Recensione di ATOMICA – di Muta Imago – regia Claudia Sorace

– Uno spettacolo di Muta Imago –

Perché l’uomo continua a ostinarsi a credere prepotentemente nelle proprie capacità logico-razionali, realizzando sempre più potenti soluzioni tecniche “come se non ci fosse più niente al mondo”?

Quando poi queste sue creazioni, perversamente scientifiche, possono rivelarsi fuori misura per la sua umanità, non riuscendo a gestirne fino in fondo le conseguenze? 

(ph. Tereza Zelenkova)

Dall’atmosfera rarefatta di un fondale evocativamente magrittiano prendono forma, in scena, le incongruenze di un mondo parallelo, scomposto e ricomposto secondo moduli allucinati. 

Una sorta di “cielo in una stanza”, luogo fisico e della mente, dove nell’inquietante habitat delle parole di soddisfazione pronunciate dal Presidente Harry S.Truman sul continuo sviluppo tecnologico del potere distruttivo umano, riesce comunque a manifestarsi la genesi di una forza di attrazione, che inizia a legare due individui in una profonda relazione umana (il disegno delle scene è di Paola Villani).

Sono molto diversi fra loro: sono il filosofo e scrittore tedesco,  Günther Anders , cofondatore nel 1954 del movimento antinucleare, interpretato da un acuto e raffinato Alessandro Berti e il meteorologo e aviatore  Claude Eatherly,  che guidò la spedizione per lo sganciamento della bomba su Hiroshima, interpretato dal seducente polimorfismo di Gabriele Portoghese).

Eppure, nonostante la loro diversità, non mancano occasioni d’incontro, di punti di contatto, di fertili dubbi, di sane divergenze, rese qui in scena da un’efficacissima prossemica. Un incontro epistolare, il loro, visualizzato fascinosamente dalla regia di Claudia Sorace attraverso un linguaggio rituale di gesti coreografici, che alludono alla comunicazione mediata dalla scrittura.

Scrittura che, come una danza, grazie al prendere forma di una coesione relazionale apre alla costruzione di una propria identità, attraverso l’incontro “con il corpo della scrittura” dell’altro. Facendosi così occasione per il raggiungimento di un benessere psicofisico e quindi di una crescita personale.

Scrittura simbolo di un legame che attraversa lo spazio e il tempo: un atto riflessivo che dà vita ad una raccolta, che diventa memoria, archivio di vite e di relazioni. 

Raccolta che i Muta Imago sentono l’urgenza di indagare – rileggendola con il loro stare al mondo artistico – per arrivare alla scoperta di ciò che è importante recuperare per l’oggi, partendo proprio da ciò che rimane di un’esperienza passata.

Un’analisi del reale, la loro, che si dà attraverso la costruzione di una finzione artistica che muove dalle vere tracce che quel reale lascia dietro di sé. Qui il carteggio tra Günther Anders e Claude Eatherly raccolto nell’opera di Anders “Fuori dai limiti della coscienza. Lo scambio epistolare tra Claude Eatherly, pilota di Hiroshima, e Günther Anders”  (Off limits für das Gewissen. Der Briefwechsel zwischen dem Hiroshima-Piloten Claude Eatherly und Günther Anders“) del 1961.

Riccardo Fazi (drammaturgo/sound designer) e Claudia Sorace (regista)

Perché scrivere, sosteneva Kafka, “significa aprirsi fino all’eccesso” riuscendo a “toccare” tramite la parola quel silenzio intriso di senso che altrimenti non sarebbe stato nominato, espresso, tradotto.

Ce ne parla la scelta di quel gesto coreografico, amplificazione del gesto dello scrivere, che entrambi i protagonisti ripetono sulla scena. E che parla di noi: anche a noi può capitare di trovarci in una situazione simile, anche noi possiamo rimanere spiazzati dal divario che può intercorrere tra un nostro gesto e le imprevedibili conseguenze emotive.  Così come anche a noi è data la possibilità di recuperare quel relazionarci, attraverso la carnalità delle parole, proprio del carteggio epistolare. 

Günther Anders (1902 -1992) è un filosofo e uno scrittore tedesco per il quale la data del 6 agosto del 1945 segna una nuova condizione umana: è, per lui, “il giorno zero di un nuovo computo del tempo”. 

