Recensione SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE – regia Valerio Binasco

TEATRO ARGENTINA

dal 19 al 30 Marzo 2025

“Portateci con voi”.

Questo oggi ci chiederebbero – secondo lo sguardo registico di Valerio Binasco – quei sei personaggi in cerca d’autore, che hanno sempre faticato a farsi capire. 

Il loro messaggio è così urgente che ci viene preannunciato già prendendo posto in sala: il sipario non è completamente chiuso ma lascia come una porta aperta sulla scena retrostante.  E al termine della rappresentazione, ugualmente, gli attori ne trattengono la chiusura completa.

E’ un messaggio dalla commovente bellezza. 

Un messaggio puntuale nel parlare di noi sempre, e in particolar modo oggi. Perché urla il nostro bisogno di essere guardati con appassionata curiosità da chi ci è simile, ma ancor di più da chi da noi differisce. Facendoci prossimi tra diversi. 

Perché l’altro che è “fuori di noi” è lo specchio dell’altro che è “dentro di noi”: è quella nostra parte interiore che tendiamo a silenziare perché troppo diversa da un presunto sentire comune e quindi più difficile da essere compresa dagli altri.

Anche le luci di sala stanno lì e non scendono, quando la scena inizia a popolarsi. A ribadire l’esigenza che quei sei personaggi siano bagnati e abitino la luce della realtà e non solo quella della fantasia dell’autore. Loro sono tra noi. Loro sono in noi. Non possiamo non accoglierli, non possiamo non portarli con noi.

In questo senso il luogo della scena in cui avvengono le prove di teatro (la cura delle scene è di Guido Fiorato) può essere letto come metafora del teatro della nostra psiche, dove continuamente vanno in scena le prove del dialogo e della censura tra le nostre aree più logiche e quelle più creativamente libere. Un dialogo che prevede cambi d’ habitus (di modi di essere); pensieri da memorizzare facendoli propri; scenari di possibilità d’azione e di senso a cui dare continuamente accoglienza, ecc.

Una predisposizione di cui i giovani allievi di una possibile scuola di recitazione –  nello specifico qui quella del Teatro Stabile di Torino – sanno farsi vibranti interpreti: nel bene e nel male; con entusiasmo e con impacci di grazia. Come è naturale che sia. 

Lo stesso non si può dire, almeno inizialmente, per il Direttore di scena che – come lascia immaginare la sua malcelata insofferenza verso il modo di fare dell’assistente, così come il suo continuo bisogno di immobilità e di confini (che però luccichino) – si trova a vivere una fase crisi: di irrigidimento, di eccessivo controllo protettivo e quindi di sterile creatività. Una crisi che, come tutte le crisi, è occasione per entrare in ascolto di noi stessi, attraverso nuovi incontri. Provando a farne un uso fertile. 

E l’occasione non manca.

Infatti proprio mentre stanno mettendo in prova “Il giuoco delle parti” appaiono epifanicamente i “Sei personaggi in cerca d’autore”. Quasi come per evocazione di qualcosa che “risuona” e che aspetta solo che si crei un piccolo varco di comunicazione, per manifestarsi. Invadendo il confine di sigillata separazione e di messa in sicurezza. 

In verità, qui in Binasco, inizialmente sono quattro i personaggi in cerca d’autore: è un gesto di cura del regista e un dono d’attenzione per compensare, almeno in parte, quella mancanza d’attenzione verso i due figli piccoli ai quali non è stata precedentemente concessa, tanto da morire per incuria familiare.  Loro entreranno in scena successivamente e prenderanno corpo e anima in due giovani allievi della scuola di teatro.

Inconsapevolmente, accade allora che durante le prove de “Il giuoco delle parti” il Direttore di scena scelga di riapprofondire proprio delle scene le cui tematiche sono decisamente affini all’altra opera di Pirandello: quella dei “Sei personaggi in cerca d’autore”. E sarà proprio l’apertura appassionata verso queste tematiche a lasciare aperto un piccolo varco al loro ingresso. Proprio come la postura del sipario ci ha aiutato a visualizzare, prendendo posto insala.

