Recensione LA MORTE A VENEZIA – libera interpretazione di un dialogo tra sguardi – drammaturgia e regia Liv Ferracchiati

TEATRO INDIA , dal 5 al 9 Febbraio 2025

Guardare, essere guardati: sono esperienze che viviamo continuamente, più volte al giorno, tutti i giorni. Tanto da essere diventati quasi degli automatismi. 

Ma poi arriva questo percorso scenico di Liv Ferracchiati: qualcosa di innocuo e di sconvolgente.

E ti ritrovi in un incantesimo. 

Qualcuno guarda un oggetto desiderabile. Anche noi del pubblico. E’ bello, sì; invitante, anche. Gustoso. Ma niente di sconvolgente. Se però la seduzione sposta il suo mezzo dall’occhio all’orecchio, e quindi sul suono della parola dell’oggetto desiderabile, sul ritmo e sui sottotesti con i quali questo nome può essere evocato, qualcosa cambia. Ma ciò che davvero è solleticante, e quasi urticante, è il suo suono onomatopeico. La vibrazione ruvida e delicata di un fruscio: “frrrr”. Come qualcosa di scabrosamente bello. Ma quel qualcuno che guarda, dice di poterne rimanere immune.

Poi la situazione muta: quel qualcuno guarda noi, ci inquadra con una macchina fotografica. Ci esplora con il suo sguardo. Dice che vorrebbe navigare tra di noi come fossimo canali. E poi incontra qualcosa di desiderabile. “Tu, sì tu, tu sei di una bionditudine assoluta” – pensa guardandolo. Ci rivela però che, conoscendosi, sa che può dominare anche questo desiderio. Ma l’altro, il biondo, si alza dalla platea per raggiungerlo. Ed entra in dialogo con il suo sguardo. Ora, non c’è dominio: solo silenzio, meraviglia e sgomento. Come di fronte a qualcosa di inesplorato.

“Nulla esiste di più singolare, di più scabroso, che il rapporto fra persone che si conoscano solo attraverso lo sguardo” (Thomas Mann, La morte a Venezia)

Venezia: la bellezza della sua acquaticità. Quella che si lascia guardare, che si volta, che si fa onda (è la danza di Alice Raffaelli). Una sinuosità inafferrabile. Ma penetrante. Come oggetto desiderabile, come Tadeus. E’ di un colore indefinibile il desiderio che evoca, è espressione di particolari. Scuote chi la guarda. 

Non bisognerebbe guardarla: sgomenta di bellezza. Ma Gustav si scopre a non riuscirci: “oscilla”. Si lascia dondolare da un soffio: un movimento proprio del dio e non dell’uomo. Gustav oscilla perché mosso dal vento del divino.

Tadeus  sembra parlargli. Ma Gustav si rammarica di non “decifrare” le sue parole. Non è necessario, non serve capirsi con le parole. Basta incontrarsi sull’orlo dell’elemento acquatico. Qui, sull’orlo, fa un caldo opprimente, afoso. Forse è la seduzione dell’inarticolato. Dell’informe. Dell’inesplorato. Dell’aperto. Dell’indecente. Del suono delle onde che lambiscono il lido.

Gustav si sente posseduto dall’urgenza di “scrivere” in sua presenza: al cospetto di Eros. Ora “sente”. Lì, sull’orlo. Ma è scabroso. Cerca certezze nel suo sguardo, nella scrittura. E’ dilaniante. Gustav scopre che il mondo è indicibile. Perché lui è incontentabile. 

L’incontro e il mancato incontro con inesplorato inizia a produrre segni sul corpo di Gustav. Qualcosa inizia a deformarsi, ad invecchiare.

E poi è così stanco.

“Se tu potessi truccarmi per rendermi meno goffo e più bello ! – chiede Gustav a Tadeus – ora so che conosco male i miei desideri”.

“Ora so cosa significa essere nudo”.

Qui accade qualcosa: a questo punto del percorso scenico, a questo punto del dialogo fra sguardi, quando Gustav inizia a parlare con quel suo sentire nudo, con quel suo volto nudo – che si fa insieme supplica, grido, preghiera – si può fare esperienza di stare con lui sull’orlo del mondo.

E può prendere forma una lacrima, incapace di trattenere oltre, tanta lacerante bellezza.


Una scrittura incalzante e seducente: piena di meraviglia. Capace di indagare e restituire l’oscillante turbamento del punto d’incontro tra il ruvido e il delicato: lo scabroso.

Una regia piena di specchi, labirintica. Eppure ferocemente limpida.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo GUERRA E PACE – di Lev Tolstoj – adattamento di Gianni Garrera e Luca De Fusco – regia Luca De Fusco

TEATRO ARGENTINA, dal 4 al 23 Febbraio 2025

Si accede nell’opera-mondo “Guerra e Pace” di Lev Tolstoj rispondendo all’invito della famosa Anna Pàvlovna Scherer, damigella d’onore e familiare dell’imperatrice Maria Feòdorovna. Qui, nella regia di Luca De Fusco, una Pamela Villoresi ricca in vivace profondità e generosa di slanci appassionati.

Così facendo si coglie l’occasione di essere introdotti, grazie alla sua influenza (una grippe al di là del male di “una” stagione) in ambienti (esistenziali) davvero irrinunciabili: da lei sfilano le diverse declinazioni del nostro stare al mondo. 

Pamela Villoresi – Paolo Serra

(ph. Rosellina Garbo)

Dove, a ben guardare, la guerra e la pace, il bene e il male, l’amore e l’odio, non sono poi così distanti. Anzi, si direbbe, difficilmente separabili. Anche in pace, infatti, la vita spinge i personaggi a gettarsi in tali imprese, che poco hanno da invidiare a quelle che si svolgono sul campo di battaglia. 

L’adattamento efficacemente evocativo di Gianni Garrera (filologo e traduttore, in Italia lo studioso di riferimento di Søren Kierkegaarde) e Luca De Fusco (regista teatrale, direttore teatrale e direttore artistico), che dello spettacolo cura con rigoroso fascino anche la regia, restituisce allo spettatore tutta la vibrante inquietudine del testo tolstojano. Che si declina nelle diverse posture esistenziali dei protagonisti, riflesso degli scenari in cui sono immerse. 

Luca De Fusco

Inquietudine che assai persuasivamente è sottolineata da un premonitore motivo musicale al violino (le musiche sono curate da Ran Bagno), che ricorre per tutto lo spettacolo e che introduce ad un clima di insinuante sospensione emotiva. “Si può forse rimanere tranquilli nella nostra epoca, quando si ha del sentimento?” – si chiede Annette.

Un lampadario di cristalli di maestosa bellezza, che ha perso la sua funzione logica e il suo naturale punto di ancoraggio sfidante la forza di gravità, è ora sconfitto a terra, di lato al palco. Immediata visualizzazione scenografica del buio di una condizione psicologica che abita i personaggi, una volta divelti quei punti di riferimento che la vita, soprattutto nei periodi di guerra, ci sottrae. 

(ph. Rosellina Garbo)

Un buio che assai sapientemente la drammaturgia del disegno luci (curata da Gigi Saccomandi) lascia essere preda della luminosità di ombre, tali da insinuarsi e popolare la scena (anche luogo della mente) di miraggi e di speranze. Spesso proiezione di inganni, che velano la mente e il cuore, seducentemente stimolati nello spettatore dalle creazioni video, curate da Alessandro Papa.

Così quello che era il salotto scintillante di San Pietroburgo è ora immerso nel buio. E abitato da rovine. Sulle quali ci si può sedere ma dalle quali si possono anche trarre preziosi insegnamenti esistenziali. 

Per far sì che questo accada, Tolstoj – come acutamente colto nell’adattamento e nel lavoro di regia – ci fa entrare in relazione con un’umanità spesso disposta ad esporre se stessa ad un “divenir-rovina”. Esperendo su se stessa gli effetti malinconici, derivanti dallo scoprire che il proprio statuto soggettivo possiede la consistenza “di ciò che resta” di una dissoluzione. Il prodotto cioè di una magnifica sinergia di contraddizioni che ci rende “umani”. Una “forma” di vita, a rischio costante dell’informe, con cui la vita concreta si articola e diviene. 

