Recensione dello spettacolo TOTALE – con Gioia Salvatori e Andrea Cosentino -drammaturgia e regia Pier Lorenzo Pisano –

TEATRO BASILICA

dal 27 Febbraio al 9 Marzo 2025

La coppia é un “pianoforte”: un caleidoscopio sonoro. Una danza tra tasti neri e tasti bianchi, la cui portata è senza confini. Un diario musicale inciso da emozioni, sogni e aspirazioni vitali.

La coppia è un ponte tra anime ed epoche: uno strumento che, come il pianoforte, ci parla della nostra continua ricerca a connetterci con noi stessi attraverso l’altro. I tasti neri, infatti, non hanno un nome fisso: dipendono dalla relazione con le note bianche “vicine”.

Il tema del pianoforte, e della “vicinanza” tra tasti e identità, è la forza di attrazione dalla quale prendono forma non solo gli straordinari habitat scenografici di Rosita Vallefuoco, coordinati ai costumi di Raffaella Toni. Con estrosa genialità, tutto lo spettacolo ci parla della complessità del “concertarci” con l’altro. Incontrandoci sul confine, che vorrebbe solo separarci.

Ne parla l’efficace e accattivante sinergia tra la drammaturgia e la regia di Pier Lorenzo Pisano; ne parla la stuzzicante interpretazione attoriale di Gioia Salvatori e di Andrea Cosentino, capace di visualizzare intrigantemente la continua tentazione a staccarsi dal mantenersi in relazione con l’altro, desiderando ciascuno “avere tutto” – la totalità del proprio desiderare, appunto.  

Gioia Salvatori – Andrea Cosentino

Ma il nostro stare al mondo non prevede la possibilità di “avere tutto”, né di “essere tutto”: siamo esseri finiti e incompleti che vivono di relazioni che – al di là del facile concretizzarsi in rapporti di potere e di sottomissione – anelano alla valorizzazione delle diversità di ognuno. In un equilibrio, sempre nuovo, di disponibilità ad aprirsi in una danza di passi, di reciproco incontro con l’altro. Cercando cioè un equilibrio sempre nuovo tra il guidare, il cedere il passo e il seguire l’altro, sul piano-forte di quella danza propria della vita di relazione.

Andrea Cosentino – Gioia Salvatori

In scena ieri sera al Teatro Basilica (fino al 9 marzo p.v.) la storia di una coppia che non si rassegna alla fine della loro relazione amorosa e che cerca, in diverso modo, di salvare l’investimento esistenziale elargito. Perché anche la fine può essere “vicina” ad un nuovo inizio.

Lei, più riflessiva e più seducentemente lenta, prova a recuperare la magia dell’incontro iniziale; lui, più impaziente e più concreto, rintraccia ed esibisce la certificazione dei momenti felici, che non andranno persi perché trascritti, come beni acquistati e acquisiti, su scontrini. 

Pier Lorenzo Pisano, autore e regista dello spettacolo “Totale”

Un’interessante drammaturgia, questa di Pier Lorenzo Pisano, che riattualizza per certi versi “Il diario di Adamo e Eva“ di Mark Twain, proponendone insieme un avanzamento.

Erotico non è solo “il sentire” di una coppia, come sostiene la Eva di Pisano, una fantasmagorica Gioia Salvatori, dalla sconfinata comunicazione visiva. Erotico è lo sguardo sul mondo, a cui ogni coppia dà forma. Intriso di eros, cioè, è un nuovo mondo edificato dalla coppia, dal quale ci si congeda – al termine di una storia – elaborandone necessariamente il lutto. 

Gioia Salvatori

Lutto che qui prova a trovare concretizzazione nella rievocazione e nella trascrizione su carta dei loro momenti di felice e insensata relazione, ancorati dall’Adamo di Pisano – un Andrea Cosentino irresistibilmente tramortito dalla multiformità del femminile – all’insostenibile solidità propria degli oggetti. Una mimica e una gestualità anche verbale, le sue, che incantano, nel loro tentativo di dare un margine, un confine netto, e quindi ricco in tagli, alla poliformità del femminile.

Incontrarsi e’ un evento imprevedibile, fascinosamente insicuro, che chiede di essere disponibili “a fare una voltura”.  Non è quindi ricreabile a tavolino e con buona volontà, come prova a immaginare la Lei di Gioia Salvatori, terrorizzata dall’idea di soffrire. 

Piuttosto l’incontro è quel qualcosa di così inaspettato che arriva, ad esempio, nel lasciarsi suonare e poi cantare da una melodia senza parole. Un liquido flusso onomatopeico, dal quale può nascere una nuova forma. Di noi.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione LA LEGGENDA DEL SANTO BEVITORE di Joseph Roth – con Carlo Cecchi – adattamento e regia Andrée Ruth Shammah –

TEATRO INDIA

dal 25 Febbraio al 2 Marzo 2025

Piovono lacrime sul viso di Parigi. 

Sono raccolte da un fazzoletto, che una giovane donna in proscenio ripiega come aprendo un sipario, che svela l’interno di un café parigino.

Lei, la donna (interpretata da Claudia Grassi), ha appena “incontrato” un piccolo libro, che rapisce immediatamente la sua attenzione. E, al suo voltar pagina, l’elegante estro registico della Shammah fa corrispondere la seduzione di un sipario che si apre sul vissuto di quel libro. 

Al bancone del bar dal sapore hopperiano (lo spazio scenico è disegnato da Gianmaurizio Fercioni con le suggestioni visive di Luca Scarzella e Vinicio Bordin), un avventore infatti sta ultimando di scrivere proprio quel piccolo libro che la donna sta iniziando a leggere: “La leggenda del santo bevitore” di Joseph Roth.

C’è un filo di stupefacente bellezza con il quale Andrée Ruth Shammah imbastisce l’impalcatura di questo spettacolo. Consegnando allo spettatore un manufatto dalle rare finiture simboliche.

La Shammah individua diversi tessuti drammaturgici, con affini trame esistenziali, sui quali passa, con questo filo di stupefacente bellezza, punti che – come ponti – avvicinano i lembi dei differenti tessuti scelti.  

Nello specifico, la Shammah confeziona un adattamento incentrato su un’originale struttura a chiasmo: laddove il tessuto autobiografico dell’autore Joseph Roth confluisce nel vissuto del personaggio letterario di Andreas Kartak; qui, nel (suo) Andreas Kartak confluiscono sia il personaggio che lo stesso autore Roth. 

Andrée Ruth Shammah

L’operazione di alta sartoria registica è resa possibile grazie alla stoffa, dallo stile ricco in contraddizioni, del grande maestro Carlo Cecchi. Attore di giocosa e inquieta sperimentazione che parla di sé in prima persona (in quanto personaggio) e in terza persona (in quanto Roth, l’autore). “Non siamo il poeta, ma il poema” – direbbe Jacques Lacan -perché, più che autori, risultiamo essere attori di un copione. E voltare pagina è l’esercizio più complesso da portare a termine”. Straordinaria risulta la restituzione di Cecchi nel dare corpo ad “un personaggio” dal temperamento “sbriciolato” e ad un autore “poeta moderno del vuoto” dalla straordinaria musicalità ironica .

Giovanni Lucini – Carlo Cecchi

Sostenuto dal complice ascolto del barista (interpretato da Giovanni Lucini), “l’autore” confluito nell’Andreas di Cecchi gli racconta e ci racconta – aprendosi in una postura dalla torsione sempre più accogliente – la leggenda che ha appena finito di scrivere. La sua narrazione trova un incantevole contrappunto nella sottolineatura di quelle frasi, dalle quali il barista e la giovane donna, ora seduta ad un tavolo, si sentono letti. Questo “miracolo” accade quando l’incontro con un libro ci seduce come il corpo dell’amato. E ci trasforma. Perché si rivela “un incontro fortunato, in cui il lettore trova nelle pagine anche pezzi di se stesso”, scoprendo qualcosa di più di sè. “Perché noi stessi in fondo siamo un libro che attende di essere letto” (da “A libro aperto, una vita è i suoi libri” di Massimo Recalcati).

