Recensione dello spettacolo GUERRA E PACE – di Lev Tolstoj – adattamento di Gianni Garrera e Luca De Fusco – regia Luca De Fusco

TEATRO ARGENTINA, dal 4 al 23 Febbraio 2025

Si accede nell’opera-mondo “Guerra e Pace” di Lev Tolstoj rispondendo all’invito della famosa Anna Pàvlovna Scherer, damigella d’onore e familiare dell’imperatrice Maria Feòdorovna. Qui, nella regia di Luca De Fusco, una Pamela Villoresi ricca in vivace profondità e generosa di slanci appassionati.

Così facendo si coglie l’occasione di essere introdotti, grazie alla sua influenza (una grippe al di là del male di “una” stagione) in ambienti (esistenziali) davvero irrinunciabili: da lei sfilano le diverse declinazioni del nostro stare al mondo. 

Pamela Villoresi – Paolo Serra

(ph. Rosellina Garbo)

Dove, a ben guardare, la guerra e la pace, il bene e il male, l’amore e l’odio, non sono poi così distanti. Anzi, si direbbe, difficilmente separabili. Anche in pace, infatti, la vita spinge i personaggi a gettarsi in tali imprese, che poco hanno da invidiare a quelle che si svolgono sul campo di battaglia. 

L’adattamento efficacemente evocativo di Gianni Garrera (filologo e traduttore, in Italia lo studioso di riferimento di Søren Kierkegaarde) e Luca De Fusco (regista teatrale, direttore teatrale e direttore artistico), che dello spettacolo cura con rigoroso fascino anche la regia, restituisce allo spettatore tutta la vibrante inquietudine del testo tolstojano. Che si declina nelle diverse posture esistenziali dei protagonisti, riflesso degli scenari in cui sono immerse. 

Luca De Fusco

Inquietudine che assai persuasivamente è sottolineata da un premonitore motivo musicale al violino (le musiche sono curate da Ran Bagno), che ricorre per tutto lo spettacolo e che introduce ad un clima di insinuante sospensione emotiva. “Si può forse rimanere tranquilli nella nostra epoca, quando si ha del sentimento?” – si chiede Annette.

Un lampadario di cristalli di maestosa bellezza, che ha perso la sua funzione logica e il suo naturale punto di ancoraggio sfidante la forza di gravità, è ora sconfitto a terra, di lato al palco. Immediata visualizzazione scenografica del buio di una condizione psicologica che abita i personaggi, una volta divelti quei punti di riferimento che la vita, soprattutto nei periodi di guerra, ci sottrae. 

(ph. Rosellina Garbo)

Un buio che assai sapientemente la drammaturgia del disegno luci (curata da Gigi Saccomandi) lascia essere preda della luminosità di ombre, tali da insinuarsi e popolare la scena (anche luogo della mente) di miraggi e di speranze. Spesso proiezione di inganni, che velano la mente e il cuore, seducentemente stimolati nello spettatore dalle creazioni video, curate da Alessandro Papa.

Così quello che era il salotto scintillante di San Pietroburgo è ora immerso nel buio. E abitato da rovine. Sulle quali ci si può sedere ma dalle quali si possono anche trarre preziosi insegnamenti esistenziali. 

Per far sì che questo accada, Tolstoj – come acutamente colto nell’adattamento e nel lavoro di regia – ci fa entrare in relazione con un’umanità spesso disposta ad esporre se stessa ad un “divenir-rovina”. Esperendo su se stessa gli effetti malinconici, derivanti dallo scoprire che il proprio statuto soggettivo possiede la consistenza “di ciò che resta” di una dissoluzione. Il prodotto cioè di una magnifica sinergia di contraddizioni che ci rende “umani”. Una “forma” di vita, a rischio costante dell’informe, con cui la vita concreta si articola e diviene. 

Uno stare “sul confine” non solo bellico, ma anche ontologico ed etico, reso suggestivamente dalle scelte scenografiche di Marta Crisolini Malatesta (sua la cura anche dei costumi) e dall’appassionata interpretazione degli interpreti – Pamela Villoresi, Federico Vanni, Paolo Serra, Giacinto Palmarini, Alessandra Pacifico Griffini, Raffaele Esposito, Francesco Biscione, Eleonora De Luca, Mersilia Sokoli, Lucia Cammalleri – intrepidi testimoni di multiformi posture vitali, dalle quali tutti possiamo essere abitati. Una coreografia esistenziale disegnata con un’elegante ed efficace prossemica da Monica Codena.

Opportunamente, il palco è abitato da una scalinata, i cui gradini collegano diversi piani posti verticalmente e immersi in una forza unidirezionale: la forza di gravità. Materializzazione di un collegamento tra potenzialità diverse, che consentono un passaggio in accordo o in opposizione con la forza unidirezionale. Una splendida visualizzazione simbolica – questa identificata nelle potenzialità espressive della scala da Marta Crisolini Malatesta – delle varie possibilità di stare al mondo che ci sono concesse (vedi i diversi piani), per riuscire a fare di ciò che subiamo dal destino che ci tocca in sorte (la forza di gravità), qualcosa di nostro, di personale, di unico.

ph © rosellina garbo

Cifra dello spettacolo di Luca De Fusco è anche la rappresentazione dell’affresco di possibilità di cui i giovani – ognuno con la propria personalità – possono farsi originali artefici. Passando attraverso sempre nuove consapevolezze, figlie di disillusioni che non paralizzano l’azione ma che si aprono con coraggio alla fluidità dell’esserci. 

Un attraversamento di consapevolezze che non esclude la magnetica attrazione per la guerra: veniamo al mondo dotati dell’istinto alla sopraffazione e non a caso il primo gesto della storia di cui ci parlano i testi biblici è un gesto fratricida. 

Perché la violenza è l’illusione di poter arrivare velocemente all’obiettivo, senza avventurarsi nelle tortuosità della parola, della mediazione.

ph © rosellina garbo

Ma soprattutto perché la vita umana è caratterizzata da due movimenti: per un verso l’uomo si apre all’altro attraverso un grido di aiuto ma contemporaneamente si chiude ad esso in quanto avvertito come minaccia. Vivere è allora la difficile conciliazione tra il sentire di aver bisogno dell’altro e il non volere rinunciare ad essere e ad avere tutto. 

Condizione esistenziale di cui facciamo esperienza non solo in guerra ma anche in pace: in amore ad esempio. E tutte le volte che ci si educa e ci si impegna ad entrare autenticamente in relazione con l’altro da noi: il diverso da noi. 

ph © rosellina garbo

Di questo ambiguo sentire i giovani dello spettacolo si fanno commoventi interpreti: partendo da Pierre Bezuchov, passando per il principe Andrej Bolkonskij, fino alle meravigliose e dilanianti testimonianze di giovani donne, quali Mar’ja Bolkònskaja e Nataša Rostova.

Una restituzione del testo tolstojano questa di Luca De Fusco che riesce a tradurre – con un ritmo ricco in suspense – i frammenti d’inquietudine che attraversano la sovrapposizione e l’intreccio dei piani di lettura di un’opera-mondo qual è “Guerra e pace”.

