Recensione dello spettacolo LA CIOCIARA di Alberto Moravia – regia di Aldo Reggiani

TEATRO GHIONE, dal 9 al 12 Novembre 2023 –

Rievocare per non dimenticare. 

Questo l’alto valore della scelta etica, prima ancora che estetica, di Caterina Costantini nel riproporre dopo 38 anni dal primo allestimento l’adattamento di Annibale Ruccello de “La ciociara” di Alberto Moravia con la regia di Aldo Reggiani. Lo spettacolo, ieri sera al debutto, resterà in scena al Teatro Ghione, in anteprima nazionale, fino al 12 novembre p.v.

Le atrocità e gli orrori della guerra infatti, temi centrali del testo originale, purtroppo sono ancora attualissimi.

È davvero molto necessario allora ricordare che cos’ è la guerra e cosa diventano gli uomini in guerra. Perché – come sosteneva Primo Levi – “chi dimentica il passato è costretto a ripeterlo”.

E seppure è innegabile che la guerra acutizzi il nostro ancestrale e prepotente istinto alla sopraffazione, è importante non smettere di desiderare di voler imparare a diventare capaci di amare. Perché l’amore s’impara: non è un sentimento che riceviamo per natura.

Alberto Moravia e Caterina Costantini

Lo spettacolo prende avvio immaginando un “the Day After”: un “dopo” successivo alla conclusione del testo originale dove una Rosetta, sempre più alienata da sé (interpretata da una Flavia De Stefano al suo primo e luminoso debutto), un po’ come ” il figliol prodigo”, reclama anzi tempo la sua eredità, per il capriccio di acquistare un’automobile.

La sua è l’urgenza di omologarsi a quell’italietta del tempo, preda di una “rivoluzione invisibile” di cui solo un sensibile ed altruista intellettuale come Michele riesce ad avere consapevolezza. A differenza del padre della parabola, Cesira (una carismatica Caterina Costantini, inossidabile nell’appassionarsi e nell’appassionare) si rifiuta di cedere soldi alla figlia ricorrendo ad un’ipoteca sulla loro casa: “la casa non si tocca”.

È infatti quel che resta della “roba” di cui può ancora disporre, ora che sua figlia, sfuggita all’iper protezione materna dopo il trauma della violenza subita, è ancora alla ricerca di se stessa. Lo scontro rievoca in Cesira – in una sorta di teatro nel teatro, enfatizzato da un’interessante drammaturgia della luce – una serie di ricordi e di apparizioni: ombre più o meno vaghe del suo passato.

La più vivida è quella di Michele (un fiero Vincenzo Bocciarelli) che – quasi come l’Oracolo di Delfi – la invita a riflettere sul fatto che di Rosetta lei ora raccoglie ciò che come madre è stata capace di seminare in passato: il desiderio di accumulare “roba”.

Caterina Costantini (Cesira) e Rosetta (Flavia De Stefano) in una scena dello spettacolo

Ma “seppure gli uomini muoiono – continua Michele – il dolore li fa rinascere”. E con questo invito a fare un buon uso della sofferenza per poter dare avvio ad un nuovo inizio, ad una nuova consapevolezza di sé, Michele dimostra ancora una volta di ad aver cura di lei.

Lei che resta “trincerata” – e la scena sa rendere con eloquente bellezza drammatica questo suo luogo/condizione della mente e dell’anima – dietro i suoi “valori” esistenziali basati esclusivamente sull’accumulo. Perché il primo comandamento che la guida è ancora quello che recita “l’importante è che vinca il più forte”. E di conseguenza, se non si riesce ad esserlo, si diventa complici di chi lo è.

