Recensione di SABATO, DOMENICA e LUNEDI – regia Luca De Fusco

– Commedia in tre atti di Eduardo De Filippo –

TEATRO ARGENTINA

dal 25 Novembre 2025 al 4 Gennaio 2026

“Sì, ma ci vuole coraggio”.

Con queste parole Eduardo De Filippo decide di farci conoscere il titolo del romanzo che zia Memé sta scrivendo con l’aiuto del Dott. Cefercola.

Eduardo De Filippo

Memé – scissa tra una maternità iperprotettiva e una femminilità d’avanguardia – è donna che non si accontenta rassegnata e soddisfatta. Piuttosto è alla continua ricerca di conoscere se stessa, per un bisogno irrinunciabile di sentirsi viva, piena di entusiasmo. 

Il suo romanzo è infatti una sorta di autobiografia che si propone di trasformare il caos “dei ricordi, delle impressioni, delle delusioni, delle rinunzie” in una narrazione. Stimolando così in lei un processo interiore di autoconsapevolezza tale da permetterle di dare un senso alla propria esistenza, ridefinire la propria identità, elaborare il passato e connettersi più profondamente con sé stessa e con gli altri.

E’ lei, zia Memé (qui una sapientemente umana Anita Bartolucci) il punto di riferimento della famiglia, quando si tratta di capire come meglio relazionarsi l’uno all’altro.

La zia dichiara infatti che, sebbene nella sua vita inevitabilmente ci siano state delle rinunce, “la mia vita è stata una vita felice, o per lo meno ho fatto tutto il possibile per farla essere come volevo io”.

Quindi, a qualche livello, Eduardo De Filippo ci sta dicendo che si può essere felici, “sì, ma ci vuole coraggio”.

Teresa Saponangelo (Rosa Priore) – Claudio Di Palma (Peppino Priore)

Perché ci vuole coraggio per aprirsi fino a fare “esodo” dal nostro egoismo, per diventare “prossimo” dell’altro. Superando le barriere dell’incomunicabilità e della diffidenza.

Coraggio che sfugge, a volte, a Peppino (qui un luminosamente inquieto Claudio De Palma). Il quale nei momenti in cui tenta di entrare in relazione con qualcuno, soprattutto con sua moglie Rosa (qui una Teresa Saponangelo di vertiginosa bellezza), si sente “invaso” da immaginifiche presenze. Tanto da reagire sentendo l’urgenza ossessiva di “chiudere gli occhi” a tutte le finestre. Come a tenere fuori tutti gli sguardi su di lui.

Ci vuole coraggio allora anche a restare in ascolto dell’altro per la sua unicità, fatta di fragilità. Entrare in relazione significa infatti farsi luogo di creazione di significato. Luogo che trascende la semplice connessione, per trasformarsi in un percorso di cura reciproca, di scoperta di sé e quindi di superamento del proprio egoismo. 

Rossella De Martino(Virginia, cameriera), Paolo Serra (Luigi Ianniello), Teresa Saponangelo (Rosa Priore)

(ph. Tommaso Le Pera)

E poi ci vuole coraggio anche a tirar fuori “le amarezze” o, ancor meglio, a discuterne con l’altro non appena si palesino. Al di là dell’angoscia di essere esclusi dal suo sguardo e dalle sue attenzioni. Senza reagire solo in difesa, ma anche in avanscoperta. Aprendosi all’intimità di un dialogo: “Noi – dirà Peppino sul finale a sua moglie Rosa – io e te, siamo stati tanti anni insieme, abbiamo fatto tre figli, e non siamo riusciti a raggiungere quell’intimità che ti fa dire pane al pane, vino al vino”. 

Il coraggio di cui ci parla Eduardo si relaziona con la paura, che può essere saggia, e diventa l’intervento umano che supera l’istinto. Perché qualcosa di luminoso lo chiede, da dentro di noi.