Giovanni Lucini – Carlo Cecchi

La Shammah sceglie di ospitare questo particolare modo di stare al mondo, in uno spazio scenico con il vissuto del Teatro India di Roma: una ex fabbrica di saponi e solventi Mira Lanza, che è riuscita a resistere alle tempeste della vita, riconoscendo incontri fortunati dai quali si è lasciata leggere, trasformandosi in “fabbrica del teatro di domani”. 

Teatro India

Ora, questa varietà di tessuti drammaturgici, come si anticipava all’inizio, sono imbastiti dalla regista Shammah attraverso quel filo di stupefacente bellezza rappresentato dalla spiritualità estetica della Santa Teresa di Lisieux, co-protagonista de “La leggenda del santo bevitore”. 

Fu lei, in vita, ad inaugurare con una fertile intuizione teologica “il teatro” esistenziale e religioso “della piccola via”: il teatro della bellezza – e non solo della sventura – di essere piccoli e imperfetti. Perché è con la consapevolezza e la fiducia in questa condizione esistenziale – con la quale non ci si ostina a cogliere tracotantemente “il tutto” ma ad accogliere con vibrante gratitudine “particolari” del tutto – che la misericordia di Dio può manifestarsi. 

Teresa di Lisieux

Una spiritualità estetica che si specchia nell’estetica artistica “dell’impossibilità a recitare”, secondo la quale un artista può solo dar forma al divenire dell’arte, per sua natura “incerta fin nella più intima fibra”.

Perché il Teatro, come la Vita, è “ripetizione” e l’attore non sfugge al ripetere per provare continuamente a comunicare, mosso dalla tensione a stabilire un rapporto conoscitivo. Un rapporto non fissato una volta per tutte, ma che si sviluppa nel corso delle rappresentazioni.

Perché il Teatro, come la Vita, è un organismo vivo e quindi labile, mutevole, provvisorio.

Perché il Teatro, come la Vita, “è un insieme di rapporti”, che si concatenano fra di loro in un unico punto presente. 

E così, in ultima analisi, il filo che la Shammah individua e usa sapientemente per imbastire la costruzione dei vari tessuti drammaturgici di questo spettacolo è il filo della “drammaturgia della prova”. 

Quel filo così caro alla sua sensibilità di regista, nonché a quella di del Carlo Cecchi attore, maestro di coscienza e guida d’attori. Perché siamo tutti “in prova” qui sulla Terra: in cammino dentro e fuori noi stessi. 

Andrée Ruth Shammah – Carlo Cecchi

“La leggenda del santo bevitore” di Joseph Roth parla e ci parla della vita di un uomo, Andreas Kartak, perseguitato e esiliato dalla Slesia e dalla vita civile, in quanto detenuto in carcere per aver salvato la vita della sua amante, picchiando suo marito fino ad ammazzarlo. Dopo due anni torna ad una vita libera e piena di miseria, mandandola giù a sorsi di Pernod.

E’ un uomo infatti che continua a rimanere sordo ai miracoli degli incontri quotidiani di cui la sua vita è punteggiata, in quanto attratto irresistibilmente a ripetere gli atteggiamenti distruttivi legati ai suoi traumi. Come accade a tutti noi.  

E l’interesse dello sguardo registico della Shammah non cade sul suo continuo procastinare la missione a rendere fertilmente creativa l’elargizione di denaro ricevuta, un po’ come nella parabola cristiana dei talenti. Il suo interesse non è sul risultato ma sul processo: sul percorso accidentato attraversato da Andreas.  

La drammaturgia del disegno luci (la cui cura è affidata a Marcello Jazzetti), in sinergia alla drammaturgia musicale, riesce efficacemente a sottolineare la tragica coercizione dell’Andreas personaggio a ritornare sempre sulla stessa riva, sospinto dall’onda della ripetizione del suo trauma. Una vita la sua, ma non solo, che tende a rimanere schiacciata dal passato e dalle tracce traumatiche che si sono impresse su di essa. 

Perché la condizione esistenziale di Andreas è propria di tutti noi esseri umani: non a caso il racconto assume la forma di una “leggenda”, che per sua natura si rivolge alla collettività, per rinsaldarne i legami di appartenenza. 

Vivo è infatti in Andreas quel senso interiore della dignità, che riesce ad andare al di là della crisi esistenziale che tende continuamente a metterlo “all’angolo” – condizione di cui così efficacemente la scena ci parla. Un senso dell’onore, il suo, che continua a guidarlo e a sostenerlo. Fino alla fine. Seppur senza riuscire a concretizzarlo stabilmente. Ma questa sua tensione, questo suo restar fedele a un ideale di dignità in una vita “senza indirizzo”, lo rende degno di essere un “santo bevitore”.

Claudia Grassi – Carlo Cecchi – Giovanni Lucini

La condizione esistenziale di Andreas è propria anche dell’attore, che nella sua arte procede nel tentativo di rappresentazione della realtà per ripetizioni, pur sapendo che sempre resiste qualcosa che sfugge all’elaborazione, alla rappresentazione. Ma dalla ripetizione può nascere anche qualcosa di creativo, di fertile, di generoso. Come accade ad Andreas: che sbaglia e continua a sbagliare, ma – direbbe Beckett – “sempre meglio”.

“Occorre avere fiducia” – dice e testimonia la piccola Santa Teresa di Lisieux, che attendendo Andreas e non vedendolo arrivare va lei stessa a visitarlo in sogno – perché “ é la fiducia e null’altro che la fiducia che deve condurci all’Amore”.

Una fiducia che non significa lamentarsi del nostro essere imperfetti, desiderando risolvere la nostra condizione nella sua interezza. Né significa accontentarsi di poco. Significa piuttosto non mancare all’incontro con l’altro: non mancare al miracolo a cui l’altro ci apre. E “ci legge”. Come un libro.

Claudia Grassi – Carlo Cecchi – Andrée Ruth Shammah – Giovanni Lucini


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo BOCCONI AMARI – SEMIFREDDO scritto e diretto da Eleonora Danco –

TEATRO VASCELLO

dal 7 al 16 Febbraio 2025

E’ feroce e piace; ti fa stringere lo stomaco e si ride.

Eleonora  Danco fotografa la realtà senza filtri: con crudele purezza. 

Nudo anche l’insinuarsi della segretezza dell’inconscio che, manifestandosi in un’esalazione di verde, parla una lingua di immediata efficacia illogica. 

E’ un’umanità animale quella che va in scena. Vive di rituali: da quelli tipici del combattimento animale muso a muso, corpo a corpo, a quelli più civili della convivialità dei compleanni, fino a quelli più subdoli propri della manipolazione. 

Federico Majorana (Pietro) – Lorenzo Ciambrelli (Luca)

Civiltà che però non ce la fa a mantenere una sua forma. E – in un continuo fallimento relazionale – solo si riesce a pretendere trascurando le esigenze dell’altro e ad accusare fino alla minaccia di morte. Sempre. Senza tregua. 

La Danco sa quanto può essere profonda la superficie e così la fotografa per lavorare sull’intimità. La sua scrittura non spiega, non fa morale, né psicologia: ti arriva dritta allo stomaco. La prima trama è intessuta dal ritmo fulminante sul quale si intreccia la scrittura, vertiginosamente materica.

E’ la storia di una famiglia e dell’ imprinting alla sola relazione di sottomissione. I tre figli vivono e crescono senza nessuno che trasmetta loro la gioia di vivere (imprinting materno) e senza nessuno che testimoni loro l’equilibrio tra il senso del limite e il desiderio vitale (imprinting paterno). 

