Recensione dello spettacolo CARA UTOPIA di Maria Teresa Berardelli – con Claudia Crisafio – regia di Marianna di Mauro –

TEATRO LE MASCHERE, dal 17 al 19 Settembre 2024

LE VOCI DEL PRESENTE, Piccolo Festival di Drammaturgia Contemporanea

Lei può fare tutto: ha il destino scritto nel nome.

Pasqualina é infatti colei che sa soffrire, postura esistenziale di chi prende sulle proprie spalle il peso del mondo e nel farlo si scopre vertiginosamente libera, in confidenza con la morte.

Pasqualina Losacco come il mondo, non si è fermata mai un momento, come la notte lei insegue sempre il giorno. Ed il giorno verrà.

E sarà quello in cui incontrerà un grande cuoco, così da diventare anche lei una grande cuoca. Le piace sopra ogni cosa cucinare e mangiare. Gode nel ripetere a mente i piatti che sa cucinare meglio: ricordarli la nutre, in tutti i sensi. 

Pasqualina Losacco ora ha 75 anni: per natura è raffinata come una regina e incarna un’anima che sa squittire. Ce ne parla un suo deliziosissimo ghigno, il suo musetto secco e appuntito, il suo passo piccolo e veloce e il suo curvarsi come per annusare la terra, avendo in testa un’acconciatura di nuvole inquiete.

E’ curiosa, coraggiosa e quindi intelligente. 

Perché Pasqualina è accorta, mette in campo una sorta di saggezza efficace e concreta, che si manifesta nel modo di acquisire e di utilizzare le conoscenze e nel gestire le situazioni in cui si trova. Anche le più traumatiche. La sua è l’attitudine a comprendere le cose nel loro profondo e nel loro contesto.  Gliel’ ha insegnata il suo sogno, quello di cui è impastata la sua essenza: saper ben “cucinare”, verbo cardine della nostra cultura.

Nel descrivere una trasformazione – quella delle materie prime non sempre commestibili, gustose o salubri da mangiare così come sono – l’arte del cucinare infatti ci parla  della necessità di preparare a “far entrare in relazione” gli ingredienti, realizzando ciò che serve alla vita.

Perché non è sufficiente procurarsi le materie prime, occorre “renderle fruibili”. Ed è di stupefacente bellezza come una necessità biologica si traduca in un’attività culturale, estetica e politica.

Chi sa cucinare associa, separa, assimila, valorizza le materie prime, dando vita ad un’alchimia. “Batti bene la carne – diceva la nonna a Pasqualina – che ti purifichi!”.

Perché l’alchimia culinaria è l’arte di separare le parti meno nobili di un alimento, di depurarlo, di perfezionarlo. Ed è una metafora profondissima che ci pervade. Chi cucina purifica “la propria materia” per estrarne l’essenza: saperla unire ad altri ingredienti significa raffinarla ma anche renderla umana, capace di relazionarsi con altro.

Una drammaturgia potente come un rituale magico; incandescente e insieme “teneramente commestibile” nel sapersi avvicinare al sentire del pubblico. 

Claudia Crisafio, l’interprete di Pasqualina, si lascia modellare ossa, tendini e deglutizioni dalle parole selezionate e “cucinate” da Maria Teresa Berardelli: parole conosciutissime ma di cui ora torniamo ad assaporare il fascino, così da lei trasformate, mescolate.

E allora la voce della Crisafio si fa sguardo per contagiarci della meraviglia dell’ineffabile : ed è evocazione. Oppure si fa gusto, per lasciar plasmare il corpo in una metafisica brama di vorace curiosità. Fino a che – come preziosa materia prima – tutto il suo essere arriva a lasciarsi disponibilmente dilatare oppure possedere da movimenti compulsivi.

Un’eccitazione di cui parla il virtuosismo delle sue mani, mosse da una misteriosa diteggiatura nell’atto creativo del dosare, del versare, dell’impastare, dello stendere e del provocare la lievitazione. Una coreografia maestosamente quotidiana. 

E’ l’acuta regia di Marianna di Mauro, la poesia del suo disegno luci, a rendere carismatico ogni istante, incarnando proprio nel quotidiano più ai margini la densità di un sogno. 

Un sogno “caro” come può esserlo “un’utopia”: preziosa, impegnativa e (apparentemente) ingrata. Cifra di un mondo assurdo ed equilibrato in cui ciò che più si ha di davvero caro non è caro, non è acquistabile. 

L’utopia è infatti il sogno di un non-luogo buono, di cui si sa tollerare bontà e irrealtà. Un idealismo spinto e ricco di valori, dove seppur dichiarare un profondo desiderio non necessariamente gli darà luogo, la fedeltà a quel desiderio avrà però un buon luogo di responsabilità nell’ universo interiore di ciascuno. 

Dentro di noi l’utopia non è bizzarra fantasia ma certezza matematica. Come in Pasqualina.

E con pazienza si potrà arrivare lontano: noi stessi siamo i figli dell’utopia di tanti che, saggi, non sognarono un mondo perfetto, ma un mondo migliore.

Uno spettacolo magnetico, energizzante, lirico, politico.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione del film CAMPO DI BATTAGLIA – regia Gianni Amelio –

Con

Alessandro Borghi

Gabriel Montesi

Federica Rosellini

 Film presentato all’ 81ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica 

Quante forme può assumere il nostro slancio vitale, immerso nell’emergenza traumatica della guerra?

Nella cornice che si avvia a chiudere il Primo Grande Conflitto Mondiale e ad aprire il fuoco dell’attenzione sull’esplosione della successiva guerra pandemica della Febbre Spagnola, lo sguardo poeticamente lacerato di Gianni Amelio riesce a relazionarci alla guerra da un’insolita prospettiva: quella che la vede campo di battaglia tra inedite forme di slancio vitale.

Il regista Gianni Amelio

Il film si ispira, realizzandone un libero adattamento, al libro di Carlo PatriarcaLa sfida” e ha, tra le altre cose, il merito di riaccendere l’attenzione cinematografica sulle conseguenze – mediche ed esistenziali – provocate dalla guerra e dalla pandemia della febbre spagnola, che raggiunse il suo picco nell’ottobre del 1918. Un trauma di cui si è poco parlato al tempo, per vari motivi, non ultimo quello per cui all’epoca costava troppo ammettere di brancolare nel buio. 

Ma ogni trauma è tale proprio perché accade un evento per il quale le attuali risorse per affrontarlo non si rivelano più efficaci. E seppur immersi nel buio, ne vanno ricercate delle altre. Perché “sopravvivenza” non equivale più solo a “resistenza”. Perché diverse sono ora le paure e le aspettative. Perché mutando i confini della libertà, emergono necessariamente altre identità di noi stessi.

Ed è  all’interno di questo disperato campo di battaglia civile che desidera indagare il prezioso film di Gianni Amelio.