Anders è così colpito da come nell’uomo una poderosa capacità tecnico-progettuale non corrisponda ad un’adeguata capacità immaginativa, da farne il suo oggetto privilegiato di studio. Chiama questa “discrepanza” tra un immaginario umano debole e una prepotente costruzione di oggetti, sistemi, macchine, ‘dislivello prometeico’.

Quello a cui progressivamente si sta dando forma dagli anni Cinquanta del Novecento, osserva Anders, è un mondo in cui diventa sempre più difficile per l’uomo essere all’altezza del Prometeo che è in lui, perché ciò che gli si chiede è esorbitante rispetto alle capacità della sua fantasia, delle sue emozioni e soprattutto del suo sentirsi responsabile.

In un mondo dove la tecnica «è ormai diventata il soggetto della storia», la discrepanza tra le attività umane e quelle dei suoi dispositivi è diventata maggiore da quando gli strumenti sono stati sostituiti da macchine dotate di una certa autonomia. Macchine che finiscono per rendere l’uomo “antiquato”, finanche superfluo, non potendo più far fronte emotivamente e cognitivamente ai vincoli pratici ed etici che esse comportano.

Quel cielo infatti che il giovane Eatherly deve ben scrutare per far sì che ci siano le condizioni “tecniche” per poter sganciare la bomba atomica è un cielo paradossalmente azzurro: magrittianamente reale e impossibile. Ma l’essere umano, a furia di vedere nella tecnica un’ossessione di potenza, fatica a cogliere attraverso il proprio potere immaginativo l’inganno insito nei pensieri che guidano le sue azioni. Finendo per perderne anche il senso di responsabilità. L’uomo è diventato – dice Anders – “pastore degli oggetti” (“Objektenhirt”) responsabile, ormai, solo della loro manutenzione. Il sogno umano dell’onnipotenza si sta trasformando nel suo contrario: gli uomini hanno il potere di porre fine al mondo e dunque sono diventati i “padroni dell’apocalisse”. 

“La condizione umana”, Renè Magritte

Ecco allora che chiedersi che cosa è tecnicamente possibile e cosa la mente umana può immaginare e sostenere, rileva una discrepanza che si collega poeticamente a quel cosa è vero e cosa non lo è insito nelle opere di Renè Magritte intitolate “La condizione umana”. Dove «la menzogna fa parte dello statuto di ogni rappresentazione» e intento dell’artista è quello di privare lo spettatore delle proprie certezze, per spingerlo a riflettere sulla “propria condizione”. 

Proprio come ci invitano a fare i Muta Imago con questo interessante lavoro.

Quando quindi Anders viene a conoscenza della notizia che Claude Eatherly non riuscendo a posteriori a sostenere il peso emotivo del suo gesto di ok allo sgancio della bomba atomica (peso aggravato dalla diversa percezione del gesto da parte di tutti gli altri, che lo accolsero invece come un eroe) inizia a compiere furti, tentare il suicidio, abbandonare la famiglia fino ad essere rinchiuso a tempo indeterminato nell’ospedale psichiatrico militare di Waco, Anders prova l’irresistibile trasporto di contattarlo, inviandogli una lettera. La prima di un lungo carteggio: era il 3 Luglio del 1953.

E’ una lettera decisamente energizzante e motivante, come tutte le successive: il suo errore – gli scrive Anders – e il successivo ravvedimento possono diventare un esempio per tutti, essendo ognuno di noi potenzialmente capace di commettere un errore di valutazione simile. Molto suggestiva l’idea di visualizzare questo concetto rendendo visibile l’Altro proprio all’interno dell’ombra di Eatherly (la direzione tecnica e il disegno luci sono curati da Maria Elena Fusacchia).

Eatherly, abituato a ricevere solo lettere di consolazione, sente di essere compreso da Anders come da nessun altro. E decisamente efficace si rivela l’idea di portare lo spettatore nello spazio della mente di Eatherly anche attraverso la costruzione simbolica di una mappa neuronale luminosa. 