Una famiglia che non è il luogo della preparazione alla vita: non è il luogo dove coltivare e condividere l’amore, per moltiplicarlo. Non è il luogo del rispetto reciproco, che salvaguarda le differenze di ognuno. Non è il luogo della sana autorità, che educa a vivere secondo principi interiorizzati, necessari per far scaturire vibranti desideri.

Federico Majorana (Pietro), Beatrice Bartoli (Paola), Eleonora Danco (Franco, il padre) , Orietta Notari (Maria, la madre), Lorenzo Ciambrelli (Luca)

E’ una famiglia che si riunisce a tavola con un appetito di morte: una funesta convivialità dove c’è chi mangia per una vorace avidità di possesso e chi non mangia per sottrarsi all’invasione dell’Altro. 

Maria, la mamma, in occasione del suo compleanno rivela il desiderio di voler essere “moglie” e non “madre” e – piuttosto che godere nel vedere la sua famiglia riunita – preferirebbe andare a letto prima possibile. Franco, il marito, che la ignora così come fa con i figli, è un “sepolto vivo pieno di vita”. Paola, la figlia più piccola, preferisce tenersi prossemicamente distante dal tavolo da pranzo, tanto l’inespressa rabbia verso la famiglia la blocca a vivere. Pietro è spaventatissimo dalla vita e non riesce a realizzare nulla di soddisfacente. Luca rileva l’attività del padre per risollevarla dai debiti ma anche lui è senza un vero desiderio da realizzare che lo guidi. 

Eleonora Danco (Franco, il padre) , Beatrice Bartoni (Paola, la figlia)

Vestito di ombre, in secondo piano, si intravede in scena un altro tavolo: é abitato da un telefono rosso. Che non squilla mai: tutti i collegamenti verso “un’altra realtà” restano bloccati.

Nel secondo atto – “Semifreddo” – la Danco ci presenta la stessa famiglia 20 anni dopo. Nel mentre, si è passati dall’uso della lira a quello dell’euro.  Nessun miglioramento nelle dinamiche relazionali attribuibile a questo cambio di moneta. Nessun valore aggiunto. Anzi il degrado sociale ed emotivo dei componenti della famiglia è decisamente peggiorato. 

Alla precedente centralità del tavolo da pranzo del primo atto (“Bocconi amari”), si sostituisce ora la poltrona-trono del padre. Il tavolo da pranzo resta ma viene disertato dalla famiglia, ora convocata dal padre, per il suo compleanno, intorno alla sua poltrona-trono. Dalla quale “divide et impera”, come un “Re Lear del terzo piano”.  La madre è morta e ogni vaga forma di convivialità e di ritualità si svuota totalmente di senso.

Eleonora Danco (Franco, il padre), Lorenzo Ciambrelli (Luca, un figlio)

E laddove venti anni prima la madre aveva preparato un “disperato” pranzo luculliano per il suo compleanno, ora il padre ottantacinquenne festeggia “il suo esserci ancora” offrendo un “ostinato” semifreddo. Un dolce che per sua natura non raggiunge la consistenza e lo stato di congelamento che caratterizza il gelato. Tanto da divenire l’epiteto con il quale, con tono scherzoso e irriverente, nel gergo giovanile (soprattutto negli anni ’60) si alludeva alle persone anziane: quelle che non ce la fanno a passare l’inverno.

La Danco mette in campo in questo secondo atto una regia più visionaria, più surreale e insieme più intima, che si origina proprio da quel tavolo sempre lì, in secondo piano. Abitato ora non più da un “muto” telefono rosso ma dall’inconscio rito dionisiaco dei tre fratelli. Nel corso dei venti anni qualcosa è cambiato: le barriere comunicative con “l’altra realtà” del subconscio si sono abbassate.

Nella realtà, invece, Paola rinuncia alla posizione eretta e si riduce a strisciare a terra muovendosi stesa sopra un carrellino. Rinuncia anche ai suoi abiti, per indossare l’habitus di un verme, aderendo e sfregando la sua pelle a quella del tavolato del carrellino.

Eleonora Danco (Franco, il padre), Beatrice Bartoni ( Paola, il verme), Federico Majorana (Pietro, un figlio)

Pietro è sempre più dipendente da tutto, pur di resistere al peso della vita.  Luca si ammazza di attività fisica per espiare le sue colpe. Il padre-“Re Lear del terzo piano” per farsi rispettare deve ricorrere all’espediente di offrire in cambio soldi a ricompensa. Come i suoi figli ora concede più spazio alla sua vita subcosciente. E lo sguardo registico di Eleonora Danco ce la rende con ancestrale efficacia.

Uno spettacolo volutamente sconcertante, dove è affidata alla concertazione registica il dono di costruire una identità a ciascun personaggio, accordandola all’ensemble. 

Gli interpreti  – Eleonora Danco (Franco, il padre); Orietta Notari (Maria, la madre); Beatrice Bartoni (Paola, la figlia); Lorenzo Ciambrelli (Luca, un figlio); Federico Majorana (Pietro, l’altro figlio) – portano in scena una recitazione sapientemente fisica, ricca in tecnica e con una musicalità fisico-verbale dal sapore hard-rock . Una recitazione che attraversando la carne sa arrivare spudoratamente al cuore dello spettatore.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo IL DIO DELL’ACQUA – di Gianni Guardigli – regia Alessandro Di Murro –

Con Daniela Giovanetti e Amedeo Monda

TEATRO BASILICA

dal 13 al 16 Febbraio 2025

Chi meglio del dio dell’acqua sa sciogliere i pesi e i grumi che opprimono e intasano la fluidità della nostra esistenza?

Anche lui li ha vissuti sulla propria pelle; anche lui si è perso naufragando dentro la tempesta della vita.

Anche lui è acqua: l’elemento fluido da cui tutto può originarsi e in cui tutto può tornare a prendere forma. Generosamente, senza trattenere nulla. Ma lasciando che sempre nuove forme prendano vita, all’interno di un ciclo in continua trasformazione. Il dio dell’acqua infatti si dà per movimenti.

Daniela Giovanetti

Protagonista di questo testo di grande bellezza lirica, scritto dal drammaturgo  Gianni Guardigli, è una creatura che in nome del diritto alla libertà propria e altrui si scopre a far del male. Un istinto alla sopravvivenza e una libertà di scelta che passano attraverso forme di “violenza”.  

Sono pesi che non se ne vanno, sono grumi che non si fluidificano, perché non ci sono parole giuste per spiegare e per capire. Forte è la tentazione a voler morire, dopo aver visto quello che la creatura ha visto di se stessa. Ma qualcosa inaspettatamente muterà, nel momento in cui continuerà a stare nel ciclo della vita, fino alla fine. 

Daniela Giovanetti

Una fine tempestosa che non è “la” fine, ma ancora l’inizio di nuove trasformazioni. Un inizio che arriva come una piacevole e rigenerante brezza: un nuovo, eppur lo stesso, respiro vitale. Un nuovo sogno, sul pelo dell’acqua. E una voglia matta di sprofondare: di tuffarsi per scendere più giù. Fino a perdersi. Senza avere paura di essersi persi. Tanto che, in questa nuova condizione, riesce a farsi strada un’insospettata contentezza: quella che ti fa sentire come un dio, il dio dell’acqua, che nulla vuole trattenere perché disponibile a tutto trasformare.

Amedeo Monda – Daniela Giovanetti

Ad interpretare questo vibrante monologo – diretto da Alessandro Di Murro e prodotto dal Gruppo della Creta – è una voce così candidamente piena di colori, da ammaliare. Lei, sirena e naufraga, ci parla come immersa in un canto pieno di meraviglia, che è insieme lamento e preghiera. Ma soprattutto è vita: quella che prende forma quando ci si guarda e ci si ascolta. E si naufraga. Insieme. Come avviene a Teatro.