Gabriel Montesi (Stefano)

Stefano (Gabriel Montesi) è uno dei due ufficiali medici di un ospedale militare del fronte trentino-friulano. Pur dichiarando di essere ormai insopportabilmente insoddisfatto del lavoro che svolge, non ce la fa ad uscir fuori da questa situazione stagnante che lo sta spegnendo. E che equivale – proprio nel suo rimanere cieco e sordo a come si stia modificando il suo sguardo sulla guerra – ad una sorta di automutilazione del suo slancio vitale.

Federica Rosellini (Anna) e Gabriel Montesi (Stefano)

Un accecante senso del dovere verso la patria e verso l’appartenenza allo status borghese lo portano allora a riversare la sua insoddisfazione in una disamina ossessiva tra chi, dei malati ricoverati, “deve” tornare a combattere al fronte e chi invece “deve essere giustiziato” avendo mentito sul proprio stato di salute, traumatizzato dall’esperienza di guerra appena fatta. 

E’ un gioco di specchi quello che lui inconsapevolmente mette in atto: anziché prendersi cura dell’effettivo stato di salute fisica e morale dei militari, punisce e obbliga chi non dimostra (un ottuso) slancio vitale nel ritornare al fronte, per compensare il fatto di non riuscire lui stesso ad affrontare la guerra con lo stesso slancio iniziale. Il suo fanatismo politico si trascina dietro allora un fanatismo medico, pur di non trovarsi lui stesso faccia a faccia con la nausea che lo pervade e che gli parla della necessità, ora, di un cambio di slancio vitale.

Gabriel Montesi (Stefano)

Come se cambiare punto di vista significhi esclusivamente essere inefficienti e traditori. E non anche avere la capacità di rimanere in contatto con la natura autentica del proprio sentire, che necessariamente muta immersa in un diverso contesto socio-esistenziale.

E infatti non è un caso che l’ossessione verso l’efficientismo predisponga alla prepotenza tipica degli intolleranti, che attribuisce paranoicamente all’Altro le proprie responsabilità.

Impotente quindi di fronte all’ascolto del suo desiderare, e di conseguenza anche verso quello degli altri, Stefano si auto elegge allora allo status di un dio che ogni giorno – quasi come in un contesto da “giudizio universale” – si sente chiamato a giudicare tra Bene e Male. E soprattutto a ben separarli. 

Gabriel Montesi (Stefano) e Alessandro Borghi (Giulio)

Con Stefano, nell’ospedale militare, lavora anche un suo amico d’infanzia – Giulio (Alessandro Borghi) – dalla vocazione di ricercatore e che, anche sbattuto in prima linea, non può fare a meno di continuare a chiedersi cosa significhi “aver cura” degli altri ora, quasi al termine della guerra. La sua postura medica ed esistenziale ci parla del continuo essere in ascolto se il suo sentire resta confermato o se invece propone delle variazioni. 

Alessandro Borghi (Giulio)

Scopre così che ora non ce la fa a “giudicare” e a “separare nettamente” – come fa il suo amico Stefano – il Bene dal Male. E clandestinamente prova compassione per i soldati che si ritrovano a desiderare di mentire pur di non tornare ancora sul campo a combattere. La sua compassione – paradossalmente al concetto istituzionale di cura – si concretizza nell’amplificare, dietro consenso, le ferite di guerra dei soldati, ancora ricoverati ma “giudicati” ottusamente idonei al ritorno in guerra dal “dio Stefano”.  Così enfatizzata, però, la nuova non idoneità elimina ogni dubbio e di conseguenza legittima il congedo autorizzato dal campo di battaglia.

E così, un luogo deputato alla cura e alla riabilitazione finisce per rivelarsi – in un contesto fuori dall’ordinario com’è la guerra – il campo dove si gioca la battaglia tra chi insensibilmente non si cura delle ferite dell’anima oltre che di quelle del corpo e chi, per curare le ferite dell’anima, mutila ancor di più il corpo.

Federica Rosellini (Anna)

I due amici e colleghi saranno poi raggiunti a sorpresa da una loro compagna di studi, ora ridimensionata a volontaria della Croce Rossa – Anna – (Federica Rosellini): una studentessa troppo brava per essere donna e quindi per poter essere riconosciuta nel suo autentico valore anche di medico.  Una figura femminile “mutilata” nel suo slancio vitale ma che fino alla fine- nonostante tutto – riesce a non abbandonare la sua vocazione verso la medicina, accogliendola come un fertile enigma, anche esistenziale, dalle molteplici soluzioni. Un po’ come l’amore.

Federica Rosellini (Anna)

Quasi in sciopero dalle parole – sono in lei i silenzi a prevalere – è nei suoi occhi che lo spettatore può leggere tutta l’ondivaga sublime inquietudine che la abita. S’ intuisce che in passato fosse molto vicina a Giulio e così continua a fare ora. Scoperto il suo insolito slancio vitale verso “il concetto di cura”, dopo un iniziale tentennamento, sceglierà di seguirlo fino a farsi testimone della sua vita.

Federica Rosellini (Anna) e Alessandro Borghi (Giulio)

Un film, questo di Gianni Amelio, che contribuisce a guarirci dalla tentazione all’assuefazione che la guerra tende ad ispirarci. Un film che tonifica l’elasticità del nostro slancio vitale.

E che ci racconta come “il prendersi cura” – così come la democrazia – si fondino sul principio dell’instabilità, del pluralismo, del mediare, del tradurre, dell’accogliere e del comporre le differenze e le diversità. 

Un “prendersi cura” che non trova compimento una volta per tutte: la vita, la democrazia e la medicina non si danno infatti per sempre: sono il frutto di una continua ricerca.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo EVA: GUIDA ESISTENZIALE X DONNE CONSAPEVOLI – tratto da “Il diario di Adamo ed Eva” di Mark Twain – adattamento e regia Alessio Pinto –

TEATRO TOR BELLA MONACA, 12 Settembre 2024 –

In un lussureggiante eden naif (le scene e i costumi sono curate da Loredana Labellarte) nasce la Eva di Alessio Pinto. La incarna una Dafne Barbieri meravigliosamente meravigliata, feconda in musicalità e in colori espressivi.

E’ un’ Eva spumeggiante, morbidamente primitiva, acutamente ingenua e quindi destinata a divenire decisamente molto consapevole. Molto più della Eva di Mark Twain

Il suo è il raggiungimento della consapevolezza di essere una donna dotata non solo di un’intelligenza di tipo razionale ma anche di un’intelligenza emotiva. 

Totalmente sua la narrazione dalla quale non è mai assente il suo Adamo, amato così come è, così come creato: con la sua pigrizia fisica, mentale ed emotiva. E lei è consapevole di non poter fare a meno di avere per lui una predilezione rispetto ad ogni essere del creato. 

Dafne Barbieri

Per convincerlo ad interessarsi di lei, ha scoperto l’arte della seduzione: un uso del suo corpo che inizia ad andare oltre l’esplorazione conoscitiva, oltre la capacità motoria di flettersi, di ondularsi, di rompere i piani, di correre e scattare. E con il corpo anche la sua voce inizia a rendersi duttile a plasmarsi in toni, colori, ritmi sempre più fascinosi. E poi anche gli occhi iniziano a guardare con altre intenzioni ”conoscitive”. E la Barbieri è sapientemente generosa nel dare vita a tutte queste scoperte seduttive. 