Ne “Il giuoco delle parti” Silia, moglie di Leone e amante di Guido, si dispera per non sentirsi libera di desiderare e di essere desiderata. Suo marito, infatti, concedendole di essergli infedele – a patto di piccole ritualità quotidiane da ottemperare in ossequio agli occhi della gente – soffoca quella irresistibile esplosione del desiderio che si realizza solo quando si infrange un argine. Qualcosa di molto simile alla storia dell’Amalia dei “Sei personaggi in cerca d’autore”: lasciata totalmente libera dal marito di “intendersela” con il suo aiutante. Anzi, costretta. E: “Io soffoco, mi sento come in carcere” – dice la giovane interprete di Silia, alla prova. 

Il Direttore di scena, per rendere la sua interpretazione più credibile, le suggerisce di pensare a qualcuno che ha odiato pur amandolo.  E lei nel cercare in sé l’assurda mescolanza di questo sentimento, ricorda di provarlo verso suo padre, che l’ha abbandonata. Anche questo tema, così drammaticamente reale, non fa che far “risuonare” la storia del padre dei “Sei personaggi in cerca d’autore”.  

E lo stesso figlio legittimo dirà di “sentirsi in carcere”, tanto “non sa cosa fare di ciò che prova”. E non avendo le parole per dirlo, il suo disagio, rischierà di cadere vittima di questa mancata comunicazione tra le parti della sua personalità.

Rischio che il nostro stare al mondo sempre corre, in particolare in questo frangente storico, in cui si crede di poter risolvere ogni disagio con il denaro. Inseriti come siamo in una morsa capitalistica che ci invita a desiderare continuamente qualcosa di nuovo, realizzabile acquistando l’ultima versione di qualunque prodotto sul mercato.

E invece il desiderio, quello autentico, quello che ci fa vivere vibrantemente e con soddisfazione, non solo non è acquistabile ma richiede un provato equilibrio tra la tentazione ad avere tutto e ad essere tutto e la consapevolezza che il desiderio per potersi esprimere ha bisogno di essere alimentato dal confine al non tutto, segnato dall’interiorizzazione di una legge. 

La regia di Valerio Binasco si rivela di incandescente necessità in questo momento storico, in cui più che in altri periodi siamo disorientati.

La capacità di Binasco di rileggere il passato della tradizione e di darle voce fino a farla parlare laddove ancora non aveva avuto modo di esprimersi – o di esprimersi in una determinata modalità – è un’operazione culturale assai preziosa, che contribuisce a testimoniare la portata fertilmente tellurica di un’opera come i “Sei personaggi in cerca d’autore”.

Gli stessi personaggi, incarnandosi negli attori che Binasco ha selezionato e diretto in questa prospettiva, restituiscono quel qualcosa che ora ha l’opportunità di tornare ad avere la forza di brillare.

Oltre alla già menzionata efficacia della scelta caduta sull’impaziente entusiasmo dei giovani allievi dello Stabile di Torino – vivi in sensibile propositività – e sono Alessandro Ambrosi, Cecilia Bramati, Ilaria Campani, Maria Teresa Castello, Alice Fazzi, Samuele Finocchiaro, Christian Gaglione, Sara Gedeone, Francesco Halupca, Martina Montini, Greta Petronillo, Andrea Tartaglia, Maria Trenta -risulta davvero interessante l’interpretazione del padre del Binasco attore. 

Un padre con un determinato passato, ora fertilmente sedimentato e quindi aperto alla concertazione di possibili equilibri. Un padre che impara a fissare un limite sempre nuovo all’esuberanza vendicativa della figliastra (una tempestosamente magnifica Giordana Faggiano), un uomo che riconosce la sua “evaporazione” come marito (dell’arrendevole moglie di Sara Bertelà, commovente madre dal vigoroso istinto protettivo) e come padre di un figlio alienato, non solo prossemicamente dagli altri, ma intimamente da se stesso. Gli dà nerbo un interessante Giovanni Drago.