Daniela Giovanetti

Lei è Daniela Giovanetti: la creatura metafisica il cui corpo della voce si estende in una morfologia ancestralmente ibrida. Dove bene e male si scoprono non solo a convivere, ma ad essere legati in un paradossale rapporto di causa-effetto.

Il suo parlare crea la suggestione come di un’eco: un’opera scultorea eppure impalpabile, di cui si rende fertile complice l’ombrosa drammaturgia della chitarra elettrica di Amedeo Monda. Ed è emozione. 

E’ l’epifania del palesarsi di un riflesso dalla bellezza indistinta e cangiante, insito già nella stessa parola “eco”. Che infatti al singolare è di genere femminile e al plurale diviene di genere maschile. 

Daniela Giovanetti

La lingua della ninfa Giovanetti assapora tutto l’espandersi del significante e del significato. Per frammenti. Una dilatazione che inaspettatamente si dà nel chiudersi in continui confini, fecondi di micro pause, che ne sottolineano l’incanto generativo.  

Uno spettacolo di favolosa bellezza estetica, complice la drammaturgia del disegno luci di Matteo Ziglio e la cura dei costumi di Giulia Barcaroli. Ma soprattutto uno spettacolo che propone un approccio conoscitivo, dal fascino potentemente rigenerativo, sulle mille meraviglie che si celano nel nostro stare al mondo: come ospiti di un ciclo che ci vuole insieme navigatori e naufraghi. Divinamente felici perché fruibili – in quanto temporanei fruitori – da sempre nuove meraviglie: come quelle disciolte nella magia del ciclo di trasformazione dell’acqua.

Amedeo Monda – Alessandro Di Murro – Daniela Giovanetti – Gianni Guardigli


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo ANTONIO E CLEOPATRA di William Shakespeare – regia Valter Malosti –

TEATRO QUIRINO

dall’11 al 16 Febbraio 2025

L’amore è una demenza?

Perdersi nel suo risucchio – e quindi allontanarsi dalle strade segnate dai principi della logica, per esplorare territori sconosciuti della nostra mente e della nostra anima – è davvero sminuente per la nostra realizzazione come persone?

La regia dal graffio rock di Valter Malosti e l’attento lavoro di traduzione e d’adattamento – curato dallo stesso Malosti unitamente alla scrittrice, anglista e traduttrice Nadia Fusini – dona brillantezza a quel concetto di amore, inteso come possessione del divino Eros, che così diversamente si declina tra Oriente e Occidente.

Dario Guidi (Eros), Anna Della Rosa (Cleopatra), Valter Malosti (Antonio)

Il demone che possiede Cesare, in cosa differisce da quello posseduto da Antonio?  Si tratta solo di una maggiore quantità di fortuna associata al demone di Cesare, o forse è in gioco un diverso concetto di “sacro”, che muta da Roma ad Alessandria D’Egitto?

A Roma, “sacra” è una gestione ordinata del proprio demone; in Egitto è il disordine a restituirne la valenza. Incluse le cadute che non fanno soccombere ma che trascinano con se la fine, per dare vita ad un nuovo inizio.

Massimo Verdastro (Indovino), Valter Malosti (Antonio)

Antonio sperimenta entrambe le declinazioni del “sacro” e scopre che ciò che per lui davvero conta – ciò che lo fa sentire realizzato e vivo come persona – non è tanto diventare il padrone del mondo, quanto piuttosto dedicare tempo ed energie nell’avventurarsi a percorrere territori, che si trovano oltre i confini che delimitano la razionalità logica. Da qui “la diagnosi”, da parte degli occidentali, di una sua “demenza amorosa”. 

Lo sguardo registico, ricco in sperimentazione, di Malosti fa emergere queste due diverse modalità di stare al mondo, enfatizzandone le differenti intensità vitali. Ci riesce lavorando sui “costumi” intesi come “habiti”, cioè come modi di essere. Un lavoro che passa attraverso una particolare attenzione a rendere “incisive” la postura (ricca in plasticità), la prossemica (che molto esplora le zone di confine, così come la vertigine delle diagonali) e il fascino della vocalità, così musicale seppur vitalmente irregolare. 

Massimo Verdastro (Indovino), Noemi Grasso (Incanto), Danilo Nigrelli (Enobarbo)

Una vocalità assai rispettosa della tonica liricità shakespeariana, enfatizzata e restituita, qui, dal “colore” del surplus energetico, proprio di ciascun personaggio. La Cleopatra di Anna Della Rosa e l’Antonio di Valter Malosti possono contare infatti sulla meravigliosamente difforme sinergia vocale del Cesare Ottaviano di Dario Battaglia, dalla vocalità tagliente e feroce; sulla carnalità metafisica dell’Indovino Massimo Verdastro; sulla esuberante prestanza del Messaggero di Cleopatra Paolo Giangrasso; sulla morbidezza melodiosa dell’Agrippa di Ivan Graziano; sull’affascinante spudoratezza dell’Incanto di Noemi Grasso; sulla divina fluidità dell’Eros di Dario Guidi; sul piglio astuto del Messaggero di Roma Flavio Pieralice; sulla feroce prestanza del Soldato di Antonio Gabriele Rametta e sull’altera e soffice risolutezza dell’Ottavia di Carla Vukmirovic.

Anna Della Rosa (Cleopatra), Valter Malosti (Antonio)

Ne scaturisce una visione del mondo – che nelle immagini e nei sensi attinge all’immenso e al prodigioso – immersa in “habitat musicali” (composti da GUP Alcaro), capaci di evocare suggestivi e continuamente mutevoli paesaggi emotivi. Metafisicamente edificati intorno ad una scenografia solidamente feconda di pieni e di vuoti, eretta sopra un piano inclinato. La cura delle scene – costruite nel Laboratorio di ERT / Teatro Nazionale – è di Margherita Palli

Questa fluidità degli spazi riflette un montaggio di piani temporali, dove tensioni belliche si concertano a propulsioni creative, teatro esistenziale proprio di quei periodi di passaggio che ciclicamente abitano la nostra Storia.

Anna Della Rosa (Cleopatra), Noemi Grasso (Incanto)

Arriva così in dono allo spettatore, tutto il sapore di quella fertile e generosa abbondanza, propria di “un umano” le cui acque sanno tracimare una densità aperta all’indistinto: a quell’ignoto informe che ci atterrisce non meno di quanto ci affascini. Tanto esso si rivela ricco di diversità, finanche opposte, eppure coesistenti.

Gabriele Rametta (Soldato di Antonio)

E’ l’elogio di quel disorientamento creativo – che va in scena fin dall’apertura del sipario – definito come “demenza amorosa” da un morigerato soldato romano, che con subdola complicità sente il bisogno di avvisarci preventivamente, per manipolare il nostro sguardo, su quella che a Roma è definita la degenerazione che affligge Antonio, uno dei tre pilastri del mondo.

In verità, quello a cui assistiamo è un rituale di sacra giocosità, che sa accogliere e interscambiare la succulenza del femminile e la virilità del maschile; lo scintillio delle luci e la tenebrosità delle ombre; la vita e la morte; la giovinezza e la vecchiaia; l’inizio e la fine. 

Fertile ricettività restituita stupefacentemente dall’interpretazione della Regina d’Egitto di Anna Della Rosa, che scivola con profonda leggerezza osmotica dalla ieraticità del profilo statuario di una dea, alla carnalità di femmina affamata di vita e di morte, fino all’allure tutto occidentale di una Marlene Dietrich. Complice la cura dei costumi di Carlo Poggioli, realizzati da Maria Vittoria Pelizzoni, Adriana Cottone per ERT /Teatro Nazionale e da Tirelli Costumi

Tutto in lei parla di questa predisposizione umana all’apertura, al non censurare nessun luogo del suo condominio psichico. Tutta aperta com’è verso una totale esplorazione avventurosa della vita, che si nutre per poi metabolizzare creativamente l’altra tensione tutta umana: quella alla chiusura e alla protezione securitaria. 