La regia di Claudia Sorace e la drammaturgia di Riccardo Fazi – alla quale collabora anche Gabriele Portoghese e Paolo Giordano ne fornisce una consulenza letteraria – non mancano infatti di portarci a scoprire le diverse anime che abitano la psiche di Eatherly: la tendenza a “sagomarsi” quasi come un redentore; quella a lasciarsi guidare da una sorta di “febbre”, per dare spazio attraverso la danza ad una dimensione creativo-immaginativa e quella “diabolica” attratta dalla dismisura. Perché di tutto questo siamo fatti, come Eatherly.

Sarebbe interessante poi, scrive ancora Anders nelle sue lettere, far sapere all’opinione pubblica come ora Eatherly riconsideri il suo gesto: da qui la decisione comune di pubblicare il loro carteggio. Perché questo recupero di un’umanità personale risulta prezioso anche per un possibile recupero da parte della collettività.

Anders allora aiuta Eatherly a rinvenire tracce fertili dalle rovine della propria vita e contemporaneamente immagina e concretizza soluzioni pratiche per salvarlo dal suo destino. Diffondendo insieme anche un messaggio di pace tra gli esseri umani. 

Perché, come sosteneva il filosofo Hans Jonas (1903-1993) nel suo testo più noto Il principio responsabilità – Un’etica per la civiltà tecnologica (1979), l’uomo autentico non è quello ideale e perfetto dei sogni utopistici. Che quando si realizzano, peraltro, producono solo danni. Perché fanno capo ad un atteggiamento «immodesto», fondato su un’idea di benessere e abbondanza come derivati dal progresso tecnologico, per cui sapere è potere. Non la speranza utopistica in un uomo ideale quindi deve guidare le nostre scelte, ma piuttosto la paura, ovvero la consapevolezza della necessità di porci un limite. Per evitare l’apocalisse.

Anche Hollywood si interessa alla storia di Eatherly e gli propone un film su di lui. Ma Anders gli consiglia di iniziare lui stesso a scrivere le sue memorie, partendo proprio da ciò che di prezioso resta nelle sue rovine esistenziali, recuperabile attraverso un profondo lavoro di analisi e di scavo interiore. Una forma di cura e di intelligenza che aiuta a conoscere meglio se stessi.

Uno spettacolo, questo dei Muta Imago, dal quale ci si sente avvolti, avviluppati, travolti, trascinati. Complici le musiche originali di Lorenzo Tomio e la cura del sound design di Riccardo Fazi.

E che predispone lo spettatore a riflettere sui lati oscuri del nostro attuale stare al mondo: merito della sinergia tra luce, suono e spazio che contribuisce a creare una percezione, e quindi una costruzione di significato, davvero intrigante.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione di OLTRE – ideazione e regia Fabiana Iacozzilli

– Come 16+29 persone hanno attraversato il disastro delle Ande –

DRAMMATURGIA

Linda Dalisi e Fabiana Iacozzilli

Tutto è respiro, il respiro è tutto.
Questo di Fabiana Iacozzilli è un racconto di respiri.

Un racconto di come il ritmo del respiro può generare gesti che prima ha immaginato. 

Un racconto delle tracce che il respiro lascia sui finestrini di quel che resta di un luogo accogliente, divenuto passaggio verso una nuova mèta: la fusoliera dell’aereo del volo 571 dell’aeronautica militare uruguaiana, che trasportava i membri della squadra di rugby Old Christian Club, alcuni amici e familiari. E che il 13 ottobre del 1972 si schiantò sulle Ande.

Un racconto delle tracce che il respiro lascia nelle parole di chi c’era e c’è ancora. Parole che attendono di essere ricordate, ricercate, riesplorate. Per far sì che si esprima ciò che ancora non è stato colto. Come sempre lascia fare il passato.

La regia della Iacozzilli ci riporta allora a quel momento: a immaginare, immersi nel buio, di essere a bordo. Lascia parlare il suono del motore del veivolo, che ad un certo punto stona e poi s’infrange.

E poi “ci vediamo” in quello che appare in scena: una sublime rappresentazione iconografica di corpi traumatizzati, irrigiditi. E, insieme, friabili.