Pamela Villoresi, Marsilia Sokoli, Eleonora De Luca

(ph. rosellina garbo)

Splendido il darsi ora epifanico, ora inconscio, ora fluido, ora rapsodico di questa inquietudine esistenziale, attraverso passaggi montati “a schiaffo. Quasi come se si stesse sfogliando il libro di “Guerra e Pace”.

(ph. Claudia Pajewski)


Recensione di Sonia Remoli

LA LEGGE DEL DESIDERIO di Massimo Recalcati alla Sapienza di Roma

MASSIMO RECALCATI

presenta

alla Sapienza Università’ di Roma

LA LEGGE DEL DESIDERIO

Radici bibliche della psicoanalisi

SAPIENZA UNIVERSITA’ DI ROMA

31 Gennaio 2025

Aula I del Dipartimento di Lettere e Filosofia

***

Quanto ci è cara la parola “sacrificio” ?

Quanto ci rassicura il suo spaventarci, il suo tenerci in pugno, fermi in attesa, chiusi nel dover essere, sterili nell’essere?

In fondo è lei – l’idea del doverci sacrificare – a sorreggerci.

E com’è disorientante scoprire, invece, che il sacrificio è un po’ un miraggio: un rallentamento e una deviazione della radiazione luminosa della parola. Un inganno della temperatura del cuore, che confonde quello che è il nostro autentico realizzarci: aprirci alla fede nell’inebriante insicurezza trasformativa della libertà. Realizzazione che trova un equivalente nell’aprirsi a scoprire la fertilità del “fare amicizia con il proprio peggio” (ovvero con il nostro inconscio), di cui ci parla la psicoanalisi.

Quella libertà cioè di fiorire per portare a maturazione i frutti del nostro talento: quel qualcosa che ci è stato donato, a cui siamo chiamati, e che ci rende speciali. Da far fruttificare qui e ora. Tutti: ciascuno il proprio, perché tutti ne abbiamo ricevuto almeno uno, di talento.

Anche di questo si è parlato ieri nell’Aula I del Dipartimento di Lettere e Filosofia della Sapienza Università di Roma, che ha accolto con grande entusiasmo il celebre psicoanalista e saggista Massimo Recalcati, invitato da Gaetano Lettieri, Professore ordinario di Storia del cristianesimo e delle chiese e direttore del dipartimento di Storia Antropologia Religioni Arte Spettacoli.

Occasione dello splendido incontro è stata la presentazione dell’ultimo libro di Recalcati “La legge del desiderio. Radici bibliche della psicoanalisi (Einaudi) che, insieme al precedente volume “La legge della parola. Radici bibliche della psicoanalisi (Einaudi), costituisce il frutto di un’analisi riflessiva durata 12 anni. E che ha rivelato allo sguardo di Recalcati come nei testi biblici sia possibile rintracciare un’eredità psicoanalitica.

La prima eredità, ci ricorda Recalcati, è quella costituita dalla “parola”, che già nel testo biblico si rivela nel suo duplice valore di eccedenza e di Legge. E’ eccedenza perché il suo significato va oltre il suo essere strumento di comunicazione: la parola “è luce” e in quanto tale “fa esistere il mondo”. Ma la parola è anche Legge, perché ci porta a fare l’esperienza “del non tutto è possibile”, cioè di una separazione dal tutto. Ma proprio in questo spazio vuoto, e solo in questa mancanza, può originarsi la potenza generativa del desiderio.

Un desiderio quindi che non si consuma libertinamente, fino a svuotare la vita, quanto piuttosto un desiderio che “rende la vita capace di vita”. Capace di distinguere l’impossibile margine d’azione sul darsi di alcune realtà e la possibilità di manovra, e quindi di generazione, invece sul resto. Una postura esistenziale che fa della Legge del “non tutto è possibile” una scaturigine da cui zampilla il desiderio.

Massimo Recalcati

Lo stesso Gesù dichiara di essere venuto “per far divampare il fuoco del mondo”. La sua Legge del desiderio – che non abolisce la Legge di Mosè ma si dà come sua continuazione – non si limita a trasmettere la freddezza rigida delle Tavole della legge. Piuttosto fa sì che la Legge attizzi un fuoco.

Un fuoco che rianima la vita.  Perché Gesù prima, e lo psicoanalista dopo, sanno che la tensione verso la sicurezza a chiudersi alla vita – che spaventa non meno della morte – è la tensione più forte che abita il nostro essere “umani”. 

“Chi vorrà conservare la propria vita la perderà – dice Gesù, e continua – chi per causa mia (cioè chi seguendo la Legge del “non tutto è possibile” come causa del desiderio) sarà disposto a perderla, la troverà”.  Così come più tardi Freud dirà che la tendenza all’autoconservazione, cela una pulsione di morte.

In questo orizzonte, il concetto di “peccato” riacquista la sua luce, perdendo quell’alone di opacità che ne fa l’onta della trasgressione. Gesù sa che non siamo fatti per identificarci totalmente con la Legge: conosce la nostra natura. Si è fatto uomo come noi. E ha detto di “non essere venuto per i giusti”. Lo stesso sostiene Freud: in quanto esseri pulsionali, non possiamo identificarci mai con la Legge. 

“Peccato” è allora mancare il bersaglio, perdersi un’occasione: mancare l’incontro con la grazia. “Peccato” è seppellire il proprio talento: non aprirlo alla tensione verso la fioritura e la maturazione dei frutti. Jacques Lacan diceva che il vero peccato è quello di non agire in conformità al desiderio che ci abita. Quel desiderio che guida il nostro agire: che ne è causa. Un desiderio poietico, creativo, generativo: un fare che non attende, chiuso nel lamento passivo. 

Al paralitico che vive ai bordi di una piscina attendendo da 38 anni il passaggio di un angelo che gli restituisca la salute, Gesù si rivolge dicendogli “ma tu, vuoi guarire ?”. Domanda sulla quale si fonda la stessa psicoanalisi: per vivere da vivi, occorre un movimento di ricerca. Iniziando subito: partendo da quello di cui al momento si dispone. “Cosa c’è ?” – domandava Gesù quando gli chiedevano di fare un miracolo. Ed è dall’acqua sporca in cui tutti si erano lavati le mani, che Gesù parte per trasformarla in vino. Perché quella lì, avevano da trasformare.

Perché il “miracolo” non è il prodigio, non è la magia. Piuttosto è l’aver fede nella possibilità della trasformazione. 

La cifra fulgente dei contenuti, dell’eloquio e dell’ascolto del Prof. Recalcati è stata occasione di un vibrante dibattito con il Prof. Lettieri, che ha introdotto e coordinato la presentazione. Così come, mosse da un fertile solletico conoscitivo, si sono rivelate le numerose e stimolanti domande da parte dei partecipanti all’evento.

Un incontro, quello di ieri con Massimo Recalcati, che è andato oltre la presentazione di un testo, rivelandosi un‘occasione di grazia con un maestro. 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo RADIO ARGO SUITE – di Igor Esposito – diretto e interpretato da Peppino Mazzotta

TEATRO INDIA, dal 29 Gennaio al 2 Febbraio 2025

C’è una stazione radiofonica: Radio Argo suite.