Luca De Fusco

(ph. Tommaso Le Pera)

Profondamente acuta la scelta registica di Luca De Fusco di valorizzare questa tensione tra dentro e fuori, tra conosciuto e sconosciuto, tra sè e altro da sè, visualizzandola attraverso lo spazio scenico -fisico e metaforico- del balcone. 

Uno spazio che rappresenta il confine tra pubblico e privato: un elemento di transizione tra interno ed esterno, tra passato e futuro. Che funge da specchio per le emozioni e le aspirazioni umane: dalla celebrazione dell’amore romantico, alla rappresentazione della malinconia esistenziale. La cura delle scene e dei costumi è di Marta Crisolini Malatesta.

(ph. Tommaso Le Pera)

Icastica la scena di apertura dello spettacolo con i protagonisti – tranne Rosa e Virginia intente nel laboratorio alchemico della cucina – prossemicamente “in relazione” sulla soglia del balcone di casa Priore. Chi immergendosi, chi sfuggendo, la luce surreale del proprio sé più intimo e inconscio (la cura della drammaturgia delle luci è di Gigi Saccomandi). Tutti sotto un cielo azzurro, abitato da nuvole che parlano di impermanenza, di trasformazione, di mutevolezza. Ma anche di libertà.

Non a caso “Sabato, domenica e lunedì “ è una commedia che Eduardo inserisce nella “Cantata dei giorni dispari”: una raccolta di commedie – scritte dal 1945 al 1973 – dove i “giorni dispari” sono quelli negativi, quelli legati a ciò che resta della realtà sociale, dopo le distruzioni materiali e morali causate dalla guerra.  

E la prima forma di socialità ad essere analizzata è proprio quella della famiglia – specchio dei cambiamenti sociali – mostrando la frammentazione del nucleo patriarcale, i conflitti generazionali, il difficile rapporto tra padri e figli. Ed evidenziando come l’unità familiare possa sgretolarsi sotto il peso di tensioni individuali e sociali, riflesso anche del disagio di un’epoca. 

Qui in“Sabato, Domenica e Lunedì” Eduardo, con la sua sapiente cifra stilistica dolce-amara, lascia emergere dai toni della commedia temi di rilevanza sociale, come ad esempio il mito del lavoro e il suo efficientismo sterile, che finisce per svuotare e rendere gli uomini spaesati di fronte alla gestione del tempo libero. E ancora, la seduzione della pubblicità e la sua ipocrita fidelizzazione attraverso concorsi a premi. 

E poi la crisi dei padri, quasi infastiditi dalle scelte dei propri figli: dal farsi testimoni creativi – e quindi anche critici – dell’eredità paterna. Padri che fanno fatica “a saper tramontare , ovvero a lasciare spazio ai figli, ritirandosi dal centro della scena per permettere loro di crearsi una propria identità. Senza rimanere ingombranti.

(ph. Tommaso Le Pera)

Perché la famiglia è un pò come il ragù, sembra volerci dire Eduardo.

E’ una ritualità che si fonda sulla cura e sul saper attendere.

E’ un incontro sempre uguale e sempre nuovo da condividere. 

Teresa Saponangelo (Rosa Priore)

(ph. Tommaso Le Pera)

La lunga e lenta cottura del ragù è infatti metafora della cura e del tempo da dedicare alla relazione con l’altro. Un atto d’amore che non si dà una volta per tutte, ma che chiede di rinnovarsi continuamente. Ogni volta. Lo stesso termine “ragù” – derivando dal francese “ragoût” e a sua volta dal verbo “ragoûter” – significa “risvegliare l’appetito” o “ravvivare il gusto”. 

