Recensione dello spettacolo ZIO VANJA di Anton Čechov – regia Leonardo Lidi


PROGETTO ČECHOV

(Seconda tappa)

di Leonardo Lidi


TEATRO VASCELLO – dal 9 al 14 Aprile 2024

Cosa succede quando il passato invade il presente? 

Quando i ricordi fagocitano gli impulsi creativi? 

Succede che si riduce notevolmente la visione prospettica sulle nuove possibilità di “riempire gli anni”. Ieri come oggi.

La regia di Leonardo Lidi affida a Nicolas Bovey la cura per la realizzazione di un’efficacissima struttura scenografica capace di veicolare – già solo attraverso l’impatto visivo – la claustrofobia di questa perversa modalità di stare al mondo.

In verità questo possibile modo di vivere esprime la tensione più potente che abita la natura dell’essere umano. E non è quindi propria di un determinato periodo storico. Per natura infatti siamo tutti inclini a conservarci, a proteggerci dall’ignoto. A ridurre il nostro campo visivo e quindi il nostro campo d’azione.  Preferiamo renderci innocui. 

Ecco allora che il confine che separa il passato dal presente avanza smisuratamente appropriandosi di grand parte dello spazio d’azione. Anche sul palco. Ed è subito afa.

Ne deriva la sensazione di un presente schiacciato, opprimente, senza un fiato di vento. Dove ci si accontenta di anelare – attendendola più o meno compostamente tra richieste di compatimento e imbambolimento vario – l’azione rigenerante di un temporale.

Un presente “a campo corto”, dove si mangia e si dorme. Ma soprattutto dove si beve molta vodka: per acquisire – almeno per tutto il tempo della sbronza – “un simulacro di vita”. E così provare ad agire, ad osare. Perché tutto il resto, è noia. 

Una noia che non è la serenità della pigrizia. Piuttosto la logica conseguenza emotiva di quel senso di disinteresse che non conosce uno sprone che punga, facendoci contorcere alla disperata ricerca di qualcosa di non monotono, di interessante. E’ quella noia che è la cifra di chi non immagina progetti, di chi non coltiva interessi di stupore partecipe.

Una noia piena di fiumi di parole che, sebbene scorrano via a ritmi vorticosamente accelerati, restano in bilico sul loro stesso valore logico. Di conseguenza anche quel che resta del sistema emotivo va in tilt. O si scolora.  E assieme all’ habitus (il modo di fare, il costume sociale) perde vivacità anche la seconda pelle, ovvero l’abito, che non osa spingersi oltre le tenui tonalità pastello (la cura dei costumi e di Aurora Damanti). 

Lidi sceglie allora che la recitazione degli attori incarni questo ondivago senso delle parole sia attraverso un’apparentemente solida immobilità del corpo, sia attraverso una totale rottura dei piani del corpo. Quasi burattini nelle mani del fato. Ed è bellezza. 

Una bellezza che fiorisce da un lavoro attoriale che riesce ad esprimere l’urgenza simbiotica del corpo di “aderire” allo spazio. Di “spalmarsi” su di esso, lungo ogni coordinata. Un corpo quasi totalmente privo di autentici slanci d’entusiasmo, se non espressi con la complicità della vodka. 

Ma che fine hanno fatto i desideri? Quella spinta, il desiderio, che regala così tanta tonicità alla psiche umana? In un habitat atarassico, dove si desidera solo l’autoconservazione, sono bandite le tensioni di qualsiasi natura. Troppo pericolose: sono fucina di cambiamenti. E i cambiamenti spaventano assai. 

Ma la scelta di votarsi alla sicurezza di un male conosciuto piuttosto che a un bene tutto da scoprire risucchia linfa vitale: quella che spinge ad andare alla scoperta, alla ricerca. Anche della propria vocazione: anzi no, “quella la conosce solo Dio”. 

E ci si chiede, fuori da ogni consapevolezza logica, se chi verrà dopo si ricorderà di loro come coloro che hanno “spianato la via”. Valore che Puskin riconosceva all’opera di Batjuskov, autore così amato dal Professor Serebrjakov. Ma per essere onorati dagli eredi occorre essere padri “interessanti”.

E poi ci si rammarica di invecchiare troppo velocemente. Ma come evitarlo se si vive all’insegna della monotonia: dove niente di quello che si fa è “interessante”? Dove niente è più capace di destare curiosità, di suscitare attenzione o partecipazione ? Dove niente coinvolge e appassiona? Neanche l’amore. Neppure quello per la natura. Perchè – come riconosce zio Vanya – “si vive di miraggi quando manca l’autentica vita”.

Tentazione così maledettamente vera anche oggi.

E pensare che quando scopriamo qualcosa che ci interessa scopriamo un legame, qualcosa che sta in mezzo e ci avvicina a qualcosa o a qualcuno. Perché l’interesse è la cifra dell’unione fra noi e tutto il mondo intorno. Ed è un invito alla partecipazione e al coinvolgimento.