Ma a riemergere riesce il respiro, il soffio vitale, il desiderio. E’ meravigliosamente visualizzato dai performer Andrei Balan, Francesco Meloni, Marta Meneghetti, Giselda Ranieri, Evelina Rosselli, Isacco Venturini, Simone Zambelli che fanno vivere i puppets, regalando loro tutte le variazioni dell’impeto e della ritrosia; della delusione e dell’entusiasmo, della cura e della paura. “Le vediamo”, queste variazioni emotive: quasi fino a toccarle, tanto sono ricche in espressività. 

C’è cura, c’è soccorso, c’è conforto, tra i sopravvissuti: ci si assist-e. E’ una particolare partita quella che prende forma: questa volta tra la vita e  la morte. E, ci sarà in qualche modo anche un ”terzo tempo”.



Sulla scena si delineano due squadre: da un lato i superstiti, dall’altro i morti. Questi sono a terra, quasi come in “un ruck”. Gli altri sono sofferenti ma ricchissimi in espressività. Sguardi, i loro, di cui si colgono finanche i sottotesti. La sinergia tra la surreale disponibilità delle sculture di Paola Villani e il sensibile contaminarsi con esse dei performer, e’ davvero di sconcertante bellezza. Una magia.

“Quando sei a 4.500 metri” – racconta un superstite in un contributo audio – la mente rallenta e il cuore impenna. Si perdono le coordinate del reale e ci si sente come in un sogno.

Il freddo invece resta reale e fa tremare. Così come i morsi della fame. E pure il rumore di un aereo che sorvola sopra le loro teste. Ma come fare ad uscire dal “sogno” per farsi notare? Allora ciascuno immagina, ciascuno gioca il proprio ruolo, tutti “uniti” per raggiungere un’insolita mèta.

C’è poi chi trova una radio e tutti – ognuno con un proprio assist – concorrono a far sì che funzioni. E poi, ancora, tutti a capire come eliminarne le interferenze. Ignari di andare incontro all’ascolto proprio della notizia dove si dichiara la chiusura delle ricerche su di loro. 

Stringe il cuore “vedersi” in loro: vedere nei loro occhi e nelle loro posture la frustrante delusione.
Ma è un attimo. Che lascia spazio alla fiera consapevolezza che ora la responsabilità della propria salvezza è tutta nelle loro mani. Serve immaginare ora: serve riuscire a vedere con la mente quello che si cerca, che si desidera. Serve “passarsi” la speranza dell’immaginare, come se fosse una palla ovale. Serve immaginarsi una ritualità del fare: serve una nuova partita.

Ed è così che ogni giorno – raccontano – sembrava di rinascere: ogni giorno con la sensazione di aver superato un limite impossibile. Molti di loro hanno meno di vent’anni, nessuno ha mai scalato una montagna, anzi la maggior parte di loro è gente di mare che non ha mai visto la neve. 

Ma servono assolutamente anche delle proteine: i pochi cibi messi in comune finiscono e si cerca di assecondare l’illusione di masticare qualcosa provando con le suole delle scarpe, con la pelle degli accessori. 

L’essere umano si abitua a tutto. Anche a cercare e a trovare Dio “fuori da se stessi, per poter aiutare anche Lui”. Scegliendo di cantare tutte le volte che si ha paura. Cosicchè, nonostante tutto, si possa continuare ad immaginare una mèta.

Anche quando “ci si vede” come un puntino. Anche quando per capire di essere vivi si cerca la propria ombra. Anche quando guardando l’altro per averne cura, si prova terrore specchiandosi nella sua tentazione a mollare. 

Una segreta consapevolezza però li sostiene: quella che “ciascuno fa dell’altro un uomo migliore”. E che verso la civiltà si può riuscire ad arrivare insieme. “Insieme”, come insegna il rugby. 

Ed è così che alla fine in 16 riescono a salvarsi. Ma solo perché “sono insieme” agli altri 29. Una modalità, un “come”, che la Iacozzilli sottolinea con efficacia già dal sottotitolo.

Come un vero collettivo, i ragazzi infatti prendono, dopo alcuni giorni dal disastro, la decisione di mettere ciascuno a disposizione del gruppo i propri corpi. Anche una volta che il proprio respiro si sarà separato dal corpo: per poter continuare così a giocare ancora “con” la squadra il proprio ruolo. “Sostenendo” cioè chi riuscirà a continuare a tenere unito il respiro al corpo, portando avanti la mèta. 