Uno stare “sul confine” non solo bellico, ma anche ontologico ed etico, reso suggestivamente dalle scelte scenografiche di Marta Crisolini Malatesta (sua la cura anche dei costumi) e dall’appassionata interpretazione degli interpreti – Pamela Villoresi, Federico Vanni, Paolo Serra, Giacinto Palmarini, Alessandra Pacifico Griffini, Raffaele Esposito, Francesco Biscione, Eleonora De Luca, Mersilia Sokoli, Lucia Cammalleri – intrepidi testimoni di multiformi posture vitali, dalle quali tutti possiamo essere abitati. Una coreografia esistenziale disegnata con un’elegante ed efficace prossemica da Monica Codena.

Opportunamente, il palco è abitato da una scalinata, i cui gradini collegano diversi piani posti verticalmente e immersi in una forza unidirezionale: la forza di gravità. Materializzazione di un collegamento tra potenzialità diverse, che consentono un passaggio in accordo o in opposizione con la forza unidirezionale. Una splendida visualizzazione simbolica – questa identificata nelle potenzialità espressive della scala da Marta Crisolini Malatesta – delle varie possibilità di stare al mondo che ci sono concesse (vedi i diversi piani), per riuscire a fare di ciò che subiamo dal destino che ci tocca in sorte (la forza di gravità), qualcosa di nostro, di personale, di unico.

ph © rosellina garbo

Cifra dello spettacolo di Luca De Fusco è anche la rappresentazione dell’affresco di possibilità di cui i giovani – ognuno con la propria personalità – possono farsi originali artefici. Passando attraverso sempre nuove consapevolezze, figlie di disillusioni che non paralizzano l’azione ma che si aprono con coraggio alla fluidità dell’esserci. 

Un attraversamento di consapevolezze che non esclude la magnetica attrazione per la guerra: veniamo al mondo dotati dell’istinto alla sopraffazione e non a caso il primo gesto della storia di cui ci parlano i testi biblici è un gesto fratricida. 

Perché la violenza è l’illusione di poter arrivare velocemente all’obiettivo, senza avventurarsi nelle tortuosità della parola, della mediazione.

ph © rosellina garbo

Ma soprattutto perché la vita umana è caratterizzata da due movimenti: per un verso l’uomo si apre all’altro attraverso un grido di aiuto ma contemporaneamente si chiude ad esso in quanto avvertito come minaccia. Vivere è allora la difficile conciliazione tra il sentire di aver bisogno dell’altro e il non volere rinunciare ad essere e ad avere tutto. 

Condizione esistenziale di cui facciamo esperienza non solo in guerra ma anche in pace: in amore ad esempio. E tutte le volte che ci si educa e ci si impegna ad entrare autenticamente in relazione con l’altro da noi: il diverso da noi. 

ph © rosellina garbo

Di questo ambiguo sentire i giovani dello spettacolo si fanno commoventi interpreti: partendo da Pierre Bezuchov, passando per il principe Andrej Bolkonskij, fino alle meravigliose e dilanianti testimonianze di giovani donne, quali Mar’ja Bolkònskaja e Nataša Rostova.

Una restituzione del testo tolstojano questa di Luca De Fusco che riesce a tradurre – con un ritmo ricco in suspense – i frammenti d’inquietudine che attraversano la sovrapposizione e l’intreccio dei piani di lettura di un’opera-mondo qual è “Guerra e pace”.

Pamela Villoresi, Marsilia Sokoli, Eleonora De Luca

(ph. rosellina garbo)

Splendido il darsi ora epifanico, ora inconscio, ora fluido, ora rapsodico di questa inquietudine esistenziale, attraverso passaggi montati “a schiaffo. Quasi come se si stesse sfogliando il libro di “Guerra e Pace”.

(ph. Claudia Pajewski)


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo RADIO ARGO SUITE – di Igor Esposito – diretto e interpretato da Peppino Mazzotta

TEATRO INDIA, dal 29 Gennaio al 2 Febbraio 2025

C’è una stazione radiofonica: Radio Argo suite.

Parla di una guerra, quella di Troia, incastonando le diverse narrazioni dei protagonisti della medesima storia, l’ Orestea, dentro una sequenza di brevi pezzi musicali (strumentali e cantati), legati da un tema comune: i temperamenti delle donne e degli uomini.

Comunicare in tempo di guerra significa spesso far emergere le vittorie del proprio schieramento. Fare propaganda. Veicolare un solo punto di vista.

Nella Prima guerra mondiale si era chiesto al “cinema” di raccogliere il consenso delle masse tramite cinegiornali, che esaltavano le imprese militari del proprio Paese.

Nella Seconda guerra mondiale il mezzo principale di comunicazione è stata “la radio”, che per la prima volta, comunicava a milioni di persone, dando origine ad una guerra psicologica, parallela a quella combattuta con le armi. 

La guerra del Vietnam è stata la prima invece ad entrare nelle case grazie alla “televisione”, determinando un dissenso tale nell’opinione pubblica americana, da influenzare pesantemente anche l’andamento della guerra stessa. 

Qui, in questa partitura per voce e musica di Igor Esposito, interpretata da Peppino Mazzotta ed eseguita dal vivo da Massimo Cordovani e da Mario Di Bonito, con la post produzione live dei suoni di Andrea Ciacchini, si chiede invece alla “radio” di versare nell’orecchio di chi ascolta un fluido densamente corposo di parole e di suoni dalla forte vocazione libertaria e ribelle. 

L’intento manifesto è quello di sfilare la maschera alle illusioni che il potere “vende” da secoli. Un’ardita impresa, questa in cui ha sentito l’urgenza di lanciarsi il poeta, scrittore, drammaturgo Igor Esposito, rivisitando l’Orestea di Eschilo.  Perché la tragedia greca custodisce l’essenza della nostra inclinazione verso la politica: ci illumina “sull’arcano passato da cui veniamo e sul tragico presente in cui navighiamo”.

Nasce allora l’esigenza di forgiare una nuova lingua piena di ritmo, ferocemente seducente, che parli spudoratamente anche alla contemporaneità. 

Una nuova lingua affidata all’estro elegantemente insolente di Peppino Mazzotta, che la restituisce alle viscere dello spettatore, prima ancora che alla sua decodifica intellettiva. 

Perché l’irrazionalità è molto più potente della razionalità.

Perché l’istinto alla sopraffazione è ciò che ci unisce tutti, una volta gettati al mondo.

Perché la solidarietà, l’amore, il rispetto, vengono dopo: vanno imparati.

Il corpo della voce di Mazzotta, orientato dalla riscrittura terapeuticamente ustionante di Esposito, riattiva il metabolismo vitale dello spettatore, restituendolo alla vitale tensione verso la ricerca. Verso un’indagine continua, sostenuta da spirito critico e alleggerita dalle pastoie di un’illusione di confortevole e duratura sicurezza.

I personaggi dell’ Orestea – così intimamente restituiti dalla riscrittura di Esposito –  “ora” hanno ancor più qualcosa di familiare, di struggente e di terribile. Quel qualcosa che Mazzotta veicola nella nostra carne e nei nostri nervi e ci fa arrivare poi negli occhi. Restituendoci diottrie.


Complice quella lingua che musicalmente s’impregna di vita viva, per arrivare a dilatarsi e a tendersi, come le tensioni che incarna e che poi suscita.

Una stazione radiofonica – questa Radio Argo suite – che ci solletica fino a pungerci. Per mantenerci  vibrantemente vigili e sintonizzati. Così da avvertire i pericoli che, ieri come oggi, attraversano la nostra realtà.

Radio Argo suite: la stazione radiofonica che “al rumore delle armi, preferisce il suono del mare”.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo ANNA CAPPELLI – di Annibale Ruccello – regia Claudio Tolcachir

Con VALENTINA PICELLO

TEATRO INDIA , dal 22 al 26 Gennaio 2025 –

La incontriamo. E’ lì: nella landa del suo sentire. 

Ha un fare randagio, non privo di fascino e di tenerezza.  Si sente che è un crogiolo di contraddizioni. 

Non ci aspettava. Sembra trovare rifugio nello sbocconcellare un panino. Ma sta anche ruminando qualcosa. Nella mente, nel cuore. Se ne incroci lo sguardo, lei si tiene lontana. Ma capita anche che poi si apra in un sorriso. Irresistibile.

Lei è Anna Cappelli: una donna con un nome e un cognome. 