Senza interesse ci si accontenta di vivere in una squallida torre d’avorio, capaci solo di osservazioni distanti e distorte, evitando di calarsi davvero nella realtà per rendersi nodo solido di una rete.

La regia di Leonardo Lidi affida allora a Franco Visioli la cura di  creare sonorità labirintiche e lunari e a Nicolas Bovey una drammaturgia delle luci proveniente da un cielo basso e vagamente sinistro. Tali da enfatizzare la vacuità sterile delle crepe esistenziali dei personaggi, resi con sconcertante verità extratemporale dagli attori in scena.  Si ride. Ma da qualche parte ci arriva una fitta.  

Lidi sceglie – ed è la sua filosofia – un teatro di attori dove un desiderio collettivo risulti superiore ad un desiderio personale. E infatti Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Ilaria Falini, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna splendono restituendoci l’agrodolce miseria dei loro personaggi, proprio in quanto consapevoli parti irrinunciabili di un tutto. 

Leonardo Lidi ha un talento che brilla per la capacità di “tradire fedelmente” i testi del grande teatro classico. Il suo è un modo di gestire l’eredità dei padri del teatro che onora il valore di testimonianza. Un teatro, il suo, con una particolare raffinatezza di gusto: un teatro divertente che si guarda bene dall’essere “innocuo”.

Un teatro necessario.

Leonardo Lidi, il regista

“Zio Vanja” è la seconda tappa  – dopo “Il Gabbiano” – del suo Progetto Cechov, prodotto da Teatro Stabile dell’Umbria, Teatro Stabile di Torino e Festival dei Due Mondi. La trilogia si completerà con “Il giardino dei ciliegi” che debutterà tra qualche mese al Festival dei Due Mondi di Spoleto. 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL CASO KAUFMANN di Giovanni Grasso – regia di Piero Maccarinelli –

TEATRO PARIOLI, dal 25 al 29 Ottobre 2023 –

“La calunnia è un venticello/Un’auretta assai gentile/Che insensibile, sottile/Leggermente, dolcemente/Incomincia, incomincia a sussurrar.

Piano, piano, terra terra/Sottovoce, sibilando/Va scorrendo, va scorrendo/Va ronzando, va ronzando/Nell’orecchie della gente/S’introduce, s’introduce destramente/E le teste ed i cervelli/Fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo/lo schiamazzo va crescendo/Prende forza a poco a poco/Vola già di loco in loco/Sembra il tuono, la tempesta/Che nel sen della foresta/Va fischiando, brontolando,

E ti fa d’orror gelar…” (da “Il barbiere di Siviglia” di Gioachino Rossini)

Banalmente gelati d’orrore ci lascia infatti il proemio, affidato alla ex collaboratrice domestica di Leo Kaufmann (una Franca Penone maledettamente efficace nella sua dannata ipocrisia): una donna che, ancora dopo anni dall’esecuzione capitale del suo datore di lavoro, non riesce a provare rimorso per le conseguenze mortali che le sue calunnie, unite a quelle dei “bravi” cittadini del quartiere, hanno provocato.

“Se le leggi erano ingiuste, io non lo so. Di certo non le ho fatte io. Le leggi, caro signore, le fanno i potenti: e noi poveracci, che sgobbiamo tutto il giorno, non possiamo far niente, se non ubbidire. Io caro signore, ho la coscienza a posto, ho fatto il mio dovere, ho rispettato le leggi”.

E così, banalmente appagata da una passiva sottomissione alle leggi razziali, si bea del suo essere una brava cittadina, sfoggiando disumane giustificazioni al suo “aver fatto la pelle” all’ebreo Kaufmann. Un po’ con lo stessa fierezza con la quale esibisce “la pelle fatta alla volpe” con la quale si adorna il busto (i costumi sono curati da Gianluca Sbicca). Come la moda del tempo, infatti “detta”.

Eppure nella natura umana l’odio viene prima dell’amore. La spinta alla sopraffazione è la spinta che preme in massima misura in noi.

L’ amore invece s’impara. Così come la generosità, la misericordia, la sana complicità e quindi il riconoscimento della diversità dell’altro. È una costruzione difficile ma possibile. L’umanità si guadagna, si può guadagnare, seppure la spinta alla violenza resti una forte tentazione.

Ed è questo il messaggio che arriva allo spettatore dalla narrazione così drammaticamente significativa dell’omonimo libro pluripremiato di Giovanni Grasso, messo in scena e sapientemente enfatizzato dalla sublime eleganza della regia cinematografica di Piero Maccarinelli. 