Non a caso Rosa sottolinea l’importanza di un ingrediente “scomodo” come la cipolla. Una pungente amarezza il cui segreto è  –  quando soffriggendo lentamente si consuma fino a creare intorno al pezzo di carne una specie di crosta nera – versarvi sopra il quantitativo necessario di vino bianco, cosicché la crosta si sciolga fino ad ottenere “quella sostanza dorata e caramellosa che si amalgama con la conserva di pomodoro. E si ottiene quella salsa densa e compatta che diventa di un colore palissandro scuro, quando il vero ragù è riuscito alla perfezione”. 

Claudio Di Palma (Peppino Priore)

(ph. Tommaso Le Pera)

Quell’amarezza inevitabile anche in una relazione di coppia, o familiare, che richiede di essere annaffiata da un generoso versare di parole a chiarimento. Per tirar fuori da questa amarezza quel caramello che poi si sposa magnificamente con la passionalità creativa.

E invece Rosa e Peppino è almeno da quattro mesi che si soffriggono nell’amarezza, senza versare neanche un filo di parole sull’accaduto. Ne risulta che Peppino ha perso il suo appetito, facendosi possedere dal “quel mostro dagli occhi verdi” della gelosia e lasciandosi “fare dalla Luna”, che “quando si avvicina troppo alla terra fa impazzire gli uomini”. E Rosa si sta caricando di rabbia, come una molla pronta a saltare fuori dalla scatola, che ancora la contiene, fino a spegnersi dolorosamente.

Al malcelato rancore che fatica a liquefarsi tra Rosa e Peppino e che finirà per far “attaccare” la loro relazione alle pareti del contenitore familiare, si somma una lunga “pippiatura”.

Mersilia Sokoli (Giulianella)

Una fase cioè di lentissima cottura delle “varie specie di carni”, rappresentata dall’esuberante vitalità inquieta dei figli e di un nonno tutti in bilico tra la tentazione a replicare l’imprinting familiare e la voglia di inserirsi nel futuro; la zia Memé che sublima la sua iper protezione verso il figlio con la passione per i libri e per l’emancipazione femminile;  la generosa espansività dei vicini di casa Ianniello; una cameriera con la croce di un fratello traumatizzato dagli orrori della guerra e uno zio che alla fragranza del ragù preferisce le tavole del teatro.

Teresa Saponangelo ((Rosa Priore) – Claudio Di Palma ( Peppino Priore)

Il regista De Fusco sa lasciar parlare il testo di Eduardo De Filippo in tutta la sua valenza carica di sfumature, restituendo ed interpretando quel “fermento contestatario, quell’anticipazione dell’avvento del divorzio in Italia, quell’apparente fusione di finti rapporti cordiali in una famiglia, in cui convivono i rappresentanti di tre generazioni” ( Eduardo De Filippo sul «Roma» del 7 maggio 1969).

Ma soprattutto la regia di De Fusco veicola efficacemente quella calda e pungente sensazione che, solo entrando in una “relazione” amorosa, due persone possono restare unite: non per il matrimonio e nemmeno per i figli.

Piuttosto per quel desiderare ancora una volta un nuovo inizio, che si genera quando l’esuberante amarezza trova un varco nell’intimità del dialogo: in “un affacciarsi”, che tiene l’altro negli occhi. Anche dopo che scompare alla vista.

Maria Cristina Gionta (Elena)

Lo spettacolo di De Fusco si avvale della complicità di un folto cast attoriale accordatissimo,

Teresa Saponangelo, Claudio Di Palma, Pasquale Aprile, Alessandro Balletta, Anita Bartolucci, Francesco Biscione, Paolo Cresta, Rossella De Martino, Renato De Simone, Antonio Elia, Maria Cristina Gionta, Gianluca Merolli, Domenico Moccia, Alessandra Pacifico Griffini, Paolo Serra, Mersilia Sokoli

che brilla e commuove nel restituire la sensazione di come noi umani – al di là delle più disparate differenze sociali e culturali – si vive tutti di attenzioni e di sguardi.

Altrimenti è come non esistere, è come essere invisibili.