Unica. Ma non l’unica.

Valentina Picello

Questo testo tempestosamente umano di Annibale Ruccello – scritto nel 1986 poco prima di morire a trent’anni – si ispira anche ad un fatto di cronaca, in cui era coinvolto un uomo giapponese che aveva divorato la compagna. 

Cifra di Ruccello è dedicare molta cura al disagio antropologico proprio di ogni epoca, facendosi cantore della sensibilità degli inquieti e dei malinconici.

Il teatro rappresenta per lui il luogo privilegiato dove far andare in scena le ipocrisie, gli odi e le viltà della società nella quale i suoi personaggi si trovano immersi. E ai quali si cura di restituire la dignità lesa, portando in salvo il loro sogno di purezza, dal buio in cui la società rischia di sprofondarlo.

(ph. Luigi Angelucci)

Società la cui prima forma embrionale è la famiglia: luogo dove non sempre è facile trovare una generosa ospitalità.  Anna Cappelli ne è un esempio: lei soffre moltissimo il suo “sentirsi espropriata” dalle attenzioni familiari, che la lasciano “nuda” anche di fronte al suo formarsi un’identità personale.

L’autostima, si sa, è un dono sociale. E così, Anna si allontana per andare alla ricerca di una sua indipendenza a Latina. Ma anche lì continua ad essere “una nuda proprietà”.

Anche quando crede di aver maturato “un diritto di reale godimento” su certe proprietà altrui.

Suo è, ora, il loro “usufrutto”.

Ecco allora che il regista Claudio Tolcachir, sensibilissimo alla simbologia legata al concetto di “casa” -sul quale fa ruotare il suo stesso concetto di teatro, di cui il teatro-casa Timbre4 è un fulgido esempio – sceglie di immergere la “sua” Anna Cappelli in una scenografia, immaginata da Cosimo Ferrigolo, che è il luogo del suo sentire “randagio”.

Un vasto territorio incolto e desolato. Da fine del mondo. Ma anche da inizio del mondo. Uno spazio aperto, abitato esclusivamente da alcuni oggetti, estensioni esistenziali della protagonista. 

Un luogo nudo, senza muri, senza confini, senza argini. Dove sono saltati anche i principi della logica, per cui ogni cosa può essere colta in tutte le sue valenze, senza un rapporto di causa-effetto. Il lampadario, ad esempio, crollando a terra si può dare anche come un fuoco, intorno al quale è disposta una circolarità di oggetti, come in attesa della celebrazione di un rito.

Un rito di disperato dolore.  

Un dolore che impregna il territorio del sentire di Anna. Un suolo che affonda: che lei calpesta e dal quale è calpestata. Che le modifica il passo, il respiro, la postura. E’, il suo, un avanzare trattenuto da un affondare. Che ad ogni passo la ingoia.

Un dolore consumato fuori dal branco, ma di cui il branco è complice.

Speciale il lavoro registico sulla luminosità di certe ombre – dalle quali tutti siamo abitati – di cui l’Anna di Valentina Picello sa farsi olfatto ancor prima che pensiero; gesto ancor prima che carne. Dono ancor prima di imperfezione. Lei, espressione della carica vitale di un’umanità, che arriva ad essere investita da una maledetta bellezza divina.

(ph. Luigi Angelucci)

Bellezza mirabilmente sottolineata da un disegno luci (a cura di Fabio Bozzetta) di carnalità metafisica e di sacra disgrazia.

Uno spettacolo immerso in un assordante silenzio, punteggiato da due motivi musicali che parlano dell’estasi sacra e profana legata a certi incontri.  Quegli incontri dove si percepisce quell’ambiguo senso di eccezionalità, proprio di chi altro non ha, che l’altro.

Uno spettacolo che ci ricorda gli ampi confini del nostro “essere umani”, invitandoci a prenderci cura delle varie modalità in cui il nostro stare al mondo può darsi.  

Solidali, anche perché diversi.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo I RAGAZZI IRRESISTIBILI – regia Massimo Popolizio

TEATRO ARGENTINA, dal 21 Gennaio al 2 Febbraio 2025

Si può amare intensamente una persona. Ma anche una passione: quella per la recitazione, ad esempio.

Come accade ai due protagonisti di questo testo effervescente e vertiginosamente profondo, che Neil Simon scrive nel 1972: due attori comici di vaudeville che, dopo aver attraversato insieme più di quarant’anni di grandi successi, per motivi diversi si ritrovano a restare privati del poter continuare ad esprimere la loro passione più potentemente vitale: la recitazione.  Passione artistica che li espone a guardare e ad essere guardati. 

Umberto Orsini è Al Lewis – Franco Branciaroli è Willie Clark

La fine e penetrante regia di Massimo Popolizio – che si avvale della vibrante traduzione di Masolino D’Amico – conduce il pubblico a “guardare” fino in fondo cosa accade nella mente e nel cuore di questi due attori, all’indomani della brusca interruzione della loro passione per la recitazione. 

Popolizio coglie e restituisce allo spettatore, infatti, come sul guizzo gustoso dei dialoghi scenda anche, come polvere di stelle, una luce sottile e malinconica. Un po’ quel gioco sempre nuovo di darsi le battute e i tempi, che non esclude inquietudini e incomprensioni, appena sopite dagli applausi.

Umberto Orsini e Franco Branciaroli sanno farsene interpreti straordinari. Trasmettendo al pubblico la diversa intensità delle luci e delle ombre che s’insinuano in questi due protagonisti, dall’eloquio ancora scintillante. Intensità che entrano nel loro respiro, fino a contagiare i loro muscoli e quindi la loro voce. Ed è magia.

“Io non sono chi tu credi che io sia” – è il responso che emana dal televisore all’apertura del sipario, quale voce onirica dell’inconscio. Che inizia a solleticare lo spettatorre su uno dei temi centrali dello spettacolo: la difficoltà tutta umana ad entrare davvero in relazione con noi stessi e quindi poi con l’altro. Anche con chi crediamo di conoscere bene, avendo condiviso con lui più di quarant’anni di passione. E che invece poi scopriamo improvvisamente nel suo esserci prossemicamente distante. Quella sottile e acuta distanza che passa nel preferire   l’ “avanti” al “si accomodi”: battute diverse non solo del copione ma anche di due diversi sguardi sulla vita.

Voce onirica inconscia – quel “Io non sono chi tu credi che io sia” – che Willie Clark (un Franco Branciaroli dalla spiritosa bellezza decadente) non è ancora pronto ad ascoltare, preso com’è dalla sua rabbia per essere stato tradito inaspettatamente dal suo partner d’arte.

Ecco allora che, per non rischiare ancora di restare “fregato” in un altro investimento emotivo, si chiude dentro se stesso: un po’ come fa con la porta della sua camera, la cui serratura fa una gran fatica a scorrere, per aprirsi al nuovo che bussa alla porta.

La scena (curata da Maurizio Balò) ci parla di quello che i personaggi non dicono: che non riescono ad esprimere, chiusi come sono in difesa, o avvelenati dalla rabbia provocata da alcune parole “proiettili” e da altre “mai dette”. Ed è così che Maurizio Balò ci lascia intravedere le profondità di ulteriori interni, metafora di paesaggi psichici altrimenti difficilmente immaginabili.

Franco Branciaroli, Flavio Francucci, Umberto Orsini

Come la mancanza di cura: di cui Willie si è sentito 11 anni fa predato dall’atteggiamento di Al Lewis (un Umberto Orsini dalla stupefacente freschezza rigorosa). Ora inconsapevolmente é lui stesso a metterla in atto verso di sè. Mangia solo cibi in scatola; lui stesso vive chiuso nella scatola della sua camera-mente. Non si veste: è perennemente in pigiama, come se da 11 anni non si fosse ancora mai fatto giorno.  E così si lascia andare ad una postura orgogliosamente “sbracata” vestendo, inossidabilmente, un feeling blu. La cura dei costumi è affidata a Gianluca Sbicca, che ne fa degli efficacissimi “habiti”, modi di essere.

Willie si sente tradito perché ignorato e quindi “non guardato” dal suo primo pubblico: l’Altro da sè, Al. Che decidendo solo per se, non ha riconosciuto valore alla ”sua metà” attoriale e al suo specchio psichico. Dimostrando incuria verso l’uomo e verso l’attore. 

