Recensione dello spettacolo LE NUVOLE SOPRA FERRARA – la poesia e il viaggio in Italia di Zbigniew Herbert – regia Sergio Maifredi –

TEATRO VITTORIA, 28 Ottobre 2024

Oggi 29 Ottobre 2024 Zbigniew Herbert avrebbe compiuto 100 anni.

A celebrare questo anniversario con uno splendido evento – ospitato ieri sera nella calda accoglienza del Teatro Vittoria – è stato il desiderio del regista Sergio Maifredi, direttore del Teatro Pubblico Ligure e da anni interessato a restituire sviluppo e approfondimento all’interesse per la cultura polacca. Dal 2005 Maifredi è regista residente al Teatr Nowy di Poznań in Polonia.

Il regista Sergio Maifredi

Fondendo insieme poesia, narrazione e musica, Maifredi ha immaginato allora una Trilogia per raccontare un’ Europa scomparsa.

Il 7 Ottobre scorso la trilogia ha avuto inizio con una serata dedicata a Wislawa Szymborska – incarnatasi nelle voci di Maddalena Crippa e Andrea Nicolini e nelle composizioni eseguite dal vivo di Michele Sganga. 

Ieri sera 28 Ottobre, invece, in occasione del centenario della nascita di Zbigniew Herbert (Leopoli, 29 ottobre 1924 – Varsavia, 28 giugno 1998) Maifredi ha scelto di dare voce e corpo alla poesia e al racconto del viaggio in Italia di Herbert, affidandone la narrazione interpretativa a Giuseppe Cederna e quella musicale al pianoforte di Michele Sganga.

L’11 Novembre prossimo la trilogia troverà compimento con la rievocazione del viaggio del Generale Anders, capo di un’armata di uomini e di donne che dalla Siberia arrivò in Italia per partecipare alla Liberazione. Al loro seguito anche la più grande compagnia teatrale itinerante in tempo di guerra. Una storia vera mai raccontata. Qui la narrazione interpretativa sarà affidata a Massimiliano Cividati mentre quella musicale a Gennaro Scarpato e ad Andrea Zani.

Il compositore Michele Sganga

Ieri sera, all’apertura del sipario, le note di Michele Sganga hanno fatto entrare in scena lei: la meraviglia. Quel senso di stupore suscitato dal trovarsi difronte a qualcosa di straordinario, di impensato: esperienza fisica e metafisica che avvolge l’universo poetico ed esistenziale di Herbert .

Il compositore Sganga omaggia questa epifania con il bello – inteso in senso etico ed estetico -attraverso un trasporto che passa anche per la postura del suo corpo, che infatti si lascia attraversare da tensioni e rapimenti. Perché la meraviglia è una qualità dell’occhio e del cuore che non si esaurisce nell’oggetto che si ammira ma che si riflette anche su chi guarda, coinvolgendolo nella sua realizzazione come persona: portandola ad intuire il suo posto nel mondo. 

Giuseppe Cederna

Uno splendido preludio quello di Sganga che apre la strada al viaggio poetico ed esistenziale di Herbert, reso dalla grazia tattile propria della voce di Giuseppe Cederna. Ecco allora che Zbigniew Herbert ci si presenta raccontandoci (la drammaturgia è curata dallo stesso Cederna e da Maifredi) gli incontri, quelli speciali, che hanno fatto assumere sempre nuove forme alla vita del celebre poeta polacco.

Sua nonna fu il primo incontro con la meraviglia. Poi ci fu quello con la sua città, Leopoli, attraverso la quale assaporò il primo incontro con l’Europa: una città “dolce come l’Italia”, crocevia tra oriente e occidente. E ancora l’incontro con la scuola: lui, bambino silenzioso, affascinato dalla lingua latina ma anche dai popoli sottomessi. E poi dal professore di scienze: “un gentiluomo senza dio, innamorato della vita… e ucciso dai farabutti della storia”.

Giuseppe Cederna

La mimica di Cederna ci restituisce tutta la meraviglia e quindi quella seduzione del sapere che fece cadere innamorato il giovane Herbert. Ci arriva dagli occhi di Cederna: così disponibili a regalare attenzione, ad accogliere. E ad essere grato.