Ma ciò che incanta sopra ogni cosa nella Cleopatra di Anna Della Rosa, è l’articolazione del suo parlare, così profonda e larga; tridimensionale eppure elegante. Desiderosa di suggere tutto il gusto da ciascuna parola, alla scoperta di nuovi confini. Laddove ogni fine contiene un nuovo inizio. Come in un amplesso amoroso. 

Ivan Graziano (Agrippa), Valter Malosti (Antonio), Dario Battaglia (Cesare Ottaviano)

Dell’Antonio di Valter Malosti brilla la bellezza decadentemente libera del suo perdersi, per cercare e trovare sempre nuovi cieli e nuove terre. Resa da una vocalità dilatata e insieme incalzante. Affascina fino al disorientamento, poi, la sua proposta di virilità così fertilmente femminile, enfatizzata dal confronto con la virilità mascolinamente impermeabile dei triunviri romani.

Paolo Giangrasso (Messaggero di Cleopatra), Anna Della Rosa (Cleopatra), Noemi Grasso (Incanto)

E poi quel suo sguardo così ricco d’accoglienza, ospitato in una postura solida eppur flessibile. Una morbidezza maschile impensabile a Roma, in occidente, dove si ostenta la morigeratezza che passa tra l’ammonire e l’adempiere. Se ne hanno tracce solo nel suo luogotenente: l’Enobarbo dalla sensibilità musicale di Danilo Nigrelli.

Danilo Nigrelli (Enobarbo)

Il Malosti regista, come Shakespeare, ci invita a guardare con curiosità, più che con pregiudizio, alla meravigliosa complessità da cui tutti siamo abitati. Appassionandoci ad una forma di conoscenza di noi stessi, e quindi dell’altro, che doni valore al nostro viaggio sulla Terra. Conoscenza che, sola, può realizzarci come persone, rendendoci unici e “incomparabili”.

Proprio come sono arrivati a definirsi Antonio e Cleopatra: consapevoli di poter fare della diversità, del difetto e del buio della mancanza, il desiderio di ricerca di un nuovo cielo. Rintracciabile negli occhi dell’altro.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo BORDERLIFE – “La nostra vita dall’altra parte” – regia Nicoletta Robello –

Adattamento teatrale Francesca Merloni e Nicoletta Robello

tratto dal romanzo ‘Borderlfe’ di Dorit Rabinyan,
© Am Oved Publishers Ltd. Tel Aviv, 2014
Pubblicato in Italia nel 2016 da Longanesi

TEATRO BELLINI di Napoli

– 8 Febbraio 2025 –

Nelle profondità misteriose del blu é immersa la storia d’amore di Liat ed Hilmi: lei traduttrice ebrea, lui artista palestinese. Una storia d’amore che accade nel secondo autunno newyorkese successivo all’ 11 settembre. 

Aprono lo spettacolo le note ventose del flauto traverso, le cui qualità timbriche e dinamiche introducono lo spettatore nel teatro delle emozioni di questa giovane coppia d’innamorati, conosciutasi per caso all’Aquarius bar, luogo d’incontro multietnico dalle profondità, in verità, poco esplorabili. 

I Radicanto – Francesca Merloni (Liat) – Pavel Zelinsskij (Hilmi)

Alla musica dei Radicanto – nota band molto apprezzata anche per la vocazione a tenere uniti passato e presente in un cangiante insieme musicale – la regista dello spettacolo Nicoletta Robello affida il fluttuare di quel vento d’emozioni, che solo può arrivare a presentare al Tempo l’accorata preghiera di questa coppia. Affinché si mantenga clemente, affinché possa restare quieto nell’istante in cui il loro amore li porterà lontani dai confini delle proprie origini. 

Suggella questo rito musicale metateatrale, il vortice di emozioni espresso dalle note dal timbro caldo e avvolgente del sax. Un’estensione dei moti dell’anima che arriva dagli anfratti più reconditi per essere restituita con un’eleganza fiera, malinconica, avvolgente. Un suono quello del sax, onesto e, in quanto tale, meravigliosamente imperfetto. Come la voce umana. Come la vita umana. 

Francesca Merloni è Liat – Pavel Zelinsckiy é Hilmi

Questo spettacolo parla della bellezza di un incontro.

Un incontro che alimenta una concatenazione di altri incontri, un po’ come un allegro miscuglio di note musicali: “un’orchestra di suoni, come se il mondo stesse tutto sopra un’unica corda, traboccante di vita, di voci, luci e colori”. Un concertarsi così bello da sentire di poter riuscire quasi a “volare”. 

 “C’era qualcuno alla porta…”. 

Inizia a manifestarsi così il teatro dell’inatteso e dell’inspiegabile, proprio dell’incandescenza di certi incontri . Ed è la Liat di Francesca Merloni a rievocare, con una grazia ricca in meraviglia, l’impossibile che diventa possibile: cifra di quegli incontri capaci di cambiare indelebilmente il normale corso della quotidianità. 

Un incontro che succede in Autunno: la stagione dove ciò che vive in superficie muore per nutrire ciò che avviene in profondità. Anche l’Autunno è un incontro che non lascia indifferenti: è il necessario passaggio attraverso il buio. 

Francesca Meloni (Liat) – Pavel Zelinskiy (Hilmi)

Tra Liat e Hilmi si sprigiona fin da subito un potente magnetismo: tanto lei è morbidamente sensuale – e la Merloni rende assai efficacemente questa femminilità con il darsi accogliente del corpo della sua voce – quanto lui è irresistibilmente stimolante ed impaziente. L’Hilmi di Pavel Zelinskiy brilla in fresco entusiasmo e in tormentato desiderio d’avventura. 

Entrambi sono avvolti dal bianco della seconda pelle degli abiti che vestono, non solo i loro corpi ma anche le loro anime. Un colore pieno di tutti i colori delle emozioni il bianco, che arriva a contaminare anche gli oggetti di scena. Un colore che custodisce un che di sfuggente e di beffardo: un’inquietudine.

 

Non è facile ottenerlo come pigmento perché non è facile coglierlo con i nostri occhi: tende a virare sempre verso il nero. Non è facile gestirlo come spazio: la pagina bianca o la tela bianca sono spesso paralizzanti. E ci parlano del nostro rapporto insidioso non solo con la luce ma anche con la libertà: l’aneliamo ma ne subiamo anche la troppa apertura, gli infiniti inizi, le molteplici scelte, l’accecante purezza. 

Tutti i fiumi vanno verso il mare/e il mare non é pieno/Perché tutti i fiumi tornano ai fiumi “ (Avoth Yeshurun)

Ma nonostante questa inquietudine vitale, Liat e Hilmi non possono rinunciare a cercarsi, ad avvolgersi e a mescolare i colori delle loro differenze assieme ai loro tratti comuni. Un po’ come fa Hilmi con i suoi colori: in un viaggio attraverso le varie sfumature del blu e del verde, per riuscire a entrare nel mistero del mare, fino ad abitarne la sua infinita mutevolezza.

La regista Nicoletta Robello

E’ il pathos della prossemica degli attori unito sinergicamente sia ai colori della vocalità di Maria Giaquinto dei Radicanto che alle parole scritte da Pier Paolo Pasolini per la shakespeariana “Cosa sono le nuvole”, a restituirci la bellezza di queste scelte esistenziali, in cangiante equilibrio tra il coraggio e la necessità del nostro stare al mondo.