Ma Adamo non entra nel grande gioco della relazione: lui scappa. Teme da matti Eva perché è diversa da lui: troppo. Lui è abituato a considerare “buone” cose simili a lui: indifferenti e – soprattutto – utili. 

E anche la Eva di Alessio Pinto – come quella di Mark Twain – si modella per ridimensionarsi alle pretese sminuenti di Adamo: evita che lui si senta in imbarazzo per la sua perspicacia, come quella del saper entusiasticamente dare un nome alle cose. Non smette di farlo, no. Ma trova anche qui un modo per nominare le cose senza farlo sentire in difficoltà, in difetto. Quasi fosse suo il merito.

Le Partenze Intelligenti

Nei momenti più deludenti va allo stagno per verificare cosa sta succedendo dentro se stessa: se ciò che sta facendo vivifica o mortifica la sua natura. E scopre che l’uomo non è “un esperimento”, come lei. E che questo significa che l’uomo ha bisogno di essere assecondato: come se specchiandosi nello stagno volesse vedere due immagini riflesse. 

Ma a lei questo non basta: non è in lui, né solo in lui, che si realizza la sua consapevolezza a vivere momenti di felicità, di momentanea realizzazione. 

La Eva di Alessio Pinto allora inizia ad assumere la consapevolezza che essere servile non la fa stare bene come quando dà linfa invece al cervello: a sue idee personali.  A lei piace sposarsi con la filosofia perché è l’essere grata del suo slancio vitale – guidato da una costante meraviglia – che la conduce ad impazzire di curiosità di sapere. E quindi a sperimentare instancabilmente, fino al raggiungimento della prova che dimostrerà la sua teoria. Ne trae un piacere così profondo, che teme il giorno in cui finiranno le cose da scoprire: allora resterà priva del suo irresistibile piacere. 

Ma oltre ad inaugurare il metodo scientifico e la filosofia, Eva scopre anche le regole del desiderare: che è preferibile non avere troppa fretta nel conoscere tutto. Perché solo un’attesa, e quindi un senso di mancanza, può mantenere vivo più a lungo il suo piacere . 

Alessio Pinto

E la Eva di Alessio Pinto fa un passo in più: scopre e inaugura il piacere eterno. La consapevolezza cioè di lasciare tracce di sé nelle future donne amanti del sapere.

Perché Eva è – e resterà – il simbolo della capacità ad entrare in relazione: non è un caso che ami tanto parlare. Infatti raccontare, confrontarsi – e quindi contaminare e contaminarsi dei semi dell’ Altro – rende “eterni”. 

Ed è così – con il piacere di conoscere (e quindi di “rubare”, ovvero di “sottrarre” all’indifferenza) il bello della conoscenza – che lei sublima, ad esempio, la sua consapevole tendenza a voler “rubare” cose belle come la Luna. Di giorno no, ma di notte lo farebbe senza paura. Ma di Luna ce n’è una sola; e ancora una volta sarà il piacere della condivisione a farla desistere a “rubarla”.

E poi Eva scopre la morte, assistendo un porcellino in fin di vita. E è da lui che impara la dignità dell’ accogliere la morte. E di godere del suo arrivo.

Perché morire può significare non solo ritornare polvere ma anche lasciare scie luminose per chi ci ha conosciuti e amati e per chi, grazie a queste tracce luminose che resteranno di noi, ci conoscerà in futuro, portando avanti il piacere del meravigliarsi. 

Proprio come fanno le stelle: Eva con i suoi esperimenti era arrivata alla teoria – non ancora confermata – che si sciogliessero completamente morendo. Ma, grazie anche a lei, ci fu chi andò avanti nel piacere di sapere e scoprì che le stelle morte non smettono di essere luminose.

Come la Eva, incarnata nella Dafne Barbieri di Alessio Pinto, continua a ricordarci. 

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Rassegna UILT Lazio “Libero Teatro in un Teatro Libero”

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Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo S_MEME di Flavia Di Domenico e Marina Vitolo – regia Francesca La Scala –

TEATRO PORTA PORTESE, 10 e 11 Settembre 2024 –

Rassegna ROMA COMIC OFF 2024 – “Il Festival del Teatro Off della Capitale” – dal 10 al 18 Settembre –

Frizzante ieri sera l’atmosfera al Teatro Porta Portese che ospitava l’atteso spettacolo – scritto e interpretato da Flavia Di Domenico e Marina Vitolo – intitolato “S_MEME” per la regia di Francesca La Scala.

Lo spettacolo è inserito nel programma della seguitissima Rassegna Roma Comic Off 2024 – il Festival del Teatro Off della Capitale – in scena dal 10 al 22 Settembre 2024

Un teatro – seppur ormai crollato – continua ad essere scelto da un’attrice come suo rifugio esistenziale.  Dimenticata da registi e produttori, anche la sua identità e la sua professionalità sembrano crollate. Stessa sorte scoprirà legarla ad una sua ex collega, che cercherà accoglienza proprio nello stesso teatro scelto da lei. 

Ma un crollo non è necessariamente solo una disfatta: può anche assumere il valore di una forte scossa, di un urto necessario per rivedere un certo punto di vista. Ed è quello che le due attrici – in passato acerrime rivali sulla scena – scopriranno. 

Marina Vitolo e Flavia Di Domenico in una scena dello spettacolo

Le due attrici nonché autrici del testo Flavia Di Domenico (Anna) e Marina Vitolo (Regina) – perfettamente a loro agio nel cercare e nel cogliere i giusti tempi comici altalenati a commoventi tinte drammatiche – trascinano il pubblico su travolgenti onde emotive.

Complice la cura delle scene, sapientemente esaltata da un raffinato disegno delle ombre, così come i contributi musicali scelti per sottolineare opportunamente alcuni snodi drammaturgici. La regia dello spettacolo è di Francesca La Scala.

Recuperata la complicità umana e professionale, le due attrici – profondamente bisognose (economicamente, umanamente e professionalmente) di attirare su di sé l’interesse di registi e produttori – si lasceranno incantare e manipolare da facili e ben remunerate occasioni di visibilità televisiva, anche se di scarsissima qualità. 

Diventeranno, grazie ad una rete di inganni costruita dapprima da loro stesse e poi, una volta sempre più “famose” dalla loro manager (Maya, interpretata dalla stessa Francesca La Scala), la brutta copia delle professioniste che erano. 

Francesca La Scala

Ma il destino continuerà a dare loro ancora una possibilità, proprio attraverso un altro “crollo”: per poter ricominciare tutto da capo. In maniera diversa.

Uno spettacolo travolgente che, grazie ad un esilarante coinvolgimento comico – opportunamente punteggiato da momenti di riflessione – pone l’attenzione su una situazione professionale pungentemente reale. 

E’ infatti necessario e urgente tornare ad investire nel Teatro, metafora del conoscere umano che, attraverso la moltiplicazione dei punti di vista, illumina la realtà in cui siamo immersi secondo prospettive diverse, sempre in dialogo tra loro. 