Parla di una guerra, quella di Troia, incastonando le diverse narrazioni dei protagonisti della medesima storia, l’ Orestea, dentro una sequenza di brevi pezzi musicali (strumentali e cantati), legati da un tema comune: i temperamenti delle donne e degli uomini.

Comunicare in tempo di guerra significa spesso far emergere le vittorie del proprio schieramento. Fare propaganda. Veicolare un solo punto di vista.

Nella Prima guerra mondiale si era chiesto al “cinema” di raccogliere il consenso delle masse tramite cinegiornali, che esaltavano le imprese militari del proprio Paese.

Nella Seconda guerra mondiale il mezzo principale di comunicazione è stata “la radio”, che per la prima volta, comunicava a milioni di persone, dando origine ad una guerra psicologica, parallela a quella combattuta con le armi. 

La guerra del Vietnam è stata la prima invece ad entrare nelle case grazie alla “televisione”, determinando un dissenso tale nell’opinione pubblica americana, da influenzare pesantemente anche l’andamento della guerra stessa. 

Qui, in questa partitura per voce e musica di Igor Esposito, interpretata da Peppino Mazzotta ed eseguita dal vivo da Massimo Cordovani e da Mario Di Bonito, con la post produzione live dei suoni di Andrea Ciacchini, si chiede invece alla “radio” di versare nell’orecchio di chi ascolta un fluido densamente corposo di parole e di suoni dalla forte vocazione libertaria e ribelle. 

L’intento manifesto è quello di sfilare la maschera alle illusioni che il potere “vende” da secoli. Un’ardita impresa, questa in cui ha sentito l’urgenza di lanciarsi il poeta, scrittore, drammaturgo Igor Esposito, rivisitando l’Orestea di Eschilo.  Perché la tragedia greca custodisce l’essenza della nostra inclinazione verso la politica: ci illumina “sull’arcano passato da cui veniamo e sul tragico presente in cui navighiamo”.

Nasce allora l’esigenza di forgiare una nuova lingua piena di ritmo, ferocemente seducente, che parli spudoratamente anche alla contemporaneità. 

Una nuova lingua affidata all’estro elegantemente insolente di Peppino Mazzotta, che la restituisce alle viscere dello spettatore, prima ancora che alla sua decodifica intellettiva. 

Perché l’irrazionalità è molto più potente della razionalità.

Perché l’istinto alla sopraffazione è ciò che ci unisce tutti, una volta gettati al mondo.

Perché la solidarietà, l’amore, il rispetto, vengono dopo: vanno imparati.

Il corpo della voce di Mazzotta, orientato dalla riscrittura terapeuticamente ustionante di Esposito, riattiva il metabolismo vitale dello spettatore, restituendolo alla vitale tensione verso la ricerca. Verso un’indagine continua, sostenuta da spirito critico e alleggerita dalle pastoie di un’illusione di confortevole e duratura sicurezza.

I personaggi dell’ Orestea – così intimamente restituiti dalla riscrittura di Esposito –  “ora” hanno ancor più qualcosa di familiare, di struggente e di terribile. Quel qualcosa che Mazzotta veicola nella nostra carne e nei nostri nervi e ci fa arrivare poi negli occhi. Restituendoci diottrie.


Complice quella lingua che musicalmente s’impregna di vita viva, per arrivare a dilatarsi e a tendersi, come le tensioni che incarna e che poi suscita.

Una stazione radiofonica – questa Radio Argo suite – che ci solletica fino a pungerci. Per mantenerci  vibrantemente vigili e sintonizzati. Così da avvertire i pericoli che, ieri come oggi, attraversano la nostra realtà.

Radio Argo suite: la stazione radiofonica che “al rumore delle armi, preferisce il suono del mare”.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione IL GRANDE VUOTO – regia Fabiana Iacozzilli

Terzo capitolo della “Trilogia del vento”

TEATRO VASCELLO, dal 28 Gennaio al 2 Febbraio 2025

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E ora che si fa?

Cosa si può inventare quando ci si accorge, con furioso dolore, che un familiare si sta ammalando e a qualche livello sta “scrollando dalle vecchie spalle tutte le cure e gli affari di famiglia, cosicché, sgravato ormai da ogni fardello, si avvia alla morte?” (William Shakespeare, Re Lear, Atto I, Scena I)

Come si fa ad accogliere il dolore in quella sua assurda diversità, che sta trasfigurando la persona che ci è tanto cara? 

Come si fa a non restare disperatamente disarmati, o a non armarsi di ostinata incredulità?

Ma il punto è: desideriamo ancora inventare un modo, per riuscire a trasformare il dolore in bellezza?

Ermanno De Biagi (il padre) – Giusi Merli (madre)

Quest’ultimo lavoro della “Trilogia del vento”  di Fabiana Iacozzilli dedicato alla fase vitale della vecchiaia, raccoglie le fila dei temi annunciati con il primo lavoro dedicato all’infanzia e con il secondo lavoro dedicato alla maturità. Fasi vitali – esplorate quali opportunità generative – legate tra loro dal fil rouge del diverso declinarsi dell’ “arte dell’aver cura”. 

(ph. Laila Pozzo)

Se nel primo lavoro  – “La classe” –  la cura che la Iacozzilli esplora è l’inclinazione dei maestri a saper lasciare un segno negli allievi, al fine di individuare e rivelare in ciascuno di loro la propria vocazione; nel secondo lavoro – “Una cosa enorme” –  è una donna ad interrogarsi sul proprio desiderio di voler prendersi cura di un figlio. Fino ad arrivare qui, ne “Il grande vuoto”, dove le modalità del prendersi cura esplorate sono quelle che due figli (molto efficacemente interpretati da uno spaesatamente tenero Piero Lanzellotti e da un’incandescente Francesca Farcomeni) devono e vogliono inventarsi – con la fertile complicità della diversità culturale della badante (una Mona Abokhatwa, maestra in ospitalità) – per riuscire ad accompagnare, con un’accoglienza ricca in entusiasmo, la propria mamma malata di Alzheimer nell’ultimo tratto della sua vita.

Piero Lanzellotti (figlio), Mona Abokhatwa (badante), Francesca Farcomeni (figlia), Giusi Merli (madre)

Cosa può aiutarci, laddove la testimonianza dell’ “arte del saper aver cura” non sia stata sufficientemente efficace?

Fabiana Iacozzilli ci propone di entrare nel grande mondo della finzione-verità proprio del Teatro: quello della meta-teatralità.

Ecco allora che in un sistema cosmologico-esistenziale a mò di matriosca, un’auto rossa è il primo “teatro di vita” della coppia di due genitori (una Giusi Merli, madre assai carismatica pur nella progressiva decadenza e un Ermanno De Biagi, padre irresistibilmente fascinoso, nel suo darsi di ossidabile fidanzato). 

Auto rossa contenuta poi in una grande sala da pranzo, “teatro di vita” di una mamma (ormai vedova) e dei suoi due figli. A loro si unirà successivamente anche una badante. 