“Ma mannaggia la morte fetente: ma perché la gente non capisce mai per conto suo quello che può essere il desiderio di una persona e l’accontenta subito, senza costringere questo disgraziato ad usare la forza per ottenere quello che gli spetterebbe di diritto?”.

Francesco Biscione (Antonio Piscopo, padre di Rosa)



Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo L’ORIGINE DEL MONDO – Ritratto di un interno – scritto e diretto da Lucia Calamaro

TEATRO ARGENTINA, dal 22 al 28 Marzo 2024 –

Ha la bellezza fine e lacerante di un canto notturno, questo spettacolo scritto e diretto da Lucia Calamaro.

Canta di quanto sia senza senso l’essere gettati al mondo di noi umani. Di come manchi un’origine, un rassicurante inizio. Il bandolo della matassa dei nostri grovigli esistenziali.

Ma dal testo della Calamaro ci lasciamo prendere e gli permettiamo di condurci proprio là dove accuratamente evitiamo solitamente di inoltrarci: in quell’errare infinito e labirintico che ci è così familiare e che diventa obiettivo di un’intera vita tacere. Ignorare. Il nostro e quello altrui.

Lucia Calamaro, autrice e regista dello spettacolo

Un testo che ricorda quel lunare lamento, pieno di domande destinate a non trovare consolazione, del “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” di Giacomo Leopardi

Qui però l’interlocutore non è la Luna ma un frigorifero: unico “astro” capace di gettare luce sulle tenebre dell’esistere. La sua è una luce che non fa ordine, sebbene induca all’introspezione. “Alimentare”. 

Ma Concita (la protagonista figlia di Lucia Mascino e madre di Alice Redini) non cerca lì nel frigo la soddisfazione dello stomaco: la sua non è quella “voglia di qualcosa di buono”. No, lei dice di cercare qualcosa che le riempia “il torace”: sede del sentire con il timo e col diaframma. Organi già cantati dall’ Omero dell’Iliade come responsabili del respiro, inteso come soffio vitale: equilibrio dell’inseparabilità tra vita psichica e somatica. Concita insomma cerca “qualcuno” e non “qualcosa” nel microcosmo della sua psiche-frigorifero: cerca se stessa. 

Concita De Gregorio è Concita, figlia di Lucia e madre di Alice

Ma per farlo ha bisogno degli altri: ha bisogno di qualcuno che ami ascoltarla: con attenzione, con cura. Perché la nostra natura vive del relazionarsi.  Ma la qualità della relazione deve essere fertile, generosa. Altrimenti si rischia di ammalarsi di mancato ascolto, di mancata attenzione.

Come avviene alle tre protagoniste qui in scena: stesso imprinting con reazioni diverse. Lucia, la nonna, sceglie di rimuove le sue esigenze più vive riuscendo a sopravvivere nel mare di noia che ne deriva senza affogarcisi dentro; Concita (la figlia di Lucia) non riuscendoci si isola, si chiude all’ipocrisia delle relazioni; sua figlia Alice è in bilico tra la simbiosi con la mamma e il tentativo di riuscire a comunicare con lei decifrando il suo linguaggio del corpo, vista la crisi di autenticità della comunicazione verbale. Un’inautenticità di cui (paradossalmente) farà esperienza anche l’analista di Concita.

Lucia Mascino è Lucia, madre di Concita e nonna di Alice

Lo spettacolo che si sviluppa in tre atti, in uno spazio scenico enormemente vuoto e abitato da una luce lattiginosa (specchio della liquidità dello stato psichico) e cromaticamente sempre più vicina all’approfondimento spirituale – si propone come una spiritosa riflessione sul progressivo cammino introspettivo di Concita verso l’ ”origine” di sé. 

Il suo processo di auto-consapevolezza sul proprio disagio si avvale inizialmente della relazione con l’oggetto emblema del raffreddamento emotivo: il frigorifero. Un raffreddamento che però non esclude muffe, non solo alimentari. 