Il derubato che sorride
Ruba qualcosa al ladro
Ma il derubato che piange
Ruba qualcosa a se stesso
Perciò io vi dico
Finché sorriderò
Tu non sarai perduta

Scoprendo così, Liat ed Hilmi, di arrivare ad amarsi sino alla “compassione”: in una comunione autentica non solo di sofferenza, ma anche -e soprattutto- di gioia vitale, e di entusiasmo.

Là: in una spiaggia “senza bagnino” e “senza argine”.

Solo mare.


Uno spettacolo di grande bellezza poetica, che fluttua sul terreno dialettico che intreccia il tema dell’incontro a quello del distanziamento. Terreno vitale da cui germogliano le parole amore, confine, coraggio, identità, dialogo, libertà. Parole che, più di altre, cercano di dare un senso al nostro stare al mondo.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione LA MORTE A VENEZIA – libera interpretazione di un dialogo tra sguardi – drammaturgia e regia Liv Ferracchiati

TEATRO INDIA , dal 5 al 9 Febbraio 2025

Guardare, essere guardati: sono esperienze che viviamo continuamente, più volte al giorno, tutti i giorni. Tanto da essere diventati quasi degli automatismi. 

Ma poi arriva questo percorso scenico di Liv Ferracchiati: qualcosa di innocuo e di sconvolgente.

E ti ritrovi in un incantesimo. 

Qualcuno guarda un oggetto desiderabile. Anche noi del pubblico. E’ bello, sì; invitante, anche. Gustoso. Ma niente di sconvolgente. Se però la seduzione sposta il suo mezzo dall’occhio all’orecchio, e quindi sul suono della parola dell’oggetto desiderabile, sul ritmo e sui sottotesti con i quali questo nome può essere evocato, qualcosa cambia. Ma ciò che davvero è solleticante, e quasi urticante, è il suo suono onomatopeico. La vibrazione ruvida e delicata di un fruscio: “frrrr”. Come qualcosa di scabrosamente bello. Ma quel qualcuno che guarda, dice di poterne rimanere immune.

Poi la situazione muta: quel qualcuno guarda noi, ci inquadra con una macchina fotografica. Ci esplora con il suo sguardo. Dice che vorrebbe navigare tra di noi come fossimo canali. E poi incontra qualcosa di desiderabile. “Tu, sì tu, tu sei di una bionditudine assoluta” – pensa guardandolo. Ci rivela però che, conoscendosi, sa che può dominare anche questo desiderio. Ma l’altro, il biondo, si alza dalla platea per raggiungerlo. Ed entra in dialogo con il suo sguardo. Ora, non c’è dominio: solo silenzio, meraviglia e sgomento. Come di fronte a qualcosa di inesplorato.

“Nulla esiste di più singolare, di più scabroso, che il rapporto fra persone che si conoscano solo attraverso lo sguardo” (Thomas Mann, La morte a Venezia)

Venezia: la bellezza della sua acquaticità. Quella che si lascia guardare, che si volta, che si fa onda (è la danza di Alice Raffaelli). Una sinuosità inafferrabile. Ma penetrante. Come oggetto desiderabile, come Tadeus. E’ di un colore indefinibile il desiderio che evoca, è espressione di particolari. Scuote chi la guarda. 

Non bisognerebbe guardarla: sgomenta di bellezza. Ma Gustav si scopre a non riuscirci: “oscilla”. Si lascia dondolare da un soffio: un movimento proprio del dio e non dell’uomo. Gustav oscilla perché mosso dal vento del divino.

Tadeus  sembra parlargli. Ma Gustav si rammarica di non “decifrare” le sue parole. Non è necessario, non serve capirsi con le parole. Basta incontrarsi sull’orlo dell’elemento acquatico. Qui, sull’orlo, fa un caldo opprimente, afoso. Forse è la seduzione dell’inarticolato. Dell’informe. Dell’inesplorato. Dell’aperto. Dell’indecente. Del suono delle onde che lambiscono il lido.

Gustav si sente posseduto dall’urgenza di “scrivere” in sua presenza: al cospetto di Eros. Ora “sente”. Lì, sull’orlo. Ma è scabroso. Cerca certezze nel suo sguardo, nella scrittura. E’ dilaniante. Gustav scopre che il mondo è indicibile. Perché lui è incontentabile. 

L’incontro e il mancato incontro con inesplorato inizia a produrre segni sul corpo di Gustav. Qualcosa inizia a deformarsi, ad invecchiare.

E poi è così stanco.

“Se tu potessi truccarmi per rendermi meno goffo e più bello ! – chiede Gustav a Tadeus – ora so che conosco male i miei desideri”.

“Ora so cosa significa essere nudo”.

Qui accade qualcosa: a questo punto del percorso scenico, a questo punto del dialogo fra sguardi, quando Gustav inizia a parlare con quel suo sentire nudo, con quel suo volto nudo – che si fa insieme supplica, grido, preghiera – si può fare esperienza di stare con lui sull’orlo del mondo.

E può prendere forma una lacrima, incapace di trattenere oltre, tanta lacerante bellezza.


Una scrittura incalzante e seducente: piena di meraviglia. Capace di indagare e restituire l’oscillante turbamento del punto d’incontro tra il ruvido e il delicato: lo scabroso.

Una regia piena di specchi, labirintica. Eppure ferocemente limpida.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo GUERRA E PACE – di Lev Tolstoj – adattamento di Gianni Garrera e Luca De Fusco – regia Luca De Fusco

TEATRO ARGENTINA, dal 4 al 23 Febbraio 2025

Si accede nell’opera-mondo “Guerra e Pace” di Lev Tolstoj rispondendo all’invito della famosa Anna Pàvlovna Scherer, damigella d’onore e familiare dell’imperatrice Maria Feòdorovna. Qui, nella regia di Luca De Fusco, una Pamela Villoresi ricca in vivace profondità e generosa di slanci appassionati.

Così facendo si coglie l’occasione di essere introdotti, grazie alla sua influenza (una grippe al di là del male di “una” stagione) in ambienti (esistenziali) davvero irrinunciabili: da lei sfilano le diverse declinazioni del nostro stare al mondo. 

Pamela Villoresi – Paolo Serra

(ph. Rosellina Garbo)

Dove, a ben guardare, la guerra e la pace, il bene e il male, l’amore e l’odio, non sono poi così distanti. Anzi, si direbbe, difficilmente separabili. Anche in pace, infatti, la vita spinge i personaggi a gettarsi in tali imprese, che poco hanno da invidiare a quelle che si svolgono sul campo di battaglia. 

L’adattamento efficacemente evocativo di Gianni Garrera (filologo e traduttore, in Italia lo studioso di riferimento di Søren Kierkegaarde) e Luca De Fusco (regista teatrale, direttore teatrale e direttore artistico), che dello spettacolo cura con rigoroso fascino anche la regia, restituisce allo spettatore tutta la vibrante inquietudine del testo tolstojano. Che si declina nelle diverse posture esistenziali dei protagonisti, riflesso degli scenari in cui sono immerse. 

Luca De Fusco

Inquietudine che assai persuasivamente è sottolineata da un premonitore motivo musicale al violino (le musiche sono curate da Ran Bagno), che ricorre per tutto lo spettacolo e che introduce ad un clima di insinuante sospensione emotiva. “Si può forse rimanere tranquilli nella nostra epoca, quando si ha del sentimento?” – si chiede Annette.

Un lampadario di cristalli di maestosa bellezza, che ha perso la sua funzione logica e il suo naturale punto di ancoraggio sfidante la forza di gravità, è ora sconfitto a terra, di lato al palco. Immediata visualizzazione scenografica del buio di una condizione psicologica che abita i personaggi, una volta divelti quei punti di riferimento che la vita, soprattutto nei periodi di guerra, ci sottrae. 