Perché il Teatro promuove il consolidarsi del pensiero critico.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL BARDO, VIAGGIO NELL’IGNOTO di William Shakespeare – a cura di Mamadou Dioume – regia Gina Merulla

TEATRO FRANCIGENA di Capranica (VT), 8 Settembre 2024

IMPACT FESTIVAL 2024

Foto di scena by Emanuele Antonio Minerva

Non ci sono scene: i loro corpi sono luoghi sempre nuovi. 

Non ci sono costumi: solo una seconda pelle nera esalta la lussureggiante policromia delle fibre della loro energia. 

Sono la splendente testimonianza di ciò che una concertazione tra il linguaggio della razionalità e quello dell’inconscia interiorità riescono a plasmare plasticamente a livello vocale ed energetico. 

In questo sublime viaggio verso l’ignoto shakespeariano, a dare l’avvio al percorso è un tema assai caro al Bardo perché a fondamento della psiche umana, di cui Shakespeare fu un fine conoscitore: il potere della relazione tra esseri umani e le sue infinite e naturalissime perversioni. 

Il gruppo di lavoro seguito da Mamadou Dioume – attore e collaboratore di Peter Brook nonché Direttore Artistico del Festival – e composto da Francesca Rafanelli, Francesca Mastroddi, Luciano Masala, Damiano Allocca, Lorenzo Colombo, Marco Chiappini, Antonella Prodon, Julia Tola, Fabrizio Ferrari – porta in scena allora, grazie al penetrante ascolto registico di Gina Merulla, anche Direttrice Artistica del Teatro Hamlet Associazione organizzatrice del Festival,  una coreografia di intenzioni che narrano di quanto bisogno abbiamo dell’attenzione dell’Altro. E del danno psichico che subiamo nel momento in cui si tramuta in indifferenza. 

Ecco allora prendere vita la magia dello sguardo, quello distratto e accennato, così come quello più attento e accogliente e che fa esistere, fino allo sguardo che si fa muro rigido e invalicabile verso la diversità dell’Altro. 

Ecco la delusione del restare esclusi, del non essere riconosciuti nel proprio merito e quindi tagliati fuori dal gruppo della socialità. Invisibili, inesistenti.

Foto di scena by Emanuele Antonio Minerva

E poi dopo lo sguardo-muro, arriva l’a’ambigua calunnia manipolatoria che viene versata nelle orecchie e che accende le nostre reazioni più violente. Di cui siamo non sempre consapevoli, perché conoscere noi stessi e poi aprirsi all’attenzione del conoscere l’Altro implica il desiderio di intraprendere un viaggio di esplorazione umana, di cui non si possono sapere in anticipo le conclusioni. 

E’ il fascino proprio di un viaggio dentro di noi che osa muoversi verso l’ignoto, di cui le opere shakespeariane sono una preziosissima testimonianza. Scendono infatti nelle profondità delle dinamiche della psiche umana comprendendole e poi spiegandole a noi, attraverso un’analisi smagliante sui rapporti tra Teatro e Realtà. 

I drammi di Shakespeare sono intessuti di pulsioni alle quali non possiamo resistere ed è per questo che leggendoli abbiamo la netta sensazione che siano loro a leggerci fino in fondo. Perché il Bardo ha dato vita più che a ruoli teatrali a vere e proprie personalità, dove ogni personaggio è un tratto peculiare della natura umana. 

Foto di scena by Emanuele Antonio Minerva

E la sinergia del testo shakespeariano associato o alternato al gesto del movimento coreografico, capace di parlare ai nostri occhi e di scavare dentro le nostre anime, ci ha rapiti e sedotti. Infiammati e turbati. 

Pur essendo uno splendido spettacolo dal punto di vista estetico, ciò che fa la differenza non è l’elogio della forma. Perché qui la forma è il risultato non tanto e non solo di un lavoro tecnico quanto di una disponibilità assoluta degli interpreti ad essere totalmente presenti in scena.

Arriva sottilmente o in maniera deflagrante al pubblico una complicità e quindi una fiducia ad aprirsi nell’esplorazione dei propri abissi interiori, incluso il proprio peggio. Che è ciò che ci accomuna tutti nella nostra condizione di esseri umani. E che solo conoscendolo, e magari provando a farci amicizia, potremo riuscire a rendere profondamente creativo. Divino.

La regista Gina Merulla

E’ ciò che parla dalle spalle degli interpreti, oltre che dai loro volti, nudi di ogni maschera di accettazione sociale; è la scelta prossemica che predilige gli angoli; il disegno luci che cerca il cromatismo delle ombre; il corpo-psiche che si affida alla rottura dei piani; le emozioni che si aprono a congelamenti, a repentine fluidità, a guizzi istintivi, a paludosità, a complicità o a contrasti musicali.

Sono occhi, sono denti, sono mani. Sono torsioni, sono blocchi, sono seduzioni animalesche che scelgono di non opporre resistenza alla forza di gravità.

E’ lo strano, è il diverso, ad andare in scena. E noi del pubblico ci sorprendiamo a trovarlo così naturale!

E’ ciò che emerge dalla straordinaria e quindi creativa e quindi commossa complicità del gruppo di interpreti in scena, nudi di fronte alla natura umana. 

Espressione della magnifica diversità di vari punti di vista


Recensione di Sonia Remoli

Recensione del libro TANTE CARE COSE di Massimo De Lorenzo

BIBLIOTHEKA EDIZIONI

Prefazione di Luca Vendruscolo

Sono “care” e quindi preziose le “tante cose”, ovvero i tanti incontri, che Massimo De Lorenzo – noto attore di cinema e di teatro – desidera rievocare in questo delizioso libro sorprendentemente profondo, pubblicato da Bibliotheka Edizioni.

Incontri che l’autore ha vissuto lasciandosi arricchire da donne e da uomini che hanno dato una forma sempre più complessa e piú completa alla sua vita. Donne e uomini che lo hanno messo in contatto con parti diverse della sua psiche, facendo sì che potesse giungere a conoscersi meglio.

E infatti, cosa si augura ad una persona a cui si vuol bene ? “ Tante care cose!”: di fare interessanti incontri, quelli cioè che stimolano a crescere, a migliorare. In ogni momento dell’ esistenza.

“Care” sono infatti le “cose” cifra di un mondo in cui ciò che più si ha di caro non è caro, non avendo un costo economico. Perché quando ci si vuol sentir ricchi davvero, conta proprio ciò che si ha e che non può essere comprato.

Massimo De Lorenzo

E’ “la casualità” a caratterizzare gli incontri indimenticabili che Massimo De Lorenzo ha vissuto e qui rievocato. Ma “suo” è stato il desiderio a far diventare “necessità” ciò che si è presentato sotto le vesti della “casualità”: suo – grazie alla disponibilità ad entrare in un’autentica relazione con l’Altro – l’aver saputo intercettare, proprio in quel particolare incontro, la possibilità “irrinunciabile“ per accedere ai suoi desideri più nascosti, più personali, più veri. Ad esempio, quei desideri d’amore che sanno andare al di là dei confini fissati dal vivere civile e religioso. O anche quei desideri di conoscenza “erotici”, perché al di là del nozionismo: desideri di fedeli tradimenti, necessari per “rifare proprio” un insegnamento, un’eredità.