Willie è come se con il suo ostinato silenzio dicesse ad Al  quello che Hamm in “Finale di partita” fa notare a Clov, quando si allontana per rifugiarsi in cucina a guardare il muro, per vedere la sua luce che muore. “La tua luce che … ! Cosa bisogna sentire! Sai che ti dico, che morirà altrettanto bene qui, la tua luce. Sta un po’ qui a guardarmi e poi saprai dirmene qualcosa, della tua luce”. 

Franco Branciaroli, Umberto Orsini, Eros Pascale

Alla sua prima defaillance professionale, infatti, Al si ritira dalla carriera e sceglie di “tramontare”. Nietzsche sosteneva che l’arte più alta in cui un essere umano possa realizzarsi è quella del “saper tramontare al momento giusto”. Per Al e Willie il momento giusto non è coinciso. E per Willie è come se Al si fosse appropriato di una sua battuta. Lasciando un buco, che è poi divenuto una voragine.

Perché ad un certo momento arriva quella paura della morte che cela in verità una paura della vita: entrambe hanno in sé qualcosa di ingovernabile. “Il fondo non è una cosa semplice” fa dire Beckett a Nagg in “Finale di partita”. E ancora Čechov a Svetlovidov ne “Il canto del cigno”: “…la tua bottiglia te la sei scolata, è rimasto solo un po’ di fondo… Soltanto la feccia … Già…così stanno le cose”.

Franco Branciaroli, Chiara Stoppa

Ma il segreto è forse proprio in quel gioco sempre nuovo di darsi le battute e i tempi: quell’imparare a “non forzare” ma a “scorrere”, come alla fine Willie riesce a fare dopo lo s-catenamento emotivo avvenuto attraverso l’infarto. Quando cioè si lascia andare scorrevolmente a chiedere (senza più pretendere) al compagno d’arte, un’opinione sul suo lavoro attoriale. Il riconoscimento è così inaspettatamente appagante da coinvolgere l’uomo e non solo l’attore. “Eri un artista, non un attore: avevi sempre una grazia, un tocco !”. Qualità efficaci, ora che riconosciute, per scoprirsi capace “a immaginare” e quindi a “sentire” in modo nuovo la passione per l’arte della recitazione. Per la vita e per la morte. Non solo per gli applausi. 

Perché – come diceva anche (ma con più amarezza) lo Svetlovidov de “Il canto del cigno” di Čechov: “…dove ci sono arte e talento, non esistono né vecchiaia, né solitudine, né malattie, e persino la morte conta per metà…”. 

Uno sguardo – questo del regista Massimo  Popolizio contrappuntato dal disegno luci di Carlo Pediani e dal disegno musicale di Alessandro Saviozzi – decisamente più aperto. Ma che nasce da quel tentativo di rappresentare l’assoluta mancanza di senso e l’altrettanto assoluta necessità di trovarlo, che trovano espressione in “Finale di partita”. Quel cercare di riuscire a “soffrire meglio di così”… quel cercare di riuscire “ad essere presente meglio di così”, a cui anela  Clov e che Hamm trova nel sentire “la sera che scende”, confortato dal suo vecchio fazzoletto.

Emanuela Saccardi, Franco Branciaroli, Umberto Orsini

Una rilettura davvero interessante di un testo che rivela intriganti profondità ontologiche, portate in scena dagli eredi di una scuola di teatro – dove, ad esempio, si recita incisivamente senza microfono – che non vuole e non deve andar perduta.  E di cui Umberto Orsini e Franco Branciaroli sanno farsi stimolanti testimoni. Una preziosa occasione per i giovani e talentuosi attori – Flavio Francucci, Chiara Stoppa, Eros Pascale, Emanuela Saccardi – che con “i due ragazzi irresistibili” condividono efficacemente la scena.

Il cast al completo con il regista Massimo Popolizio


Recensione di Sonia Remoli

Recensione TRE MODI PER NON MORIRE – Baudelaire, Dante, i Greci – di Giuseppe Montesano – con Toni Servillo

TEATRO ARGENTINA, dall’8 al 19 Gennaio 2025

Parole di gioia per il rientro in Italia della giornalista Cecilia Sala il Presidente della Fondazione del Teatro di Roma Francesco Siciliano ha desiderato condividere con il pubblico presente ieri sera al Teatro Argentina, in occasione della prima dello spettacolo che inaugura la programmazione dell’anno 2025: “Tre modi per non morire – Baudelaire, Dante, i Greci” con Toni Servillo, tratto dai testi dello scrittore e traduttore Giuseppe Montesano. 

Con piacevole sorpresa, prendendo posto in sala, il pubblico non ha potuto non apprezzare la cura dell’essere accolto in una platea rinnovata, capace di offrire un’esperienza di partecipazione ancor più coinvolgente. Un gesto di attenzione per preservare e valorizzare un patrimonio irrinunciabile com’è quello rappresentato dal Teatro: “un luogo aperto, dove la verità non ha paura di mostrarsi”.  In tutta la sua complessità. Come i Greci ci hanno insegnato, ci ricorda un fulgido Toni Servillo.

Proprio loro che hanno inventato un pensiero che si fa veicolo di ”un’immaginazione attiva” capace di tenere insieme, come passi di un’unica danza, le dualità esistenziali di corpo-mente, bene-male, uomo-mondo. Una danza, i cui cambi di passo sono resi da Toni Servillo con quel fervore ieratico che attraversa i suoi “ma …”. Così come certi suoi “quando ….” e  alcuni “se…”. E che fanno di lui, colui che, al pari dei Greci, riesce a sostenere lo sguardo sul come la nostra umanità tende ad essere travolta dall’infelicità e dalla miseria. Ontologicamente in bilico su un piano inclinato: condizione esistenziale efficacemente resa dalla “lingua di scena” sulla quale è costretto a muoversi l’uomo-Servillo.

E di questa torbida luminosità umana il Teatro, non solo greco, vuole e deve continuare a parlarci, per consentirci di guardarci allo specchio. Concetto, questo, sul quale viene concertata con sublime efficacia la drammaturgia del disegno luci (curato da Claudio De Pace), nonché quella del disegno musicale.

Perché solo riuscendo a guardare in faccia le nostre mostruosità esistenziali, saremo in grado di ricavarne una consapevolezza poietica: capace di dare vita cioè alla bellezza creativa, che ci è stata donata come un fuoco. E che chiede di essere continuamente “riattizzato” per poter produrre fecondamente poesia: da condividere insieme, “come pezzi di pane”. 

Perché è così che la vita può essere educata a preferire il gusto per la costruzione e la condivisione di “un nostro”, piuttosto che di “un mio”. Come ci insegna anche il mito platonico della caverna, rievocato da un Toni Servillo denso in fervore, abile nel disporre di quel giusto mezzo che permette di raffinare un discorso senza renderlo meno comprensibile.

Perché è di vitale importanza non lasciarsi infatuare da quelle ombre che, come subdoli fantasmi, ci trattengono a rimanere dentro la caverna: isolati e chiusi in noi stessi. Apparentemente al sicuro ma in verità assediati dal peggiore dei mali: la noia. 

Vita è invece uscire dalla zona di confort della caverna – luogo che acutamente l’autore Giuseppe Montesano attualizza nel suo dialogo immaginario con Baudelaire attraverso il ricorso a quell’espressione spesso di eccessiva tutela, che a tutti risulta così familiare, qual è quella del “è per il tuo bene” – per toccare e lasciarsi toccare dalla compassione bruciante per l’Altro.  

Con il quale non dobbiamo lasciare che si interrompa un fertile dialogo, perché vita é che la bellezza possa anche scontrarsi con la cruda realtà, come s’infiamma nel farsi testimonianza il Servillo-Baudelaire. 

Perché ognuno di noi è “una moltitudine” e non un egocentrico “io”. Ma siamo spesso, come possiamo scoprire specchiandoci nell’esperienza esistenziale di Dante, “un’aiuola che ci fa tanto feroci”. Sebbene cioè resi partecipi di una realtà di bellezza, spesso preferiamo ridurre questa condivisione ad una trappola per topi, dove ciascuno vive “contro”, e non “con”, l’altro. Dove trova spazio solo l’egoismo insaziabile che scatena la guerra di tutti contro tutti.