Lorenza Guerrieri (Concetta), Caterina Costantini (Cesira) e Flavia De Stefano (Rosetta) in una scena dello spettacolo

La guerra riattizza la nostra tensione più prepotente: quella alla sopraffazione. Ma anche la mancanza di cultura educa al’insensibilità: alla divisione, all’opportunismo. “Le donne in tempo di guerra non possono andare troppo per il sottile”: a dirlo non è un uomo ma una donna (Concetta, una credibilissima Lorenza Guerrieri ), una contadina che solo in apparenza è accogliente con Cesira e sua figlia ma che all’occorrenza non ci pensa neppure un attimo a barattare la sua complicità alla vendita di Rosetta ai fascisti pur di avere liberi, cioè in “suo” potere, i suoi due figli. Perché i fascisti (qui rappresentati da un interessante interpretazione di Marco Blanchi) “c’hanno tutto: la provvidenza ce li ha mandati”.

“Che c’hai ? “. E’ questo infatti il bieco pulsare di quel che resta della coscienza. Perché in un’umanità che ha sostituito il senso della “pietà” con quello della “pietanza”, è ciò che si ha che restituisce il valore della persona. Un’umanità che parla esclusivamente di cibo da accumulare: in pancia e in quel che resta del cuore. 

Per questo è importante ricordare, cioè riportare al cuore – luogo del coraggio e della concordia – in quale deriva noi esseri umani possiamo essere trascinati in tempi di guerra.

Ricordare ci dà la possibilità di consultare il passato, di interrogarlo e di interrogarci.

Per capire ed essere capaci di cura e di responsabilità nel presente e nel futuro.

Per tenere alta la consapevolezza di chi siamo, da dove veniamo e di dove abbiamo la possibilità di spingerci.

Il cast de “La Ciociara” di Aldo Reggiani

E riportare in scena questo struggente spettacolo – che si arricchisce anche delle presenze interpretative di Armando De Ceccon (nel ruolo di Filippo) e di Vincenzo Pellicanò (nel ruolo di Tommasino) – proprio in un momento storico quale quello che stiamo attraversando, lo rende estremamente prezioso.

Un necessario contributo che il Teatro non smette di rendere al vivere civile.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo UNA STORIA AL CONTRARIO di e con Elena Arvigo –

TEATRO INDIA, 7 e 8 Novembre 2023 –

La sua non è solo una narrazione: è un canto. La sua voce non si limita a far conoscere, a testimoniare. La sua voce è colma di suoni: di una varietà ricchissima. Modulati con regola e misura eppure così complici, così vicini. Intimi. A tratti, prossimi ad un dolce lamento. In altri momenti, simili ad una preghiera. Come quando Elena Arvigo, ovvero colei che “canta” la storia e quindi le gesta di Francesca De Sanctis – autrice dell’omonimo libro del quale lo spettacolo è una riduzione – legge e ripete passi della Lettera di Gramsci a suo fratello (Lettere dal carcere, 12 Settembre 1927). Non per mandarli a memoria, quanto piuttosto per scriverli nella sua carne. Perché ogni storia è la storia di un corpo.

La narrazione della Arvigo oltre ad essere un canto è infatti anche una danza. È ritmo: vocale e fisico, mimico e simbolico, dove unità e differenza riescono a convivere. E così la storia diventa una grande coreografia, che aspira alla leggerezza proprio mentre resta attratta dalla forza di gravità. 

Oltre che canto e danza la narrazione è una giostra: una struttura girevole nella quale occupare un posto. Accanto agli altri. Un intrattenimento, uno spettacolo vitale carico di confusione turbinante, dove non è semplice trovare di volta in volta equilibri sempre nuovi. In bilico tra sogni e precarietà; tra l’entusiasmo del colore rosso e la chiusura del colore nero, che assorbe luce anziché rifletterla. Colori che danno forma alla scena, metafora dei diversi “habiti” della psiche della protagonista. Spesso “frullati” dal vortice alimentato da sfere girevoli ai piedi di elementi apparentemente stabili. 

Elena Arvigo in una scena dello spettacolo “Una storia al contrario”

Ma soprattutto la narrazione è una sacra testimonianza, un atto di impegno civile ed esistenziale.

