Recensione dello spettacolo SULLA MORTE SENZA ESAGERARE – regia di Riccardo Pippa –

TEATRO INDIA, dal 18 al 21 Aprile 2024 –

Ma come ci si scopre concilianti con la morte, dopo averla conosciuta attraverso lo sguardo di Riccardo Pippa, ideatore e regista di questo poetico, ironico e catartico spettacolo portato in scena da Giovanni LonghinAndrea PanigattiSandro Pivotti e Matteo Vitanza del Teatro dei Gordi !!!

E come può essere sensuale intrattenersi con la morte! Se ci facciamo caso capita spesso, ogni giorno, d’incontrarla. Mica solo quando siamo lì lì  per morire !

E come ci risultano familiari questi personaggi in maschera! E’ strano, ma sembra di averli già incontrati. E’ come se nei loro volti si riconoscesse una mostruosità familiare. Ma più autentica.

Ed è proprio la loro autenticità a sfidarci: si mascherano per spogliarsi, per mettersi a nudo.  Per essere “scandalosi” ma anche teneri, accoglienti.  E sono pronti a prenderci per mano. Come fa anche la morte. Quindi non esageriamo: anche la morte ci assomiglia. 

Ideatore e regista dello spettacolo è Riccardo Pippa: un autentico appassionato di drammaturgia che, tra le altre cose, ha scritto la prima biografia artistica di Renata Molinari, alla quale è legato il più fertile filone di riflessione sulla natura, il ruolo e la funzione del dramaturg.

In questo spettacolo parlare non serve: la parola è sempre così ambigua. E poi non c’è niente da “capire”. Molto meglio ascoltare il corpo degli interpreti in scena. In fondo, cosa c’è di più potente di mettere gli attori di fronte a degli spettatori?

Le maschere utilizzate per questo spettacolo nascono dall’estro della costumista e scenografa Ilaria Ariemme e si ispirano all’estetica della “Nuova oggettività” di Otto Dix (1891-1969) che prediligeva il ricorso alla caricatura, alla deformazione e quindi alla metafora morale per esprimere un forte dissenso.

Queste maschere infatti inquietano perché presagiscono qualcosa di prossimo: ci raccontano, anzi ci fotografano, la vita mista alla morte. La riconosciamo nella predilezione ad esprimersi attraverso la linea contorta e tormentata e attraverso un cromatismo acceso fino a divenir violento. Perché la morte ci fa, ci costituisce: tesse la nostra esistenza assieme alla vita. E poi quando la vita s’arresta o si esaurisce, la morte ci porta di là.

Non avendo però ancora appreso le buone maniere, la morte tende a muoversi maldestramente – come canta la poesia di Wislawa Szymborska “Sulla morte senza esagerare” (da La gioia di scrivere. Tutte le poesie, Milano, Adelphi, 2009) di cui questo spettacolo vuole essere un omaggio. Ma non lo fa apposta. Anzi, di suo la morte è gentile: aspetta che ci arrivi davvero il desiderio di morire e di percorrere il nostro ultimo red carpet: la premiazione di una vita e insieme l’inaugurazione di un nuovo inizio.

Ma finché non siamo pronti lei è lì, sulla sua panchina. E non forza la situazione: ci lascia liberi. Permettendoci di vivere ancora un po’, se davvero ne abbiamo voglia. 

Il Teatro dei Gordi é una compagnia indipendente formata da un collettivo di 11 soci.  Un gruppo di attori, ex allievi della Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano: da qui il nome “gordi” che significa proprio “grassi”, “succulenti”.

Nomen omen: questi ragazzi sono una proposta teatrale davvero piena di succo, molto gustosa.

Bello il teatro “apollineo” di alto concetto sì, ma quello che parla di noi, del nostro corpo, delle nostre reazioni, è impareggiabile. 

Questo Teatro dei Gordi è ricco in freschezza – e quindi di succo – e regala un appagamento che sa durare, che si dà senza fretta. 

Perché anche la vita è un gioco di succhi, cui fa eco la reazione succulenta della nostra bocca. Anche per questo non è indispensabile passare attraverso le parole per arrivare a contattare l’esperienza della succosità, che resta inscritta nella nostra mente in maniera attraente.

Ed è così che si riesce ad apprezzare l’originalità della loro drammaturgia, il loro coraggio e la loro attenzione meticolosa. Ad esempio nella cura dei dettagli della comunicazione affidata ai corpi: dove il gesto si cura di non essere mai “verbale” ma di trovare di volta in volta quella precisione capace di portare avanti l’azione scenica.  Una cura meticolosa sì: perché descrive quel sentimento di irresolutezza di chi agisce temendo di sbagliare e che proprio per questo mette nel lavoro una cura di livello superiore, dettata dai minimi scrupoli, dai più attenti riguardi. Da un buon uso della paura.

Un po’ lo stesso uso che noi potremmo imparare a fare della paura della morte.

E forse è proprio questo il succo più persistente che ci portiamo a casa, una volta terminata la loro rappresentazione.

Andrée Ruth Shammah

E così – anche grazie alla feconda visionarietà della direttrice artistica del Teatro Franco Parenti Andrée Ruth Shammah che vedendo il primo studio dello spettacolo ha deciso di  co-produrre il progetto successivo – noi possiamo dire di aver assistito, citando A. Artaud, ad “una trascendente esperienza vitale”.

Uno spettacolo disorientante e fertile. Come il Teatro e la Vita insegnano. Insieme alla Morte. Senza esagerare.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione LA RAGAZZA SUL DIVANO di Jon Fosse – regia di Valerio Binasco

TEATRO VASCELLO, dal 16 al 21 Aprile 2024

Che talento serve per dipingere?  

E per vivere?

Forse, serve lasciarsi attraversare dal dolore. Non proteggersi troppo, non trattenere il dolore nascondendolo. Non far sì che si limiti al ritorno ossessivo e allucinato solo di un’immagine.  Farlo scendere piuttosto, fino a contattare la tridimensionalità del cuore. Delle viscere. 