Dove una subdola ferocia ci porta egoisticamente a  guardare solo al nostro misero spazio della caverna, o ad essere “ignavi”: tiepidi, fino all’indifferenza totale alla partecipazione, al coraggio.  Scegliendo di non fare né il bene, né il male. “La loro indifferenza impaurita è imperdonabile” – ci ricorda Dante – tanto che a costoro viene negata la morte, dono riservato solo a chi ha vissuto spendendosi per un bene comune. 

Meglio allora – si sporge a dire Dante – un Ulisse che ha errato mettendo in pericolo la propria vita alla ricerca della virtù e della conoscenza. Meglio chi, come lui, si spinge verso l’ignoto, verso il nuovo. Come coloro che, nel cuore dell’Inferno, abitano un’aiuola “di tenere labbra”: quelle degli amanti. Dante si scopre a non riuscire a condannarli. E sviene. Come preda di una metamorfosi interiore. Che lo porterà alle soglie del paradiso, fino alle “stelle”. Ma non è, il suo, un arrivo: piuttosto un invito a una nuova rilettura. A un nuovo viaggio. Perché la forza dell’amore, della partecipazione, della relazione, è una forza che ci abita e che ci spinge a fare di ogni arrivo una possibile nuova partenza.

Quella di Toni Servillo si rivela un’interpretazione fiammeggiante, capace di appiccare fertile fuoco creativo sullo spettatore. Così come la sinergia di testi che dà forma a questo adattamento sortisce l’effetto provocatorio e insieme balsamico di un attuale “conosci te stesso”. Un accorato invito, quello dell’autore Giuseppe Montesano, a non smettere di interrogarci su chi davvero siamo, specchiandoci nel confronto con le vite altrui – qui, quelle di Charles Baudelaire, di Dante Alighieri e dei Greci – così da trovare una risposta, “un riflesso di conoscenza, un invito al coraggio”. E giungere, con partecipazione commossa, a riscoprirci “uomini”. Capaci, se insieme, di fare della nostra mostruosa finitudine una ricchezza in continua trasformazione.

Uno spettacolo prezioso per inaugurare un Nuovo anno di possibilità, da esplorare lasciandosi toccare da quegli attimi “capaci di far apparire il nuovo, che capovolge le parvenze del mondo”.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo RE LEAR – di William Shakespeare – traduzione di Angelo Dallagiacoma e Luigi Lunari – regia di Gabriele Lavia

TEATRO ARGENTINA, dal 26 Novembre al 22 Dicembre 2024

E’ una commossa e spietata analisi dei nostri tempi, quella di cui Gabriele Lavia ci fa dono.

Il suo penetrante sguardo registico-attoriale indaga forse la più complessa delle tragedie shakespeariane, che non smette di raccontarci.

Una regia, la sua, che si dà con l’acutezza che fertilmente accompagna un’indagine semeiotica, che studia i sintomi e i segni della degenerazione in cui può incorrere la natura umana, intesa sia come physis che come psyché.

Ma soprattutto, questa di Lavia, è un’indagine che si appassiona a capire come giungere ad una possibile diagnosi. La cui cura, ci arriva attraverso accorati “a parte”, di spudorata bellezza.

Gabriele Lavia

La bufera è qui !”: questa la sensazione fotografica che Lavia fa entrare negli occhi dello spettatore al momento dell’entrata in sala. E’ l’insinuarsi della tempesta, molto prima del suo effettivo scatenarsi. Una scena, dove regna la decadenza: quella del regno di Lear, certo, ma anche delle coscienze.

Una scena, luogo non solo fisico ma anche della psiche, dove le sedie tutte rovesciate ci parlano della perdita della loro funzione logica: quella di sorreggere, di accogliere, di far accomodare. Che cosa? Valori, costumi etici.

Dov’è finita l’arte dell’accoglienza dello straniero, del diverso da noi? Dove viene fatto sedere “il bastardo”, il povero ridotto a verme, la figlia sincera, l’amico leale?

L’inconsistenza delle apparenze, dell’ipocrisia, dell’egoismo, del narcisismo – “sintomi” del diffuso prevalere dell’istinto alla sopraffazione – non necessitano della funzione fisica ed etica delle sedie.

Ed è così che Gabriele Lavia inizia a seminare indizi nei nostri occhi, per dirci che è già in atto una tempesta che ha neutralizzato ciò che le sedie rappresentano, rovesciandole: rendendole inutili. 

Non a caso lo spettacolo si apre con il Matto che esce da un baule: un luogo che accoglie, proteggendo o celando. Un luogo che conserva, che ricorda. Funzioni proprie della nostra zona inconscia della psiche, che si avvale di un linguaggio diverso da quello fondato sui principi della logica ma altrettanto colto, raffinato, creativamente enigmatico. 

E’ il linguaggio sapientemente folle del Matto, che si traduce in musica e in canto. Al pianoforte: oggetto di scena pressocché immancabile in Lavia, quale specchio dell’anima che ci parla della continua ricerca dell’essere umano a esprimersi e a connettersi con gli altri. 

Accanto al pianoforte prendono forma molte scene dello spettacolo: uno specchio nel quale a volte si osa guardarsi, mentre altre volte invece lo si preferisce infrangere. Specchio a cui qui allude un motivetto musicale, che poi tornerà come un pungolo in particolari scene dello spettacolo.   

Su queste note-prologo entrano in scena, quasi un flusso di coscienza, tutti gli attori “nudi”: in un casual total black contemporaneo. A vista, poi, “indossano” il loro personaggio: variazioni di un robone (un ampio soprabito lungo fino ai piedi) rigorosamente sempre aperto: disponibile ad accogliere ogni evento, in un’imprevedibile risposta emotiva. 

Un altro “segno” di tempesta immanente che Lavia ci fa “vedere con le orecchie” è l’insistere dei “tuoni”: onde di pressione provocata dalla reazione-fulmine di un personaggio, che può manifestarsi con un colpo secco e forte, oppure con un rombo basso e prolungato.

“Tuoni” che non raccontano semplicemente un fenomeno naturale ma che ci rammemorano il mistero della natura, attraverso quella notte nera e quel nulla che smarrisce. E al quale si è tentati di reagire con un “dal nulla non deriva nulla”. 

E poi, c’è anche quel teatrino “gettato” là, da un lato della scena: “un segnale” di cui intrigantemente la regia di Lavia si servirà per denunciare una finzione da teatro nel teatro.

E ancora: quel telo-fondale la cui clandestinità è garantita precariamente dai mantegni a cui tentano di stringersi le corde. E che quando si lasciano andare rivelano la cruda e poetica spietatezza della realtà celata. Cadono i veli delle ipocrisie, dei pregiudizi, delle narcisistiche pretese ma è come se si manifestasse epifanicamente anche qualcosa di “sacro”. E’ la luce e l’energia che si propagano, quasi come una preghiera, nei momenti di più alto pathos.  Come il riavvicinamento tra Lear e Cordelia nella nudità spenta di quei ventilatori, che prima avevano gonfiato una tempesta e che ora sono testimoni inconsapevoli quasi di una rinnovata “natività”, tale è la gratitudine tra padre e figlia.

Così com’é di struggente bellezza “sacra” la scena del desiderio suicidario di Gloucester, intuito dal figlio Tom che, in un amorevole inganno, ricerca e trova l’altezza della sedia che può tollerare l’idea della messa in scena (terapeutica) di un suicidio apparente. E’ quel sano concetto del “correggere l’altro” che nasce per un suo bene. E non per il proprio: pretesa che invece celava l’invito al correggersi di Lear a Cordelia, di fronte all’ambiguo tentativo della figlia di esprimere a parole ciò che invece si dà nella sua autenticità solo nei gesti. L’amore. 

Ma prima dell’amore – che s’impara – viene la violenza, di cui invece s’impregna il nostro venire al mondo, all’insegna dell’istinto alla sopraffazione. Una violenza che può abitare i padri così come i figli: sapientemente “pulp” è la resa registica della scena di massima crudeltà, dove l’estirpazione degli occhi dal volto di Gloucester trova compimento in un capovolgimento della sedia, sulla quale viene legato in un rituale di dionisiaca perversione erotica. Declinazione di quella pulsione di morte, in cui è tentato a degenerare il nostro inconscio. 