Desideri, più in generale, quali “ponti” capaci di mettere in comunicazione due linguaggi differenti: quello fondato sui principi della logica (identità-non contraddizione e causa-effetto) e quello libero da questi principi e vicino al linguaggio inconscio dei sogni. Linguaggi che narrativamente danno vita ad una duplice prospettiva: una dall’alto e l’altra che scende nelle profondità, proprio laddove sono restati incastrati alcuni desideri più personali. Con il risultato che, tornando in superficie, si scopre di conoscere meglio se stessi. Per aver “lasciato le vesti” precedenti: quelle che portano a dire – come alibi al non mettersi in gioco – “…nessuno ti vuole bene come la tua famiglia, la Calabria è sempre la Calabria e nessun posto ci rende felice come starcene a casa propria, che noi abbiamo il cibo più buono, il mare più bello e poi la famiglia…”.

E così quella che apparentemente si presenta come una gradevolissima raccolta di mail reali o immaginarie – una collana di perle di saggezza comica e poetica – in verità ha l’essenza di un’esplorazione “in soggettiva”, dove ogni mail narrativamente “è montata a schiaffo” all’interno di una narrazione quasi cinematografica.

Sono mail che non nascono per avere una risposta: Massimo De Lorenzo non scrive a loro (ai suoi destinatari) ma a tutti, di loro. Perché se é vero che é a loro che l’autore si è raccontato e sono loro che hanno saputo ascoltarlo con autentico interesse ( “ci aprivamo la testa con chiacchierate meravigliose”), le sue mail sono piuttosto degli atti di gratitudine alla Vita per avergli permesso di assaporare com’è “ bellissimo perdersi in questo incantesimo”: quello che riesce a distorcere immobili certezze.

Efficacissima anche la scelta di copertina: un raffinato e spiritoso disegno di Livia Alessandrini che raffigura un Massimo De Lorenzo schiacciato da una prospettiva che lo riprende dall’alto. L’immagine s’intitola “Figurante” e può alludere al fatto che assecondare chi ci guarda dall’alto ci schiaccia a vivere da “figuranti” . Solo osando – e quindi essendo curiosi di scendere dentro di noi portando alla luce i nostri desideri più autentici – ci fa evolvere da “figurante” non solo a “personaggio” ma anche a “persona”.

Perché “niente di grande è stato fatto senza passione” – ricorda hegelianamente l’autore. E perché “chi cerca, prima o poi trova, dappertutto “. Se stesso.

Un libro, questo di Massimo De Lorenzo, che ci legge. E che si fa leggere come un prezioso invito a non perdere mai la curiosità a conoscere noi stessi. Ricordandoci di essere sempre grati nei confronti di quegli incontri che ci hanno saputo plasmare contribuendo a valorizzarci o spingendoci a fare conoscenza – e, nel migliore dei casi, “amicizia – con il nostro peggio”, come direbbe Massimo Recalcati.

Perché solo cosí si generano “tante care cose”.

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Recensione di Sonia Remoli

Recensione del concerto per piano solo della pianista RITA MARCOTULLI – A lei il Premio Nazionale Franco Enriquez 2024 –

TEATRO CORTESI di SIROLO, 23 Agosto 2024 ore 21:30 –

La sua è un’entrata in scena che coinvolge sfere sensoriali differenti: é felpata all’udito, morbida agli occhi.

La sua è la grazia della discrezione, che ieri sera si è vestita di verde: il colore della libertà a procedere, ad andare avanti al di là dei netti e regolari confini.

Verde é il colore di base della sua musica, la quale è un inno contro la schiavitù delle separazioni e delle gerarchie. E infatti partendo da questa base cromatica Rita Marcotulli, geniale e pluripremiata compositrice e pianista di musica jazz, desidera restituire valore, e quindi identità, a tutte le diverse colorazioni sonore della sua verve creativa, che le chiedono di essere espresse. Come avviene nel Teatro. Come avviene nella Vita.

Rita Marcotulli ieri sera al Teatro Cortesi di Sirolo

La Marcotulli incarna quel tipo di eleganza che si apre generosamente alla vocazione all’integrazione.

Quell’eleganza che sa ospitare e promuovere tutte quelle diverse fioriture, che on the road chiedono di essere ascoltate e di avere uno spazio per esprimersi.

Ieri sera, nella meravigliosa cornice del Teatro Cortesi di Sirolo, emblema per vocazione architettonica ed artistica di integrazione civile e di valorizzazione sociale, abbiamo avuto l’onore di assistere al prendere forma di questo stato di grazia creativo.

Il Teatro Cortesi di Sirolo, ieri sera prima dell’inizio del concerto di Rita Marcotulli

Liberi dall’esigenza di un programma di sala, disponibili a non rispondere alle pretese di quell’eccesso di controllo che ci impone di voler sapere sempre tutto prima, ci siamo lasciati cullare, trascinare, strapazzare – in totale disponibilità d’ascolto – da quel multiforme processo creativo che la Marcotulli si è resa a sua volta disponibile ad ospitare.

La compositrice e pianista Rita Marcotulli

Abbiamo così potuto assistere ad una sublime dimostrazione di come la gioia di vivere si inventi continuamente nuove strade per non lasciarsi incatenare dall’ossessiva rassicurazione all’uniformità. A quell’omologazione che mette a tacere il fulgore della bellezza delle diversità. Rita Marcotulli ci dà prova di quale onorevole uso si può fare del rispetto della tradizione e di come se ne può essere testimoni: mantenendola vitale attraverso fedeli tradimenti sperimentali.

Rita Marcotulli

Tra le dimostrazioni più luminose, le interconnessioni con la poetica sincerità della narrazione cinematografica della Nouvelle Vague (François Trouffaut e quindi anche Jean Renoir) ma anche interconnessioni con la folle e dannata pulsione d’amore scritta e descritta da Pier Paolo Pasolini, e interpretata da Domenico Modugno, in “Cosa sono le nuvole”. Ma poi, ancora più dichiaratamente inclusivo, lo sperimentalismo sincretico delle collane vibrazionali, magicamente esotiche, dell’album “Koinè”. Qui dall’acuto ed estroso – e quindi rispettosamente libero – sperimentalismo sincretico della Marcotulli, prende vita qualcosa di cosí meravigliosamente inaspettato la cui sonorità, a tratti, ricorda quella di un caleidoscopico clavicembalo.

Rita Marcotulli

Perché le sue creazioni sono come impasti lievitanti di colori, di sapori, di profumi, di tattilità. Una tattilità di cui si fa strumento la diteggiatura, che si concerta con la danza dei piedi e poi con quella di tutto il corpo. Ma senza inutili eccessi: è quella di Rita Marcotulli una rivoluzione morbida, vellutata, felpata. Perché inclusiva, aperta a nutrirsi di fertili differenze.