È la storia di come il microcosmo professionale ed esistenziale della giornalista Francesca De Sanctis si dilati attraversando gli estremi del fondersi e del distaccarsi dal macrocosmo del settore giornalistico, per arrivare a conquistare progressivamente “il suo libero uso del proprio”, come amava sostenere Friedrich Holderling.

È la storia di una donna che sente urgente l’esigenza di testimoniarci quanto sia complesso – ma non impossibile – imparare a relazionarsi con l’Altro da noi: la famiglia, il mondo del lavoro, i colleghi, il concetto di giustizia e quello di meritocrazia.

È la storia dell’odissea di una ghiandola, il timo, che regola la nostra capacità di difenderci dagli altri, dall’esterno. Come un angelo custode o uno spirito guida, il timo ha la potenza di accompagnarci nel dosare la giusta quantità di difesa da mettere in campo, costruendo confini vitali che ci proteggano senza isolarci. E senza lasciarci invadere.

È la storia dei ” nonostante tutto”, delle avversità cioè che possono diventare preziose per conoscerci meglio. Per realizzarci, non solo e non tanto nel lavoro ma nell’arte di vivere.

È la storia dei traumi che sconvolgono la vita di ciascuno di noi – le varie “storie al contrario” – che ci trovano senza le adeguate risorse per fronteggiarli. Ma solo sul momento: un sano desiderio di ricominciare, di trovare nuovi inizi in ogni fine, ci salva sempre.

Perché noi esseri umani, anche se dobbiamo morire, non siamo fatti – come sosteneva Hannah Arendt – per morire ma per continui nuovi inizi. E come lo stesso fondatore del giornale l’ “Unità”, Antonio Gramsci, non si stancava di ripetere: “Mi sono convinto che anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio (Lettere dal carcere,12 Settembre 1927).

È la storia delle “pagine bianche”: quelle della sana protesta dei giornalisti dell’ “Unità” ma anche quelle della vita. Perché il vuoto, come era solito dire Furio Colombo, a volte è la condizione necessaria per poter sprigionare il desiderio creativo di scrivere una nuova storia. Un nuovo inizio.

La giornalista Francesca De Sanctis

Una sacra testimonianza civile ed esistenziale – quella della giornalista De Sanctis – la cui voce cerca luce, visibilità. Come le scene -luoghi della sua mente- non mancano di sottolineare: una luce che “grida” il bisogno di essere vista e ascoltata. Perché ciò che è accaduto a lei, giovane e solerte donna, non è successo solo a lei.

Ecco allora che il Teatro – e in particolare il centro di drammaturgia del Teatro delle Donne, con la sua speciale vocazione ad essere spirito critico a tutela della condizione femminile – si rivela il luogo che riesce a soddisfare l’urgenza del dare adeguato spazio al testimoniare. E quindi anche al volo di una farfalla: una donna “rapita” in una scatola rossa che ora, dopo un percorso di autoconoscenza, torna rigenerata a volare. Nuovamente. Di un volo consapevolmente libero.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo L’IMPARATA di Roberto Iannucci – regia di Felice Della Corte

TEATRO MARCONI, dal 17 al 22 Ottobre 2023 –

Che cosa può succedere quando l’esterno, in questo caso il contesto sociale della criminalità organizzata, condiziona così prepotentemente le più intime dinamiche familiari? 

Cosa può succedere quando aderire al contesto sociale fa smarrire ad una madre il suo valore più profondo: quello di trasferire ad un figlio l’amore per la vita nonostante tutto ?

Quanto incide la crisi dell’etica pubblica nella crisi della famiglia?

Questo emozionante testo di Roberto Iannone narra infatti del dramma che si consuma all’interno di una famiglia che ha aderito all’etica camorrista. 

Felice Della Corte

La regia di Felice Della Corte ne esalta i chiaroscuri narrativi attraverso un interessante espressivismo linguistico-corporeo. Evidente è infatti il lavoro degli attori sulla parola e sul gesto: sulla loro voluta dilatazione o al contrario sulla loro estrema frammentazione compulsiva (deformazioni sottolineate anche dagli inserti musicali).