Ma il padre di Binasco dimostra di saper tessere relazioni anche con la vivace confusione esistenziale e professionale del Direttore di scena: un regista a cui Jurij Ferrini dona la capacità del saper attendere e del saper cogliere l’opportunità che questa sua fase di crisi gli sta offrendo.

Perché portare con noi “i nostri” personaggi in cerca di un autore – che spesso rivediamo a specchio in quelli degli altri – ci rende solidali.

E quindi più forti, perché creativamente liberi.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL CORTILE – di Spiro Scimone – regia Valerio Binasco –

Produzione Compagnia Scimone Sframeli

TEATRO ARGOT STUDIO

dal 16 al 19 Gennaio 2025

Sembrerebbe che Godot sia arrivato: è in cortile. Anzi, Godot è “il cortile”: quello di cui parla Tano e che giustifica le sue evasioni da Peppe. 

L’esistenza di un “cortile” contribuisce a dare forma ad uno scenario di coordinate spazio-temporali: a un qui e un là; a un prima e un dopo. Là, nel “cortile” – dice Tano – si va a cercare e a trovare l’amore. Si va a riempire il sacco vuoto. Qui, invece, è sempre tutto uguale.

Solo chi, come lui, si interroga sull’altezza e sulla profondità della desiderabilità dello spazio quotidiano, cerca e trova una retta immaginaria che passa per i punti-luce A e B: con questa retta si può comunicare, quasi fino a toccarla, avvicinandole un’altra retta, questa però in ferro. Una retta percorribile, scalabile. La relazione tra le due rette e la base sulla quale poggiano dà vita ad una sorta di cortile triangolare semi-illusorio. Lì si può andare a fare l’amore, dice Tano. E l’amore, si sa, è la più efficace misurazione del tempo.

A dire il vero, anche la parola – e il darsi della sua assenza attraverso il silenzio – concorre all’individuazione di diversi piani spazio/temporali. Così come l’amicizia – o meglio la relazione di assenza per troppa presenza tra Peppe e Tano – crea una sorta di subdolo principio causa-effetto. 

L’amore però è diverso: fa proprio “contare i giorni”.

Francesco Sframeli è Peppe – Spiro Scimone è Tano

Ciò che si dà nell’ambiguità della parola e delle dinamiche relazionali, viene messo a nudo dalla prossemica: Tano sceglie sempre di stare lontano da Peppe, per difendere un suo tono, una sua identità. Peppe invece, che sa usare le leve psicologiche della forza di attrazione-manipolazione, riesce (quasi sempre) a calamitarlo verso di se.

Soffre infatti Peppe quella tensione verso “il mare del desiderare” del suo Ulisse (Tano) e oltre a lamentarsi per essere lasciato sempre solo – un po’ come una Maga Circe – ordisce piccoli sortilegi per trattenerlo. O almeno farlo avvicinare. 

Perché Peppe, pur essendo bloccato su una sedia ruotante solo su se stessa, è un tipo sagace e vive la sua postura come un’investitura regale. Il suo è un trono dal quale “divide et impera”, seducendo e manipolando Tano. Con la sua voce flautata e suadente come quella di una sirena, lo incanta: il suo ipnotico tono cantilenato, sussurrato con soave ferocità, blocca Tano come in un incantesimo. Così da smorzare il suo anelito verso “il cortile”. Quando poi accade che Tano dimostri un’insopportabile resistenza, Peppe arriva a boicottare la sua autostima, facendogli credere che la libertà di movimento di cui dispone si è ora privata di energia.

Francesco Sframeli è Peppe – Spiro Scimone è Tano Gianluca Cesale è “uno”

Come se non bastasse, a mettere in pericolo l’imperio di Peppe sullo spazio scantinato, un terzo uomo rivela la sua presenza, balzando – come un burattino – da dietro a quel che resta di un diroccato mobile. Apparentemente lui non è pericoloso come Tano, perché ha scelto di smettere di camminare e di desiderare: preferisce infatti strisciare. Preferisce suscitare pietà: questa è la sua forza. Ha rinunciato anche ad essere identificato con un nome. E’ un simpatico parassita. 