Una storia così vera, che nessuno riesce a dimenticarla.

Una filosofia vitale la cui essenza è alla base dello stesso rugby. Perché una delle caratteristiche più distintive di questa disciplina è la sua natura inclusiva, che predispone alla creazione di comunità solide e unite: attraverso la passione condivisa per il gioco che sa andare “oltre” la squadra.

Passarsi la palla vuol dire infatti che da solo non ce la puoi fare, ma che avanzi solo se riesci ad avere una solida intesa col tuo compagno e ad essere il suo sostegno se scatta lui in avanti. Nel rugby il leader non esiste, perché è con l’aiuto di tutti che è possibile arrivare in mèta.

Consapevoli che “il mondo va avanti grazie a quei pazzi, che immaginano cose impossibili”. Insieme.

Come quella di non arrendersi, finché non si riuscirà a raggiungere la civiltà. Insieme.

E la civiltà arriva. E qui, in scena, è l’incontro con noi della platea.

Un incontro che ci permette di ri-esplorare “insieme” come si attraversa un disastro: un evento che parla della vulnerabilità dell’essere umano di fronte a forze incontrollabili, siano esse naturali o provocate dall’uomo.

Un evento che si dà prepotentemente – per un’avversità degli astri – come un punto di svolta che costringe a ripensare il futuro, la gestione delle risorse, le priorità. 
E che diventa parte della memoria collettiva contribuendo a plasmare l’identità di una comunità, con un forte impatto psicologico ed emotivo.

“In quel fuori radicale, dove non ci sono le condizioni per la vita e solo ci si arriva per colpa di una forma di violenza verticale, si palesa la domanda sull’arrivo dell’uomo all’esistenza (Gabriel Galli).


Una domanda che si fa strada nei frangenti più oscuri della vita: quando la vita prende le sembianze di una tragedia. Una tragedia dove non valgono più le regole che ci siamo costruiti con la mente, ma entrano in gioco quelle dettate dal corpo. E dalla capacità di immaginare.

Fabiana Iacozzilli




Cifra stilistica estetica e poetico-filosofica dell’autrice e regista teatrale Fabiana Iacozzilli è il suo darsi attraverso la “contaminazione”: un andare “oltre”, il suo, verso una generosa accoglienza di fertili diversità. 

“Contaminare” significa infatti andare al di là del dictat della purezza: fondendo, incrociando, “sporcando”. Rendendosi duttili e pronti ad entrare in relazione con nuovi habitat.

“Contaminare” significa “evolversi”, anziché estinguersi chiudendosi al diverso. 
“Contaminarsi” significa “vivere insieme”.

Come ci racconta questa potentissima storia di sopravvivenza, di metamorfosi e di rinascita. Dove la Iacozzilli, per riuscire a raccontare che tipo di filosofia di vita prende forma all’indomani di un disastro, contamina la narrazione scenica, con i linguaggi visivi e la ricerca documentaria; il teatro di figura con le voci delle testimonianze. 

Ed è così che – attraverso la complicità della splendida drammaturgia di Linda Dalisi, dei sette performer e dei puppets progettati da Paola Villani – lo spettatore giunge a contattare l’esperienza umana attraversando tutte le profondità delle sue falde sotterranee. “Oltre” ogni comprensione logica. Con amore.

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Recensione di Sonia Remoli


Recensione a LA DIVA DEL BATACLAN – regia, drammaturgia e liriche Gabriele Paolocà

Musiche originali Fabio Antonelli

con Claudia Marsicano e con Gabriele Correddu


Lo spettacolo si apre con la pronuncia di una sentenza di colpevolezza verso colei che si è spacciata come una sopravvissuta alla strage del Bataclan del 13 Novembre 2015.

A lei si ispira l’irresistibile Audrey di Gabriele Paolocà, interpretata da una candida e perturbante Claudia Marsicano, che incanta lo spettatore con il suo caleidoscopico appeal. E con una voce da sirena di Ulisse, che sa raggiungere profondità segretamente orrorifiche.

(ph. Manuela Giusto)

Per la Legge dello Stato lei è uno sciacallo: una donna che si è approfittata di un trauma collettivo per trarne profitto personale.