Tra i flutti di una tempesta esistenziale e familiare, una giovane donna “naufraga” su un divano. Il suo corpo cresce insieme agli anni ma i suoi occhi continuano a vedere sempre e solo le stesse cose: quelle che l’hanno ferita fino a paralizzarla emotivamente. E che per una vita si è ostinata a lasciare che riapparissero solo come visioni: “Tante cose della vita non si possono pensare, per poterle sopportare”.

Giordana Faggiano e Pamela Villoresi: ragazza e donna sul divano

Lo spazio scenico immaginato da Valerio Binasco è il luogo della mente della protagonista, ormai invecchiata (una Pamela Villoresi dalla stupefacente bellezza interpretativa) dove convivono – senza delimitazioni – tutti quei luoghi e quei personaggi testimoni delle sue emozioni più dolorose. 

A differenza della scrittura di Jon Fosse, la narrazione registica di Binasco sceglie di sublimare quella magnifica e nauseante sensazione di “dondolio”, alla quale l’autore Premio Nobel per la Letteratura 2023 dona una forma quasi poetica. 

E’ il dondolio esistenziale in cui siamo gettati noi umani, quasi quello di una nave – metafora qui anche della figura paterna – “incantata” in un continuo retrocedere ed avanzare.


Nel riadattamento del testo (la cui traduzione è di Graziella Perin) Binasco “traduce il dondolio della lingua” in un andamento più piano, meno oscillante. Più “pop”. Dove la sensazione di produrre spiazzamento sensoriale nello spettatore viene affidata all’interpretazione degli attori: attraverso una resa della caduta dei principi della logica, in bilico tra il tragico e il comico. Ma lo spiazzamento maggiore è attribuibile, forse, a quella speciale “sacralità” restituita soprattutto attraverso gli occhi degli interpreti: in un dondolio tra ingenuità e perdizione.

Ma c’è di più: c’è qualcosa che ricorda il “realismo magico” proprio della poetica delle opere pittoriche di Antonio Donghi, i cui confini sfumano tra realtà e irrealtà.  Sono le scene “più segrete” – girate dietro la parete di velatino – a ricordarlo, per quell’ “ambigua chiarezza” che guida la scelta della drammaturgia cromatica delle luci (scene e luci sono affidate alla cura di Nicolas Bovey). Ma più di tutto, è quella tensione propria di Binasco a dare vita a “un’armonia degli ossimori”, a ricordare il pittore romano (1897 – 1963). 

E’ un mondo infatti dove non si smette di invocare Dio, senza essere troppo sicuri che però esista. Un mondo dove non si è sicuri di niente, dove non si cerca niente. Ma dove nonostante tutto non ci si blocca totalmente. Ci si accontenta di spegnersi e di riattivarsi. Continuamente, a vuoto, meccanicamente: “bisognerà pur fare qualcosa!” . 

Isabella Ferrari (madre) e Giordana Faggiano (ragazza)

Ma “cosa”, non si ha fame di saperlo. Se si prova a dare forma ad una propria idea, dopo l’insistere contrario dell’interlocutore ci si accomoda nella sua posizione. Ma neanche questo funziona: si crea uno scarto e ci si ritrova a pensare: “perché nulla è come dicono che sia?”. 

La parola, seppur molto utilizzata, risulta svuotata del suo valore comunicativo: si riducono le identità e si moltiplicano le contraddizioni, così come le cause non corrispondono più agli effetti.

Ma anche il valore terapeutico della parola è andato perso: non scendendo sotto la superficie del vedere, la parola non riesce a curare. “Me ne sto sempre qui seduta su questo divano, non faccio altro che parlare ma non serve a niente continuare a dire queste cose”.  

Pamela Villoresi (donna)

E viene meno anche il potere del “racconto”, perché fiacco è lo sforzo di tenere insieme tutti gli elementi che si vorrebbero comunicare. Così passano gli anni ma “alla fine non è successo quasi niente”.

Si vive sul ciglio della vita, senza mai spingersi ad esplorarne il centro, o il ciglio opposto. E ci si appaga di momentanee complicità relazionali, suggellate da frequenti “Eh, sì” che ne sanciscono il compimento. Ma insieme anche la fine.

Pamela Villoresi (donna) e Fabrizio Contri (padre)

In un mondo dove i personaggi restano così, come immobilizzati in un’atmosfera senz’aria, gli uomini sono stanchi, dimessi, ingenui, banali, inconcludenti. Il personaggio dello zio, qui in Binasco – lungi da un carisma da amante segreto – diventa quasi una caricatura di ingenuità. Ed è un irresistibilmente interrogativo Michele di Mauro ad interpretarlo.

Michele Di Mauro (zio)

E’ un mondo dove si resiste a vivere pur essendo saltate tutte “le identità” che fanno delle persone delle creature uniche, nel bene e nel male. Qui infatti evaporano i nomi propri, si diluiscono i confini spaziali (così come quelli tra video e pittura, nell’interessante proposta di Simone Rosset) e quelli comportamentali: i padri sono assenti ( Valerio Binasco -uomo- e Fabrizio Contri – padre-) e se ci sono rinunciano ad applicare con i figli il limite delle regole. Limiti che soli possono stimolare desideri di personale rielaborazione della regola. E le madri non ce la fanno a trasmettere la gioia di vivere ai figli, perché a loro volta figlie di genitori manchevoli.

 

Sono donne che indossano vestaglie che – quasi come ali – pur facendo sollevare, non si rivelano adatte al volo (i costumi sono curati da Alessio Rosati).  

Oppure sono donne, come la protagonista da ragazza (una Giordana Faggiano dagli intensi sbalzi di temperatura emotiva) che restano nel nido anche quando sembrano esserne fuori (ed è mirabile la freschezza decadente di Pamela Villoresi, ovvero la protagonista nell’età adulta).

Donne con una vocalità quasi da volatile: acuta, a tratti gracchiante, che passa dall’accorata e assillante lamentosità infantile agli isterismi dell’età matura. Senza la possibilità di esplorare fertilmente le calde e misteriose tonalità della seduzione.