Da questo particolare connubio scaturisce un linguaggio espressivo che, al di là della suggestione propria del dialetto napoletano, si manifesta, proprio per il suo essere ricchissimo di suoni di origine onomatopeica, come una lingua quasi primitiva. Un po’ quella che Jaques Lacan chiamava “la lalangue”: una sorta di lallazione prelingistica matrice di tutte le altre lingue, che eccede dai codici di ogni linguaggio ma è in grado di descriverne i sentimenti.

Una lingua che si mescola al corpo e che da questo ne è tradotta. Perché non nasce come qualcosa che semplicemente “esce dal corpo” ma che si unisce ad esso nell’espressività. E che spesso attinge anche al mondo animale. È la stessa drammaturgia che invita a sottolinearlo. Un’umanità, quella in scena, quasi orwelliana dove la genuinità dei “maiali” è avvelenata da quella degli “scorfani”.

La drammaturgia narra, infatti, di un commesso viaggiatore di biancheria per la casa ( il “maiale”, un convincente Antonello Pascale ) che a sua insaputa si ritrova esso stesso ad essere “terreno” dell’espressione del potere che una madre e un figlio, subdoli rivali, si stanno contendendo.

In questo particolare frangente è la madre (una Teresa Del Vecchio dall’incantevole ambiguità) a concedere al commesso viaggiatore il permesso di frequentare la casa e quindi di entrare nei confini del quartiere, territorio di famiglia. La madre cioè continua, come quando il figlio era in prigione, a prendere lei stessa le decisioni da capo clan familiare.

Teresa del Vecchio

Vincenzo (un appassionato e appassionante Antonio Grosso) infatti è appena tornato a casa dopo aver scontato solo tre anni di reclusione anziché dieci, come prescritto. La madre, ma anche la moglie di Vincenzo ( un’accurata Marika De Chiara ), sospetta che il figlio “abbia cantato”: vergogna delle vergogne in ambito mafioso. E nell’attesa di averne le prove, prosegue nella gestione familiare del potere, marcando lei stessa il territorio e proteggendolo dall’infamia del disonore. Quando il figlio Vincenzo se ne accorge è ormai troppo tardi e non gli resta altro, per riconoscersi un’identità, se non esprimere il proprio potere “di nascosto”: sequestrando il commesso nel sotterraneo di casa. Ma il suo ruolo da carnefice è una guerra di nervi che non ha vere intenzioni criminali.

Antonio Grosso – Ritratti – 2014

Lo spettacolo prende avvio proprio da questo momento della storia, per proseguire in un intreccio avvincente che esplora il continuo mutare dei personaggi da vittime a carnefici. E gli attori in scena sanno restituirne la profonda densità.

Un mondo in apparenza molto solido ma in realtà fragilissimo quello proposto dall’ “organizzazione” che i camorristi napoletani definivano “Società della Umirtà”, alludendo alla difesa del “loro onore”: che consisteva nell’omertà (Umirtà). Codice malavitoso del silenzio e dell’obbligo a non parlare con la polizia degli affari interni all’organizzazione.

Ma non si può permette che per “onore” si intenda una ligia appartenenza ad una regola di oppressione. Non si può considerare l’onore come una losca affidabilità tenuta alta da chi ha le mani in pasta. L’onore deve essere il colore sensibile della morale, della solidarietà. Perché una società autenticamente solida è una società solidale.

Marika De Chiara, Antonio Grosso, Teresa Del Vecchio e Antonello Pascale

Per questo è importante che anche il Teatro partecipi alla costruzione di questa solidità solidale liberando le parole chiave della nostra umanità dall’inquinamento provocato in esse dal pervertimento del loro significato originario.

Questo spettacolo ne è un esempio.

Così come notare che in platea fossero presenti direttori artistici di altri teatri romani. Perché il Teatro, al di là di una sana competizione, resta un ambiente dove può esistere autentica condivisione.