La compositrice e pianista Rita Marcotulli

Il pubblico ha espresso il proprio entusiasmo attraverso una calibratissima attenzione che sul finale si è scatenata in interminabili applausi.

A conclusione della magica serata, Paolo Larici, Presidente e Direttore Artistico del Centro Studi Enriquez, è salito sul palco per dedicare la straordinaria bellezza della serata all’indimenticabile costumista Elena Mannini, scomparsa da appena poche ore.

E con immensa gratitudine ha consegnato il Premio Franco Enriquez 2024 a Rita Marcotulli per l’unicità del suo impegno civile e sociale, dimostrato attraverso l’esigenza di rintracciare e concertare sempre nuove identità collettive e traducendole poi magistralmente nel fascinoso linguaggio della musica.

Rita Marcotulli riceve da Paolo Larici il Premio Franco Enriquez 2024

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Recensione di Sonia Remoli

Recensione dell’ incontro spettacolo LA POESIA DEL TEATRO IL TEATRO DELLA POESIA – con la poetessa Nanda Anibaldi, letture di Elisa Ravanesi

SIROLO – TEATRO STUDIO FRANCO ENRIQUEZ – 20 Agosto 2024

Lei è seduta e ci attende avvolta in un panneggio di trasversali cromatismi.

Filigrana d’argento i suoi capelli.

Non ama darsi a favore di luce: vi si sottrae, cercando un’intima solitudine con il pubblico.

Ci è prossima, infatti, ma è innegabile un suo quid ieratico.

Lei è Nanda Anibaldi, poetessa e direttrice del Piccolo Museo della poesia, oltre che presidente della Casa-Museo Arnoldo Anibaldi di Monte Urano (in provincia di Fermo).

Donna poetica inguaribilmente affamata di vita, di curiosità, d’eternità.

Donna di ricerca, alla ricerca.

La poetessa Nanda Anibaldi

Donna che per creare, per produrre e quindi portare in superficie poesia, scende in ascolto delle vibrazioni delle proprie profondità abissali, giungendo a localizzare fertili sorgenti d’acqua sotterranee e preziosi giacimenti minerari interiori.

Solo così trova le parole per dirla, la sua inquieta semplicità di verità. Con fatica: sempre con estrema, drammatica ma anche bellissima fatica. Una fatica dannata, un po’ come quella di Sisifo – ci confida l’Anibaldi: il poeta infatti è a qualche livello un Titano che per tentare di sconfiggere la morte e per liberare – almeno momentaneamente – gli uomini dai loro affanni del vivere, sconta questa sua tracotanza di vivere con il continuo tornare a ricercare. Ancora, e ancora. Per continuamente sfiorare zone di verità.

Un’urgenza quella del Poeta, in quanto abitato da un eccesso di vita; da un entusiasmo di cui non conosce “il perché“, né il controllo. Travolto come da una irresistibile passione amorosa, che sa andare oltre la ricompensa, oltre l’essere ricambiati. Un amore necessario.

Un’origine simile a quella della Poesia, inconsapevole e necessaria, dà vita anche al Teatro – spiega l’Anibaldi – che nasce come “un sapere senza sapere”, cieco per poter vedere meglio. Nasce infatti da un’oralità: quella dei racconti reali e immaginati degli aedi. Le loro erano “performance” – in diretto contatto con l’uditorio – prive di testo scritto: loro stessi erano compositori, creatori in versi, poeti. Scrittori del pensiero. E scrittori di gesti.

La Poesia diviene piú consapevolmente Teatro quando un ensemble di autori (costumisti, scenografi, disegnatori della luce) coordinati da un regista danno nuova forma ad un testo. Ma vale anche il contrario – continua l’Annibaldi: teatro e poesia sono legati e intrecciati tra loro in un rapporto chiasmico. Da qui la scelta del titolo della serata: La Poesia del Teatro il Teatro della Poesia.

L’attrice Elisa Ravanesi

Le acute riflessioni di Nanda Anibaldi nel corso della serata di ieri al Centro Studi Franco Enriquez hanno trovato un sublime coronamento nella lettura interpretativa delle sue poesie da parte dell’attrice Elisa Ravanesi. In uno splendido “pas de deux” prende vita allora la rievocazione del percorso poetico, generosamente riconosciuto dal pubblico, della Anibaldi: quello che va dalla prima pubblicazione del 1989 all’ultima del 2021. Percorso lungo il quale, di volta in volta, la poetessa “si trova un vestito suo” in un “tempo suo”: perché “siamo noi stessi per essere diversi”.

E così all’interno di una sua personalissima vocazione ad individuare – e insieme a rinunciare – alla scoperta dell’identità delle cose (appresa anche attraverso l’imprinting materno) finisce per imbattersi con l’ontologia del “baro”: la meschinità che si cela sotto ogni presunta verità. Una sofferenza certo, che però non smette di accompagnarsi ad un potente slancio vitale. Il tutto custodito in una sublime segretezza, così irresistibile proprio perché così sfuggente.

Elisa Ravanesi, Paolo Larici e Nanda Anibaldi

Una serata, tra le varie e stimolanti in cartellone anche quest’anno, di cui essere grati al Maestro Paolo Larici, per vocazione Presidente e Direttore artistico del Centro Studi Franco Enriquez. Suo il desiderio di testimoniare e consegnare ai giovani la fertile eredità del grande regista Franco Enriquez, che elesse Sirolo – insieme all’adorata Valeria Moriconi – quale luogo di ispirazione creativa e buen retiro.

L’eredità di un Teatro polivalente: che può accogliere tutto e in cui tutto trova una certa sistemazione.

Perché la Vita è un Teatro “dove si va sempre in scena, in qualunque momento… e quando il magico sipario si apre, devi esserci. E ci sono tanti modi per esserci, per creare quella magia irripetibile».

In primis un esserci civile e politico.

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Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo SENZA MOTIVO APPARENTE di e con Christian La Rosa – Ginesio Fest 2024 –

Tratto dal libro “Omicidio in danno al dottor A.” di Sergio Anelli

SAN GINESIO (MC) – 18 Agosto 2024 – Chiostro di Sant’ Agostino ore 21:30 –

Il dono della pioggia scende, quale rito di fertile augurio, sulla serata d’apertura della quinta edizione del Ginesio Fest 2024, diretta da Leonardo Lidi.

Leonardo Lidi

Splende, bagnato a lucido, il borgo medievale marchigiano di San Ginesio a vocazione artistica, in quanto luogo del Santo protettore della comunità attoriale.

A lui é stato intitolato anche il Premio San Ginesio “ All’arte dell’ Attore”, ideato e voluto da Remo Girone,

Remo Girone

Presidente della Giuria composta dal giornalista Rodolfo di Giammarco, dall’attrice Lucia Mascino, dalla poetessa Francesca Merloni e dal regista Giampiero Solari. Quest’anno la giuria ha attribuito il premio a Vanessa Scalera e a Giuseppe Battiston, ai quali sará assegnato il Premio il 25 Agosto, giorno della festa del patrono San Ginesio.