Variazioni di una medesima condizione esistenziale, sono quelle rappresentate da questi tre uomini infantili e argutamente decadenti. Dove chi desidera conoscere ed esplorare la realtà con i propri occhi e con il fiuto del proprio olfatto deve fare i conti con chi lo seduce subdolamente a preferire il quieto “buio”. Come accade a Tano: lui si dichiara infatti non disponibile a dover solo “digerire” quello che gli si vuole somministrare, rivendicando il suo diritto a poterlo anche “vomitare” . “Perché quando ti abitui, non senti più nulla”. Ma insidiosamente riesce a trovare un varco la melliflua sicurezza dell’abbraccio di “un cortile”, rappresentato da un sacco vuoto, senza luce: dove perdersi al sicuro. Senza desiderare più nulla. Restando imprigionato nel buio.

Francesco Sframeli – Gianluca Cesale – Spiro Scimone

Un testo poeticamente feroce questo di Spiro Scimone, che avviluppa lo spettatore in una tela magica intessuta di una ritualità che rassicura e soffoca. Il pubblico ne resta intrigato e arruffato. Siamo noi. O forse no. Però intanto ci solletica. Fino a pungerci. 

Complice l’accattivante regia di Valerio Binasco: una partitura musicale “scritta” per la lingua di ciascun personaggio. Un concerto capace di esaltare le diversità di ciascuno, in un’armonia irresistibilmente umana.

Sono il Peppe di Francesco Sframeli, dallo sguardo adorabilmente impertinente fino alla maleficienza e dalla tempra musicalmente tagliente; il Tano di Spiro Scimone, la cui solida presenza sa darsi plasticamente come un’assenza anelante di arrampicarsi verso un altrove,  fatto di “sorrisi”: anche loro dei piccoli cortili.  E poi l’eleganza del verme burattino di Gianluca Cesale, entità inscindibile dal luogo che lo ospita. Ne indossa lo stesso “color indecisione” in un ambiguo presentarsi come carta bianca dalla pungente acidità verdeggiante. Fascinoso, come il suo piangere immobile e muto.

Tre diversi modi di stare al mondo. Tre diversi modi di condividere il vuoto e di fargli argine. Tre diversi modi di scambiare il valore di una persona con il bisogno che riveste per l’altro; l’arte di vivere con l’utilità; la solidarietà con la sottomissione. Sguardi miopi che, in diverso modo, si lasciano “mettere nel sacco” da una perversa ricerca di sicurezza. 

Francesco Sframeli – Gianluca Cesale – Spiro Scimone


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LA NOTTE DI VITALIANO TREVISAN – mise en éspace di Andrea Baracco – drammaturgia a cura di Jacopo Squizzato –

TEATRO BASILICA, 27 Maggio 2024

E’ la sua voce ad aprire la mise en éspace curata da Andrea Baracco: una voce così materica eppure così in disequilibrio. Oscura, dolente, contorta. Tenera, a suo modo dolce, musicale.

Una voce necessariamente “incompiuta” per potersi rendere disponibile a generare continuamente nuove aderenze linguistico-morfologiche aspre e ruvide. Come quelle che agitano la vita. 

Una voce necessariamente “incompiuta” com’è la natura della conoscenza per noi umani: “sempre da dilettanti, altrimenti non ci sarebbe letteratura”.  

Una voce necessariamente “incompiuta” perché, come la sua scrittura, visceralmente ossessionata dalla necessità di essere “vera”. E quindi costantemente sul ciglio del precipizio, prossima al crollo.  

Vitaliano Trevisan

Ora, soffiando in scena la sua aura, può prendere avvio la rievocazione del suo stare al mondo, che coincide con la particolare postura della sua scrittura.

Ecco allora entrare in scena coloro che fortemente hanno sentito il desiderio di ricordare l’unicità della vita di Vitaliano Trevisan, ritessendola in un arazzo di cui le loro voci si fanno fili.