(ph. Laila Pozzo)

Sala da pranzo contenuta a sua volta nell’intera casa, “teatro di vita” dove ora la mamma malata vive sola, videosorvegliata dal figlio.

Fino a che l’intera casa non diverrà palco, per la messa in scena familiare della tempesta di “Re Lear”, il cui monologo è l’unica traccia di memoria rimasta alla mamma, ex attrice.

Elemento comune ai tre lavori che compongono la “Trilogia del vento” è un particolare oggetto di scena: il tavolo, “luogo di nutrimento” di un’intera esistenza. Nutrimento della mente in quanto banco di scuola ma anche nutrimento del corpo e del cuore in quanto tavola, ovvero occasione di convivialità sociale e relazionale. Occasioni d’incontro, variamente colte e apprezzate.

Una scena da “La classe”: primo capitolo della Trilogia del vento

Una scena da “Una cosa enorme”: secondo capitolo della Trilogia del vento

(ph. Manuela Giusto)

Ma quando non si può più contare sulla fecondità delle relazioni a causa di una malattia degenerativa, cosa significa prendersi cura e quindi nutrire di nuove attenzioni qualcuno, che non ti segue se non su pochissimi percorsi mentali?  

Cosa diventa in questa situazione il “tavolo“? 

Diventa, ad esempio, il luogo-destinazione-liberazione degli oggetti (ricordi) che non riescono più a incanalarsi in altre direzioni. Il luogo-stazione dove i ricordi (tra cui i super eroi e la spada magica dell’infanzia), uscendo dalla mente che li conteneva nelle varie aree celebrali ( gli sportelli del mobile credenza), vengono traslocati in “un fuori” offerto dal tavolo. Che li accoglie nella loro caoticità, divenendo occasione di uno svuotamento-liberazione della mente.

Una mente sul punto di divenire progressivamente un grande vuoto, una “tabula rasa”: come all’inizio del nostro essere gettati al mondo. Come nel periodo della nostra infanzia. Una mente che può vivere, ora come allora, di qualcuno che desideri lasciare un segno di accoglienza verso le nostre manchevolezze; così come un segno di gentile rispetto e di cura benevola, proprio verso ciò che ci rende diversi.

Una circolarità ripercorsa dalla “Trilogia del vento”, quale rito esistenziale che tutti ci accomuna, in quanto tutti venuti al mondo nella condizione di “figli”. Tutti venuti al mondo senza averlo scelto, “scritti” per un lungo periodo da altri, ma anche “sartraniamente liberi” di fare qualcosa di proprio, di ciò che gli altri hanno fatto di noi. Portando in scena il vento della libertà, nella mutevolezza della vita.

Fabiana Iacozzilli

Con questo suo ultimo lavoro e con l’ intero progetto della “Trilogia del vento”, Fabiana Iacozzilli ci fa dono di una modalità di fare teatro e di stare al mondo .

Parte dal dato biografico, trasfigurato e nutrito dalla materia artistica, per confrontarlo attraverso interviste a donne e uomini “disponibil* a condividere una scheggia della propria vita”.

Un approccio, il suo, fondato su un continuo interrogarsi: un personale e critico riflettere, testimonianza di un’acuta professionalità, strettamente connessa ad una profonda cura verso la nostra fragile – ma anche capace di formidabili slanci – umanità.

Un aprirsi, il suo, alla “contaminazione” intesa come forza vitale e professionale capace di dare vita a nuove ed efficaci occasioni di comunicazione.

In questo terzo lavoro, ad esempio, la Iacozzilli contamina la narrazione teatrale con il video, con la ripresa live degli accadimenti scenici e con l’utilizzo del montaggio cinematografico. Nel secondo lavoro invece dà vita ad un dispositivo in bilico tra forma spettacolare e dimensione installativa. Nel primo capitolo è il teatro di figura ad entrare in dialogo con il teatro-documentario.

Un teatro civile ed esistenziale, questo di Fabiana Iacozzilli: un lavoro di ricerca, dimostrazione che il dolore dello stare al mondo “può” essere trasformato in bellezza. 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo BIANCO – Il volto di Jackson Pollock e Lee Krasner – di Marco Buzzi Maresca – regia Gianni De Feo

TEATROSOPHIA

da 23 al 26 Gennaio e dal 30 Gennaio al 2 Febbraio 2025

Eppure il colore bianco sempre cova l’idea di un che di malizioso, di sfuggente e di beffardo. “Che incute più panico all’anima di quel rosso che atterrisce nel sangue” – scriveva Melville.

Esiste un’inquietudine nel simbolismo bifronte di questo colore: come tutto ciò che è divino, il suo essere ambiguamente legato alla luce, suscita riverenza e istilla terrore. 

Non è facile ottenerlo come pigmento perché non è facile coglierlo con i nostri occhi: tende a virare sempre verso il nero. Infatti più pigmenti ci sono in una mistura, meno luce viene riflessa nei nostri occhi. E tutto prende di torbido.

Jackson Pollock e Lee Krasner

Non è facile gestirlo come spazio: la pagina bianca o la tela bianca sono spesso paralizzanti. E ci parlano del nostro rapporto insidioso non solo con la luce ma anche con la libertà: l’aneliamo ma ne subiamo anche la troppa apertura, gli infiniti inizi, le molteplici scelte, l’accecante purezza. Ed è angoscia.

“Bianco” è il titolo di questo appassionato e appassionante lavoro teatrale su un testo inedito di Marco Buzzi Maresca per la regia di Gianni De Feo, che incentra la sua attenzione sul “volto” di Jackson Pollock e Lee Krasner, anche lei grande artista nonché moglie di Pollock dal 1945 al 1956.

Il volto, si sa, orienta chi ci guarda nell’immaginare chi siamo e cosa pensiamo: gli fornisce una chiave di lettura. Ecco allora che questa sapientemente allucinata messa in scena sceglie di partire dal “volto” dei due artisti e dalle modalità del “volgersi” dell’uno verso l’altro, così da poter accedere alle loro anime. Alla loro urgenza di conoscere, ora, se stessi. Al di là della simbiosi.

In un continuum di bianco, i loro volti trovano un corrispettivo nei loro costumi di scena (a cura di Roberto Rinaldi – Sartoria Giulia Balbi), divenendo come un’unica tela esistenziale. Entità fantasmatiche che sentono l’urgenza di raccontarsi, di mostrarsi, come in un’attività di “dripping” di se stesse.

Gianni De Feo e Serena Borelli

(ph. Manuela Giusto)

Interpreti del dannato lirismo erotico del testo inedito di Marco Buzzi Maresca, il Pollock di Gianni De Feo e la Lee Krasner di Serena Borelli ossessivamente si cercano e cercano se stessi ; si plasmano e allontanano le loro mani dal corpo e dalla psiche dell’altro; si compenetrano e tagliano il cordone ombelicale che li lega.

Il tutto, in una ipnotizzante danza rituale di gesti e di parole (le coreografie sono curate da Maria Concetta Borgese) fusa alla proiezione delle tele dipinte (video maker Fabio Patrizi – disegno luci Gloria Mancuso). 

