione di Elsinor (le scene sono firmate da Massimo Troncanetti). Complice una schiera di macchinisti che entrano ed escono dalla scena, come in un’elegante coreografia, armonicamente declinata sulla poetica della narrazione.

Una scena dell’ “Amleto” di Giorgio Barberio Corsetti

Parlano di intrinseche dualità i pannelli che scendono a “tagliare” l’apparente verità, rivelando ciò che in essa si cela.

Una scena dell’ “Amleto” di Giorgio Barberio Corsetti

Dualità che metamorficamente si moltiplica in una frammentazione, nella scena del duello finale tra Amleto e Laerte. Davvero molto suggestiva: acuta intuizione quella di Corsetti di far scendere sulla scena pannelli specchianti che moltiplicano, scomponendoli in una miriade di immagini, i due contendenti. Intuizione che ricorda archetipicamente la scena del labirinto di specchi de “La signora di Shangai” di Orson Welles.

Il M° Massimo Sigillò Massara

Incentrate sulla dualità classico-contemporanea sono le originalissime architetture musicali composte dal Maestro Massimo Sigillò Massara. 

Una scena dell’ “Amleto” di Giorgio Barberio Corsetti

Ad un interessante “in bilico” sono sapientemente sottoposte anche alcune prove attoriali: davvero stimolante la resa di alcuni passi della narrazione dove la decisa inclinazione dei piani costringe gli interpreti a trovare sempre nuovi equilibri fisici. E metafisici. 

Una scena dell’ “Amleto” di Giorgio Barberio Corsetti

Perché ciò che conta, conclude l’ “Amleto” di Corsetti non è stabilire nettamente se “essere o non essere” quanto piuttosto “essere presenti a tutto”. E a tutti: perché l’immortalità dei mortali si dà nell’essere ricordati. E nell’avere, quindi, la preziosa opportunità che qualcuno desideri essere il “testimone” della nostra esistenza. Come Amleto lo è stato per il re, suo padre, e Orazio lo sarà per il carissimo amico Amleto. 

Gli applausi ieri sera alla prima dell’ “Amleto” di Giorgio Barberio Corsetti

Gli attori danno una splendida prova della “fluidità” in cui sono chiamati a muoversi. Non ultima quella tra l’essere “attori” e l’essere “spettatori”.

Particolarmente accattivante la rivisitazione che Corsetti fa di alcuni personaggi: un’ Ofelia poeticamente rock (interpretata con profonda leggiadria da Mimosa Campironi) che, anziché ‘evadere’ intrecciando ghirlande di fiori, preferisce ascoltare musica correndo sul tapis roulant, oppure sedersi sul bordo della finestra, al chiaro di luna, scrivendo lettere e suonando la sua chitarra elettrica. Una splendida rivisitazione della Audrey Hepburn di “Moon River”. Molto gradevole anche l’elegante poliedricità che Corsetti regala al padre di Ofelia, Polonio ( il gentlemen Pietro Faiella) raffinato anche nei panni di giardiniere, che a tratti ricorda il candore di Chance in “Oltre il giardino”. Felice poi l’idea di rendere la complessità psicologica di Gertrude (l’interprete è Sara Putignano) attingendo anche ad una sensualissima Jessica Rabbit. Fausto Cabra (Amleto) brilla per naturalezza e filosofica inquietudine.

Fausto Cabra (Amleto)

Il disegno luci di Camilla Piccioni è così chirurgicamente efficace, da ricoprire un vero e proprio ruolo poetico all’interno della narrazione.


Recensione di Sonia Remoli