E’ così che Jacopo Squillazzo – che ne cura l’intreccio drammaturgico – ci propone di partecipare ad una lettura a ritroso della vita di Trevisan, partendo appunto dall’ultimo libro “Black Tulips” e dalle esperienze legate alla fuga in Nigeria, suo paradiso di autenticità esistenziale. 

E’ Valerio Binasco ad incarnare le parole di questo testo e a rendere la morfologia di un Trevisan appesantito dal continuo essere attraversato dalla vita così come dalla morte. Ce ne parla l’efficace postura di Binasco: una postura rigida, gravata dal carico che sembra materializzarsi sulle sue spalle, che ne restano schiacciate. Ma reggono ancora queste spalle – facendosi “trasparenti” – il peso dei molteplici frammenti che agitano il caos esistenziale.

Valerio Binasco

Ai suoi passi da sessantenne in Nigeria si intrecciano, diversamente ossessivi, quelli del quarantenne Trevisan dei “Quindicimila passi”. Vivono nella voce di Gabriele Portoghese che ne rende lo stupore ironicamente drammatico del constatare che nulla torna nei conti dei passi. E intanto tutta questa fatica del contare gli ha fatto perdere il senso delle mete raggiunte. Ma gli ha permesso, evitando di farsi cogliere di sorpresa, di non sprofondare nell’abisso esistenziale.

Una modalità – questa di inscrivere nello spazio dei passi e della carta il suo distacco dal dolore esistenziale – che l’arte può assumere per rappresentare credibilmente “la pena riflessiva” della vita: quel rimuginare senza orizzonte che non conosce pace per l’anima. “Un’ arte del tempo”: la sola adatta a rendere ciò che è mobile.

Gabriele Portoghese

Dall’arte ossessiva del contare si arriva di nuovo in Nigeria: qui ad abitare Trevisan è l’ossessione cromatica del suo biancore, e quello di pochi altri, su tutto questo paradiso di nero. Dove ci si può ancora permettere di sdraiarsi sulle panchine.

Privilegio che i veneti e i vicentini non approverebbero, ossessionati quali sono da quel tanto fare (“il mal della piera”) senza però riuscire a “sapersi vendere”. Ed è l’espressività dell’affascinante minimalismo mimico di Daria Deflorian a farsi carne nelle parole seminate in “Tristissimi giardini”.  

A lei il compito di “rappresentare” ad esempio il fascino irresistibile di una caduta, come quella che avviene anche in amore, resa con le suggestioni e i ritmi di quella musicalità jazzata propria degli “standards”. Ma Trevisan, e con lui la Deflorian, vanno oltre: qui non c’è il gusto per il gioco ma il riconoscimento di una modalità che rende credibile il pulsare dei pensieri della vita. Ai quali si tende a rimanere legati come ad una catena.

Daria Deflorian

E mentre prosegue l’intreccio della tessitura a 6 mani della vita e della scrittura di Trevisan, noi del pubblico abbiamo come la sensazione di passeggiare accanto a Vitaliano, provando a seguire i suoi passi e le sue fughe, grazie al disegno “libero” dell’arazzo, che intanto si sta componendo. E che rimarrà “fatalmente incompleto”. 

Un’inspiegabilità “che non è un invito a risolvere enigmi, non è un invito ad essere arguti, bensì un ammonimento della morte al vivente: ‘Io non ho bisogno di spiegazioni, (…) pensa solo che con questa decisione tutto è finito’» ( da “Accanto a una tomba”, in Standards, vol. 1, Sironi, 2002).

“Farmi domande, a questo mi attengo”: il lavoro “manuale” della scrittura di Trevisan non pretende infatti mettere ordine nella vita, quanto piuttosto renderne – in modo rigorosamente ordinato – l’intrinseco disordine.

Vitaliano Trevisan

Una notte, quella di ieri sera dedicata a Vitaliano Trevisan – in un Teatro Basilica intasato da tutti coloro che non hanno resistito a tornare a rileggere ancora e ancora lo sguardo di un uomo spigoloso, crudo e illuminante qual era lui  – che non sarà l’unica. 