Sono quelle note che non trovano il proprio colore né nel vissuto della madre della protagonista (un’efficacissima Isabella Ferrari dalla sciatta femminilità ma dall’ insopprimibile fascino) né nel vissuto della sorella (un’avvincente Giulia Chiaramonte, votata alla soddisfazione delle fantasie maschili). 

Giulia Chiaramonte (sorella)

Un testo che ci parla, ci risuona. E mette in subbuglio il nostro talento a vivere.

Ma lo sguardo che ci regala la regia di Valerio Binasco è quasi carezzevole. Magicamente reale.

Valerio Binasco (uomo) e Pamela Villoresi (donna)


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo I MASNADIERI di Friedrich Schiller – regia di Michele Sinisi

TEATRO BASILICA, dall’ 11 al 28 Aprile 2024 –

Sono ragazzi di oggi, ma basta un accessorio e si vestono di passato.

Sono “persona” e “personaggio”: in trasparenza. Si presentano anagraficamente come persone e ci anticipano qualcosa di essenziale del loro personaggio, del suo destino.

Sono voce d’entusiasmo; sono corpi dotati di un eccesso di energia.

Non ci celano nulla, tutto è “a vista”: i cambi d’abito, gli inserti musicali. Le entrate e le uscite non conoscono quinte. Neanche quando i corpi si preparano ad entrare dentro altri corpi, dentro altre posture, dentro altre vocalità.

E’ la storia di padri e di figli, di ieri e di oggi. E’ la storia di eredità affatto interessanti: troppo distratte, troppo proibitive. Che generano figli, testimoni degli stessi eccessi.

E’ un tempo inquieto: come il nostro, come ciclicamente capita si verifichi.

E’ una storia di intrighi e di violenza che non esclude però l’apertura verso “un inno alla gioia”: quegli accordi composti da Schiller nel 1775 e musicati da Beethoven nel 1826 continuano a risuonarci.

Questo dramma teatrale, rappresentato nel 1782 a Mannheim da un giovane Schiller, fu un successo clamoroso: si racconta che durante la rappresentazione alcune signore siano svenute dall’emozione e che gli spettatori si siano abbracciati perché coinvolti emotivamente dall’azione. Qualcosa di simile accadde alla rappresentazione del 1898 di Stanislavskij de “Il gabbiano” di Cechov.

E anche ieri sera, nella sublime cornice del Teatro Basilica, a fine rappresentazione grande è stata la commozione e l’entusiasmo del pubblico.

Gli interpreti del Gruppo della Creta(in o. a.) Matteo Baronchelli, Stefano Braschi, Vittorio Bruschi, Jacopo Cinque, Gianni D’Addario, Lucio De Francesco, Alessio Esposito, Lorenzo Garufo, Amedeo Monda, Laura Pannia, Donato Paternoster – guidati dall’ acuto sguardo registico di Michele Sinisi, riescono davvero molto efficacemente nel trasmettere tutta la potenza e tutta la necessità che anche il nostro secolo – che tende a concentrarsi nel “ruminare il passato” – ha di qualcosa e di qualcuno che favorisca il fermento, proprio come “lievito di birra”.

Una necessità di padri che sappiano essere padri rigorosi ma stimolanti e di figli che ereditino lo stimolo della “legge del padre” per fermentare fertilmente.

E – come già sosteneva vibrantemente Schiller – è il Teatro quella “istituzione morale” capace di rendere fecondo “il gioco” della vita: quello tra padri e figli, tra singolarità e collettività, tra ragione e sentimento.

E ci riesce attraverso “la bellezza” della sua Arte: facendo “cadere le bende dagli occhi” e sublimando “la vanità puerile” in impegno collettivo.

Dando vita così a un nuovo Umanesimo.

Il regista Michele Sinisi


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo L’ESPERIMENTO di e con Monica Nappo

TEATRO ARGOT STUDIO, dall’11 al 14 Aprile 2024

Quello di Monica Nappo è un tentare ragionato – un esperimento appunto – che unisce sinergicamente il potere della parola a quello dell’immagine. Laddove la parola tentenna a descrivere, è infatti l’immagine a rivelarsi più duttile ad esplorare e descrivere certi disagi. 

Un’esplorazione di sé – ma anche di noi del pubblico – quella proposta dalla Nappo che trova ispirazione e sostegno nell’estetica di Piet Mondrian. Lo spazio scenico infatti – pensato ed allestito per ospitare lo spettacolo (lo studio di una counselor) – ricorda lo studio del celebre pittore, in quanto riproposizione di una estensione dei suoi dipinti. Spazio ideale quindi per perdersi e così poter dare vita ad un nuovo esperimento di linee e colori, che provi ad ordinare e mettere in comunicazione un universo personale immerso nel caos. 

I confini ben definiti delle celebri “Composizioni” di Mondrian – alle quali allude la parete di fondo dello studio da counselor della donna interpretata dalla Nappo – non chiudono infatti ermeticamente gli spazi descritti ma permettono incontri, intersecandosi continuamente. Ed è una splendida metafora del lavoro su sé stessi – a cui lo spettacolo invita con ironica profondità – per un sano relazionarsi con gli altri.

Quante insidie – ad esempio ci si chiede – può nascondere un’attesa?

Quali sono i suoi confini?  E il non rispettarli in quali pericoli ci fa incappare?

La couselor interpretata dalla Nappo invece coglie l’occasione del protrarsi dell’attesa dell’arrivo del suo paziente per farsi lei stessa “il prossimo paziente”. E ci si consegna in tutta la bellezza del testo da lei scritto, oltre che interpretato.

E’ un raccontare, il suo, che non segue la linearità sicura di una narrazione già confezionata ma piuttosto esprime “il tentativo” – insito solo nel raccontare e nel fare esperimenti – di tenere insieme vari elementi per poter comunicare qualcosa d’interessante.

E assume la forma di un continuo riprendere daccapo – “ricomincio ” – ogni qualvolta qualcosa sembra sfuggire. Quasi come se nell’oralità si ricreasse lo stesso avanzare imperfetto del processo creativo della scrittura. Un po’ un tirar via il foglio dalla macchina da scrivere, accartocciarlo e ricominciare con un altro foglio.