E poi il respiro, che si fa passo. E che parla di una sofferenza dell’anima, oltre che del corpo: commovente il passo-respiro-anima che denuda Lear, ma anche Gloucester. E i figli: le falcate “da cinghiale” assatanato delle due sorelle, così come la spavalda codardia di Edmund o l’arcaico camminare a quattro zampe dell’ Edgard-Tom. Quest’ultimo di un’insostenibile bellezza bestiale.

Mirifico il lavoro sulla voce di Lear: Lavia contatta e restituisce all’orecchio e al cuore dello spettatore tutta l’umidità della sua rabbia. Prima ancora di riuscire a trovare un varco attraverso gli occhi, il suo pianto infatti si manifesta ribollendogli in gola. 

E ci arriva tutta la difficoltà di un padre a “saper tramontare”, ad eclissarsi, avendo egli rinunciato alla sua valenza simbolica di “padre-legge”: un peso di cui, ieri come oggi, i padri tendono “a sgravarsi”.  

Ma venendo meno l’autorità di chi è deputato a porre un limite al “desiderio di essere tutto” dei figli, può succedere che i figli – se non si perdono – siano perversamente loro stessi destinati ad essere genitori dei loro padri. 

E’ quello che vediamo rappresentato in Cordelia, in Edgard ma anche in Kent, autentico servitore e amico di Lear. Persone che nella loro giovane esistenza hanno colto la precarietà della natura umana così come il valore miracoloso della compassione e del perdono. Con questa consapevolezza, riescono a vivere il potere come un incarico: una responsabilità che grava e che non va scambiata con un punto di arrivo. Né con una presunzione di eternità. Piuttosto un’eredità da sostenere con gratitudine e creatività morale: imparando a rinunciare – o riuscendo a far buon uso – del superfluo.

Al termine dello spettacolo ci si scopre così coinvolti nella rappresentazione, che si fa fatica ad uscire da questa bolla onirica che tremendamente continua ad incantarci. E’ la difficoltà che si sperimenta quando a mala voglia si cerca di uscir via da un sogno. Istanti di sublime silenzio dai quali scaturisce e si scatena un formidabile applauso.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione della docu-performance NEVER YOUNG – un progetto di Biancofango – drammaturgia Francesca Macrì e Andrea Trapani – regia Francesca Macrì –

TEATRO INDIA, dal 13 al 17 Novembre 2024

E’ nebbia, è paradiso, è inferno, è pensiero, è fantasia, è delirio, è viaggio. E’ una sensazione attiva e passiva essere Lolit*.

Sono coloro che – dalla politica al marketing pubblicitario, dalle relazioni lavorative a quelle amorose, dalla scuola alla famiglia – ci seducono e quindi riescono a portarci da un’altra parte (la loro) rispetto al nostro desiderare. 

Si avvalgono del potere dell’immaginario, del sembrare qualcosa di diverso da quello che in realtà sono e che sanno che ci piacerà irresistibilmente. Perché essere Lolit* significa anche studiare la propria preda, per poi rendersi perdutamente desiderabili ad essa. 

E’ una sensazione così inebriante cadere nell’incantesimo dei Lolit*, da renderci barbari. 

Francesca Macrì e Andrea Trapani – Biancofango –

E il primo “specchio” nel quale i Biancofango Francesca Macrì e Andrea Trapani ci lasciano riconoscere, è racchiuso in quell’esasperato-grottesco-convulsivo “Brav*, brav*”, che veicola il sottotesto “t’appartengo”. Noi, risucchiati in una dinamica come quella descritta dal brano che va in sottofondo e che rese celebre l’Ambra Angiolini di “Non è la Rai”, emblema di quelle che Umberto Eco definì “le nuove Lolite”.

Perché “t’appartengo” significa accettare la dittatura seduttiva del “e adesso giura!”, al quale siamo portati a rispondere: “io ci tengo e se prometto poi mantengo”.

Ma arriva un contrappunto: “Ve lo meritate!” . E’ quello di Andrea Trapani, un pò “il fool” dello spettacolo.

Andrea Trapani

E come siamo arrivati a questo?

All’indomani del “dio è morto” nietschiano: caduti i valori morali che ci stutturavano, abbiamo assaporato lo stordente sapore della libertà dell’”io ora posso essere dio”. Ma all’ebbrezza si è affiancata inaspettatamente l’angoscia. E quindi il nichilismo. Evapora così la funzione simbolica dei padri che attraverso la legge dei valori sapevano mettere un argine, un limite, all’erranza dei figli. Figli che, a loro volta, vivono l’angoscia della “troppa libertà”, conseguenza dell’assenza o dell’invasione emulativa dei genitori.

La docu-performance si articola grazie alla sinergia con un coro di cittadine e cittadini – Vera Borghini, Tina Cannavacciuolo, Luciano Ciamillo, Daniele Di Lazzaro, Daniela Iannola, Francesco Lepore, Giuseppe Prestano, Pasquale Rispoli, Claudio Sacchi, Antonia Stazi – intorno ad un interessante sguardo dialogante tra dentro e fuori, tra prima e dopo, tra (il credere) essere attori e l’essere spettatori di una stessa realtà. La narrazione prende avvio “dai moti rivoluzionari degli anni ’90 del Novecento”, dove ci siamo fatti persuadere dall’ambigua capacità retorica di alcuni “dei” della scena politica e sociale. Maschere che nel cerchio magico al centro della scena vengono “smascherate”, decodificate, nella loro ambiguità prossemica e posturale. 

In un gioco di cerchi concentrici, anche la platea viene coinvolta nel processo di riscostruzione di una distruzione deformante. E se ancora non fossero state sufficienti le parole, le immagini, i gesti, a scuoterci arrivano i volumi e i ritmi dei suoni, resi stroboscopici come luci.

Sara Younes, Irma Ticozzelli, Marco Gregorio Pulieri, Cristian Zandonella

Eredi di questo inquietante sistema, sono i nostri figli pre-adolescenti ai quali non abbiamo in verità lasciato alcuna eredità, alcun imprinting che possa fornire loro gli strumenti per orientarsi nel loro essere “giovani”. Ansiosi senza riuscire ad arrivare ad essere rabbiosi, li abbiamo abbandonati al loro “risveglio di primavera”, che con modalità opposte continua a produrre gli stessi effetti di 133 anni fa, quando nel 1891 uscì il testo denuncia di F. Wedekind. 

Noi, che ci siamo lasciati sedurre da chi ci diceva: “Lascio ai miei eredi tutto quello che bisogna inventarsi per essere ancora giovani”. Una sorta di maledizione. Perché i nostri figli – da noi condannati perversamente ad essere le nostre guide – si sono “inventati” modalità di attenzioni dispenser da consumare a scadenza. Voracemente affamati di amore, di cure, di attenzioni. E di regole, necessarie per il formarsi di un fecondo desiderare: regole da interiorizzare per farne propri criteri critici con cui affrontare l’età adulta. 

La docu-performance si conclude con un ultimo affondo: un commosso rammarico-rimprovero da parte di chi ora è ancora nell’età dell’infanzia ma che a breve si affaccerà alla pre-adolescenza.  Sulle note di un hendeliano “lascia ch’io pianga mia cruda sorte/ E che sospiri la libertà” di irresistibile bellezza.

Un fare teatro questo della docu-performance dei Biancofango – che rientra in una costellazione poetica dedicata al tema di Lolita – che dà vita a un nuovo genere di fare teatro, in cui si uniscono e si contaminano elementi artistico/fictional con elementi documentaristici, raccolti nel corso di una serie di laboratori realizzati dalla compagnia in svariate realtà italiane.

Un lavoro che scuote tutte le nostre corde, per ridestarci da questo stato di delirante annebbiamento delle coscienze, che troppo spesso ci fa dimenticare il vuoto emotivo ed esistenziale in cui stiamo abbandonando i nostri figli e i figli dei nostri figli. 

Noi – che ci siamo ritrovati incapaci ad invecchiare e a saper tramontare acquisendo sapienza da trasferire – siamo tentati a regredire perversamente nella nostra seconda adolescenza. Illusi che più che energici riferimenti genitoriali, i nostri figli abbiano bisogno di noi come amici alla pari.

Ma la struttura del lavoro dei Biancofango  ci suggerisce anche come si renda necessario e possibile costruire su nuove basi un fertile dialogo. 