Solidale.

Revolution

È un elogio della “parola” modellata sui ritmi dell’hip hop, il musical ispirato alla storia di Alexander Hamilton e diretto d Maurizio Purifico. Quella “parola” la cui libertà d’espressione fu una della conquiste più preziose sancite dalla prima Costituzione scritta: quella degli Stati Uniti d’America, entrata in vigore nel 1789.

Particolare di una banconota da 10 dollari raffigurante Alexander Hamilton

Ed è intorno ad una vera e propria “fame di parole” che il musical prende forma, rivelando un’interessante fedeltà all’intima esigenza di Hamilton di ricorrere alla parola scritta per affrancarsi e contemporaneamente affrancare chi, come lui, si trovava a subire ingiustizie sociali, perché minoranza. Parole portatrici di ideali, per restare fedele ai quali non ha temuto di andare incontro alla morte: “Morire è facile, Vivere è la sfida! “.

Matteo Corvatta (Hamilton) in una scena del musical “Revolution”

Una perfetta storia, quella di Hamilton, da hip hop: lo stile musicale e culturale che ben permette di esprimere la propria identità e che fa della libertà, luogo astratto dei diritti, una realtà concreta come quella della nostra dimensione interiore.

Una scena del Musical “Revolution”

I testi, curatissimi e incredibilmente densi, sono una vera e propria valanga di parole, che trova in questo genere musicale capace di trasmette più parole al minuto di qualsiasi altro, un perfetto veicolo d’espressione.

Una scena del Musical “Revolution”

Il sipario di “Revolution” si apre su una scena dominata da una struttura praticabile a ponte (che ricorda quello di una nave) esaltata da un sapiente disegno luci. Il “ponte” rappresenta il mezzo per andare al di là del nostro solito mondo, verso una dimensione diversa, “una terra promessa dove i frutti sono di tutti”.

Una scena del Musical “Revolution”

Come dovrebbe avvenire anche nella vita, nel Musical “ogni particolare” risulta indispensabile per la riuscita dello spettacolo. Qui in “Revolution” la narrazione storica, inclusiva di preziosi punti di vista al femminile, si avvale di una potente sinergia costituita da vigorose prove attoriali e brillanti esposizioni canore che, unite a persuasive coreografie, danno vita ad uno splendido esempio di coralità.

Una scena del Musical “Revolution”

Con notevole acume il regista Maurizio Purifico identifica il titolo del suo musical in uno dei diritti sancito nella Costituzione americana del 1789: quello alla Rivoluzione appunto . Un diritto che non dovremmo mai dimenticare di esercitare nei momenti necessari. Insieme. Perché “Unione” fa rima anche con “Rivoluzione”.

Una scena del Musical “Revolution”

Perché le rivoluzioni, coraggiosamente volute o ineluttabilmente subite, segnano un nuovo punto di partenza, avendo preparato il terreno per un’evoluzione. Questo lo splendido messaggio con il quale ci si alza, pieni di fervore, dalla poltrona del teatro a fine spettacolo. E che ci si porta a casa.

Una scena del Musical “Revolution”

Questo è il potere civile del Teatro quando si ha l’opportunità di assistere ad uno spettacolo qual è “Revolution”.

Backstage : il regista Maurizio Purifico insieme alla Compagnia alcuni momenti prima dello spettacolo

Recensione dello spettacolo LOVE’S KAMIKAZE – di Mario Moretti – regia Claudio Boccaccini –

TEATRO INDIA, 29 -30 ottobre 2022 –

Il Teatro India e Roma Capitale Assessorato alla Cultura hanno fortemente voluto che la messa in scena della prima teatrale di “Love’s kamikaze” fosse l’occasione per omaggiare la straordinaria figura di David Sassoli. Grande europeista, tra le personalità più illuminate e visionarie di riconosciuta capacità e autorevolezza morale, che tanto si è speso per attuare politiche di accoglienza e integrazione che potessero tenere unite solidarietà, difesa dei più deboli e diritti umani, sociali e politici. In sua rappresentanza, era presente in sala la moglie Alessandra Vittorini Sassoli. 