Isabella Parrucci

La comunitá di San Ginesio – sotto l’egida della Direttrice generale del festival Isabella Parrucci – sa come non perdere smalto e, viva d’entusiasmo, sa come riuscire a non smettere di dare vita a sempre nuovi inizi. Com’è nella nostra natura di esseri umani – diceva Hannah Arendt.

E di continui nuovi inizi ci ha parlato anche lo spettacolo che ha dato avvio alla prima serata del Ginesio Fest 2024 : “Senza motivo apparente” di e con Christian La Rosa, tratto dal libro “Omicidio in danno al dottor A.” di Sergio Anelli.

In uno stile accattivante dalla caratura cinematografica Christian La Rosa, fin da subito e per tutta la durata del suo monologo, ci trascina con sé dentro un racconto concertato per più voci narranti. I suoi campi sequenza narrativi , sapientemente contrappuntati da campi corti e primi piani, ci seducono al punto da entrare nel ritmo dei suoi respiri: scattante, complice, colmo d’emozione. Efficace anche la costruzione della suspense, che ci risucchia dentro intuizioni e sospetti solo poi confermati o disattesi. Sono le diverse micro contrazioni che danno forma alle sue spalle a parlarcene, rendendo la comunicazione maledettamente intrigante.

Christian La Rosa

E’, quella di Christian La Rosa, un’urgenza magnificamente umana di evidenziare i continui nuovi inizi che hanno sfidato e sfidano la perversa volontà di chiudere e di insabbiare gli elementi che hanno dato origine all’omicidio del dottor A., ovvero all’omicidio di Amedeo Damiano.

Amedeo Damiano

A lui é dedicato lo spettacolo essendo la sua morte avviluppata all’interno di un’intricata vicenda, ancora oggi parzialmente irrisolta. E vede, come prima fonte d’ispirazione, il testo firmato da Sergio Anelli “Omicidio in danno del Dottor A.”, acquisito agli atti processuali proprio in virtù della sua precisa ricostruzione dei fatti.  Sergio Anelli, facente parte della commissione d’inchiesta presieduta da Amedeo Damiano, scrisse infatti il romanzo per approfondire quello che questo attentato di mafia tracció non solo a livello politico e sanitario, ma soprattutto sociologico: il nuovo volto della mafia, quello che si stava delineando negli anni ’80. L’assassinio di Damiano portò infatti alla luce insospettate vicende malavitose in una pacifica realtà di provincia “di portici e geometrie”: la pacifica Saluzzo, apparentemente immune da dinamiche a carattere mafioso.

Ma 37 anni fa, Amedeo Damiano, presidente dell’allora Ussl 63, (Unità socio-sanitaria locale) di Saluzzo fu ucciso in un agguato la sera del 24 marzo 1987. “Il dottor A” aveva appena varcato la porta del palazzo del centralissimo corso Italia, dove viveva con la moglie Giuliana Testa e quattro figli, quando nell’androne dell’abitazione due uomini aprirono il fuoco. Quello che doveva chiaramente essere una sorta di avvertimento, una ‘gambizzazione’, finirà però in tragedia. I colpi di pistola oltre a fratturargli il femore, lesionarono anche il midollo spinale, paralizzandolo. Dopo un lungo calvario in diverse strutture ospedaliere, Damiano morirà a distanza di 100 giorni dall’attentato, il 2 luglio 1987, mentre era ricoverato in una clinica di Imola dove era stato portato per un disperato tentativo di riabilitazione.

Giornali e telegiornali iniziarono a farsi domande.

Fortunatamente.

Perché porsi domande è un’inclinazione squisitamente etica che ci permette di comprendere il passato, evitando di ripeterne gli errori.

Perché domandare esprime un desiderio di sapere – e non di dimenticare – alla base anche del metodo di conoscenza socratico.

Domande si pose “il dottor A.” per riuscire a risanare la situazione sanitaria precedente.

Domande si pose Sergio Anelli nel suo lavoro di fine archivista, al fine di raccogliere il maggior numero di dettagli informativi per fare chiarezza sul caso del “dottor A.”

Domande continua a porsi Christian La Rosa per educare il pubblico a porsi domande.

E attraverso il suo spettacolo teatrale sa lasciare una traccia in chi lo ascolta: com’è nella natura di un attore e regista dal carisma erotico. La narrazione di Christian La Rosa sa infatti appassionare alla ricerca della verità e al suo continuo saper ricominciare: al di là di ogni possibile sconfitta, al di là di ogni possibile ostacolo.

Proprio com’è nella natura del Teatro: quella di essere un continuo luogo d’incontro. Tra attore e spettatore; tra domande e possibili risposte; tra l’ “ e poi mamma?” E il suo “chissà!” ; tra il nostro “io” e le altre parti che compongono la nostra anima. Tra l’inclinazione naturale a sopraffare – con la quale tutti noi veniamo al mondo – e l’educazione all’amore della verità, che passa per il rispetto dell’Altro, da imparare una volta gettati al mondo. Per realizzarci davvero, autenticamente. Al di là di ogni “solitudine”: anche giudiziaria, come quella di cui ci parla questo caso, rievocato dallo spettacolo di Christian La Rosa. Una rievocazione laica della passione della morte del “dottor A.”

A lui, a 30 anni di distanza dall’omicidio Damiano, “è stato chiesto” infatti di occuparsi di un evento cittadino di scottante importanza. Alla “domanda” La Rosa ha risposto con entusiasmo, utilizzando l’ ‘arma’ di cui sa mirabilmente disporre: quella della rappresentazione teatrale. E con una calibratissima e seducente drammaturgia, La Rosa sale sul palco a raccontare l’intricata vicenda giudiziaria che ha portato dopo 14 processi ad un nulla di fatto sul mandante di quell’attentato. Solo i tre esecutori materiali vennero condannati: “Nessun movente, nessun mandante. Il dottor A. venne ucciso senza motivo apparente”. La Rosa ha avuto la possibilità di confrontarsi a lungo con la famiglia Damiano, di accedere alla rassegna stampa dell’epoca e soprattutto al libro di Sergio Anelli “Omicidio in danno del Dottor A.”

Una storia non solo cuneese ma, al di là di ogni solitudine, italiana.

Una storia su cui continuare a interrogarsi, perché solo così ci si accorge di essere vivi: continuando a tenere in vita la ricerca della verità.

Perché solo così si cresce, si va avanti.

Insieme.

San Ginesio (MC)

Il Ginesio Fest 2024 ha avuto il suo magnifico inizio: la magia è scesa su questo primo incontro e saprà continuamente rinnovarsi.

Qui il programma dei prossimi eventi

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Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo I GIGANTI DELLA MONTAGNA di Luigi Pirandello – regia di Marcello Amici –

GIARDINO DELLA BASILICA DI SANT’ALESSIO ALL’ AVENTINO, 25 Luglio 2024

Professore, lei è un poeta e non ha paura delle parole. Questo è morire” – disse il medico al malato Luigi Pirandello.

Ed è così che la “fine” annunciata di Pirandello prende forma “agli orli” con “l’inizio” della lavorazione di quest’ultima opera.