Perché la nuova generazione ha diritto al formarsi di una propria identità ontologica, impossibile senza il contributo formativo di adulti che riacquisiscano la loro funzione formativa, capace di generare in loro un autentico modo di desiderare.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo NOTTE MORRICONE – regia e coreografia Marcos Morau – Musica Ennio Morricone – Direzione e adattamento musicale Maurizio Billi – Sound design Alex Röser Vatiché, Ben Meerwein –

TEATRO ARGENTINA , 24-26 Ottobre Romaeuropa Festival – 27 ottobre 10 Novembre 2024

Al centro di una scena nuda, con corde e mantegni a vista, campeggiano delle pareti di lavagna sovrascritte con del gesso: è un luogo della mente, quella di Ennio Morricone, con il  suo vissuto in formazione. Nuove nozioni ed emozioni si stanno inscrivendo anche ora. Mentre intorno scorre la vita. 

L’estro visionario di Marcos Morau – recentemente nominato Cavaliere dell’Ordine delle Arti e delle Lettere dal Ministero della Cultura francese; selezionato come miglior coreografo dell’anno 2023 dalla rivista tedesca TANZ, e ad oggi il più giovane coreografo ad aver ottenuto il Premio Nazionale di Danza, il più alto riconoscimento in Spagna – sta mandando in scena la visualizzazione dell’attività creativa di Ennio Morricone. 

Marcos Morau

E nel farlo immagina di donare corpo e anima ai suoi percorsi mentali ed emozionali facendo interagire sinergicamente tra loro – grazie alla preziosa complicità dell’accattivante corpo di ballo, composto dai 16 danzatori del Centro Coreografico Nazionale/Aterballetto, diretto da Gigi Cristoforetti – le musiche del Premio Oscar, la danza, le arti visive e suggestioni cinematografiche. 

Ed è grazie a questa esplorazione della geografia psichica di Morricone che scopriamo come il linguaggio creativo del suo inconscio attinga nutrimento sia dal mondo onirico che dal linguaggio del gioco degli scacchi, di cui Morricone era fortemente appassionato.

Entrano allora in scena pensieri contrastanti, a cui prestano corpo i danzatori (guidati da Leonardo Farina e Giovanni Leone) in una coreografia di combattimento, dove l’energia di ciascuno si esprime per primeggiare, vincere. Proprio come nel gioco degli scacchi. 

ph. Christophe Bernard

In questo caos creativo sentiamo Morricone chiedersi “come fare per comporre una nuova melodia? A cosa credere ed affidarsi? Dove invece non va persa la testa?“. 

Ecco allora che – per effetto di una straordinaria pulsione di disagio creativo – la scena si apre e con essa i confini della razionalità creano un varco: Morau ci sta visualizzando il passaggio dal linguaggio razionale della logica, al linguaggio enigmatico dell’inconscio.

Dal crepuscolo iniziale, la cui luce tenue e diffusa  ancora contemplava tracce di razionalità, si passa ora al buio notturno, habitat dell’area linguistica più inconscia. Ma non mancano passaggi luminosi anche esplosivi, resi da un disegno luci straordinario. 

ph. Christophe Bernard

E si fa strada un pianoforte a coda, i cui martelletti sembrano ossessivamente impazziti, come posseduti da qualcosa che ha urgenza di farsi sentire e che trascina con se il pianoforte e Morricone stesso, nell’atto di creare.

I danzatori si fanno tasti che sembrano scappare presi in vortici, rombi, vibrazioni, associazioni di idee. E viene spontaneo l’andare con il pensiero a qualcosa di simile che avveniva attraverso sistemi rumoristici anti-musicali nelle improvvisazioni del collettivo “Nuova Consonanza”, di cui fece parte anche Morricone: quei suoni portati ai loro estremi e quegli strumenti valorizzati anche nel loro essere “oggetti”.

“Serve aprirsi a orizzonti nuovi” – dice la voce di Morricone – “per riuscire a trovare soluzioni sempre nuove e quindi originali”. Lui lo definisce riuscire a realizzare una sorta di “collage”, alludendo alle contaminazioni fra le arti. 

E questo è anche il principio ispiratore dello stupefacente lavoro in scena di Marcos Morau, scelto per sviluppare questo singolarissimo omaggio a Morricone. Ed è così che Morau raccoglie con fedele tradimento tutta l’eredità sincretica di Morricone e ne diviene uno splendido testimone.

Ma ora la forza creatrice in scena prende molteplici direzioni: si fa giostra. E i ballerini sono le tensioni che fanno ruotare l’artista e il suo strumento musicale.

Una tempesta creativa che sembra placarsi e che prima di andarsene crea sinapsi: i danzatori riescono a visualizzarci fascinosamente queste connessioni attraverso movimenti di un’articolazione così fluida da sembrare quasi metafisica. 

ph. Christophe Bernard

E ora, è il momento della verifica sonora delle sinapsi appena create. Di come cioè il corpo e la mente dell’artista siano mutati a seguito di questa invasione creativa dionisiaca. Ed è strabiliante vedere come in una specie di esame ecografico i microfoni sfiorano le varie zone del corpo dell’artista per auscultarne i nuovi rimandi musicali. E quando lo scorrimento del microfono si fa veloce e continuo, le diverse sonorità si avvicendano, dando vita ad una nuova base melodica su cui poter lavorare. 

E il risultato di queste sinapsi sempre nuove e straordinariamente originali porta Morricone verso i riconoscimenti ufficiali: è di nuovo la voce di Morricone a fare il suo ingresso, dicendo che per lui ogni riconoscimento è un punto di partenza per fare ancora meglio. Era il 2007, quando dalle mani di Clint Eastwood riceveva l’Oscar alla Carriera, accolto da un’interminabile standing ovation.  E nove anni dopo, è arrivato il riconoscimento dell’Academy per la migliore colonna sonora, per il film The Hateful Eight di Quentin Tarantino.

Tutto questo è reso possibile perché “il mio più grande desiderio – continua Morricone  – è riuscire sempre a sorprendere”. E l’applauso che ne deriva “riesce ad appagare un mio trauma di bambino”.

ph. Christophe Bernard

Il ricordo del trauma si fa tempesta: le pareti mutano i loro confini e danno origine a nuovi habitat, che coinvolgono anche la platea. E dal rosone del lampadario di sala partono fulmini. 

Torna la voce di Morricone a confidarci che tutto ciò che lui aveva dentro di più urgente lo ha raccontato in musica: dal far risuonare la disperazione, al voler scoprire e riprodurre il suono della coscienza, in bilico tra cieca fede e disobbedienza.

Fino a rendere la sua musica capace di tradurre tutto ciò che non si riesce ad esprimere a parole. Una musica che proprio per il suo carattere di esplorazione dell’intimità collettiva, fa salire un nodo alla gola, ascoltandola. 

Le tracce di Morricone scelte per lo spettacolo sono state registrate dall’Orchestra Cherubini, diretta da Maurizio Billi, musicista, amico e collaboratore del compositore. Vengono rievocati così il tema  d’amore di Nuovo cinema Paradiso, quello di Deborah da C’era una volta in America, il tema de La Califfa, On earth as it is on heaven da The Mission, The man with the Harmonica da C’era una volta il West, e ancora Se telefonandoHere’s to you, canticchiata dai danzat

ori a fine spettacolo. Motivi che nello spettacolo si intrecciano al sound design elettronico di Alex Roser Vatiché e Ben Meerwein , a stralci di discorsi di Morricone fino alle parole dal vivo dette dai danzatori.

Ma più di tutto – conclude Morricone – volevo sapere che suono ha un uomo, quando nessuno lo guarda”.

ph. Christophe Bernard

La genialità avanguardista di Marcos Morau riesce a rintracciare e a rendere, con una meravigliosa plasticità in movimento, un nuovo modo per esplorare il potere dell’intimità collettiva, continuamente generativa, propria della musica di Ennio Morricone. In un luogo nuovo, il Teatro.