L’autore Giovanni Grasso

La stessa costruzione dello spazio scenico (curato da Domenico Franchi) sembra alludere all’ambiguità della natura umana: dove da un lato il male regna e spinge per natura, dall’altro il bene si fa strada attraverso un costante esercizio. Quello cioè a dar voce a quell’interiorizzazione della legge, che si realizza quando ci si avvicina alle regole con spirito critico e non con mera sottomissione. E gli splendidi interventi musicali di Antonio Di Pofi nonché il disegno luminoso di Cesare Agoni ne sottolineano l’ambivalente densità.

Erano felici il Sig. Kaufmann, ebreo, e la giovane figlia del suo amico Irene, ariana.

Erano felici perché non aderivano passivamente alle leggi razziali della Norimberga degli anni ’30. 

Erano felici perché in loro ancora riusciva a farsi strada la legge del desiderare: del piacere a costruire relazioni umane vive e vibranti. Nonostante tutto.

Viola Graziosi (Irene) e Franco Branciaroli (Leo)

Relazioni che riescono a sopravvivere nonostante tutta la miseria dell’odio. Infatti, seppur separati dalla calunnia e dall’orrore delle leggi razziali, Leo e Irene non smettono di pensarsi. Non smettono di continuare a vivere nella gratitudine del ricordo, senza cedere ad una paralisi nostalgica. L’ultimo desiderio di Leo sarà quello di mandare ancora un messaggio a Irene, condannata a quattro anni di lavori forzati, per farle sapere che a lei deve quegli attimi di felicità che hanno illuminato la sua esistenza.

Il regista Piero Maccarinelli

Contro la tossicità del regime nazista, la fertile sinergia tra il testo di Giovanni Grasso e la regia di Piero Maccarinelli, riescono ad evidenziare il prezioso intreccio di relazioni umane che si tesse tra la giovane Irene, l’anziano Leo e il cappellano del carcere che raccoglie l’ultimo desiderio di Leo e lo accompagna nelle ore che lo separano dalla morte. 

Franco Branciaroli (Leo)

Franco Branciaroli entra nell’anima di Kaufmann in primis attraverso la voce. È il suo un “dar voce” al personaggio e alla persona – il libro di Grasso è infatti liberamente ispirato ad una storia vera – che prende corpo mirabilmente in una voce dalla solennità epica. Che tende a “dilatarsi” al di là della costrizione delle barre della cella di sicurezza. Al di là dell’odio e della calunnia che lo circondano e che lo hanno assediato. Una voce che si fa strada come una melodia.

Una vittima lui sì, ma dal carisma di un eroe della più fulgida umanità. Di tremenda e lacerante bellezza, poi, il suo monologo finale che magnificamente chiude circolarmente l’immagine iniziale del suo sentirsi “ombra”: solo proiezione di un corpo.

Eppure un corpo lui lo ha avuto davvero, almeno per un periodo: quello successivo all’incontro con Irene. Un incontro di una tale straordinaria umanità da rompere il normale corso del tempo abituale. “È apparsa” – dice lui. Quasi un’epifania. Il sangue torna a scorrergli nelle vene, la vita si riempie di sapori. Non è più dominata da un’inappetenza cupa e cruda. È splendida la resa interpretativa di questo fertile scambio di pensieri e di emozioni tra i due interpreti.

Viola Graziosi (Irene)

Viola Graziosi regala ad Irene una vitalità inebriante. Lei è l’incarnazione del desiderio vitale, produttivo, che porta ad esprimere il meglio di noi umani. Tutto in lei parla di curiosità. Una curiosità che dà frutto: che sublima la spinta a sopraffare l’altro attraverso la meraviglia e il rispetto per la diversità dell’altro. Incluse tutte le difficoltà dell’incontrarsi sul confine. Ma questo è il trionfo dell’essere “umani”. È il compimento del “conoscere se stessi”.

Graziano Piazza (il cappellano)

Una splendida umanità la sua, colta immediatamente anche dal cappellano: un Graziano Piazza che brilla in “sacralità”. Non è un semplice prete. È come il dio di un giudizio universale. Un dio che si commuove di ciò che siamo riusciti a fare con ciò di cui lui ci ha fatto. E insieme è un uomo che dona ascolto e regala attenzione alla controversa bellezza della natura umana. Di più: sceglie e promette di essere “testimone” dell’eredità di questa storia. Un personaggio di grande umanità e di profonda bellezza.

Il cast al completo

Molto accordati ed efficaci sulla scena anche Franca Penone, Piergiorgio Fasolo, Alessandro Albertin e Andrea Bonella.

Necessaria la scelta del Teatro Parioli di aprire ieri sera la stagione teatrale 2023/2024 con questo inno all’umanità, potente auspicio anche alla risoluzione delle conflittualità attuali.

Perché “l’indifferenza è peggio dell’odio”.

In sala il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ad onorare la bellezza incandescente dello spettacolo, oltre a numerose personalità del mondo politico. 