Serena Borelli è Lee Krasner

(ph. Manuela Giusto)

De Feo e Borelli sono musica ma anche strumenti musicali; pittura e corpi roteanti; racconto ma anche delirio ed estasi. I due interpreti in scena cercano e trovano continuamente nuovi equilibri fisici e psichici per perdersi per poi darsi, in una scena che è il luogo della loro mente (le scene così come i costumi sono curati da Roberto Rinaldi). E vi riescono con una tale generosità, da permettere al pubblico di lasciarsi catturare nei loro gorghi, a vari livelli di coinvolgimento.

Gianni De Feo è Jackson Pollock

(ph. Manuela Giusto)

Gianni De Feo e Serena Borelli ci introducono attraverso uno stupefacente viaggio onirico – complice anche la drammaturgia musicale curata da Gianni De Feo e da Roberto Rinaldi sulle musiche originali di Theo Allegretti – nelle metamorfosi del “volto” di  Jackson Pollock e di Lee Krasner  con un trasporto tale, da riuscire a far avvertire allo spettatore tutta l’inquietudine che cela la folle libertà  racchiusa nel colore bianco.

Gianni De Feo e Serena Borelli

(ph. Manuela Giusto)


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo ANNA CAPPELLI – di Annibale Ruccello – regia Claudio Tolcachir

Con VALENTINA PICELLO

TEATRO INDIA , dal 22 al 26 Gennaio 2025 –

La incontriamo. E’ lì: nella landa del suo sentire. 

Ha un fare randagio, non privo di fascino e di tenerezza.  Si sente che è un crogiolo di contraddizioni. 

Non ci aspettava. Sembra trovare rifugio nello sbocconcellare un panino. Ma sta anche ruminando qualcosa. Nella mente, nel cuore. Se ne incroci lo sguardo, lei si tiene lontana. Ma capita anche che poi si apra in un sorriso. Irresistibile.

Lei è Anna Cappelli: una donna con un nome e un cognome. 

Unica. Ma non l’unica.

Valentina Picello

Questo testo tempestosamente umano di Annibale Ruccello – scritto nel 1986 poco prima di morire a trent’anni – si ispira anche ad un fatto di cronaca, in cui era coinvolto un uomo giapponese che aveva divorato la compagna. 

Cifra di Ruccello è dedicare molta cura al disagio antropologico proprio di ogni epoca, facendosi cantore della sensibilità degli inquieti e dei malinconici.

Il teatro rappresenta per lui il luogo privilegiato dove far andare in scena le ipocrisie, gli odi e le viltà della società nella quale i suoi personaggi si trovano immersi. E ai quali si cura di restituire la dignità lesa, portando in salvo il loro sogno di purezza, dal buio in cui la società rischia di sprofondarlo.

(ph. Luigi Angelucci)

Società la cui prima forma embrionale è la famiglia: luogo dove non sempre è facile trovare una generosa ospitalità.  Anna Cappelli ne è un esempio: lei soffre moltissimo il suo “sentirsi espropriata” dalle attenzioni familiari, che la lasciano “nuda” anche di fronte al suo formarsi un’identità personale.

L’autostima, si sa, è un dono sociale. E così, Anna si allontana per andare alla ricerca di una sua indipendenza a Latina. Ma anche lì continua ad essere “una nuda proprietà”.

Anche quando crede di aver maturato “un diritto di reale godimento” su certe proprietà altrui.

Suo è, ora, il loro “usufrutto”.

Ecco allora che il regista Claudio Tolcachir, sensibilissimo alla simbologia legata al concetto di “casa” -sul quale fa ruotare il suo stesso concetto di teatro, di cui il teatro-casa Timbre4 è un fulgido esempio – sceglie di immergere la “sua” Anna Cappelli in una scenografia, immaginata da Cosimo Ferrigolo, che è il luogo del suo sentire “randagio”.

Un vasto territorio incolto e desolato. Da fine del mondo. Ma anche da inizio del mondo. Uno spazio aperto, abitato esclusivamente da alcuni oggetti, estensioni esistenziali della protagonista. 

Un luogo nudo, senza muri, senza confini, senza argini. Dove sono saltati anche i principi della logica, per cui ogni cosa può essere colta in tutte le sue valenze, senza un rapporto di causa-effetto. Il lampadario, ad esempio, crollando a terra si può dare anche come un fuoco, intorno al quale è disposta una circolarità di oggetti, come in attesa della celebrazione di un rito.

Un rito di disperato dolore.  

Un dolore che impregna il territorio del sentire di Anna. Un suolo che affonda: che lei calpesta e dal quale è calpestata. Che le modifica il passo, il respiro, la postura. E’, il suo, un avanzare trattenuto da un affondare. Che ad ogni passo la ingoia.

Un dolore consumato fuori dal branco, ma di cui il branco è complice.

Speciale il lavoro registico sulla luminosità di certe ombre – dalle quali tutti siamo abitati – di cui l’Anna di Valentina Picello sa farsi olfatto ancor prima che pensiero; gesto ancor prima che carne. Dono ancor prima di imperfezione. Lei, espressione della carica vitale di un’umanità, che arriva ad essere investita da una maledetta bellezza divina.

(ph. Luigi Angelucci)

Bellezza mirabilmente sottolineata da un disegno luci (a cura di Fabio Bozzetta) di carnalità metafisica e di sacra disgrazia.

Uno spettacolo immerso in un assordante silenzio, punteggiato da due motivi musicali che parlano dell’estasi sacra e profana legata a certi incontri.  Quegli incontri dove si percepisce quell’ambiguo senso di eccezionalità, proprio di chi altro non ha, che l’altro.

Uno spettacolo che ci ricorda gli ampi confini del nostro “essere umani”, invitandoci a prenderci cura delle varie modalità in cui il nostro stare al mondo può darsi.  

Solidali, anche perché diversi.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo I RAGAZZI IRRESISTIBILI – regia Massimo Popolizio

TEATRO ARGENTINA, dal 21 Gennaio al 2 Febbraio 2025

Si può amare intensamente una persona. Ma anche una passione: quella per la recitazione, ad esempio.

Come accade ai due protagonisti di questo testo effervescente e vertiginosamente profondo, che Neil Simon scrive nel 1972: due attori comici di vaudeville che, dopo aver attraversato insieme più di quarant’anni di grandi successi, per motivi diversi si ritrovano a restare privati del poter continuare ad esprimere la loro passione più potentemente vitale: la recitazione.  Passione artistica che li espone a guardare e ad essere guardati. 

Umberto Orsini è Al Lewis – Franco Branciaroli è Willie Clark

La fine e penetrante regia di Massimo Popolizio – che si avvale della vibrante traduzione di Masolino D’Amico – conduce il pubblico a “guardare” fino in fondo cosa accade nella mente e nel cuore di questi due attori, all’indomani della brusca interruzione della loro passione per la recitazione. 