La Nappo intriga per il suo acuto disarmo. E sorprende quando lo stesso disarmo lascia il posto alla provocazione. I toni della sua voce – che sanno come colorarsi delle emozioni che attraversano – sono prevalentemente acuti ma mai irritanti. Quasi musicali. Teneri e pungenti. Il suo corpo rompe continuamente tutti i piani ed è una continua sorpresa. Come gli interrogativi che ci sottopone.

Come possiamo desiderare ancora ciò che già abbiamo?

Quanto bene e quanto male riesce a procurare una somma di piccole cose? 

E cosa succede se questa somma di piccole cose nasce da una solitudine, diventa un’abitudine e poi arriva a trasformarsi in una dipendenza?

Un po’ come le diverse temperature che il corpo attraversa nel continuo e progressivo adattarsi ai differenti gradi dell’acqua, quando ci si immerge per fare un bagno al mare.

E se ancora aleggiasse nell’aria una qualche forma di scetticismo, la Nappo in chiusura tira fuori dal suo “cilindro che bolle” una vera e propria teoria scientifica a coronamento del risultato raggiunto con il suo accattivante racconto.

Perché la differenza tra amore e dipendenza, tra resilienza e sottomissione è tutta in un salto: quello che occorre fare ad un certo punto dell’attesa. Prima che esca fuori dai suoi confini. 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo ZIO VANJA di Anton Čechov – regia Leonardo Lidi


PROGETTO ČECHOV

(Seconda tappa)

di Leonardo Lidi


TEATRO VASCELLO – dal 9 al 14 Aprile 2024

Cosa succede quando il passato invade il presente? 

Quando i ricordi fagocitano gli impulsi creativi? 

Succede che si riduce notevolmente la visione prospettica sulle nuove possibilità di “riempire gli anni”. Ieri come oggi.

La regia di Leonardo Lidi affida a Nicolas Bovey la cura per la realizzazione di un’efficacissima struttura scenografica capace di veicolare – già solo attraverso l’impatto visivo – la claustrofobia di questa perversa modalità di stare al mondo.

In verità questo possibile modo di vivere esprime la tensione più potente che abita la natura dell’essere umano. E non è quindi propria di un determinato periodo storico. Per natura infatti siamo tutti inclini a conservarci, a proteggerci dall’ignoto. A ridurre il nostro campo visivo e quindi il nostro campo d’azione.  Preferiamo renderci innocui. 

Ecco allora che il confine che separa il passato dal presente avanza smisuratamente appropriandosi di grand parte dello spazio d’azione. Anche sul palco. Ed è subito afa.

Ne deriva la sensazione di un presente schiacciato, opprimente, senza un fiato di vento. Dove ci si accontenta di anelare – attendendola più o meno compostamente tra richieste di compatimento e imbambolimento vario – l’azione rigenerante di un temporale.

Un presente “a campo corto”, dove si mangia e si dorme. Ma soprattutto dove si beve molta vodka: per acquisire – almeno per tutto il tempo della sbronza – “un simulacro di vita”. E così provare ad agire, ad osare. Perché tutto il resto, è noia. 

Una noia che non è la serenità della pigrizia. Piuttosto la logica conseguenza emotiva di quel senso di disinteresse che non conosce uno sprone che punga, facendoci contorcere alla disperata ricerca di qualcosa di non monotono, di interessante. E’ quella noia che è la cifra di chi non immagina progetti, di chi non coltiva interessi di stupore partecipe.

Una noia piena di fiumi di parole che, sebbene scorrano via a ritmi vorticosamente accelerati, restano in bilico sul loro stesso valore logico. Di conseguenza anche quel che resta del sistema emotivo va in tilt. O si scolora.  E assieme all’ habitus (il modo di fare, il costume sociale) perde vivacità anche la seconda pelle, ovvero l’abito, che non osa spingersi oltre le tenui tonalità pastello (la cura dei costumi e di Aurora Damanti). 

Lidi sceglie allora che la recitazione degli attori incarni questo ondivago senso delle parole sia attraverso un’apparentemente solida immobilità del corpo, sia attraverso una totale rottura dei piani del corpo. Quasi burattini nelle mani del fato. Ed è bellezza. 

Una bellezza che fiorisce da un lavoro attoriale che riesce ad esprimere l’urgenza simbiotica del corpo di “aderire” allo spazio. Di “spalmarsi” su di esso, lungo ogni coordinata. Un corpo quasi totalmente privo di autentici slanci d’entusiasmo, se non espressi con la complicità della vodka. 

Ma che fine hanno fatto i desideri? Quella spinta, il desiderio, che regala così tanta tonicità alla psiche umana? In un habitat atarassico, dove si desidera solo l’autoconservazione, sono bandite le tensioni di qualsiasi natura. Troppo pericolose: sono fucina di cambiamenti. E i cambiamenti spaventano assai. 

Ma la scelta di votarsi alla sicurezza di un male conosciuto piuttosto che a un bene tutto da scoprire risucchia linfa vitale: quella che spinge ad andare alla scoperta, alla ricerca. Anche della propria vocazione: anzi no, “quella la conosce solo Dio”. 

E ci si chiede, fuori da ogni consapevolezza logica, se chi verrà dopo si ricorderà di loro come coloro che hanno “spianato la via”. Valore che Puskin riconosceva all’opera di Batjuskov, autore così amato dal Professor Serebrjakov. Ma per essere onorati dagli eredi occorre essere padri “interessanti”.

E poi ci si rammarica di invecchiare troppo velocemente. Ma come evitarlo se si vive all’insegna della monotonia: dove niente di quello che si fa è “interessante”? Dove niente è più capace di destare curiosità, di suscitare attenzione o partecipazione ? Dove niente coinvolge e appassiona? Neanche l’amore. Neppure quello per la natura. Perchè – come riconosce zio Vanya – “si vive di miraggi quando manca l’autentica vita”.

Tentazione così maledettamente vera anche oggi.