Per la legge dell’umano stare al mondo – sulla quale l’autore e regista Gabriele Paolocà investiga con sollecita cura – Audrey è anche una donna tentata dall’opportunità, in qualche modo offerta dai social, di cogliere l’occasione di continuare a crearsi una nuova identità (ma non più in solitaria), per poter essere – ora finalmente – oggetto di quelle attenzioni da sempre a lei negate. 

Gabriele Paolocà

Con acuta genialità Paolocà immagina e mette in scena un sistema concentrico di cortocircuiti drammaturgici, per arrivare a solleticare lo spettatore laddove meno se lo aspetta. E lo fa provocando quei continui cedimenti emotivi, che sanno smuovere le prime considerazioni dello spettatore sul modo di reagire di questa giovane donna.

Un personaggio ispirato al fenomeno delle cosiddette “false vittime” fiorite, successivamente al trauma collettivo del 13 Novembre 2015, quando Parigi fu colpita da una serie di attentati terroristici di matrice islamica, poi rivendicati dall’Isis. Il più sanguinoso e tristemente noto dei quali, avvenne al Teatro Bataclan, dove era in corso il concerto del gruppo americano «Eagles of death metal»: vi morirono novanta persone.

La solidarietà e l’attenzione con le quali per la prima volta furono investiti i sopravvissuti, i parenti e i conoscenti delle vittime, grazie al clamore mediatico, sollecitarono nell’animo umano reazioni di partecipazione emotiva di varia intensità. Non ultima, una sorta di cortocircuito emotivo tale che, per alcuni, coloro che furono toccati da vicino da tale tragedia divennero occasione di invidia.

Attraverso la sua appassionata indagine, Gabriele Paolocà ci invita a prestare attenzione a questa insolita reazione – ma in dosi omeopatiche presente nelle corde di ogni essere umano – accompagnandoci nel conoscerla meglio: andando un po’ più in là della prima analisi dei fatti.

Per “seguire” Audrey occorre infatti “accettare la sua amicizia” osservandola più da vicino: scendendo sotto la prima impressione che ci suscita e iniziando ad averne cura. Cioè immaginando di “avere a che fare” con lei. Mettendo così in campo la possibilità di un secondo sguardo che – proprio come una seconda chiave di lettura – ci può permettere di aprire varchi, che altrimenti rimarrebbero chiusi. 

Ed è allora che Audrey inizia con l’arrivarci anche come un personaggio dalla verve shakespeariana: che fino al momento della strage vive la sua quotidianità di bambina e di ragazza “seguendo” e assecondando la fulgida musa della fantasia. Per esistere e resistere alle brutture di un passato familiare di deplorevole violenza.

“Seguendo” l’invito shakespeariano, lei riesce infatti a vedere, ad esempio, la mamma come una duchessa e le lenzuola, dalle quali mai si separa, come una dorata distesa di grano.

Finché crescendo non entra in scena lui: il computer e la rete di “connessioni” e di “sguardi” offerti dai social network.

Ora la valvola di esistenza e di resistenza del raccontarsi attraverso la lente della fantasia shakespeariana assume nuovi connotati.

Ora la rete social permette al suo personaggio shakespeariano di varcare quel sipario, dove prima era come in solitaria attesa, dietro le quinte.

Ora, pirandellianamente, il suo personaggio in cerca d’autore incontra la complicità pubblica offerta da altri “sopravvissuti”. Anche loro colpiti da vicino da una forma di violenza e in attesa di elaborare un lutto familiare. 

(ph. Manuela Giusto)

Ed è così che, in un continuo e fertile attentato ai rigidi principi di identità e di non contraddizione e di causa-effetto propri della logica, Gabriele Paolocà  ci porta a sentire il fascinoso bilico del nostro stare al mondo.

Lo fa mandando in scena una concatenazione di cortocircuiti drammaturgici, che coinvolgono sinergicamente la regia, la drammaturgia e le liriche (di sua cura), così come la composizione delle musiche (di Fabio Antonelli), lo spazio scenico (di Rosita Vallefuoco), il disegno delle luci (di Martin Emanuel Palma), la drammaturgia fisica (di Carlo Massari), i costumi (di Anna Coluccia).