E ancora, l’incontro con suo padre: un uomo che lo introdusse fin dall’età di tre anni in un’altra famiglia, quella dei personaggi dell’Odissea. E più tardi nelle famiglie del mondo: quello da lui esplorato come un Sindbad e da Herbert conosciuto attraverso le cartoline che il papà gli spediva da ogni viaggio.

Giuseppe Cederna

E poi la fuga in treno verso Varsavia e l’incontro, questa volta, con il crollo di un mondo. Arriva così l’urgenza di ricostruire, ricontattando gli ideali della tradizione classica. Si laurea in economia e poi ancora in diritto fino ad approdare alla filosofia. Qui l’incontro con un grande maestro: H. Elzenberg e il suo neoplatonismo. “Chi sarei oggi se non ti avessi incontrato ? …. Un ridicolo ragazzino intimorito dal suo stesso esistere… invece la tua severa mitezza mi ha insegnato come resistere al mondo… con lo sguardo di chi perdura, come quello di un sasso”. 

Zbigniew Herbert

Acutamente la drammaturgia affianca al ritratto che Herbert dà di se stesso, quello che gli altri intellettuali del tempo danno di lui.

E arriva finalmente il disgelo politico del ’56 e la possibilità di viaggiare con una borsa di studio. E’ qui che si rivela il suo daimon (talento): proprio nell’avventura del viaggio.

Giuseppe Cederna

Nei momenti più commossi della narrazione la regia di Maifredi fa avanzare l’Herbert di Cederna verso il proscenio, così da potersi aprire con noi del pubblico in complici e commoventi “a parte”. Ad essi s’intreccia – quasi come il commento di un coro – la narrazione musicale di Michele Sganga, dalla quale ci arriva la vibrante sensazione di un procedere del passo e del respiro, attento a non perdere nulla con lo sguardo, nonostante la fatica del camminare. Fino a culminare in quell’eccitazione propria di ogni approssimarsi.  

Ma di Sganga  “parlano” anche i suoi momenti di ascolto: il suo esserci, proteso, incline ad ascoltare per poter regalare il suo commento.

Zbigniew Herbert

In anteprima poi ci viene donata da Maifredi la possibilità di conoscere alcuni passi di un’opera di Herbert in fase di traduzione in Italia, a cura di Andrea Ceccherelli, che uscirà prossimamente per Adelphi. E’ “Un barbaro in giardino “, la raccolta di saggi che racconta i viaggi compiuti in Italia dal poeta polacco tra il 1959 (a 35 anni) e il 1964. 

E’ dapprima l’incanto per Orvieto: la seduzione della cattedrale che non ti molla mai con lo sguardo, neppure se ti permetti il lusso di un piatto di pastasciutta nel ristorante limitrofo. E poi l’esperienza di degustare il vino, quello che porta il suo nome: “un atto cognitivo”. E che dire della passione del Signorelli nel restituire i corpi in azione ?

Arriva poi l’epifania delle nuvole sopra Ferrara: un incontro così incisivo da essere scelto come titolo per questo spettacolo: “la prima volta che le vedi – ci confida Herbert – credi di star ammirando un dipinto del Ghirlandaio”. 

E ancora Siena con il suo Duccio da Buoninsegna, da cui dovrebbero andare a lezione registi ed attori.

E che dire di quel “caffè aromatico che chiamano cappuccino ? 

Ma il suo viaggio delle meraviglie prosegue ancora e tocca San Sepolcro, Tarquinia, Arezzo, Firenze.

Sempre dentro la vita, come dentro un viaggio.

Un camminare guidati da poeti – quello a cui ci invita questo prezioso spettacolo di Sergio Maifredi, nonché l’intera Trilogia –  per continuare a stupirci del piccolo e dell’infinitamente grande. Perché la poesia è la gratitudine dell’essere in cammino. Una letizia senza tornaconto; sazi del continuare a meravigliarsi di ciò che scaturisce dalla vicinanza con il mondo e con noi stessi. Un modo di intendere l’esistenza dove ironia, disperazione ed equilibrio continuano a farci amare disperatamente la vita, nonostante tutto.