E pensare che quando scopriamo qualcosa che ci interessa scopriamo un legame, qualcosa che sta in mezzo e ci avvicina a qualcosa o a qualcuno. Perché l’interesse è la cifra dell’unione fra noi e tutto il mondo intorno. Ed è un invito alla partecipazione e al coinvolgimento.

Senza interesse ci si accontenta di vivere in una squallida torre d’avorio, capaci solo di osservazioni distanti e distorte, evitando di calarsi davvero nella realtà per rendersi nodo solido di una rete.

La regia di Leonardo Lidi affida allora a Franco Visioli la cura di  creare sonorità labirintiche e lunari e a Nicolas Bovey una drammaturgia delle luci proveniente da un cielo basso e vagamente sinistro. Tali da enfatizzare la vacuità sterile delle crepe esistenziali dei personaggi, resi con sconcertante verità extratemporale dagli attori in scena.  Si ride. Ma da qualche parte ci arriva una fitta.  

Lidi sceglie – ed è la sua filosofia – un teatro di attori dove un desiderio collettivo risulti superiore ad un desiderio personale. E infatti Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Ilaria Falini, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna splendono restituendoci l’agrodolce miseria dei loro personaggi, proprio in quanto consapevoli parti irrinunciabili di un tutto. 

Leonardo Lidi ha un talento che brilla per la capacità di “tradire fedelmente” i testi del grande teatro classico. Il suo è un modo di gestire l’eredità dei padri del teatro che onora il valore di testimonianza. Un teatro, il suo, con una particolare raffinatezza di gusto: un teatro divertente che si guarda bene dall’essere “innocuo”.

Un teatro necessario.

Leonardo Lidi, il regista

“Zio Vanja” è la seconda tappa  – dopo “Il Gabbiano” – del suo Progetto Cechov, prodotto da Teatro Stabile dell’Umbria, Teatro Stabile di Torino e Festival dei Due Mondi. La trilogia si completerà con “Il giardino dei ciliegi” che debutterà tra qualche mese al Festival dei Due Mondi di Spoleto. 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo DUE DONNE CHE BALLANO di Josep Maria Benet i Jornet – regia di Giorgia Passeri

TEATRO PORTA PORTESE, 6 e 7 Aprile 2024

Quant’è difficile mettersi in gioco con gli altri?

Cosa ci spinge a isolarci, evitando di scendere in campo a giocare e a farci giocare dal relazionarci con gli altri?

Che realtà è quella qui descritta da Josep Maria Benet i Jornet dove nessuno ha più il suo nome proprio? Dove tutti sono stati privati della propria identità e quindi della propria unicità?

Flavia Di Domenico

E’ un mondo dove si è smarrita la cura di donare attenzione all’altro: di guardarlo con interesse, con acuta curiosità. E assomiglia paurosamente a quello in cui anche noi siamo immersi.

Giorgia Passeri – che cura la regia dello spettacolo – coglie e sviluppa anche scenograficamente la componente sociale ma soprattutto esistenziale che anima il testo, proprio come nelle intenzioni dell’autore. 

Con finezza costruisce una scena-campo da gioco dove risulta efficace la tentazione ed essere presi in scacco dalla vita.

Soprattutto quando i desideri restano appesi, frustrati, ignorati.  

Giocare allora la propria partita con la vita perde smalto e ci si ritira progressivamente ed inesorabilmente in difesa. Una difesa asfissiante.

Ce ne parla con efficace incisività la drammaturgia della prossemica: un potente gioco comunicativo non verbale dove i piani dei corpi e degli occhi nonché le loro distanze urlano la difficoltà a superare la soglia del sospetto, tra due donne – diversamente violente perché ugualmente spaventate – che non hanno mai fatto esperienza di autentica e quindi generosa accoglienza da parte degli altri.

Rese “invalide” a cogliere la fertile contagiosità di un incontro: “io non ho diritto a niente … per questo risparmio”. Ma i soldi non riescono a colmare l’abisso esistenziale in cui si stanno calando entrambe le donne. I soldi non riescono a comprare l’altruistica attenzione degli altri.

Fin dalle prime battute del testo ma soprattutto fin dai primi colori di voce delle due protagoniste ci arriva il sentore di come le stesse siano preda del fascino subdolo verso una diversa realtà finalmente di quiete atarassica: se nell’anziana signora (interpretata da Flavia Di Domenico) assume i toni di un velato ricatto manipolatorio, nella giovane badante (interpretata da Marina Vitolo) è il richiamo di una seduzione segreta.

Marina Vitolo e Flavia Di Domenico

Di densa ferocia non solo drammaturgica ma anche di maledetta bellezza interpretativa la pretesa dell’anziana signora (Flavia Di Domenico) di “farsi dare del tu” dalla badante. Una pretesa e non una ricerca, un’attenzione, una cura dell’avvicinarsi: premure impossibili se non si sono precedentemente vissute e acquisite come un imprinting di umanità. 

Così come elegantemente mortificante è l’equivalente ostinato – e insieme meravigliosamente scolorito – tenersi a distanza della badante (Marina Vitolo): “sono qui per lavorare, mica in visita!”.

Marina Vitolo

Una vita di relazione in cui niente “quadra”, a differenza del pavimento esistenziale in cui tutto “sembra” una perfetta ed equilibrata tessitura di luci e di ombre.

Ma è quando l’anziana signora, in un inaspettato gioco di seduzione tra il licenziare e il trattenere la badante, si scopre incline a rispettare i tempi e le modalità di avvicinamento dell’altra, che qualcosa di fertile inizia a manifestarsi.

Entrambe avvertono quel ponte che unisce le loro diffidenze: perché prestare attenzione è contagioso. “Parli con te stessa? Cioè con te quando eri piccola? Che cosa raffinata” – si sorprenderà a riconoscere la badante di fronte a questa autentica confessione disarmata dell’anziana signora. 

Flavia Di Domenico e Marina Vitolo

Perché si fa quello che si è ricevuto, nel bene e nel male.  E se corri il rischio di aprirti con l’altro, molto spesso succede che anche l’altro “sputerà il suo rospo”. 