Recensione di Sonia Remoli

Il filo di mezzogiorno

TEATRO ARGENTINA, dal 26 Maggio al 5 Giugno 2022 –

Come si sopravvive ad una caduta? Si può “discernere nel cadere”?

Vibrante e pura, Donatella Finocchiaro veste i panni di una Goliarda Sapienza passionale e onirica, vestita da notte e di notte. Sbuca di nascosto da una quinta, ci viene a cercare, ci prende per mano e come in una ripresa in soggettiva ci apre il teatro della sua mente: allucinato e insieme crudelmente lucido. Così, spudoratamente: come le regole della buona dizione esigono di fare, per pronunciare correttamente quelle maledette “e” aperte. Che ti scardinano la mascella. E non solo.

Con il desiderio impellente di raggomitolarsi vicino a noi della platea, come era solita fare con la madre, nel letto. Lei, però, senza guardarla. E ci avverte che la conditio sine qua non per sopravvivere lì, nel suo teatro mentale, è accettare il caos, dove tutto vive e coesiste nello stesso luogo. Dove i vivi e i morti stanno insieme. Adattando la vista alla foschia che avvolge tutto. Nel disperato tentativo di riallacciarsi alle proprie radici, che l’avviluppano ma insieme la sostengono; che l’aggrovigliano ma anche la nutrono. Ma soprattutto affermando e confermando la propria estraneità ad ogni pregiudizio morale. 

Al termine di questo notturno prologo, Iuzza (vezzeggiativo usato dalla famiglia al posto di Goliarda) entra nel sipario e ci conduce nella stanza della sua casa, dove l’analista (un fragile e immenso Roberto De Francesco) si reca tutti i giorni all’ora di mezzogiorno. Lui, quello che si ostina a chiamarla “Signora” e che ha cercato di organizzare il suo caos dentro categorie assolute, cercando di imporle la sua personale verità. Scoprendo poi nel corso del setting di essere anche lui, però, un paziente bisognoso.

Da qui l’idea registica di Mario Martone, resa con efficacia scenografica da Carmine Guarino, di immaginare uno stanza “a specchio”: rendendo così anche scenograficamente una particolare dinamica relazionale tra paziente e terapeuta (e più in generale umana). Avendo difficoltà a vedere le nostre ombre e persino le nostre virtù, la vita ci regala relazioni. L’altra persona ci fa da specchio, riflettendo la nostra immagine e dandoci la possibilità di ritrovare noi stessi. Da questo meccanismo non è immune neanche il terapeuta.

Come nella vicenda di Goliarda Sapienza, i problemi personali del terapeuta spesso approdano nel suo studio, vestiti dei panni dei propri pazienti. Condizione umanissima, che il regista sceglie di sottolineare senza giudicare, riconoscendogli tutta la dignità che merita. Non a caso, infatti, attraverso l’elegante adattamento di Ippolita di Majo, il registra Mario Martone costruisce una narrazione nella quale ripercorre la terapia con Ignazio Majore, rinomato freudiano dell’epoca, ma lo fa mettendo in scena uno sguardo che, grazie alla sovrapposizione della scrittura di Goliarda Sapienza, va via via rischiarandosi e insieme infoscandosi.

E lo specchio s’infrange: ne sentiamo il rumore; ne vediamo gli effetti. Perché così è la vita: coerenza-repellente. Martone, sulla scia del più profondo sentire della Sapienza, fa di questo spettacolo un inno all’incoerenza, così indissolubilmente legata alla natura umana. La sua è una narrazione interiorizzata e simbolica, che alterna i dialoghi con Majore a momenti di elaborazione analogica dei ricordi (che a posteriori verrà definita “scrittura di transfert”).

Terapia e passato si fondono in un unico nodo apparentemente inscindibile: uno problematizza l’altro, uno analizza l’altro. Da questa esperienza selvaggia, Goliarda Sapienza raccoglie i cocci di quello che vive come l’ennesimo amore ingiustamente soffocato. Abbandonata anche da Citto Maselli, il compagno che l’aveva indirizzata nelle mani di Majore, si rinchiude in casa e tenta di rimettere insieme quel garbuglio di emozioni indistricabili, che la brusca interruzione della terapia non le ha permesso di riconoscere e comprendere.

Ferita ma furiosamente viva, intuisce che ora la sua terapia funzionale e salvifica, è la scrittura. Capace di restituirle una libertà, che non esclude le trappole dell’umano, dolorosamente necessarie. Così, passo dopo passo, Goliarda Sapienza si riappropria della propria carne, delle proprie idee ma soprattutto del diritto alla morte. E così, scendendo in platea, per farsi prossemicamente più vicina a noi, ci invita a “pensare”, prima ancora di “dirlo” (cioè di ridurlo nelle convenzioni del linguaggio) che muore solo chi ha vissuto.