Uno spettacolo di poesia civile, un camminare necessario. 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo 7 MINUTI di Stefano Massini – regia di Claudio Boccaccini

TEATRO VITTORIA, dal 12 al 24 Marzo 2024 –

Che cos’è una ristrutturazione?

E’ davvero un “nuovo piano di recupero”?

E in un “recupero” che cosa si porta in salvo del passato? 

Quante posture è possibile tenere davanti al “nuovo” che vuole entrare, davanti a “cravatte” che rischiano di stringere (a poco a poco) il collo a centinaia di risorse umane? 

Chi sono davvero queste 11 lavoratrici elette dal resto delle dipendenti? 

“Gente” o “bestie”? 

Compagne che si dividono il pane, o nemiche che se lo tolgono? 

Donne che “marcano il territorio” o che si lasciano “marchiare” da un logo forte ?

Ispirato ad una storia realmente accaduta nel 2012 in una fabbrica tessile dell’Alta Loira, il provocatorio e quindi fertile testo di Stefano Massini “Sette minuti” mette in scena  undici rappresentati di un Consiglio di fabbrica chiamate a votare “sì o no” all’unica – e apparentemente innocua – richiesta della nuova proprietà a fronte del mantener salvi i posti di lavoro.

Ma mentre la Portavoce delle rappresentanti (una mirabilmente intensa Viviana Toniolo) continua ad essere trattenuta ore e ore in una riunione con la nuova proprietà, tra le 10 rappresentanti in attesa del suo rientro i livelli di ansia diventano così insostenibili e la sensazione di pericolo così appiccicosa da far affiorare in superficie quell’istinto alla sopraffazione, che tutti ci costituisce. Antropologicamente.

Viviana Toniolo (la Portavoce)

Ecco allora che il sospetto del possibile nemico s’insinua perversamente contaminando tutti coloro che sembrano “diversi”, “stranieri” e quindi pericolosi in quanto altro da sé stessi. Sospetti cadono sulla Portavoce – che magari in questa interminabile convocazione sta portando in salvo solo se stessa – ma anche, per i motivi più vari ma sempre riferiti a un pregiudizio legato alla diversità, su ciascuna delle rappresentanti. Ritrovandosi improvvisamente catapultate in una realtà hobbesiana da homo homini lupus.

Perché ciò che davvero si teme possa “chiudersi” è lo stomaco. E se lavorare serve primariamente per poter mangiare, come nel regno animale, pericolosa diventa allora la distanza che intercorre tra lo stomaco e la testa: tra chi pensa e tra chi è pragmatico, tra le operaie e le impiegate, tra chi lavora ai telai, chi alla cardatura e chi alle tinte.  

Ma sarà proprio vero che un’idea è solo “una cosa d’aria” e quindi non vale la pena farsi domande?

Mentre “il tempo fila via”, le risorse umane si rivelano invece preziose anche, anzi soprattutto, se pensano. Perché occorre un raffinato lavoro di cura per mantenere in salvo ciò che ci è caro. Non “dal” nuovo ma “nel” nuovo.  

Stefano Massini, l’autore di “7 minuti”

Stefano Massini, da sempre attento al potere della parola e agli effetti che sprigiona nelle relazioni umane, già qui – e poi nell’altro suo testo del 2016 “Lavoro” – fa veicolare l’ambiguità  racchiusa nel significato etimologico della parola “lavoro”: da un lato il significato di “fatica”, dall’altro quello di “dare alla luce” e quindi “creare”.

E’ la Portavoce a sentire, a qualche livello, che può essere importante seminare fertili dubbi là dove tutto sembra così ovvio. E quindi così sterile. Come essere convinti che rinunciare a 7 minuti di pausa sia ben poca cosa, se in cambio viene accordata la possibilità di non perdere il posto di lavoro.