Perché essere amiche, almeno un po’, significa essere interessanti l’una per l’altra: essere messi in mezzo alla vita dell’altro. E’ un ponte che lega due esistenze a tutto il mondo intorno. Miracolo che non riesce a fare neanche l’altare dei giornaletti, appeso a desideri chiusi.

E’ così che alla fine le due donne riescono a sintonizzarsi. E poco conta chi vince e chi perde: ora conta solo “farlo insieme”. Ballando.

In un malinconico ed eccitante passo a due : “Un passo me ne vado/Per sempre/ Un passo grande un passo così importante” (Mille passi di Chiara Galiazzo feat. Fiorella Mannoia).

Flavia Di Domenico

Flavia di Domenico ci regala un’anziana signora vibrantemente compressa come un vulcano che si prepara ad eruttare. La sua potenza maggiore sta proprio nel trattenere ciò che si ritarda a far esplodere. Recitano in tal senso le sue mani. E i suoi occhi, pur celando la loro incandescenza sottraendosi all’incontro con altri occhi.

Marina Vitolo

Marina Vitolo restituisce il personaggio della badante con una commozione dalla bellezza sublime: tale da riuscire a farla trapelare – con la complicità di occhi indimenticabili – anche in tutte le crepe di smarrimento d’entusiasmo di cui il suo personaggio brilla.

Lo spettacolo – da non farsi sfuggire –  resta in scena al Teatro Porta Portese ancora oggi pomeriggio alle ore 18:00.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione del testo teatrale AMEN di Massimo Recalcati –

EINAUDI, Collezione di teatro 456


Da questo testo il Teatro Franco Parenti ha prodotto l’omonimo spettacolo che l’8 Luglio 2021 ha debuttato al Festival di Spoleto, con Marco Foschi, Federica Fracassi e Danilo Nigrelli e con la regia di Valter Malosti.


La bellezza di certe verità è inafferrabile. Ma ci ospita. Possiamo lasciarci le nostre tracce. È così. 

Come accade con la neve: quella, ad esempio, sul fondo della scena qui descritta. 

Una neve che abita un confine.

In quanto tale, un confine si dà come inizio e come fine di qualcosa.

Ma può darsi anche come coesistenza di un inizio e di una fine di qualcosa: come soglia di un incontro, di una comunione.

Come i protagonisti di questa narrazione: sono 3 ma anche 1.

E’ la bellezza di certe verità, come quella della religione cristiana e dell’inconscio psicoanalitico.

I tre – un figlio, una madre e un soldato/padre spirituale – non si rassegnano a concepire il confine tra la vita e la morte come una “separazione” tra un prima e un dopo.

La narrazione dei loro vissuti ci parla di un desiderio di vita che non esclude la morte ed è così consapevole da fare di questo presunto confine – sperimentato in molte occasioni della loro vita – un luogo d’incontro e quindi di coesistenza:

Tra un passo e l’altro

Tra un battito e l’altro

Tra un sentire e un mancare 

Tra il totale altruismo di madre e l’insostenibile leggerezza dell’essere dei padri 

Tra battesimo ed estrema unzione

Tra l’amore diverso di ciascuno dei due amanti

Tra il restare di un nome e il corpo che muore

Tra il durare e il resistere

Massimo Recalcati

E’ così che la scrittura di Massimo Recalcati, noto psicoanalista e saggista, ci porta a fare esperienza dell’ eternità del caduco: dell’irresistibile trascendenza legata al piacere dei sensi. 

In primis, il vedere: quello che riceviamo in dono dai nostri “piccoli occhi mortali” accesi dalla luce, partorita dal buio.

Luce che a sua volta partorisce la vita e insieme la morte. E rende possibile l’entrata in scena di un altro meraviglioso senso: il tatto. È la bellezza dell’aderire. Che non significa afferrare. Ma contagiarsi nell’abbracciare un’attesa. 

Recalcati canta la continua meraviglia di un giorno qualsiasi, quella trascendenza che scende sulla quotidianità, come la polvere sulla consuetudine immortalata nelle opere di Giorgio Morandi.

Recalcati canta la bellezza irripetibile dei nostri corpi, così come sono: lungi da un desiderio di perfezionamento. 

Recalcati fa venire alla luce un testo dalla viscerale e lisergica potenza sinestetica: che riusciamo a “sentire” anche acusticamente, olfattivamente, tattilmente e in bocca. Al di là dei principi della logica.

È il racconto della rievocazione della “passione del vivere”: la preghiera delle preghiere.

Un testo sull’urgenza di nascere, non solo una volta ma ancora e ancora: tutte le volte che la vita si scontra fertilmente con la morte. 

Tre personaggi, tre diversi modi di essere ebbri di vita. Per se stessi e per gli altri.

Tre declinazioni di ostinato insistere a voler vivere: anche quando l’ impossibilità a proseguire diventa direttamente proporzionale all’impossibilità a non proseguire. Uno strazio e un’eccitazione che non escludono la tentazione a lasciarsi andare e a gridare contro Dio, come Giobbe.

Ma su tutto vince l’urgenza dell’inafferrabile bellezza di vivere, ancora, ancora, ancora: battito dopo battito, passo dopo passo.

Sì, così: “…adesso e nell’ora della nostra morte”. 

“Amen”: così sia, così voglio.

Massimo Recalcati


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo L’ORIGINE DEL MONDO – Ritratto di un interno – scritto e diretto da Lucia Calamaro

TEATRO ARGENTINA, dal 22 al 28 Marzo 2024 –

Ha la bellezza fine e lacerante di un canto notturno, questo spettacolo scritto e diretto da Lucia Calamaro.

Canta di quanto sia senza senso l’essere gettati al mondo di noi umani. Di come manchi un’origine, un rassicurante inizio. Il bandolo della matassa dei nostri grovigli esistenziali.

Ma dal testo della Calamaro ci lasciamo prendere e gli permettiamo di condurci proprio là dove accuratamente evitiamo solitamente di inoltrarci: in quell’errare infinito e labirintico che ci è così familiare e che diventa obiettivo di un’intera vita tacere. Ignorare. Il nostro e quello altrui.