La gestazione de “I Giganti della Montagna” inizia dalla rielaborazione del primo atto de I fantasmi (pubblicato nel dicembre del ’31 sulla Nuova Antologia) seguita alla rielaborazione del secondo atto (pubblicato nel novembre del ’34 sulla rivista Quadrante). Sopravvenendo poi la morte e non riuscendo Pirandello a scrivere per esteso il terzo atto, lo traccia schematicamente al figlio Stefano.

Una vera e propria opera-testamento, quindi, questa de “I Giganti della Montagna”; un’eredità necessaria, da lasciare a chi desidererà farsi testimone di un particolare modo di intendere l’Arte e la Vita.  

Ingresso al giardino dalla navata destra della Basilica di Sant’Alessio

E difatti “I Giganti della Montagna” è inserita nella terza e ultima delle sezioni in cui sono state classificate le opere di Pirandello – “Il Teatro dei Miti” – con il titolo di “Il Mito dell’Arte”.  

Ma che cos’è un “mito” per Pirandello ? 

E’ una favola, una narrazione fantastica tramandata oralmente o in forma scritta, con valore simbolico. Narrazione che costituisce un’affascinante spiegazione di fenomeni naturali, sociali, culturali e trascendentali.

Qui ad esempio il tema dei “Giganti” si riallaccia al mito dell’antica Grecia, dove si parla dei Giganti come di coloro che – nati dalla Terra e dal sangue dell’evirato Urano – costituiscono un popolo selvaggio e criminale affine, sebbene più forte, alla stirpe umana e, come questa, mortale.  

Pirandello allude ai rappresentanti del potere politico ed industriale del suo tempo: coloro che “con l’esercizio della forza” stanno trasformando il mondo con grandi opere. Nate però unicamente dall’esaltazione del potere della razionalità, che finisce per inaridire e poi censurare lo sviluppo della parte più creativa della psiche umana: quella legata al nostro linguaggio inconscio, fucina dell’Arte.

Le sorti del Teatro, in tale contesto, preoccupano non poco Pirandello: privato del valore politico-sociale-culturale, il Teatro viene svalutato dal potere vigente a (innocuo) intrattenimento da dopo lavoro, perdendo così quella preziosa funzione artistica, educatrice dell’animo umano. 

Ed è attraverso il pubblico costituito dai servi dei giganti della montagna che Pirandello ci parla proprio della deriva in cui sfocia l’essere umano diseducato alla ricerca della bellezza e privato della capacità ad usare creativamente la parola.

Infatti, a chi ha perso l’abilità a usare le parole per esprimere le emozioni del proprio dissenso, non resta che manifestarlo attraverso la violenza dei gesti. 

E in un crescente disappunto per la conclusione dell’acclamato momento di evasione offerto dalle gag comiche e il conseguente inizio della rappresentazione de “Il figlio cambiato”, il pubblico con inaudita ferocia – resa con poesia di plastica suggestione dalla regia di Marcello Amici – fa a pezzi (e quindi divide) ciò che la bellezza unisce, accogliendola in sé: la meraviglia della diversità. 

Una scena dello spettacolo “I giganti della montagna” regia di Marcello Amici

Ecco allora che contro questa mortifera deriva separatista, Pirandello ci invita a riassaporare il gusto di una realtà altra, legata all’espressione di quel linguaggio proprio della zona della nostra psiche più inconsciamente libera e quindi fertilmente creativa. E che – nonostante i vari tentativi di censura – comunque entra in scena in noi ogni notte, grazie all’ospitalità onirica.

Un linguaggio, quindi, che ci costituisce e che non può essere censurato: pena la perdita della più vitale libertà d’espressione della nostra natura. “Siamo della materia di cui son fatti i sogni – ci ricorda Shakespeare – e la nostra piccola vita è circondata da un sogno” ( “La Tempesta”, Scena I, Atto IV).  

Ed è importante allora non allontanare lo sguardo dalla testimonianza di un uomo e di un intellettuale che, seppur in procinto di congedarsi dalla vita e consapevole della crisi dei costumi dell’epoca in cui è immerso, sente l’urgenza di stimolare ancora nuovi inizi. Dei quali noi possiamo e dobbiamo essere eredi. 

Luigi Pirandello

Pirandello ci conduce infatti a tornare ad “immaginare” – qualità dell’animo che in periodi di iper-razionalismo e di iper-opportunismo si rischia di smarrire – restituendo spazio, e quindi attenzione, a luoghi come quello della Scalogna: dimensione da cui si lasciano abitare uomini e donne desiderosi di bellezza. 

Un’umanità ricca di diversità – concertate tra loro mantenendone le preziose peculiarità espressive – sensibili verso gli incanti rivelati dalla magia di un poeta: Cotrone, alter ego di Pirandello.

E allora, al di là del finale così drammatico – il dilaniamento della Poesia – un messaggio ulteriore si fa strada all’interno dell’opera, così come sempre all’interno del Teatro: non smettere mai di ritentare e quindi di rieducare alla bellezza. Consapevoli, sempre, che “come la scena priva di sostanza/ ora svanita/ tutto svanirà/ senza lasciare traccia” ( “La Tempesta”, Scena I, Atto IV).  Ma gli uomini – come amava ripetere Hannah Arendt – “anche se devono morire, non sono nati per morire, ma per incominciare”.

Ricca di spunti di riflessione è stata ieri sera la rappresentazione de “I Giganti della Montagna” portata in scena da Marcello Amici: interessante il lavoro di adattamento mirato a rendere ancor più fruibile da parte del pubblico l’esigenza, che tutti ci accomuna, di esprimerci anche attraverso un linguaggio inconscio, necessario per scoprire di quali altre esigenze siamo composti e alle quali è così utile e sano dare voce e spazio. L’unico linguaggio che ci permette di far cadere quelle maschere che, per la preoccupazione di essere accettati dalla società che ci vuole tutti “uniformi” e quindi “informi”, ci rendiamo disponibili ad indossare.  

Efficace il lavoro sulla comunicazione prossemica, così come quello sullo studio dei costumi.

Sulla scena, gli interpreti della compagnia La Bottega delle Maschere – Marcello Amici (Cotrone); Tiziana Narciso (Ilse); Fabio Galassi (Il Conte, suo marito); Mirella Martinelli (Diamante); Marco Bellizzi (Cromo); Gabriele Casali (Spizzi); Maurizio Sparano (Battaglia); Francesca Di Gaetani (Lumachi); Emilia Guariglia ( La Sgricia); Marco Tonetti (Quaqueo); Alice Zanoni (Duccia); Marco Sicari (Milordino); Beatrice Picariello (Mara-Mara); Alice Zanini (Maddalena) – restituiscono al pubblico, attraverso la credibilità e il sapore delle loro interpretazioni, la sensazione di un viaggio “sugli orli” della vita e della morte, della verità e della finzione, quale fascinosa avventura all’interno della complessità di un testo, così necessario allora ma forse ancor di più oggi. 


Recensione di Sonia Remoli