Questo  progetto, che nasce qui a Roma al Teatro Basilica ed è curato da Carnezzeria (direzione artistica Emma Dante e Aldo Grompone), viaggerà infatti in altre città italiane.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione LA RAGAZZA SUL DIVANO di Jon Fosse – regia di Valerio Binasco

TEATRO VASCELLO, dal 16 al 21 Aprile 2024

Che talento serve per dipingere?  

E per vivere?

Forse, serve lasciarsi attraversare dal dolore. Non proteggersi troppo, non trattenere il dolore nascondendolo. Non far sì che si limiti al ritorno ossessivo e allucinato solo di un’immagine.  Farlo scendere piuttosto, fino a contattare la tridimensionalità del cuore. Delle viscere. 

Tra i flutti di una tempesta esistenziale e familiare, una giovane donna “naufraga” su un divano. Il suo corpo cresce insieme agli anni ma i suoi occhi continuano a vedere sempre e solo le stesse cose: quelle che l’hanno ferita fino a paralizzarla emotivamente. E che per una vita si è ostinata a lasciare che riapparissero solo come visioni: “Tante cose della vita non si possono pensare, per poterle sopportare”.

Giordana Faggiano e Pamela Villoresi: ragazza e donna sul divano

Lo spazio scenico immaginato da Valerio Binasco è il luogo della mente della protagonista, ormai invecchiata (una Pamela Villoresi dalla stupefacente bellezza interpretativa) dove convivono – senza delimitazioni – tutti quei luoghi e quei personaggi testimoni delle sue emozioni più dolorose. 

A differenza della scrittura di Jon Fosse, la narrazione registica di Binasco sceglie di sublimare quella magnifica e nauseante sensazione di “dondolio”, alla quale l’autore Premio Nobel per la Letteratura 2023 dona una forma quasi poetica. 

E’ il dondolio esistenziale in cui siamo gettati noi umani, quasi quello di una nave – metafora qui anche della figura paterna – “incantata” in un continuo retrocedere ed avanzare.


Nel riadattamento del testo (la cui traduzione è di Graziella Perin) Binasco “traduce il dondolio della lingua” in un andamento più piano, meno oscillante. Più “pop”. Dove la sensazione di produrre spiazzamento sensoriale nello spettatore viene affidata all’interpretazione degli attori: attraverso una resa della caduta dei principi della logica, in bilico tra il tragico e il comico. Ma lo spiazzamento maggiore è attribuibile, forse, a quella speciale “sacralità” restituita soprattutto attraverso gli occhi degli interpreti: in un dondolio tra ingenuità e perdizione.

Ma c’è di più: c’è qualcosa che ricorda il “realismo magico” proprio della poetica delle opere pittoriche di Antonio Donghi, i cui confini sfumano tra realtà e irrealtà.  Sono le scene “più segrete” – girate dietro la parete di velatino – a ricordarlo, per quell’ “ambigua chiarezza” che guida la scelta della drammaturgia cromatica delle luci (scene e luci sono affidate alla cura di Nicolas Bovey). Ma più di tutto, è quella tensione propria di Binasco a dare vita a “un’armonia degli ossimori”, a ricordare il pittore romano (1897 – 1963). 

E’ un mondo infatti dove non si smette di invocare Dio, senza essere troppo sicuri che però esista. Un mondo dove non si è sicuri di niente, dove non si cerca niente. Ma dove nonostante tutto non ci si blocca totalmente. Ci si accontenta di spegnersi e di riattivarsi. Continuamente, a vuoto, meccanicamente: “bisognerà pur fare qualcosa!” . 

Isabella Ferrari (madre) e Giordana Faggiano (ragazza)

Ma “cosa”, non si ha fame di saperlo. Se si prova a dare forma ad una propria idea, dopo l’insistere contrario dell’interlocutore ci si accomoda nella sua posizione. Ma neanche questo funziona: si crea uno scarto e ci si ritrova a pensare: “perché nulla è come dicono che sia?”. 