(ph. Manuela Giusto)

Nello specifico ci ritroviamo coinvolti in cortocircuiti come quello che scaturisce dal contatto tra l’innocua briosità del musical e l’efferatezza rock della tragedia; oppure dal contatto tra l’ingenuità di una bimba mai riconosciuta nel suo esistere e la perversione del suo chiedere (e ottenere) attenzione da patologica manipolatrice narcisista. Ma ci ritroviamo coinvolti anche nel cortocircuito che scaturisce dal contatto tra la realtà da rifiuto organico delle origini di Audrey e la sua abilità trasformativa capace di fare, ad esempio, del suo letto, un vitale luogo d’incontro con la fantasia.

E poi il cortocircuito finale: quello che paradossalmente passa dalla fulvida fantasia shakespeariana, all’eccitante occasione d’incontro offerta dalla postazione pc.

(ph. Manuela Giusto)

Cortocircuito ben visualizzato anche cromaticamente da quel rosa morbidamente immaginifico, che diviene poi brillante e impudentemente shocking lasciandosi attrarre dalla scabrosità del nero. E che ci parla di ciò che “esiste” ma soprattutto di ciò che “resiste” (nel bene e nel male) nel nostro stare al mondo di esseri umani.

Lei, Audrey, un Amleto dei nostri giorni che – in bilico tra l’essere e il non essere – è portata a scegliere di esserci non essendoci.

E se l’inizio dello spettacolo si apriva con una lapidaria condanna alla quale con soddisfazione aderivamo, alla fine dello spettacolo qualcosa vacilla nel giudizio iniziale. Qualcosa è cambiato. E ci arriva la sensazione che essere rigidamente al sicuro nelle nostre idee, ci “acceca” nella capacità critica. E umana.

Questa generosa faglia si verifica perché “nel mentre”, ovvero tra l’inizio e la fine dello spettacolo, Gabriele Paolocà – con la complicità di Claudia Marsicano e di Gabriele Correddu (un intrigante servo di scena nonché fulgente personificazione della musa della fantasia) – attenta costruttivamente i nostri confini difensivi.

Proponendoci , attraverso questa sua indagine drammaturgica, la testimonianza di un possibile “stare insieme aperto”. 

Un fare comunità cioè dolce e devastante, perché racconto di un insieme distinto, che partecipa di un valore che è insieme onere e dono. 

Un fare comunità che si basa sul tenere viva l’attenzione su “ciò” e “chi” è stato e ora non è più. Ma che resta. Grazie alla diponibilità di accettare di parlarne in tanti modi differenti.

Un fare comunità realizzabile attraverso un uso sempre migliore dell’apertura critica offerta dalla cultura. E quindi anche dal Teatro.

Perché, per noi esseri umani, “non è possibile esistere, se non in rapporto all’Altro”.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo UCCELLINI – di Rosalinda Conti – regia Lisa Ferlazzo Natoli, Alessandro Ferroni – un progetto lacasadargilla

TEATRO VASCELLO, dal 9 al 13 ottobre 2024

ROMAEUROPA FESTIVAL, dal 4 Settembre al 17 Novembre 2024

Immersi nell’ombra più che nella luce, con la sensazione che stia prendendo forma un rituale, ci viene versata nell’orecchio una confidenza che apre e poi chiuderà circolarmente questa cerimonia: “Provare a immaginare …”.

Due parole magiche che alludono alla nostra possibilità di essere capaci di dare vita a nuovi inizi, ispirati dal rispetto per l’habitat naturale che ci ospita. E che è la nostra prima casa, la nostra prima famiglia.

Petra Valentini, Emiliano Masala

(ph. Claudia Pajewski)

Protagonista principale di questo racconto – ma anche della vita – è infatti proprio l’habitat naturale. Qui, nello specifico, un bosco. Con i suoi alberi secolari, i cui rami e le cui chiome sono il primo grande abbraccio sul qual possiamo contare; con i suoi uccelli: creature dalla voce melodiosa, che sanno comporre così bene contrappunti ai nostri pensieri; con tutte le specie di animali che si muovono sulla terra.