“Se i simili sono diversi e i diversi sono simili, perché si fanno la guerra?”

Uno spettacolo che evoca urgenti domande e provoca necessari cortocircuiti emotivi. Com’è nell’autentica natura del teatro, che nasce laddove si fa strada un vuoto, una ferita, una frontiera tra noi e gli altri. E contribuisce a farci superare “la vigliaccheria del vivere”: la paura del diverso, dell’ignoto, della vita e della morte.

Uno spettacolo diretto con poetica veemenza e slanci fiammeggianti da Claudio Boccaccini, che ha ricomposto nel proprio crogiolo registico l’occasione, contenuta nell’intenso testo di Mario Moretti,

Il testo “Love’s kamikaze” di Mario Moretti

di fondere la storia di una grande passione d’amore assieme a quella di un rovente conflitto tra due culture. Conflitto la cui risoluzione pare avvolta in un’attesa dai contorni beckettiani. Occasione irresistibile per chi, come Boccaccini, predilige esplorare testi in cui sia possibile investigare temi dal respiro anche sociale, civile e politico. Come testimoniano i suoi lavori su Giordano Bruno, Pasolini e Salvo D’Acquisto, per citarne alcuni.

Claudio Boccaccini

Boccaccini sceglie di immergere il suo adattamento in una scenografia povera di oggetti scenici per riempirla di tensione civile ed erotica. Tensione che i due attori in scena sanno termicamente restituire in tutte le declinazioni emotive. Qualsiasi cosa si dicano. Generosamente. E che la struggente sensibilità del compositore Antonio di Pofi sa tradurre in un raffinatissimo contrappunto musicale, seducentemente enfatico.

Un amore quello tra Noemi (un’effervescente Giulia Fiume) e Abdel (un avvolgente ma fermo e secco Marco Rossetti) che nasce con un destino inscritto nella cifra dell’ardore della fiamma, come il disegno luci non manca di sottolineare. E custodire. Infiammabili sono le origini dei due amanti, che appartengono a due civiltà ostili: lei ebrea, lui palestinese; infiammabile è il contesto socio-politico in cui sono immersi: una Tel Aviv, sconvolta dai drammatici eventi della Seconda Intifada; infiammabile è la qualità del loro amarsi: una passione eroticamente esplosiva; infiammabile è il luogo segreto dove trovano rifugio: il bunker del locale di controllo della centrale elettrica dell’Hotel Hilton. Infiammata, la sublimazione finale.

Nel loro nascondersi per vedersi, Naomi e Abdel intrecciano la lingua della logica a quella dell’istintualità. In un alternarsi di rituali, da quello del caffè a quello all’alcova, i due mettono a confronto le loro civiltà divise, toccando, ognuno dal proprio punto di vista, i temi che separano i differenti popoli. E mettendo a nudo paure e condizionamenti della propria infanzia.

A differenza di Abdel, Naomi riesce ad immaginare un orizzonte dove “il confine” può diventare il luogo dell’ “incontro” e non solo il luogo di una netta separazione. Incontro che, grazie ad una poetica e sensuale trovata registica, è simboleggiato dal velo bianco con il quale lei danza (interagisce) per tutto lo svolgimento dello spettacolo. Naomi poi sa essere ironica, in pieno stile jewish: un umorismo audace, il suo, diretto, travolgente, dissacrante: fondamentale per esorcizzare la paura. Un saggio meccanismo di difesa, un espediente necessario alla sopravvivenza. 