Lucia Calamaro, autrice e regista dello spettacolo

Un testo che ricorda quel lunare lamento, pieno di domande destinate a non trovare consolazione, del “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” di Giacomo Leopardi

Qui però l’interlocutore non è la Luna ma un frigorifero: unico “astro” capace di gettare luce sulle tenebre dell’esistere. La sua è una luce che non fa ordine, sebbene induca all’introspezione. “Alimentare”. 

Ma Concita (la protagonista figlia di Lucia Mascino e madre di Alice Redini) non cerca lì nel frigo la soddisfazione dello stomaco: la sua non è quella “voglia di qualcosa di buono”. No, lei dice di cercare qualcosa che le riempia “il torace”: sede del sentire con il timo e col diaframma. Organi già cantati dall’ Omero dell’Iliade come responsabili del respiro, inteso come soffio vitale: equilibrio dell’inseparabilità tra vita psichica e somatica. Concita insomma cerca “qualcuno” e non “qualcosa” nel microcosmo della sua psiche-frigorifero: cerca se stessa. 

Concita De Gregorio è Concita, figlia di Lucia e madre di Alice

Ma per farlo ha bisogno degli altri: ha bisogno di qualcuno che ami ascoltarla: con attenzione, con cura. Perché la nostra natura vive del relazionarsi.  Ma la qualità della relazione deve essere fertile, generosa. Altrimenti si rischia di ammalarsi di mancato ascolto, di mancata attenzione.

Come avviene alle tre protagoniste qui in scena: stesso imprinting con reazioni diverse. Lucia, la nonna, sceglie di rimuove le sue esigenze più vive riuscendo a sopravvivere nel mare di noia che ne deriva senza affogarcisi dentro; Concita (la figlia di Lucia) non riuscendoci si isola, si chiude all’ipocrisia delle relazioni; sua figlia Alice è in bilico tra la simbiosi con la mamma e il tentativo di riuscire a comunicare con lei decifrando il suo linguaggio del corpo, vista la crisi di autenticità della comunicazione verbale. Un’inautenticità di cui (paradossalmente) farà esperienza anche l’analista di Concita.

Lucia Mascino è Lucia, madre di Concita e nonna di Alice

Lo spettacolo che si sviluppa in tre atti, in uno spazio scenico enormemente vuoto e abitato da una luce lattiginosa (specchio della liquidità dello stato psichico) e cromaticamente sempre più vicina all’approfondimento spirituale – si propone come una spiritosa riflessione sul progressivo cammino introspettivo di Concita verso l’ ”origine” di sé. 

Il suo processo di auto-consapevolezza sul proprio disagio si avvale inizialmente della relazione con l’oggetto emblema del raffreddamento emotivo: il frigorifero. Un raffreddamento che però non esclude muffe, non solo alimentari. 

Alice Redini è Alice, figlia di Concita e nipote di Lucia

Il viaggio prosegue passando attraverso la relazione con un diverso interlocutore tecnologico: la lavatrice. Metafora di quel far girare in avanti e indietro idee, domande e considerazioni asciugandole – almeno parzialmente – attraverso quell’azione centrifugante, così ben replicata dalla mamma di Concita, Lucia. Che si impegna parossisticamente ad eliminare quell’eccesso di umidità che regna in casa, a causa del continuo piangere di Concita.

La terza tappa del viaggio è con l’ analista, ridotta a macchina, a stereotipo. Un’incomunicabilità verbale che lascia spazio al silenzio dei pensieri. Ad uno stare al mondo umanamente più indefinito. Un risultato in mutamento, nel quale si può entrare in relazione. Sagacemente.

Alice Redini, Concita De Gregorio e Lucia Mascino

Le tre interpreti sulla scena – (anche) parti di una stessa psiche – ci rapiscono.  E fanno di noi ciò che vogliono. Ci viziano e ci strapazzano, ci consolano e insieme puntano dritto al cuore, come solo Lucia Mascino sa fare, armata di rami di bambù. 

Così facendo riescono a farci intravedere come nel chiuso disagio della depressione – interpretato con multiforme delicatezza da Concita De Gregorio – possa farsi strada la possibilità di evolvere, avvicinandosi a quell’equilibrio e a quell’armonia in accordo con l’ambiente circostante, esemplificato qui iconograficamente nell’arte giapponese di sistemare i fiori. 

Un equilibrio costantemente da resettare e insieme da accogliere: perché una mamma che, come Lucia Mascino, possa inveire sulla composizione floreale – a cui ha appena dato personale forma ed equilibrio la figlia Concita – per imprimere anche il suo tocco, ci può sempre essere. 

Ma tutti siamo figli: anche le madri, anche le nonne così come le psicologhe. E anche qui le interpreti – e particolarmente Alice Redini, con la  sua capacità  di saper rendere diversamente fertile lo smarrimento di figlia e quello di psicoanalista – ci tatuano addosso la sensazione che pur essendo stati  messi al mondo al di là della nostra scelta e plasmati da un imprinting che per molti anni siamo invitati a seguire, possiamo comunque fare qualcosa di proprio – e quindi nostro – di quello che gli altri ci hanno fatto.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo I CUORI BATTONO NELLE UOVA di Alberto Fumagalli – regia di Ludovica D’Auria e Alberto Fumagalli –

TEATRO BELLI, dal 12 al 24 Marzo 2024 –

Immersi nel buio, è la poesia di un gioioso scampanellio a condurci uditivamente in una dimensione magico-onirica.

Si manifestano: sono tre e si stringono sotto ad una sorta di albero, quasi fosse un sabba. Sono streghe ma anche spose: sono donne.

Sono amiche e nemiche. Sono gravide, sul punto di partorire.

Soprattutto sono mosse da un “dentro” vitalissimo. 

Quando nasce davvero un bambino? 

Chissà perché si conteggia la sua età solo a partire da quando “viene alla luce”.

E pensare che quando è nella pancia-uovo è così vivo da condizionare già prepotentemente o seducentemente la vita di una mamma. 

Matilda Farrigton

E’ in grado infatti sia di scatenare una vera e propria tempesta di dolori e contrazioni, che di indurre uno stato di così delizioso appagamento da far desistere la madre dal liberarlo, partorendolo.  