Insinuare il dubbio solletica il vissuto di ciascuna lavoratrice rendendole inclini a raccontarsi: a tentare di mettere insieme tutte quelle personali esigenze, scaturite da ferite esistenziali, che hanno dato forma ai loro vissuti. 

Perché il raccontarsi – che trova nel Teatro il suo luogo d’eccellenza – dà voce a tutta la nostra splendida e fragile dignità di esseri umani. E ci rende immensi.

Il dubbio demiurgicamente veicolato dall’acuta Viviana Toniolo è espressione di un’attitudine socratica alla maieutica, a quel metodo cioè inaugurato da Socrate che permette all’interlocutore di “partorire” la verità. La “sua” verità. Perché la verità più che unica è molteplice. 

Claudio Boccaccini, il regista

Sebbene infatti sia riconoscibile tra le reazioni delle rappresentanti un tema comune, emergono fecondamente e ferocemente delle variazioni, dei dubbi, che la sagace regia del regista Claudio Boccaccini compone e scompone in un contrappunto di raffinate drammaturgie. Permettendo così allo spettatore sia di spiare dall’esterno la vicenda, che di fondervisi all’interno.

Boccaccini coglie il colore dei ritmi dei diversi respiri esistenziali e li restituisce allo spettatore con una persuasività che arriva al di là della comprensione razionale.  E’ – quello che il regista traduce – un contrappunto emotivo che pungola lo spettatore attraverso una drammaturgia delle ombre che sa legarsi alla giustapposizione cromatica delle vocalità (per affinità o per contrasto); all’iconografia delle posture e  all’elegante ossessività degli interventi musicali (le musiche originali sono d Massimiliano Pace).

Un’efferata sinfonia registica che si nutre di tutta la magnifica drammaticità delle singole individualità che – seppur parti indispensabili e accordabili di una coralità – costituiscono la cruda autenticità dell’umano stare al mondo.

Il cast al completo

Le undici interpreti sulla scena – Viviana Toniolo, Silvia Brogi, Liliana Randi, Chiara Bonome, Chiara David, Francesca Di Meglio, Mariné Galstyan, Ashai Lombardo Arop, Maria Lomurno, Daniela Moccia, Sina Sebastiani trasformano in ritmo il tingere, il tessere, il cardare e il fare di conto del proprio respiro esistenziale, regalando vita ad un affresco antropologico magnificamente barbarico.

Una messinscena capace di comunicare, come nelle intenzioni dell’autore, “l’utero di immagini” all’interno del quale si è generato lo svolgimento testuale.

Proprio come in “un teatro politico di poesia”.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA MORTE DELLA PIZIA di Friedrich Dürenmatt – regia di Giuseppe Marini

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A Giuseppe Marini il Premio Franco Enriquez 2024 – per un Teatro, un’ Arte e una Comunicazione di impegno sociale e civile – (cat. Teatro Classico e Contemporaneo sez. Miglior Regia): la rappresentazione ” … è un piccolo capolavoro di ingegno e ironia di Friedrich Dürrenmat… che riesce mirabilmente a conservare la leggerezza del testo e nello stesso tempo la sua complessità”.

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TEATRO VITTORIA, dal 10 al 15 Ottobre 2023 –

Che cosa è successo a Delfi, l’antica città della Grecia, nella Focide, famosa per l’oracolo e il santuario del dio Apollo ?

Nel provocatoriamente dissacrante racconto dello scrittore svizzero Friedrich DürrenmattLa morte della Pizia”, pubblicato nel 1976 all’interno della raccolta di racconti “Mitmach” e ripreso dall’omonimo adattamento teatrale a quattro mani di Patrizia La Fonte e Irene Lösch per la regia di Giuseppe Marini, andato in scena ieri sera dal palco del Teatro Vittoria di Roma, Delfi – il centro di culto più prestigioso dell’antichità – è andato in panne. Qualcosa si è guastato; qualcosa ne ha provocato l’arresto, costringendo ad una sosta.

il regista Giuseppe Marini

Niente d’improvviso, però: che l’uomo preferisca affidarsi a qualcun altro per farsi dire cosa fare, non assumendosi la responsabilità delle proprie scelte è connaturato alla natura umana. È un’anima che ci abita da sempre e che ogni volta ci tenta a scegliere una gabbia dorata piuttosto che un salto verso una felicità sconosciuta. La libertà, infatti, non ci regala solo ebbrezza ma anche angoscia.