Abdel invece è più disilluso, riflessivo, crepuscolare. Ed essendo poco incline a comprendere la totale assenza di territori inviolabili alla satira, spesso non coglie la fertilità dello scherzo ma vede in esso un’insolente provocazione. Nonostante tutto e tutti, però, lui ama Noemi. E nel perdersi dentro le sue appassionate contraddizioni, riesce a commuoverci. Marco Rossetti (l’interprete), con la sua multiforme e sincera potenza espressiva, ci trascina dentro i meandri delle sue ossessioni e ci porta dalla sua parte.

I costumi (curati da Antonella Balsamo) sono una seconda pelle: indossata per essere tolta. Per rivelare la nuda essenza della libertà. Ingabbiata in corpi, destinati a tradursi in luce. Come immaginava il poeta preferito di Abdel:

Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,

coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.

Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso,

e dì: magari fossi una candela in mezzo al buio.

(Mahmoud Darwish, “Pensa agli altri”).

Una candela sulla vita in bilico, su un domani imperscrutabile. Ma suggellata, la loro, da un rituale di unione: “solo se la facciamo insieme, questa azione avrà un senso”. Un filo nella colossale trama del mondo. Anzi un nodo. Punto d’incontro e d’evoluzione di un ordito più vasto, sancito da un rito che nella sua purezza ha il valore di un archetipo. “Noi siamo i primi kamikaze dell’amore. Noi, Naomi Rabìa ebrea e Abdel El Abdà palestinese, ci amiamo profondamente …”.

Il loro amore è la prova che è possibile vivere “un incontro” che riesca a disarmare il confine difensivo della realtà. Sono nemici ma si amano. E dichiarano con il loro amore che anche tra civiltà ostili ci si può amare.

E allora, “se i simili sono diversi e i diversi sono simili, perché si fanno la guerra?”

“Love’s Kamikaze” di Claudio Boccaccini è uno spettacolo che sorprende e toglie la parola. Con una forza inattesa ci spinge a lasciare la poltrona, da dove guardiamo comodamente lo spettacolo del mondo.


Qui l’intervista al regista sulla genesi dello spettacolo “Love’s kamikaze”. E non solo.


Recensione di Sonia Remoli

Questa è casa mia

TEATRO VITTORIA, Dal 5 al 13 Aprile 2022 –

Un ragazzo, una sedia, una storia: non serve altro al talentuoso Alessandro Blasioli. E poi molto fumo: quello che continua ad avvolgere la storia della ricostruzione della città dell’Aquila, a tredici anni dal terremoto. E moltissime ombre: loro, forse, le vere protagoniste dello spettacolo, ben rese dal disegno di Marco Andreoli.

Ombre di cui si veste il fantasmagorico interprete Alessandro Blasioli: è lui ad interpretare tutti i personaggi della storia. Lasciandoci letteralmente di stucco. Questo giovane trentenne usa il proprio corpo e la propria voce con una versatilità tale da riuscire a portarci ovunque lui voglia. “Ci crediamo” sia quando sceglie di fare il ragazzino, che quando fa il novantaquattrenne, fino a quando entra nell’essenza della segretaria della hall dell’Hotel “Provence”. Quest’ultima sembra gestire l’ospitalità dei terremotati com’era prassi nella “famosa casa di cura” di Dino Buzzati.

E per tutto lo spettacolo Blasioli tiene un ritmo serratissimo e insieme pieno di insospettate variazioni, da non lasciarti distrarre nemmeno per un attimo. E poi le parole: lui le pronuncia così plasticamente che immediatamente ti fa vedere l’immagine, o l’atmosfera di una determinata situazione. E allora basta la complicità di una luce di taglio e del garrito fuori campo dei gabbiani, per far entrare anche noi del pubblico nella scena della finestra aperta sulla spiaggia. Oppure per seguirlo nelle sue esplorazioni notturne, nel buio totale degli edifici terremotati, illuminato sinistramente solo da una torcia sotto al viso.

Di Alessandro Blasioli tutto recita, in una continua metamorfosi dall’elegante al grottesco, dal canto al ballo. Un brillante esempio di Teatro Civile e di Narrazione, proposto da un giovane eclettico, capace di fare fuochi d’artificio sulla scena.