La parola, seppur molto utilizzata, risulta svuotata del suo valore comunicativo: si riducono le identità e si moltiplicano le contraddizioni, così come le cause non corrispondono più agli effetti.

Ma anche il valore terapeutico della parola è andato perso: non scendendo sotto la superficie del vedere, la parola non riesce a curare. “Me ne sto sempre qui seduta su questo divano, non faccio altro che parlare ma non serve a niente continuare a dire queste cose”.  

Pamela Villoresi (donna)

E viene meno anche il potere del “racconto”, perché fiacco è lo sforzo di tenere insieme tutti gli elementi che si vorrebbero comunicare. Così passano gli anni ma “alla fine non è successo quasi niente”.

Si vive sul ciglio della vita, senza mai spingersi ad esplorarne il centro, o il ciglio opposto. E ci si appaga di momentanee complicità relazionali, suggellate da frequenti “Eh, sì” che ne sanciscono il compimento. Ma insieme anche la fine.

Pamela Villoresi (donna) e Fabrizio Contri (padre)

In un mondo dove i personaggi restano così, come immobilizzati in un’atmosfera senz’aria, gli uomini sono stanchi, dimessi, ingenui, banali, inconcludenti. Il personaggio dello zio, qui in Binasco – lungi da un carisma da amante segreto – diventa quasi una caricatura di ingenuità. Ed è un irresistibilmente interrogativo Michele di Mauro ad interpretarlo.

Michele Di Mauro (zio)

E’ un mondo dove si resiste a vivere pur essendo saltate tutte “le identità” che fanno delle persone delle creature uniche, nel bene e nel male. Qui infatti evaporano i nomi propri, si diluiscono i confini spaziali (così come quelli tra video e pittura, nell’interessante proposta di Simone Rosset) e quelli comportamentali: i padri sono assenti ( Valerio Binasco -uomo- e Fabrizio Contri – padre-) e se ci sono rinunciano ad applicare con i figli il limite delle regole. Limiti che soli possono stimolare desideri di personale rielaborazione della regola. E le madri non ce la fanno a trasmettere la gioia di vivere ai figli, perché a loro volta figlie di genitori manchevoli.

 

Sono donne che indossano vestaglie che – quasi come ali – pur facendo sollevare, non si rivelano adatte al volo (i costumi sono curati da Alessio Rosati).  

Oppure sono donne, come la protagonista da ragazza (una Giordana Faggiano dagli intensi sbalzi di temperatura emotiva) che restano nel nido anche quando sembrano esserne fuori (ed è mirabile la freschezza decadente di Pamela Villoresi, ovvero la protagonista nell’età adulta).

Donne con una vocalità quasi da volatile: acuta, a tratti gracchiante, che passa dall’accorata e assillante lamentosità infantile agli isterismi dell’età matura. Senza la possibilità di esplorare fertilmente le calde e misteriose tonalità della seduzione.

Sono quelle note che non trovano il proprio colore né nel vissuto della madre della protagonista (un’efficacissima Isabella Ferrari dalla sciatta femminilità ma dall’ insopprimibile fascino) né nel vissuto della sorella (un’avvincente Giulia Chiaramonte, votata alla soddisfazione delle fantasie maschili). 

Giulia Chiaramonte (sorella)

Un testo che ci parla, ci risuona. E mette in subbuglio il nostro talento a vivere.

Ma lo sguardo che ci regala la regia di Valerio Binasco è quasi carezzevole. Magicamente reale.

Valerio Binasco (uomo) e Pamela Villoresi (donna)


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo LE SEDIE di Eugène Ionesco – regia di Valerio Binasco –

TEATRO VASCELLO, Dall’1 al 6 Marzo 2022 –

Un ambiente scenograficamente scarno e insieme ricco di allusioni: una scatola in bilico? Un’isola in mezzo al mare? Un vascello alla deriva? Forse una sola di queste ipotesi, forse tutte, forse nessuna.