Dürrenmatt sceglie una chiave di lettura dissacratoria per farci riflettere sui rischi che si corrono a preferire mettersi nelle mani degli altri (inclusi gli dei) rinunciando al desiderio di costruirci di volta in volta un nostro pensiero critico su ciò che ci circonda. Svendendo, per un illusorio senso di protezione e di quieto vivere, il nostro potere di gestire la quota di libertà che ci è concessa.

L’acuto adattamento di Patrizia La Fonte e Irene Lösch unito sinergicamente allo sguardo del regista Giuseppe Marini sottolinea con elegante estro i punti nevralgici del testo originale fino a sviluppare, con suggestiva coerenza, un finale che va oltre. Cercando e trovando un’ ulteriorità. Autenticamente poetica.

Lo spazio scenico (curato con icastica eleganza da Alessandro Chiti) è abitato dalla raffinata decadenza di quel che resta dell’originario Santuario di Delfi: i resti delle tre colonne del portico delle Muse e i resti sparuti e abbandonati a terra di quello che era un ricco archivio degli oracoli già pronunciati.

Ricostruzione del Santuario di Delfi (IV sec. a .C.)

Al posto della scritta “Conosci te stesso” – che campeggiava a caratteri cubitali sul tempio originale – con genio registico c’è qui una gigantografia del volto del dio Apollo. Al sacro culto di quella che era ed è la più autentica delle realizzazioni di un essere umano – dedicare il tempo del proprio stare al mondo alla scoperta di ciò che si è davvero – si è sostituito il culto dell’immagine, dell’apparenza, dell’esteriorità.

Una scena dello spettacolo “La morte della Pizia” di Giuseppe Marini al Teatro Vittoria di Roma

Quella che campeggia al centro del palco del Teatro Vittoria – e che con decisa appariscenza si impone come una contemporanea maxi icona del dio Apollo – può alludere anche all’immagine di un Apollo inserito all’interno di uno schermo televisivo, uno dei nuovi oracoli dei nostri tempi. Così come alla foto di profilo di un social network, altro oracolo contemporaneo.

Uno scatto fotografico decisamente fashion di un dio che però volge lo sguardo altrove: perché oscuro sì, ma anche perché forse non ce la fa a guardare questa molle decadenza dei costumi. E piange lacrime di sangue.

Della sua caratteristica identificativa – il suo risultare oscuro per l’enigmaticità dei suoi oracoli, che solo la sacra capacità di entrare in trance della Pizia poteva decifrare – ci si prende gioco. “Dio è morto” – direbbe Nietzsche.

Maurizio Palladino (qui Merops XXVII) e Patrizia La Fonte (qui la Pizia)

Dell’articolata organizzazione templare dei tempi antichi – i due sacerdoti di Apollo, deputati alla cura del culto al dio e della sua statua; i 5 hosioi che controllavano il rispetto dei riti celebrati; i profeti che assistevano la Pizia e poi altro personale addetto ai sacrifici, alle pulizie e all’amministrazione – restano qui solo una Pizia (Pannykis XI) e un gran sacerdote (Merops XXVII), decisamente nichilisti.

Una Pizia (quella interpretata da un’incandescente e lirica Patrizia La Fonte ) “cenciosa”, isterica e indifferente alle fragilità umane, proprio come quella del testo di Dürrenmatt. Ma qui – ed è ciò che inizia a delinearsi come un ulteriore possibile e prezioso filo della trama, recuperato dall’adattamento e dallo sguardo registico – la Pizia è anche destinata lei stessa a decifrare un nuovo oracolo, un nuovo linguaggio: quello della fertile tensione erotico-conoscitiva dell’amore. Che sa unire; che sublima le diversità. E lo stare in panne.