C’è chi dice, odiandolo, “ basta! ”.

E chi, in totale dipendenza, “ ancora ! ”.

Chi si affida alle scelte cromatiche della tradizione e chi invece osa trasgredirle.

La gravidanza è uno stato magico. Un incanto. Una forma di dominio e di abbandono alle forze della natura. 

E’ il fascino dell’ineffabile. Un magnetismo invincibile.

Elena Ferri, Matilda Farrigton e Grazia Nazzaro

Un disegno di luci e di ombre tra l’angelico e il diabolico.

Diventare madri è qualcosa che avvicina le donne al sacro: una vertigine di sublime bellezza.

La Compagnia Les Moustaches, una delle più promettenti in Italia, riesce anche questa volta a dare forma ad una storia che parla a tutti. Che emoziona tutti. Perché tutti siamo figli.

Una storia, quella sulla maternità, raccontata senza veli: in tutta la sua drammatica potenza ancestrale.

Matilda Farrigton, Elena Ferri e Grazia Nazzaro

Giocando – con raffinata ambiguità – sulla bellezza della linea curva: morbida ma anche assediante.

Una linea “esistenziale”  modulata su ogni elemento del progetto teatrale: dalla drammaturgia alla sperimentazione linguistica; dalla scena alle evoluzioni del ritmo; dalle posture alla prossemica. 

Le tre interpreti in scena – Elena Ferri, Matilda Farrington e Grazia Nazzaro – sanno restituirci visceralmente tre diverse declinazioni di quell’umana disumanità che abita le donne che scelgono o si ritrovano a sperimentare questa “sovrannaturale” ospitalità, che oscilla tra gli istinti vitali più estremi.

Lo spettacolo “I cuori battono nelle uova” è inserito all’interno della Rassegna Expo Teatro Italiano Contemporaneo presso il Teatro Belli di Roma.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL PICCOLO PRINCIPE IN ARTE … TOTO’ – scritto e diretto da Antonio Grosso –

TEATRO COMETA OFF, dal 19 al 24 Marzo 2024 –

Ha il fascino di un’evocazione lo spettacolo sul Principe della risata Totò, scritto e diretto da Antonio Grosso e interpretato da Antonio Grosso e Antonello Pascale, in scena ieri sera al Teatro Cometa Off.

E sprigiona tutta la magia di un ricordo intimo e sagace: quello argutamente sagomato – ed enfatizzato da un raffinato disegno delle luci curato da Giacomo Aziz – intorno alla delicata sinergia tra la vita privata e la carriera artistica de “Il Piccolo Principe in arte … Totò” .

Antonello Pascale e Antonio Grosso

L’uomo che per tutta la vita, nonostante la fama raggiunta, si sentì solo e abbandonato. Perché – come ebbe modo di scoprire il protagonista del capolavoro di Antoine de Saint-Exupéry – nella vita non ci si realizza con ciò che si arriva a possedere ma grazie alle relazioni che si riescono a intessere intorno a noi. 

Sicuramente luminoso e fertile fu il rapporto che Totò instaurò con Mario Castellani, la sua “spalla” storica, quella che lo accompagnò nel corso di tutta la carriera artistica, rimanendo in ombra pur rendendosi luce dei suoi occhi, quando nell’ultimo periodo della carriera quelli di Totò ne restarono privi. Qui nello spettacolo è interpretato da un efficacissimo e multiforme Antonello Pascale, che si cala anche in una miriade di ruoli relativi ai personaggi che costellarono la vita privata di Totò.

Antonio Grosso e Antonello Pascale

Ed è attraverso la poetica traduzione registica di un oscillare esistenziale tra fama e solitudine in un altalenare dei ricordi durante l’ultimo viaggio in nave da Palermo a Napoli (scene e costumi sono di Marco Maria Della Vecchia) che prende un’armoniosa forma circolare questo appassionato spettacolo.

Dove una sensibile perspicacia guida Antonio Grosso a non cadere nei meandri della tentazione ad imitare l’inimitabile talento di Totò. Ma a restituirne l’essenza più intima della sua anima. E quindi anche tutte le indispensabili contraddizioni.

Antonio Grosso

Vive nel suo volto del Totò di Antonio Grosso, nelle sue mani e nella totalità del suo corpo la preziosa traccia di quell’inafferrabile espressività iper fluida del guitto e insieme quella scattante della marionetta.

I ritmi della sua voce sanno come e quando passare dagli allungamenti propri di un’indole costituzionalmente pigra a quell’inappagabile urgenza di mitragliante velocità, così amata dai futuristi. Quell’esuberanza e quella creatività “fuori squadro”, quell’essere “regista di se stesso”, che rese così difficile l’attenzione nei suoi confronti da parte dei grandi registi di cinema e di teatro.

Antonello Pascale e Antonio Grosso

E poi la restituzione di quella particolarissima devozione verso il pubblico, quel bisogno di “servirlo” sul palco o sul set come in un ristorante: “comandi!”. Per meritarne l’amore. Per farlo restare. Laddove invece qualcuno una volta se ne andò: suo padre, che lo riconobbe solo molto dopo la sua nascita.

E’ la storia di un uomo “affamato“ non solo e non tanto di cibo, quanto di autentiche attenzioni. Il suo sguardo ce ne parlava – e qualcosa resta catturato anche in quello di Antonio Grosso: quegli occhi densi di malinconica serietà, anche nelle scene più esilaranti.

Antonello Pascale e Antonio Grosso

Uno spettacolo che sa restituire momenti di quella poetica secondo la quale “la miseria è il copione della vera comicità”. E che nasce dalla grande curiosità -figlia di una commossa sensibilità- verso le varie forme che può assumere la natura umana (come anche l’impianto scenico suggerisce con suggestiva poeticità).

Un teatro, quello di Grosso, che si conferma ancora una volta un bello stare, un bel riflettere, un bel ricordare.

Lo spettacolo resta in scena al Teatro Cometa Off fino a domenica 24 marzo p.v.

Antonello Pascale e Antonio Grosso


Recensione di Sonia Remoli