Siamo nel teatro dell’assurdo e in questo contesto, dal quale vengono banditi i principi base della razionalità (e cioè il principio di identità e di non contraddizione e quello di causa-effetto) l’elemento “sedia” diventa un modulo e quindi la misura di tutte le cose. Una sedia non è più solo una sedia ma anche molto altro: è il supporto sul quale si possono far sedere persone (reali o immaginarie) ma anche oggetti (un servizio da thè, degli abiti). E ancora, una scala, ma anche l’unità costitutiva di una piramide-tomba del vecchio (che resta innominato) e della vecchia, alla quale qui si attribuisce il nome-destino di Semiramide. Regina famosa, nel passato, per le fiamme della sua passionalità ma che, ora, qui, sente “un gran freddo”.

Oltre che una piramide, questa struttura triangolare di sedie può essere anche la vela di una zattera o di un vascello, disperso, che anela di andare a vedere altre vele, “splendide macchie di colore”. E per riuscire a vederle, osa sporgersi oltre il grigiore fangoso che lo avviluppa. “È colpa della Terra se tutto cambia, se più si va, più si sprofonda”. Quasi un’eco dell’adagio dell’Otello di Shakespeare: “E’ colpa della Luna: si avvicina troppo alla Terra e gli uomini impazziscono”.

Il fatto è che “si crepa di noia” – ci confessa Semiramide – e per sopravvivere non resta che giocare al “facciamo finta che”. Stratagemma per “cucinare” e quindi nutrire con qualcosa di nuovo il suo compagno, così passivamente inquieto. Lei, Semiramide, invece ha la fortuna di non ricordare quasi nulla e questo la rende “fresca” alla ripetizione: “io ho uno spirito nuovo tutte le sere”.

E grazie a questo “rinnovamento continuo” riesce a commuoversi, fino alle lacrime, durante e dopo l’ennesimo rapporto sessuale con il suo uomo. Nella liturgia della loro giornata c’è anche la cerimonia del thè, accompagnata dal vago pungolamento di lei: “tu sei molto intelligente, avresti potuto fare qualsiasi cosa, se avessi seguito la tua vocazione”.

Lui invece ritiene di aver fatto bene a non essere stato ambizioso: l’unica cosa che desidera ora è continuare a dipendere dalla sua mamma. Almeno lei lo guarderebbe, lo ascolterebbe. “Siamo tutti orfani”, conclude. “Ma ora basta ” – lo ridesta Semiramide: a breve arriveranno “gli ospiti”.

Ma chi è “l’ospite” se non lo straniero (a volte anche il nemico) al quale, per sacro e tacito accordo, tributiamo accoglienza? Un’ostilità che si sublima nell’ospitalità: atavico scambio reciproco ma soprattutto supremo e inviolabile valore di civiltà.

E soprattutto chi sono, qui, “gli ospiti”? Forse siamo noi del pubblico. Siamo noi quelle vele, “splendide macchie di colore”, che il compagno di viaggio di Semiramide (un poetico e visionario Michele Di Mauro) tanto desidera incontrare. Forse ognuno di noi può essere “l’oratore”, capace di trovare le parole per dirlo, “il proclama”: così da non sentirci “orfani”, bambini che nessuno guarda, né ascolta.

Se solo osassimo, se solo prestassimo orecchio, se solo trovassimo l’audacia: un modo di stare al mondo meno serioso del coraggio ma più temerario, e perciò più brillante. L’audace non è inconsapevole del rischio ma generosamente lo accetta e se ne compiace. E la sorte l’aiuta, perché l’audace è consapevole di sé e quindi aperto all’accoglienza, all’ospitalità.

Uno spettacolo potente che, andando al di là della miseria della condizione umana, ci ricorda qual è la nostra missione qui sulla Terra: quella di “ospiti” e di “ospitanti”.

Particolarmente degna di nota, la fulgida interpretazione di Federica Fracassi.

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Maggiori informazioni sul regista Valerio Binasco


Recensione di Sonia Remoli