Popolizio coglie e restituisce allo spettatore, infatti, come sul guizzo gustoso dei dialoghi scenda anche, come polvere di stelle, una luce sottile e malinconica. Un po’ quel gioco sempre nuovo di darsi le battute e i tempi, che non esclude inquietudini e incomprensioni, appena sopite dagli applausi.

Umberto Orsini e Franco Branciaroli sanno farsene interpreti straordinari. Trasmettendo al pubblico la diversa intensità delle luci e delle ombre che s’insinuano in questi due protagonisti, dall’eloquio ancora scintillante. Intensità che entrano nel loro respiro, fino a contagiare i loro muscoli e quindi la loro voce. Ed è magia.

“Io non sono chi tu credi che io sia” – è il responso che emana dal televisore all’apertura del sipario, quale voce onirica dell’inconscio. Che inizia a solleticare lo spettatorre su uno dei temi centrali dello spettacolo: la difficoltà tutta umana ad entrare davvero in relazione con noi stessi e quindi poi con l’altro. Anche con chi crediamo di conoscere bene, avendo condiviso con lui più di quarant’anni di passione. E che invece poi scopriamo improvvisamente nel suo esserci prossemicamente distante. Quella sottile e acuta distanza che passa nel preferire   l’ “avanti” al “si accomodi”: battute diverse non solo del copione ma anche di due diversi sguardi sulla vita.

Voce onirica inconscia – quel “Io non sono chi tu credi che io sia” – che Willie Clark (un Franco Branciaroli dalla spiritosa bellezza decadente) non è ancora pronto ad ascoltare, preso com’è dalla sua rabbia per essere stato tradito inaspettatamente dal suo partner d’arte.

Ecco allora che, per non rischiare ancora di restare “fregato” in un altro investimento emotivo, si chiude dentro se stesso: un po’ come fa con la porta della sua camera, la cui serratura fa una gran fatica a scorrere, per aprirsi al nuovo che bussa alla porta.

La scena (curata da Maurizio Balò) ci parla di quello che i personaggi non dicono: che non riescono ad esprimere, chiusi come sono in difesa, o avvelenati dalla rabbia provocata da alcune parole “proiettili” e da altre “mai dette”. Ed è così che Maurizio Balò ci lascia intravedere le profondità di ulteriori interni, metafora di paesaggi psichici altrimenti difficilmente immaginabili.

Franco Branciaroli, Flavio Francucci, Umberto Orsini

Come la mancanza di cura: di cui Willie si è sentito 11 anni fa predato dall’atteggiamento di Al Lewis (un Umberto Orsini dalla stupefacente freschezza rigorosa). Ora inconsapevolmente é lui stesso a metterla in atto verso di sè. Mangia solo cibi in scatola; lui stesso vive chiuso nella scatola della sua camera-mente. Non si veste: è perennemente in pigiama, come se da 11 anni non si fosse ancora mai fatto giorno.  E così si lascia andare ad una postura orgogliosamente “sbracata” vestendo, inossidabilmente, un feeling blu. La cura dei costumi è affidata a Gianluca Sbicca, che ne fa degli efficacissimi “habiti”, modi di essere.

Willie si sente tradito perché ignorato e quindi “non guardato” dal suo primo pubblico: l’Altro da sè, Al. Che decidendo solo per se, non ha riconosciuto valore alla ”sua metà” attoriale e al suo specchio psichico. Dimostrando incuria verso l’uomo e verso l’attore. 

Willie è come se con il suo ostinato silenzio dicesse ad Al  quello che Hamm in “Finale di partita” fa notare a Clov, quando si allontana per rifugiarsi in cucina a guardare il muro, per vedere la sua luce che muore. “La tua luce che … ! Cosa bisogna sentire! Sai che ti dico, che morirà altrettanto bene qui, la tua luce. Sta un po’ qui a guardarmi e poi saprai dirmene qualcosa, della tua luce”. 

Franco Branciaroli, Umberto Orsini, Eros Pascale

Alla sua prima defaillance professionale, infatti, Al si ritira dalla carriera e sceglie di “tramontare”. Nietzsche sosteneva che l’arte più alta in cui un essere umano possa realizzarsi è quella del “saper tramontare al momento giusto”. Per Al e Willie il momento giusto non è coinciso. E per Willie è come se Al si fosse appropriato di una sua battuta. Lasciando un buco, che è poi divenuto una voragine.

Perché ad un certo momento arriva quella paura della morte che cela in verità una paura della vita: entrambe hanno in sé qualcosa di ingovernabile. “Il fondo non è una cosa semplice” fa dire Beckett a Nagg in “Finale di partita”. E ancora Čechov a Svetlovidov ne “Il canto del cigno”: “…la tua bottiglia te la sei scolata, è rimasto solo un po’ di fondo… Soltanto la feccia … Già…così stanno le cose”.

Franco Branciaroli, Chiara Stoppa

Ma il segreto è forse proprio in quel gioco sempre nuovo di darsi le battute e i tempi: quell’imparare a “non forzare” ma a “scorrere”, come alla fine Willie riesce a fare dopo lo s-catenamento emotivo avvenuto attraverso l’infarto. Quando cioè si lascia andare scorrevolmente a chiedere (senza più pretendere) al compagno d’arte, un’opinione sul suo lavoro attoriale. Il riconoscimento è così inaspettatamente appagante da coinvolgere l’uomo e non solo l’attore. “Eri un artista, non un attore: avevi sempre una grazia, un tocco !”. Qualità efficaci, ora che riconosciute, per scoprirsi capace “a immaginare” e quindi a “sentire” in modo nuovo la passione per l’arte della recitazione. Per la vita e per la morte. Non solo per gli applausi. 

Perché – come diceva anche (ma con più amarezza) lo Svetlovidov de “Il canto del cigno” di Čechov: “…dove ci sono arte e talento, non esistono né vecchiaia, né solitudine, né malattie, e persino la morte conta per metà…”. 

Uno sguardo – questo del regista Massimo  Popolizio contrappuntato dal disegno luci di Carlo Pediani e dal disegno musicale di Alessandro Saviozzi – decisamente più aperto. Ma che nasce da quel tentativo di rappresentare l’assoluta mancanza di senso e l’altrettanto assoluta necessità di trovarlo, che trovano espressione in “Finale di partita”. Quel cercare di riuscire a “soffrire meglio di così”… quel cercare di riuscire “ad essere presente meglio di così”, a cui anela  Clov e che Hamm trova nel sentire “la sera che scende”, confortato dal suo vecchio fazzoletto.

Emanuela Saccardi, Franco Branciaroli, Umberto Orsini

Una rilettura davvero interessante di un testo che rivela intriganti profondità ontologiche, portate in scena dagli eredi di una scuola di teatro – dove, ad esempio, si recita incisivamente senza microfono – che non vuole e non deve andar perduta.  E di cui Umberto Orsini e Franco Branciaroli sanno farsi stimolanti testimoni. Una preziosa occasione per i giovani e talentuosi attori – Flavio Francucci, Chiara Stoppa, Eros Pascale, Emanuela Saccardi – che con “i due ragazzi irresistibili” condividono efficacemente la scena.