Ieri sera era il compleanno

del grande compositore, direttore d’orchestra e arrangiatore 

Ennio Morricone (10 novembre 1928 – 6 luglio 2020)

Lui, oltre ad essere uno dei più importanti, prolifici e influenti compositori cinematografici nella storia della musica, era anche un Uomo con la sua quotidiana straordinarietà e con i suoi legami familiari. E ieri sera proprio a coronamento di questa ultima replica dell’omaggio a lui tributato dalla magnifica creazione di Marcos Morau e in occasione dei festeggiamenti per il suo compleanno, è avvenuta la presentazione del libro Ennio Morricone. Il genio, l’uomo, il padre” di Marco Morricone e Valerio Cappelli (Sperling &Kupfer 2024).

La presentazione è stata moderata da Fabrizio Roncone, scrittore e giornalista del Corriere della Sera. Ospiti d’eccezione: Monica Guerrritore, Michele Placido, Gabriele Lavia, Claudia Gerini e i loro racconti inediti, che hanno svelato il lato più umano e personale del Maestro. Valentina Morricone, nipote di Ennio, ha letto degli estratti dal libro di Marco Morricone e Valerio Cappelli. Erano presenti in sala Maurizio Billi, direttore d’orchestra e storico collaboratore di Ennio Morricone e Gigi Cristoforetti, direttore del Centro Coreografico Nazionale/Aterballetto. 

Un momento di grande commozione che ha contribuito a rendere ancor più presente tra noi

il Maestro e  l’Uomo Morricone.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione della conferenza-spettacolo QUANDO LA SCIENZA FA SPETTACOLO -Dialoghi tra Scienza ed Arte

TEATRO ARGENTINA, 3 Novembre 2024 : ACQUA

QUANDO LA SCIENZA FA SPETTACOLO

Dialoghi tra Scienza e Arte – II edizione, 2024
Acqua, Aria, Terra, Fuoco
4 Elementi per 4 Domeniche

Federica Rosellini, Enrica Battifoglia, Roberto Danovaro

Entra in scena: il suo scorrere è musica. 

E già solo all’udirla, ci idrata. 

E’ lei: l’Acqua.

Suoi narratori nel viaggio-spettacolo che si è tenuto ieri al Teatro Argentina sono stati Roberto Danovaro, Presidente della Fondazione Patto con il Mare per la Terra; Enrica Battifoglia, giornalista scientifica Ansa; Federica Rosellini, attrice, scrittrice e regista teatrale.

E un po’ come rispondendo all’invito inscritto sul frontone del Teatro Argentina – “Alle arti di Melpomene, di Euterpe e di Tersicore” – i tre narratori si sono avvicendati sulla scena “cantando”  – su variazioni – il potere di questo elemento naturale: l’Acqua.

Teatro Argentina

La giornalista Battifoglia ha giocato il ruolo di stimolare sinapsi tra la trascinante narrazione scientifica del Prof. Danovaro e l’ammaliante interpretazione di testi letterari da parte di Federica Rosellini.

Enrica Battifoglia

Se dal  Prof. Donovaro apprendiamo come l’acqua sia insieme sfuggente ed invadente ma anche 830 volte più densa dell’aria e quindi capace di trasportare suoni,

Roberto Danovaro

la Rosellini  ci incanta nel trovare e nell’insufflarci nell’occhio e nell’orecchio la magia di un corrispettivo letterario in Eraclito (filosofo greco vissuto tra il VI e il V secolo a. C. ): 

“Dalla terra nasce l’acqua, dall’acqua nasce l’anima. È fiume, è mare, è lago, stagno, ghiaccio e quant’altro. È dolce, salata, salmastra, è luogo presso cui ci si ferma e su cui si viaggia, è piacere e paura, nemica e amica, è confine ed infinito, è cambiamento e immutabilità, ricordo e oblio.”

E a seguire propone un ulteriore corrispettivo in Emily Dickinson:

“Come se il mare separandosi
svelasse un altro mare,
questo un altro, ed i tre
solo il presagio fossero

d’un infinito di mari
non visitati da riva
il mare stesso al mare fosse riva
questo è l’eternità”.

E qui, nel suo interpretare, la Rosellini stessa diventa “mare visitato da riva”: nel suo ritmo se ne sente tutto il separarsi e lo svelarsi ripetuto.

Federica Rosellini

E poi è di nuovo il Prof.  Danovaro a illuminarci su come il mare, che esiste prima di ogni altra forma di vita, sia la porzione meno conosciuta del nostro pianeta. Quello che sappiamo sugli oceani ad esempio è solo qualcosa di “epidermico”: facciamo fatica a scendere più in profondità. E se da un lato la scienza è un continuo superamento di se stessa,  il mare – che unisce e spaventa – è la più grande sfida per noi umani: cambia continuamente e si rivela spesso illusorio prevedere l’andamento di questo “personaggio principale” della nostra storia.  

Qui, la Rosellini risponde al richiamo della Scienza con un brano tratto dal “Moby Dick” di Melville:

 “Ogniqualvolta mi accorgo di mettere il muso; ogniqualvolta giunge sull’anima mia un umido e piovoso novembre; ogniqualvolta mi sorprendo fermo, senza volerlo, dinanzi alle agenzie di pompe funebri o pronto a far da coda a ogni funerale che incontro; e specialmente ogniqualvolta l’umor nero mi invade a tal punto che soltanto un saldo principio morale può trattenermi dall’andare per le vie col deliberato e metodico proposito di togliere il cappello di testa alla gente – allora reputo sia giunto per me il momento di prendere al più presto il mare. Questo è il sostituto che io trovo a pistola e pallottola”.

E poi, ancora,  con “Mediterraneo” di Eugenio Montale:

“Antico, sono ubriacato dalla voce ch’esce dalle tue bocche
quando si schiudono come verdi campane
e si ributtano indietro e si disciolgono.
La casa delle mie estati lontane,
t’era accanto, lo sai,
là nel paese dove il sole cuoce
e annuvolano l’aria le zanzare.
Come allora oggi in tua presenza impietro, mare,
ma non più degno mi credo del solenne ammonimento del tuo respiro.

Tu m’hai detto primo
che il piccino fermento del mio cuore
non era che un momento del tuo;
che mi era in fondo la tua legge rischiosa:
esser vasto e diverso
e insieme fisso:
e svuotarmi così d’ogni lordura
come tu fai che sbatti sulle sponde
tra sugheri alghe asterie
le inutili macerie del tuo abisso”.

Qui l’ interpretazione della Rosellini ci rapisce in un modo nuovo: assumendo la musicalità di un canto medioevale a due voci.

Il Prof. Danovaro allora – riallacciandosi all’ultimo verso di Montale – ci ricorda che noi deriviamo dall’Acqua come l’ultimo dei suoi materiali di scarto. E se è vero che il mare da sempre è il luogo del mostruoso, è altresì vero che se noi respiriamo, lo dobbiamo proprio agli oscuri e mostruosi abissi, che producono quel fertilizzante di cui poi si nutrono le alghe. 

Qui la seducente ambiguità del mare viene resa dalla Rosellini con un canto come di sirena, che ci incatena non appena accenna le prime note di “By This River” di Brian Eno. 

Federica Rosellini, Enrica Battifoglia, Roberto Danovaro

E poi tanto altro ancora, in un crescendo pieno di meraviglia: come se “i tre 
solo il presagio fossero
/d’un infinito di mari/non visitati da riva/il mare stesso al mare fosse riva/questo è l’eternità”.

I tre narratori Roberto Danovaro, Enrica Battifoglia, Federica Rosellini con le loro parole, nate da interrogazioni, esplorazioni e da un generoso desiderio di condivisione, ci hanno fatto assaporare infatti – pur nella nostra  finitudine – il gusto dell’eternità.


I prossimi appuntamenti con i restanti 3 elementi della natura si terranno:

domenica 1° dicembre 

Aria 
Massimiliano Pasqui, ricercatore Istituto di Bioeconomia del Cnr 

Lorenzo Pinna, giornalista scientifico e autore Superquark 

Letture poetiche Donatella Finocchiaro

domenica 15 dicembre 

Terra 
Carlo Doglioni, Presidente Ingv 

Enrica Battifoglia, giornalista scientifica Ansa

Letture poetiche Lino Guanciale

domenica 12 gennaio 

Fuoco 
Salvatore Passaro, ricercatore dell’Istituto di Scienze Marine del Cnr 

Guido Ventura, ricercatore dell’Ingv 

Lorenzo Pinna, giornalista scientifico e autore Superquark 

Letture poetiche Silvia D’Amico


Recensione di Sonia Remoli