Maurizio Palladino (qui Tiresia) e Patrizia La Fonte (qui la Pizia)

Fin dall’incipit dello spettacolo si affaccia un indizio: il suo declinare l’incontro con Tiresia, quell'(apparentemente) odiato cieco veggente, interpretato da un seducente e leggiadro Maurizio Palladino . Lo fa celandosi al suo cospetto sotto un lunghissimo drappo rosso fuoco, dove ama nascondersi, in solitaria, per scaldarsi di uno strano calore, così avvolgente. Ben superiore a quello dei misteriosi vapori e del semolino!

Si sottrae per timore di essere troppo vecchia e di non saper essere all’altezza della situazione (apparentemente lavorativa) richiesta da Tiresia. Ma lui, come un vero amante sa, trovata chiusa una porta, cercare ed individuare il modo di insinuarsi per un’altra via: più immaginativa. Più creativa.

E utilizzando la magica seduzione della parola, non quella che dà ordini, né quella che mira subdolamente a manipolare – ma quella che cerca di fare del confine dell’altro un luogo d’incontro – riuscirà, anche prossemicamente, ad evitare che lei continui a nascondersi o a mantenere le distanze.

Si suggellerà così un autentico incontro: quello tra ragione e follia, tra maschile e femminile. Tra le metà di un tutto. Con un’immagine di chiusura dalla potente evocatività: quella che allude al mito delle metà, descritto nel “Simposio” di Platone.

Friedrich Dürrenmatt autore del racconto “La morte della Pizia” , inserito nella raccolta “Mitmach”

La raccolta di racconti che include anche il racconto “La morte della Pizia” non a caso Dürrenmatt la intitola “Mitmach”, ovvero “Partecipare”. Oggi, nell’era dei social network, si declinerebbe in un po’ troppo appariscente “Condividere”. Ma quello che conta davvero è il “partecipare” inteso come tensione d’insieme. Un essere accordati, un’esperienza vissuta, a un tempo, da più punti di vista. Diversi. E perciò un’esperienza più ricca. Più fertile di discernimento, di emozione comunicante. Un autentico incontro che sa come sublimare le situazioni in panne.

Perché il gioco del “partecipare”, il gioco della collettività – per quanto difficile – è l’unico veramente degno di essere giocato. È il solo gioco stupefacente della nostra vita. Ed è a questo gioco, nella sua essenza, che gioca il Teatro: quel rito collettivo di cui il sagace adattamento coordinato dalla regia di Marini ci parla con tanta poesia.

Poesia di cui era ispiratore lo stesso dio della profezia Apollo e che drammaturgicamente qui viene abbinata alla chiave interpretativa della sagacia: decisamente efficace in questo contesto. In passato, infatti la sagacia, era legata a doppio filo con la profezia. Era – e ancora è – il fiuto, l’intuizione istantanea dell’invisibile. Una prontezza mentale al limite con la premonizione.


Recensione di Sonia Remoli

Una storia semplice

TEATRO VITTORIA, dal 21 al 26 Marzo 2023 –

Che non si tratti di “una storia semplice” subito viene registicamente dichiarato dall’adattamento di Giovanni Anfuso . Il sipario si apre, infatti, su una scena buia dove gli attori, allineati su due diversi schieramenti, danno le spalle al pubblico. Si celano al loro sguardo. E se, una volta illuminati, si voltano lo fanno con fare losco, con sospetto. Come a difendersi. Ma da cosa? Dalle complicazioni, da scandagliare, insite nella ricerca della verità. E quindi della giustizia.

Giovanni Anfuso, il regista dello spettacolo “Una storia semplice”

A opporsi a questa prossemica, la postura aperta e solenne di Giuseppe Pambieri, voce narrante dell’autore. Entra in scena, infatti, declamando la frase di Dùrrenmatt che, a mo’ di prologo, anticipa condensandola in poche righe, l’ostinata fiducia sciasciana nel “pianeta uomo” (come ribadirà sul finale, a suggellamento):

“Ancora una volta voglio scandagliare

scrupolosamente le possibilità che

forse ancora restano alla giustizia”.