Il cast al completo con il regista Massimo Popolizio


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL CORTILE – di Spiro Scimone – regia Valerio Binasco –

Produzione Compagnia Scimone Sframeli

TEATRO ARGOT STUDIO

dal 16 al 19 Gennaio 2025

Sembrerebbe che Godot sia arrivato: è in cortile. Anzi, Godot è “il cortile”: quello di cui parla Tano e che giustifica le sue evasioni da Peppe. 

L’esistenza di un “cortile” contribuisce a dare forma ad uno scenario di coordinate spazio-temporali: a un qui e un là; a un prima e un dopo. Là, nel “cortile” – dice Tano – si va a cercare e a trovare l’amore. Si va a riempire il sacco vuoto. Qui, invece, è sempre tutto uguale.

Solo chi, come lui, si interroga sull’altezza e sulla profondità della desiderabilità dello spazio quotidiano, cerca e trova una retta immaginaria che passa per i punti-luce A e B: con questa retta si può comunicare, quasi fino a toccarla, avvicinandole un’altra retta, questa però in ferro. Una retta percorribile, scalabile. La relazione tra le due rette e la base sulla quale poggiano dà vita ad una sorta di cortile triangolare semi-illusorio. Lì si può andare a fare l’amore, dice Tano. E l’amore, si sa, è la più efficace misurazione del tempo.

A dire il vero, anche la parola – e il darsi della sua assenza attraverso il silenzio – concorre all’individuazione di diversi piani spazio/temporali. Così come l’amicizia – o meglio la relazione di assenza per troppa presenza tra Peppe e Tano – crea una sorta di subdolo principio causa-effetto. 

L’amore però è diverso: fa proprio “contare i giorni”.

Francesco Sframeli è Peppe – Spiro Scimone è Tano

Ciò che si dà nell’ambiguità della parola e delle dinamiche relazionali, viene messo a nudo dalla prossemica: Tano sceglie sempre di stare lontano da Peppe, per difendere un suo tono, una sua identità. Peppe invece, che sa usare le leve psicologiche della forza di attrazione-manipolazione, riesce (quasi sempre) a calamitarlo verso di se.

Soffre infatti Peppe quella tensione verso “il mare del desiderare” del suo Ulisse (Tano) e oltre a lamentarsi per essere lasciato sempre solo – un po’ come una Maga Circe – ordisce piccoli sortilegi per trattenerlo. O almeno farlo avvicinare. 

Perché Peppe, pur essendo bloccato su una sedia ruotante solo su se stessa, è un tipo sagace e vive la sua postura come un’investitura regale. Il suo è un trono dal quale “divide et impera”, seducendo e manipolando Tano. Con la sua voce flautata e suadente come quella di una sirena, lo incanta: il suo ipnotico tono cantilenato, sussurrato con soave ferocità, blocca Tano come in un incantesimo. Così da smorzare il suo anelito verso “il cortile”. Quando poi accade che Tano dimostri un’insopportabile resistenza, Peppe arriva a boicottare la sua autostima, facendogli credere che la libertà di movimento di cui dispone si è ora privata di energia.

Francesco Sframeli è Peppe – Spiro Scimone è Tano Gianluca Cesale è “uno”

Come se non bastasse, a mettere in pericolo l’imperio di Peppe sullo spazio scantinato, un terzo uomo rivela la sua presenza, balzando – come un burattino – da dietro a quel che resta di un diroccato mobile. Apparentemente lui non è pericoloso come Tano, perché ha scelto di smettere di camminare e di desiderare: preferisce infatti strisciare. Preferisce suscitare pietà: questa è la sua forza. Ha rinunciato anche ad essere identificato con un nome. E’ un simpatico parassita. 

Variazioni di una medesima condizione esistenziale, sono quelle rappresentate da questi tre uomini infantili e argutamente decadenti. Dove chi desidera conoscere ed esplorare la realtà con i propri occhi e con il fiuto del proprio olfatto deve fare i conti con chi lo seduce subdolamente a preferire il quieto “buio”. Come accade a Tano: lui si dichiara infatti non disponibile a dover solo “digerire” quello che gli si vuole somministrare, rivendicando il suo diritto a poterlo anche “vomitare” . “Perché quando ti abitui, non senti più nulla”. Ma insidiosamente riesce a trovare un varco la melliflua sicurezza dell’abbraccio di “un cortile”, rappresentato da un sacco vuoto, senza luce: dove perdersi al sicuro. Senza desiderare più nulla. Restando imprigionato nel buio.

Francesco Sframeli – Gianluca Cesale – Spiro Scimone

Un testo poeticamente feroce questo di Spiro Scimone, che avviluppa lo spettatore in una tela magica intessuta di una ritualità che rassicura e soffoca. Il pubblico ne resta intrigato e arruffato. Siamo noi. O forse no. Però intanto ci solletica. Fino a pungerci. 

Complice l’accattivante regia di Valerio Binasco: una partitura musicale “scritta” per la lingua di ciascun personaggio. Un concerto capace di esaltare le diversità di ciascuno, in un’armonia irresistibilmente umana.

Sono il Peppe di Francesco Sframeli, dallo sguardo adorabilmente impertinente fino alla maleficienza e dalla tempra musicalmente tagliente; il Tano di Spiro Scimone, la cui solida presenza sa darsi plasticamente come un’assenza anelante di arrampicarsi verso un altrove,  fatto di “sorrisi”: anche loro dei piccoli cortili.  E poi l’eleganza del verme burattino di Gianluca Cesale, entità inscindibile dal luogo che lo ospita. Ne indossa lo stesso “color indecisione” in un ambiguo presentarsi come carta bianca dalla pungente acidità verdeggiante. Fascinoso, come il suo piangere immobile e muto.

Tre diversi modi di stare al mondo. Tre diversi modi di condividere il vuoto e di fargli argine. Tre diversi modi di scambiare il valore di una persona con il bisogno che riveste per l’altro; l’arte di vivere con l’utilità; la solidarietà con la sottomissione. Sguardi miopi che, in diverso modo, si lasciano “mettere nel sacco” da una perversa ricerca di sicurezza. 

Francesco Sframeli – Gianluca Cesale – Spiro Scimone


Recensione di Sonia Remoli

Recensione a DIARIO DI UN DOLORE – un progetto di Francesco Alberici –


Diario di un dolore“, tratto dall’omonimo libro di C.S. Lewis e dall’ “Autoritratto” di Franz Ecke

Un progetto di Francesco Alberici, con la collaborazione di Astrid Casali, Ettore Iurilli, Enrico Baraldi

in scena Astrid Casali, Francesco Alberici


TEATRO BASILICA, dal 16 al 19 Gennaio 2025

Si apre come un cassetto, nel quale per molto tempo è stato custodito un segreto. E che un giorno si riapre, scoprendo di volerlo condividere con qualcuno. 

Spiazza continuamente lo spettatore: lo tira in causa in maniera diretta e indiretta, seminando ad ogni passo disorientamenti di varia natura.