Alice Redini è Alice, figlia di Concita e nipote di Lucia

Il viaggio prosegue passando attraverso la relazione con un diverso interlocutore tecnologico: la lavatrice. Metafora di quel far girare in avanti e indietro idee, domande e considerazioni asciugandole – almeno parzialmente – attraverso quell’azione centrifugante, così ben replicata dalla mamma di Concita, Lucia. Che si impegna parossisticamente ad eliminare quell’eccesso di umidità che regna in casa, a causa del continuo piangere di Concita.

La terza tappa del viaggio è con l’ analista, ridotta a macchina, a stereotipo. Un’incomunicabilità verbale che lascia spazio al silenzio dei pensieri. Ad uno stare al mondo umanamente più indefinito. Un risultato in mutamento, nel quale si può entrare in relazione. Sagacemente.

Alice Redini, Concita De Gregorio e Lucia Mascino

Le tre interpreti sulla scena – (anche) parti di una stessa psiche – ci rapiscono.  E fanno di noi ciò che vogliono. Ci viziano e ci strapazzano, ci consolano e insieme puntano dritto al cuore, come solo Lucia Mascino sa fare, armata di rami di bambù. 

Così facendo riescono a farci intravedere come nel chiuso disagio della depressione – interpretato con multiforme delicatezza da Concita De Gregorio – possa farsi strada la possibilità di evolvere, avvicinandosi a quell’equilibrio e a quell’armonia in accordo con l’ambiente circostante, esemplificato qui iconograficamente nell’arte giapponese di sistemare i fiori. 

Un equilibrio costantemente da resettare e insieme da accogliere: perché una mamma che, come Lucia Mascino, possa inveire sulla composizione floreale – a cui ha appena dato personale forma ed equilibrio la figlia Concita – per imprimere anche il suo tocco, ci può sempre essere. 

Ma tutti siamo figli: anche le madri, anche le nonne così come le psicologhe. E anche qui le interpreti – e particolarmente Alice Redini, con la  sua capacità  di saper rendere diversamente fertile lo smarrimento di figlia e quello di psicoanalista – ci tatuano addosso la sensazione che pur essendo stati  messi al mondo al di là della nostra scelta e plasmati da un imprinting che per molti anni siamo invitati a seguire, possiamo comunque fare qualcosa di proprio – e quindi nostro – di quello che gli altri ci hanno fatto.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo L’ ALBERGO DEI POVERI di Maksim Gor’kij – regia di Massimo Popolizio –

TEATRO ARGENTINA, dal 9 Febbraio al 3 Marzo 2024 –

Trova accampamento, in un plumbeo alloggio di tavole e materassi, una comunità di esseri umani emarginati (la cura delle scene è di Marco Rossi e di Francesca Sgariboldi; i costumi di Gianluca Sbicca).

Qui (quasi) tutto racconta uno squallore affollato e miserevole, terra fertile per il crimine, la violenza e l’ignoranza. 

Miracolosamente però convivono in questo “organismo avvelenato” – nonostante la prassi di mettere a tacere la coscienza con la vodka – la passione per la lettura e l’urgenza di imparare parole nuove. Per tentare, quasi inconsapevolmente, di trovare i modi per dire l’assurdo dello stare al mondo.

Perché nuove parole danno vita a nuovi pensieri. E in effetti, l’attività che affascina di più questa disperata comunità, oltre al gusto atavico per la sopraffazione, è il produrre e l’ascoltare racconti. Quella modalità cioè di stare “insieme” al mondo che tenta di dare forme al caos esistenziale, tenendo in vita ciò che rischia di venir dimenticato, o cancellato. 

La regia esalta mirabilmente questa coralità – che si può dare solo attraverso “tutte” le singole individualità – fino a farne un autentico elogio. Ne scaturisce un ensemble di musicalità visiva ed uditiva di magnifica armonia. 