E poi ci siamo noi: ospiti accolti in questa enorme famiglia da cui dipendiamo. Lei infatti può continuare ad esistere senza di noi. Lo stesso non possiamo dire noi. Questo è il primo imprinting che riceviamo ma dal quale poi siamo tentati ad allontanarci, fino ad abbandonarlo.

Emiliano Masala, Petra Valentini, Francesco Villano

(ph. Claudia Pajewski)

Di un nuovo inizio e quindi di una nuova possibilità sembra aver bisogno il piccolo habitat familiare, che gravita intorno ad una casa costruita in questo bosco. E poi abbandonata: una casa che è tornata a seguire l’imprinting della natura. Il tempo è tornato ad essere scandito dal diverso tipo di luce che bagna le varie fasi del giorno; i ritmi di vita sono di nuovo accoglienti, tolleranti.  Un po’ trasandati, diremo noi ossessionati dal mito dell’efficienza a tutti i costi. Un imprinting naturale al quale si sta rieducando il fratello minore, di quel che resta di una famiglia.

Perché proprio dall’habitat naturale possiamo tornare a riscoprire l’importanza che nella vita rivestono la morte e il relativo periodo di lutto. Perché la vita per essere viva, vibrante, ricca in desiderio, ha bisogno di vicinanze e di distacchi. E fin dall’inizio ogni distacco necessario alla crescita è un po’ come un piccolo lutto: lo è il separarsi dall’utero materno; la fine della simbiosi tra mamma e bambino così necessaria nei primissimi anni; lo è l’inserimento in un’altra piccola comunità com’è quella del nido; lo è il confronto necessario per costruire relazioni con altri modi di essere bambino. E poi adolescente: piccolo-grande lutto che più degli altri pone l’attenzione sul succedersi delle generazioni. Qualcosa di simile regola la vita di ogni habitat.

Emiliano Masala, Francesco Villano

(ph. Claudia Pajewski)

Ma è l’habitat naturale il primo ad insegnarci l’arte della vita: quell’arte dell’ospitare che è una danza di vicinanze e di distacchi. Di cui si fanno testimoni i genitori, imparando ad ospitare nella loro vita quella dei figli.  Proprio come il giorno ospita la notte e la notte il giorno.

In questa vita fatta di ospitalità diventa importante l’ascolto, l’attenzione a tutti i piccoli miracoli che si verificano generosamente ogni giorno e che sanno sedurci con pazienza: aspettando che la nostra consapevolezza arrivi quando nel distacco ci separiamo quel piccolo miracolo. Sono melodie come quelle che caratterizzano ciascuna famiglia di uccelli; sono odori come quello delle pere, ad esempio, che i due fratelli ricordano una volta ritrovatisi a reiniziare nella loro casa d’origine. Proprio quella casa che avevano solo voglia di dimenticare, di rimuovere, di bruciare addirittura. 

Ma in nessun modo si può riuscire a bruciare quell’odore delle pere: quelle che si faceva a gara a possedere scommettendo su chi riusciva a contarle tutte. E nessuno vinceva. Ma in quel tendere a contarle, proprio lì, era il gusto, il sapore, il profumo. Delle pere. E della vita. 

Francesco Villano, Emiliano Masala, Petra Valentini

(ph. Claudia Pajewski)

Arriva poi in questo habitat un’altra ospite: Anna. L’unica figura femminile, apparentemente l’unica in presenza ma, si sa, niente è più presente di un’assenza. E sarà grazie alla sua capacità femminile, più incline alla relazione, che riuscirà a fare da cassa di risonanza ai due fratelli verso la meraviglia della vita, colta nella sua essenza di ospitalità. Nel suo essere danza di vicinanze e di distacchi.

Sarà lei a dare avvio a un nuovo inizio, a un nuovo e rinnovato senso di ospitalità. A un nuovo nido da poter edificare in accordo con Matilde (la sorella dei due fratelli) proprio nella sua chioma.

A fare gli onori di casa ai nuovi ospiti, sarà poi un’altra presenza femminile, scesa dai boschi. O forse da sempre lì, attenta ad osservare tutto. Anche noi del pubblico.

Uno spettacolo, una meraviglia, a cui si partecipa con stupore. Sentendo come la vita nasca davvero da un “provare a immaginare …”.

Petra Valentini

(ph. Claudia Pajewski)


Recensione di Sonia Remoli