Parla al corpo e del corpo: come sa fare il dolore. Facendo “risuonare”, come in uno specchio, il dolore fatto di sobbalzi e d’irrequietezza. Ma anche quello da stordimento d’ubriacatura. 

Francesco Alberici e Astrid Casali

Va in scena, cioè, la cronaca diaristica della fenomenologia di due dolori realmente vissuti: quello di Astrid e quello di Francesco. I quali, come C.S. Lewis, preferiscono avere gente intorno: noi.

Perché il dolore arriva a contattare energie dilanianti, in fermento nel sottosuolo, che urlano attraverso il corpo.

Ed è una disarmante sorpresa, che fa presa.

E che imprigiona in un rituale ossessivo: “nessuno mi aveva detto mai …” .

E’ l’inceppamento di una coreografia vitale. 

Lo spettacolo, andato in scena ieri sera al Teatro Basilica, nasce da un progetto di Francesco Alberici, che si avvale della collaborazione di 𝗔𝘀𝘁𝗿𝗶𝗱 𝗖𝗮𝘀𝗮𝗹𝗶, 𝗘𝘁𝘁𝗼𝗿𝗲 𝗜𝘂𝗿𝗶𝗹𝗹𝗶, 𝗘𝗻𝗿𝗶𝗰𝗼 𝗕𝗮𝗿𝗮𝗹𝗱𝗶, per lavorare intorno agli inceppamenti che paralizzano le nostre vite. E sui loro possibili “riavii”.

“Vedendo oltre gli incantamenti ma senza che l’incantamento scompaia”.

Francesco parte allora dalla testimonianza del suo personale inceppamento e lo intreccia con quello di Astrid.  In verità tutto lo spettacolo – in un interessante gioco metateatrale – è dedicato al “riavvio” dell’inceppamento di Astrid: la sua seconda possibilità di rivivere il suo dolore, per riavviare questa volta però la sua coreografia vitale. Cercando e liberando, cioè, i tempi, le modalità e quelle parole che, come “proiettili”, hanno fatto sanguinare, ad esempio, la costruzione della sua vocazione di attrice. E di figlia.

Una modalità di teatro “nudo” – questo del progetto di Alberici – che dosa, con cura, accoglienza e imbarazzo; verità e finzione; dolore e catarsi; sorriso e commossa poesia. E che nel raccontare e nel “denunciare” un dolore, lo lascia libero di prendere un’altra direzione.  

Un teatro che parla di ferite che sanguinano ma che possono trovare il modo di entrare in relazione con la morte, quale partner di un respiro vitale più fluido.

Dove ogni separazione si rivela una fase “diversamente” accogliente.

Dove ogni nuovo inizio è un valido inizio. Seppur con tutti i suoi difetti, con tutte le sue resistenze, con tutta la sua imprevedibilità. 

“Perché la realtà guardata fissamente è insopportabile”.

E allora noi, come il Perseo di Calvino possiamo imparare a sostenerci su ciò che vi è di più leggero, come i venti e le nuvole. E spingere il nostro sguardo su ciò che può rivelarcisi solo in una visione indiretta, come in un’immagine catturata da uno specchio. 

Come è avvenuto a Francesco quando ha incontrato l’ “Autoritratto” di Franz Eckee.

Come accade a noi, con questa performance.

Astrid Casali e Francesco Alberici


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo ANELANTE – di Flavia Mastrella e Antonio Rezza – con Antonio Rezza –

TEATRO VASCELLO, dal 14 al 19 Gennaio 2025 –

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Che cosa ci rende “anelanti” ?

Parlare.

Commentare.

Improvvisarci opinionisti.

Anelando divenire, magari, rispettabili influencer: massima realizzazione per essere considerato un personaggio di successo. E quindi in grado di influire sui comportamenti e sulle scelte di un determinato pubblico. 

Perché anche a questo aneliamo: essere guidati nelle nostre scelte.

Tanto che non riusciamo neanche più a tenere spento il cellulare a teatro, come se i nostri commenti o quelli dei nostri influencer non si potessero permettere di chetarsi per la durata di uno spettacolo.

Ecco allora che Antonio Rezza, consapevole di questa improrogabile urgenza, persuaso di un qualcosa che non può essere silenziato o messo a tacere, apre lo spettacolo proprio con l’entrata in scena dello squillio di una suoneria. 

Che lascia “parlare” come motivo di apertura: quale furor dionisiaco per una composizione erotica, ovvero come base musicale da cavalcare e sulla quale comporre il testo dello spettacolo. 

Scritto con i piedi, ovvero immaginificamente digitato attraverso una danza, eseguita in un habitat di scrittura creativa, generato dalla fulgente fantasia di Flavia Mastrella. Un habitat principale dove tutto è lineare, geometrico: dove tutto è bianco oppure nero, dove sei “in” o sei “out”: senza spazio alcuno alla diversificazione, propria di uno spettro di sfumature tridimensionali.

Diversificazione che trova accoglienza, apparentemente, in un habitat secondario, di sfondo, senza spessore: un ambiente “jungle”, elogio dell’irregolarità e dell’apertura alla trasformazione, attualmente in crisi d’identità.

Habitat visualizzazione del nostro egocentrismo attivo o passivo: da influencer o da follower, a seconda della posizione che ci si piega ad assumere. Perché questo nostro inarginabile bisogno di dire (o di riferire) la “nostra” opinione su tutto, senza un’autentica conoscenza e senza ascoltare davvero l’altro con personale spirito critico, è la pulsione più potente che attualmente ci abita. 

Ed è così che lunghe catene dimostrative – alle quali con verace surrealismo Antonio Rezza dà forma – e principi lontani dal senso comune vengono preferiti all’esprit de finesse, che si fonda sul sentimento e sull’intuizione. Predisposizioni quest’ultime che avvicinano, muovendoci a compassione l’uno verso l’altro. E non indifferenti come “due rette che si incontrano solo all’infinito”, oppure come seguaci disposti ad offrire l’una e l’altra “guancia”, in cambio di riflessioni paranoiche narcisisticamente auto-referenziate.

Se siamo disposti a dar via la libera espressione dei nostri desideri, in cambio di qualcuno che si assuma la responsabilità della loro gestione, poco importa -insiste Rezza – che Dio esista o meno.

Siamo comunque orfani di padre, in una società dove il senso della legge – del quale il padre si faceva testimone – è “evaporato”. Così, da un lato ci fanno credere che possiamo desiderare (anelare) tutto ma in verità finiamo per lasciare che a decidere sui nostri desideri siano altri. Perchè scambiamo il godere con il desiderare, postura esistenziale quest’ultima che sola rende ricca la nostra vita. Non di follower ma dell’espressione del nostro talento personale.

In scena un penetrante e fantasmagorico Antonio Rezza si avvale della complicità di multiformi interpreti quali Ivan Bellavista, Manolo Muoio, Chiara A. Perrini, Enzo Di Norscia.

Particolarmente efficaci gli habitat a cui  ha dato origine lo slancio creativo di Flavia Mastrella,  sui quali sono carismaticamente declinati i costumi degli interpreti in scena, a seconda del loro habitat di appartenenza.


Recensione di Sonia Remoli