E forse è proprio questo il messaggio più prezioso che accompagna lo spettatore anche fuori dal teatro: stare insieme raccontandoci ed ascoltandoci ci salva. 

Ci salva un umanesimo che può farsi spazio in questa vita al di la’ della tentazione fortissima a sopraffarci. Perchè il male è più atavico del bene e ci costituisce come esseri umani. Ma l’amore, che non riceviamo per natura, s’impara. Si può imparare anche attraverso l’arte della parola. 

Al di là di un dio distratto o indifferente alle nostre sorti, in noi si può rintracciare una spiritualità che nasce dal mettere insieme tutte le nostre singolarità. Si può fare. E il teatro non smette di ricordarcelo.

Ce ne dona uno splendido esempio Massimo Popolizio con la sua scelta registica d’ensemble ma prima ancora Emanuele Trevi che nel curare la riduzione teatrale della drammaturgia originale dona accoglienza anche a delle inserzioni letterarie tratte dalla nostra contemporaneità.

Perchè questo rende preziosa la storia e quindi le opere del passato: tornare a rileggerle alla luce dei nuovi tempi, per riuscire ogni volta a tradurne qualcosa in più, qualcosa che prima risultava intraducibile. 

L’albergo dei poveri è un microcosmo di umanità dove ci si soccorre nei corpi e nelle anime, nonostante tutto. È un luogo plumbeo, sporco e violento eppure non privo di una speciale purezza d’animo: quella che si raggiunge conoscendo le tenebre ed emergendone, come dice Luka (personaggio di cui un radioso Massimo Popolizio ne veste la luce delle ombre).

L’albergo infatti accoglie anche lui, il più forestiero dei forestieri: si fermerà solo di passaggio, come un pellegrino. Ma come un pellegrino errante, in viaggio verso luoghi sacri, non a caso (forse) sceglierà di fermarsi a fare tappa proprio nella “sacralita” di questo dimenticato albergo, illuminando le ombre che lo costituiscono. E lasciando traccia di un nuovo possibile umanesimo al di là della disperazione.

La sua partenza, più che un facile abbandono può essere letta come un prezioso messaggio: che non salva affidarsi a singole individualità idealizzandole. Salva avere fiducia nella varietà preziosa e imperfetta del gruppo, della comunità. 

L’albergo è un luogo dove possono avvenire comunque ogni giorno piccoli miracoli d’amore, di riconoscimento, di attenzioni. La cura dei movimenti scenici (di Michele Abbondanzaza), la drammaturgia luminosa (di Luigi Biondi) e il particolare disegno alchemico del suono (di Alessandro Saviozzi) ci accompagnano nel riconoscerli: di potente bellezza estetica e spirituale alcuni momenti della narrazione che ricordano l’iconografia caravaggesca: da ‘I bari‘ a “La vocazione di San Matteo“. 

Unire le nostre fragilità non dimenticando la speciale unicità di ciascuno è la proposta estetica ed esistenziale di questo necessario lavoro.

Con piacere se ne trova traccia anche nel libretto di scena, dove in prima pagina trova accoglienza il nominare tutte la miriade di presenze artigianali che contribuiscono al risultato finale dello spettacolo.

A distanza dalla prima rappresentazione di questo testo del 1902 per la regia di Konstantin Sergeevič Stanislavskij e dalla successiva del 1947 con la quale si inaugurò l’elegia di questo nuovo titolo e la nascita del Piccolo Teatro di Milano ad opera  di Giorgio StrehlerPaolo Grassi e sua moglie Nina Vinchi Grassi, questa nuova edizione del 2024 curata drammaturgicamente da Emanuele Trevi e registicamente da Massimo Popolizio ha il potere di raccogliere – e insieme attualizzare – tutta la potenza dell’eredità del testo originale di Maksim Gor’kij .



Recensione di Sonia Remoli