Giuseppe Pambieri (voce narrante dell’autore) in una scena dello spettacolo “Una vita semplice”

Pambieri sa come insistere, attraverso il gesto e la parola, sul valore umano e civile del concetto espresso dalla parola “ancora” (ripetuta, a breve distanza, ben due volte) facendosi luminoso portavoce, attraverso Dùrrenmatt, di quella resiliente poetica sciasciana eppure così consapevole della tentazione tutta umana a sviare dal corretto esercizio delle giustizia. Uno scetticismo “salutare” quello di Sciascia: il miglior antidoto, come era solito ribadire lui stesso, contro quel fanatismo ottimista che finisce per uccidere la libertà.

Leonardo Sciascia, Una storia semplice (1989)

D’altronde già la stessa parola contenuta nel titolo, “storia”, una delle più importanti della nostra lingua, non esprime un semplice concetto, bensì una narrazione. E, come tale, “la narrazione” si può caricare di molteplici significati, perché diversi possono essere gli sguardi, i punti di vista, su un evento.

… è un caso semplice, bisogna non farlo montare e sbrigarcela al più presto…non facciamo romanzi…”

E questa è la cifra più importante della nostra specie, della nostra ambivalente natura: quella “irriducibile disparità di punti di vista” che ci può far eccellere o che ci può condurre ad un perverso abbrutimento.

Il cast dello spettacolo” Una storia semplice” di Giovanni Anfuso

Il regista Anfuso gioca molto in questo suo adattamento sull’evidenziare le diverse narrazioni, i diversi punti di vista, tenendo un giusto equilibrio tra bene e male, tra serio e faceto, tra drammatica densità e necessaria leggerezza. Fedelmente al testo originale, Anfuso inscena una guerriglia tra quei personaggi che si ostinano a far sembrare “semplice” ciò che non lo è (sebbene appartenenti ad ambienti che dovrebbero ergersi a tutela della sicurezza dei corpi e delle anime) e quei personaggi che invece sanno dare voce ad un’ urgenza di approfondimento. Come il brigadiere Antonio Lagandara (un poetico Paolo Giovannucci) o il Professore Carmelo Franzò (sagacemente interpretato da Giuseppe Pambieri).

Guerriglia ben resa dal corpus attoriale in scena, che sa avvalersi di un opportuno utilizzo del ritmo: sottolineando efficacemente l’ossessività di alcuni atteggiamenti con un’ironica e scanzonata musicalità del suono e del movimento. Lo spettacolo si articola, infatti, dando vita esso stesso ad un affresco (complici le scene di Alessandro Chiti e i costumi di Isabella Rizza) raffigurante una “rutilante” umanità shakesperiana, ambiguamente devota ad alcune figure di santi.

Georges de La Tour, San Giuseppe falegname (1642)

La vicenda narrata viene infatti incastonata proprio nel giorno della vigilia della “sentitissima” festa dedicata a San Giuseppe falegname: il santo che rappresenta la dignità del lavoro. Ma non solo: anche il santo che rappresenta una particolare figura di “paternità”: non naturale ma che “si può scegliere”, come dirà “il figlio” dell’assassinato Giorgio Roccella. Perché sono i “padri” coloro che possono insegnare ai figli a interiorizzare il valore della “legge”, il suo carattere di necessario “limite”.

Busto di Sant’ Ignazio, ambito lombardo, XVII sec.

L’altro santo “complice” di questa “storia semplice” è Sant’Ignazio: il santo dall’intelletto “illuminato” e dall’ “intuizione” quasi infallibile, dietro il cui busto viene nascosto l’interruttore della luce del luogo in cui viene conservata la refurtiva. S

Un Santo solo apparentemente complice di un nascondimento, che infatti si rivelerà, al momento giusto, attraverso “un improvviso caso di sdoppiamento” pirandelliano: sarà proprio il commissario di polizia (un potentemente torbido Stefano Messina) a tradirsi attraverso un atto mancato. Inconsapevolmente rivelerà il posizionamento di questo interruttore “segreto”: un lapsus d’azione, come se “in quel momento fosse diventato il poliziotto che dava la caccia a se stesso”.

Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, Natività dei santi Lorenzo e Francesco d’Assisi, 1600

Inoltre è una tela raffigurante la “Natività dei santi Lorenzo e Francesco d’Assisi” del Caravaggio l’oggetto del desiderio innominato che spicca tra la refurtiva nascosta nella soffitta del diplomatico assassinato Giorgio Roccella e il cui furto, fatto di cronaca realmente accaduto a Palermo nell’ottobre del 1969, ha fortemente colpito la sensibilità di Leonardo Sciascia , tanto da costituire una forte ispirazione per questo suo ultimo racconto del 1989 (anno anche della sua morte).

Leonardo Sciascia (1921 – 1989)

Le arti figurative costituiscono un elemento importante per ben comprendere l’opera sciasciana. Ed è meravigliosa la soluzione scenografica finale (di Alessandro Chiti) di “riportare alla luce” la semplice maestosità della tela del Caravaggio, da dietro le sinistre – ma proprio per questo efficacissime – architetture che velano e svelano i retroscena dell’inquietante vicenda.

Leonardo Sciascia, illustrazione di ARGO | fb.com/argoimago

Uno splendido modo per tentare di sublimare il mancato ritrovamento della tela ma soprattutto per ricordare, sempre, un uomo divisivo e scomodo come pochi ma che dalla sua avversione contro i compromessi, verso la quale ci sentiamo sempre più spesso in debito, trae ancora oggi, a oltre 100 anni dalla nascita, la sua modernità. 

Effetto serra

TEATRO VITTORIA, Dal 24 Febbraio al 6 Marzo 2022 –

Un tuono imperioso e profetico. Lo strepitio atmosferico trova riflesso nello strepitio emozionale di una coppia: come quando qualcosa folgora a causa di un’esplosione elettrica.

In un plumbeo soggiorno inglese, Sally e Thomas stanno prendendo un thè: lui, un “ingrugnito tricheco”, nella speranza che spiova; lei, un’ironica “donna dal cervello misterioso”, nel timore di un’esondazione. La loro casa è stata costruita proprio sulle sponde del fiume Severn, nella parte che piega a sud verso Birmingham.

Thomas, adora il fiume; anzi , la sua è una vera e propria dipendenza: non può fare a meno di vivergli vicino. Non solo, costruisce anche la sua attività commerciale sull’acqua: una disco-boat. “Brutto rischio le case sul fiume” – gli ripete sua moglie Sally – “te lo avevo detto! “. “Ormai – continua – neanche Dio vorrà più aiutarci, proprio come fece con i peccatori di Sodoma e Gomorra: Dio volse la testa dall’altra parte e punì la loro malvagità”.

La pioggia continua ad aumentare, quasi sintonizzata sullo scatenamento dei malumori e dei risentimenti della coppia. E prima del previsto arriva l’esondazione, come anche l’impianto scenografico evidenzia con suggestiva efficacia: il plumbeo soggiorno viene letteralmente schiacciato dall’impeto dell’esondazione del fiume e con un sorprendente colpo di scena ritroviamo la coppia in salvo dentro la loro barca a remi, nel fiume senza sponde. Nell’orizzonte senza sponde.

“Una crisi aggiusta sempre le prospettive” -proclama Sally- “ed è il momento in cui tutti si stringono gli uni con gli altri”. Anche con chi, purtroppo, non ce l’ha fatta: il corpo della bambina che incontrano sulle acque del fiume. Sally non riesce a non guardare l’inguardabile: “se non la guardiamo noi chi la guarderà, chi la piangerà, chi onorerà la sua morte!?”.

E così resistono per settimane Sally e Thomas, scoprendo affinità inesplorate: una viva complicità, una nuova intimità. E la bellezza del perdersi tra le stelle. Stelle, loro stessi, in un liquido cielo blu. 

Particolarmente degna di nota l’interpretazione dei due attori: una Viviana Toniolo (Sally) immensamente espressiva nella sua naturalezza e un Roberto Della Casa (Thomas) “trichecamente” adorabile e quindi credibile.

Uno spettacolo che sa affrontare un tema di scottante attualità con cruda dolcezza.

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