(ph. Rosellina Garbo)

Un buio che assai sapientemente la drammaturgia del disegno luci (curata da Gigi Saccomandi) lascia essere preda della luminosità di ombre, tali da insinuarsi e popolare la scena (anche luogo della mente) di miraggi e di speranze. Spesso proiezione di inganni, che velano la mente e il cuore, seducentemente stimolati nello spettatore dalle creazioni video, curate da Alessandro Papa.

Così quello che era il salotto scintillante di San Pietroburgo è ora immerso nel buio. E abitato da rovine. Sulle quali ci si può sedere ma dalle quali si possono anche trarre preziosi insegnamenti esistenziali. 

Per far sì che questo accada, Tolstoj – come acutamente colto nell’adattamento e nel lavoro di regia – ci fa entrare in relazione con un’umanità spesso disposta ad esporre se stessa ad un “divenir-rovina”. Esperendo su se stessa gli effetti malinconici, derivanti dallo scoprire che il proprio statuto soggettivo possiede la consistenza “di ciò che resta” di una dissoluzione. Il prodotto cioè di una magnifica sinergia di contraddizioni che ci rende “umani”. Una “forma” di vita, a rischio costante dell’informe, con cui la vita concreta si articola e diviene. 

Uno stare “sul confine” non solo bellico, ma anche ontologico ed etico, reso suggestivamente dalle scelte scenografiche di Marta Crisolini Malatesta (sua la cura anche dei costumi) e dall’appassionata interpretazione degli interpreti – Pamela Villoresi, Federico Vanni, Paolo Serra, Giacinto Palmarini, Alessandra Pacifico Griffini, Raffaele Esposito, Francesco Biscione, Eleonora De Luca, Mersilia Sokoli, Lucia Cammalleri – intrepidi testimoni di multiformi posture vitali, dalle quali tutti possiamo essere abitati. Una coreografia esistenziale disegnata con un’elegante ed efficace prossemica da Monica Codena.

Opportunamente, il palco è abitato da una scalinata, i cui gradini collegano diversi piani posti verticalmente e immersi in una forza unidirezionale: la forza di gravità. Materializzazione di un collegamento tra potenzialità diverse, che consentono un passaggio in accordo o in opposizione con la forza unidirezionale. Una splendida visualizzazione simbolica – questa identificata nelle potenzialità espressive della scala da Marta Crisolini Malatesta – delle varie possibilità di stare al mondo che ci sono concesse (vedi i diversi piani), per riuscire a fare di ciò che subiamo dal destino che ci tocca in sorte (la forza di gravità), qualcosa di nostro, di personale, di unico.

ph © rosellina garbo

Cifra dello spettacolo di Luca De Fusco è anche la rappresentazione dell’affresco di possibilità di cui i giovani – ognuno con la propria personalità – possono farsi originali artefici. Passando attraverso sempre nuove consapevolezze, figlie di disillusioni che non paralizzano l’azione ma che si aprono con coraggio alla fluidità dell’esserci. 

Un attraversamento di consapevolezze che non esclude la magnetica attrazione per la guerra: veniamo al mondo dotati dell’istinto alla sopraffazione e non a caso il primo gesto della storia di cui ci parlano i testi biblici è un gesto fratricida. 

Perché la violenza è l’illusione di poter arrivare velocemente all’obiettivo, senza avventurarsi nelle tortuosità della parola, della mediazione.

ph © rosellina garbo

Ma soprattutto perché la vita umana è caratterizzata da due movimenti: per un verso l’uomo si apre all’altro attraverso un grido di aiuto ma contemporaneamente si chiude ad esso in quanto avvertito come minaccia. Vivere è allora la difficile conciliazione tra il sentire di aver bisogno dell’altro e il non volere rinunciare ad essere e ad avere tutto. 

Condizione esistenziale di cui facciamo esperienza non solo in guerra ma anche in pace: in amore ad esempio. E tutte le volte che ci si educa e ci si impegna ad entrare autenticamente in relazione con l’altro da noi: il diverso da noi. 

ph © rosellina garbo

Di questo ambiguo sentire i giovani dello spettacolo si fanno commoventi interpreti: partendo da Pierre Bezuchov, passando per il principe Andrej Bolkonskij, fino alle meravigliose e dilanianti testimonianze di giovani donne, quali Mar’ja Bolkònskaja e Nataša Rostova.

Una restituzione del testo tolstojano questa di Luca De Fusco che riesce a tradurre – con un ritmo ricco in suspense – i frammenti d’inquietudine che attraversano la sovrapposizione e l’intreccio dei piani di lettura di un’opera-mondo qual è “Guerra e pace”.

Pamela Villoresi, Marsilia Sokoli, Eleonora De Luca

(ph. rosellina garbo)

Splendido il darsi ora epifanico, ora inconscio, ora fluido, ora rapsodico di questa inquietudine esistenziale, attraverso passaggi montati “a schiaffo. Quasi come se si stesse sfogliando il libro di “Guerra e Pace”.

(ph. Claudia Pajewski)


Recensione di Sonia Remoli

LA LEGGE DEL DESIDERIO di Massimo Recalcati alla Sapienza di Roma

MASSIMO RECALCATI

presenta

alla Sapienza Università’ di Roma

LA LEGGE DEL DESIDERIO

Radici bibliche della psicoanalisi

SAPIENZA UNIVERSITA’ DI ROMA

31 Gennaio 2025

Aula I del Dipartimento di Lettere e Filosofia

***

Quanto ci è cara la parola “sacrificio” ?

Quanto ci rassicura il suo spaventarci, il suo tenerci in pugno, fermi in attesa, chiusi nel dover essere, sterili nell’essere?

In fondo è lei – l’idea del doverci sacrificare – a sorreggerci.

E com’è disorientante scoprire, invece, che il sacrificio è un po’ un miraggio: un rallentamento e una deviazione della radiazione luminosa della parola. Un inganno della temperatura del cuore, che confonde quello che è il nostro autentico realizzarci: aprirci alla fede nell’inebriante insicurezza trasformativa della libertà. Realizzazione che trova un equivalente nell’aprirsi a scoprire la fertilità del “fare amicizia con il proprio peggio” (ovvero con il nostro inconscio), di cui ci parla la psicoanalisi.

Quella libertà cioè di fiorire per portare a maturazione i frutti del nostro talento: quel qualcosa che ci è stato donato, a cui siamo chiamati, e che ci rende speciali. Da far fruttificare qui e ora. Tutti: ciascuno il proprio, perché tutti ne abbiamo ricevuto almeno uno, di talento.

Anche di questo si è parlato ieri nell’Aula I del Dipartimento di Lettere e Filosofia della Sapienza Università di Roma, che ha accolto con grande entusiasmo il celebre psicoanalista e saggista Massimo Recalcati, invitato da Gaetano Lettieri, Professore ordinario di Storia del cristianesimo e delle chiese e direttore del dipartimento di Storia Antropologia Religioni Arte Spettacoli.

Occasione dello splendido incontro è stata la presentazione dell’ultimo libro di Recalcati “La legge del desiderio. Radici bibliche della psicoanalisi (Einaudi) che, insieme al precedente volume “La legge della parola. Radici bibliche della psicoanalisi (Einaudi), costituisce il frutto di un’analisi riflessiva durata 12 anni. E che ha rivelato allo sguardo di Recalcati come nei testi biblici sia possibile rintracciare un’eredità psicoanalitica.

La prima eredità, ci ricorda Recalcati, è quella costituita dalla “parola”, che già nel testo biblico si rivela nel suo duplice valore di eccedenza e di Legge. E’ eccedenza perché il suo significato va oltre il suo essere strumento di comunicazione: la parola “è luce” e in quanto tale “fa esistere il mondo”. Ma la parola è anche Legge, perché ci porta a fare l’esperienza “del non tutto è possibile”, cioè di una separazione dal tutto. Ma proprio in questo spazio vuoto, e solo in questa mancanza, può originarsi la potenza generativa del desiderio.

Un desiderio quindi che non si consuma libertinamente, fino a svuotare la vita, quanto piuttosto un desiderio che “rende la vita capace di vita”. Capace di distinguere l’impossibile margine d’azione sul darsi di alcune realtà e la possibilità di manovra, e quindi di generazione, invece sul resto. Una postura esistenziale che fa della Legge del “non tutto è possibile” una scaturigine da cui zampilla il desiderio.

Massimo Recalcati

Lo stesso Gesù dichiara di essere venuto “per far divampare il fuoco del mondo”. La sua Legge del desiderio – che non abolisce la Legge di Mosè ma si dà come sua continuazione – non si limita a trasmettere la freddezza rigida delle Tavole della legge. Piuttosto fa sì che la Legge attizzi un fuoco.

Un fuoco che rianima la vita.  Perché Gesù prima, e lo psicoanalista dopo, sanno che la tensione verso la sicurezza a chiudersi alla vita – che spaventa non meno della morte – è la tensione più forte che abita il nostro essere “umani”. 

“Chi vorrà conservare la propria vita la perderà – dice Gesù, e continua – chi per causa mia (cioè chi seguendo la Legge del “non tutto è possibile” come causa del desiderio) sarà disposto a perderla, la troverà”.  Così come più tardi Freud dirà che la tendenza all’autoconservazione, cela una pulsione di morte.

In questo orizzonte, il concetto di “peccato” riacquista la sua luce, perdendo quell’alone di opacità che ne fa l’onta della trasgressione. Gesù sa che non siamo fatti per identificarci totalmente con la Legge: conosce la nostra natura. Si è fatto uomo come noi. E ha detto di “non essere venuto per i giusti”. Lo stesso sostiene Freud: in quanto esseri pulsionali, non possiamo identificarci mai con la Legge. 

“Peccato” è allora mancare il bersaglio, perdersi un’occasione: mancare l’incontro con la grazia. “Peccato” è seppellire il proprio talento: non aprirlo alla tensione verso la fioritura e la maturazione dei frutti. Jacques Lacan diceva che il vero peccato è quello di non agire in conformità al desiderio che ci abita. Quel desiderio che guida il nostro agire: che ne è causa. Un desiderio poietico, creativo, generativo: un fare che non attende, chiuso nel lamento passivo. 

Al paralitico che vive ai bordi di una piscina attendendo da 38 anni il passaggio di un angelo che gli restituisca la salute, Gesù si rivolge dicendogli “ma tu, vuoi guarire ?”. Domanda sulla quale si fonda la stessa psicoanalisi: per vivere da vivi, occorre un movimento di ricerca. Iniziando subito: partendo da quello di cui al momento si dispone. “Cosa c’è ?” – domandava Gesù quando gli chiedevano di fare un miracolo. Ed è dall’acqua sporca in cui tutti si erano lavati le mani, che Gesù parte per trasformarla in vino. Perché quella lì, avevano da trasformare.

Perché il “miracolo” non è il prodigio, non è la magia. Piuttosto è l’aver fede nella possibilità della trasformazione. 

La cifra fulgente dei contenuti, dell’eloquio e dell’ascolto del Prof. Recalcati è stata occasione di un vibrante dibattito con il Prof. Lettieri, che ha introdotto e coordinato la presentazione. Così come, mosse da un fertile solletico conoscitivo, si sono rivelate le numerose e stimolanti domande da parte dei partecipanti all’evento.

Un incontro, quello di ieri con Massimo Recalcati, che è andato oltre la presentazione di un testo, rivelandosi un‘occasione di grazia con un maestro. 


Recensione di Sonia Remoli

Recensione dello spettacolo RADIO ARGO SUITE – di Igor Esposito – diretto e interpretato da Peppino Mazzotta

TEATRO INDIA, dal 29 Gennaio al 2 Febbraio 2025

C’è una stazione radiofonica: Radio Argo suite.

Parla di una guerra, quella di Troia, incastonando le diverse narrazioni dei protagonisti della medesima storia, l’ Orestea, dentro una sequenza di brevi pezzi musicali (strumentali e cantati), legati da un tema comune: i temperamenti delle donne e degli uomini.

Comunicare in tempo di guerra significa spesso far emergere le vittorie del proprio schieramento. Fare propaganda. Veicolare un solo punto di vista.

Nella Prima guerra mondiale si era chiesto al “cinema” di raccogliere il consenso delle masse tramite cinegiornali, che esaltavano le imprese militari del proprio Paese.

Nella Seconda guerra mondiale il mezzo principale di comunicazione è stata “la radio”, che per la prima volta, comunicava a milioni di persone, dando origine ad una guerra psicologica, parallela a quella combattuta con le armi. 

La guerra del Vietnam è stata la prima invece ad entrare nelle case grazie alla “televisione”, determinando un dissenso tale nell’opinione pubblica americana, da influenzare pesantemente anche l’andamento della guerra stessa. 

Qui, in questa partitura per voce e musica di Igor Esposito, interpretata da Peppino Mazzotta ed eseguita dal vivo da Massimo Cordovani e da Mario Di Bonito, con la post produzione live dei suoni di Andrea Ciacchini, si chiede invece alla “radio” di versare nell’orecchio di chi ascolta un fluido densamente corposo di parole e di suoni dalla forte vocazione libertaria e ribelle. 

L’intento manifesto è quello di sfilare la maschera alle illusioni che il potere “vende” da secoli. Un’ardita impresa, questa in cui ha sentito l’urgenza di lanciarsi il poeta, scrittore, drammaturgo Igor Esposito, rivisitando l’Orestea di Eschilo.  Perché la tragedia greca custodisce l’essenza della nostra inclinazione verso la politica: ci illumina “sull’arcano passato da cui veniamo e sul tragico presente in cui navighiamo”.

Nasce allora l’esigenza di forgiare una nuova lingua piena di ritmo, ferocemente seducente, che parli spudoratamente anche alla contemporaneità. 

Una nuova lingua affidata all’estro elegantemente insolente di Peppino Mazzotta, che la restituisce alle viscere dello spettatore, prima ancora che alla sua decodifica intellettiva. 

Perché l’irrazionalità è molto più potente della razionalità.

Perché l’istinto alla sopraffazione è ciò che ci unisce tutti, una volta gettati al mondo.

Perché la solidarietà, l’amore, il rispetto, vengono dopo: vanno imparati.

Il corpo della voce di Mazzotta, orientato dalla riscrittura terapeuticamente ustionante di Esposito, riattiva il metabolismo vitale dello spettatore, restituendolo alla vitale tensione verso la ricerca. Verso un’indagine continua, sostenuta da spirito critico e alleggerita dalle pastoie di un’illusione di confortevole e duratura sicurezza.

I personaggi dell’ Orestea – così intimamente restituiti dalla riscrittura di Esposito –  “ora” hanno ancor più qualcosa di familiare, di struggente e di terribile. Quel qualcosa che Mazzotta veicola nella nostra carne e nei nostri nervi e ci fa arrivare poi negli occhi. Restituendoci diottrie.


Complice quella lingua che musicalmente s’impregna di vita viva, per arrivare a dilatarsi e a tendersi, come le tensioni che incarna e che poi suscita.

Una stazione radiofonica – questa Radio Argo suite – che ci solletica fino a pungerci. Per mantenerci  vibrantemente vigili e sintonizzati. Così da avvertire i pericoli che, ieri come oggi, attraversano la nostra realtà.

Radio Argo suite: la stazione radiofonica che “al rumore delle armi, preferisce il suono del mare”.


Recensione di Sonia Remoli