I FUNERALI DI CORRAO di Emilio Isgrò – Rassegna di drammaturgia contemporanea “Parole d’autore”

GNAMC

GALLERIA NAZIONALE D’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA

20 Marzo 2025

Nella meravigliosa architettura di luce della Sala delle colonne della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, nella serata del 20 Marzo u.s. ha avuto luogo il primo incontro della Rassegna di drammaturgia contemporanea “Parole d’autore”. Rassegna nata dalla passione per la drammaturgia del regista teatrale e direttore artistico Piero Maccarinelli e prodotta dalla Compagnia Orsini, in collaborazione con SIAE.

Una proposta che individua nella drammaturgia contemporanea quel ponte capace di dare vita ad un osservatorio attivo di pubblico partecipe, stimolo e confronto tra le diverse espressioni del fare teatro oggi.

Renata Cristina Mazzantini


 
Ad aprire la serata – dedicata all’artista, scrittore e poeta Emilio Isgrò, celebre per il linguaggio artistico della “Cancellatura” – è stata la Direttrice della Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea Renata Cristina Mazzantini. 

Emilio Isgrò è infatti l’Artista protagonista della GNAMC per questo anno e a lui la Galleria dedica una serie di incontri, unitamente all’esposizione di una selezione significativa delle sue opere.

La figura di Isgrò è stata selezionata per l’anno 2024-2025 in occasione dei sessant’anni della “Cancellatura”: un gesto artistico radicale che ha rivoluzionato il linguaggio dell’arte a livello internazionale.


Renata Cristina Mazzantini, Guido Talarico , Emilio Isgrò

Ma – come acutamente definito dal Presidente della Fondazione Teatro di Roma, Francesco Siciliano – Emilio Isgrò è “una creatura rinascimentale”: un artista nel senso più vasto della parola, dall’inclinazione pluridisciplinare. 

Francesco Siciliano

E tra le numerose iniziative culturali Isgrò amò impegnarsi anche nelle “Orestiadi” di Gibellina, al fine di celebrare la rifondazione della città e segnare l’alba di un destino tutto da riscrivere. Ed così che sulle rovine della distrutta Gibellina – novella Troia e immaginario Palazzo degli Atridi – Ludovico Corrao propone la recita dell’Orestea proprio nel ‘siciliano poetico’ ideato da Emilio Isgrò.
 
L’artista era ieri sera presente in sala per presenziare alla rappresentazione del suo poemetto “I funerali di Corrao”, un omaggio all’indimenticabile amico e mitico sindaco di Gibellina, in rappresentanza del quale era presente in sala la figlia Francesca. E molti altri personaggi del mondo dell’arte.


Piero Maccarinelli


Ed è così che dalla raffinata regia di Piero Maccarinelli ha preso vita nella serata del 20 Marzo u.s. – in un insolito riallestimento della Lounge delle Colonne – un’elegante messa in scena del testo di Isgró “I funerali di Corrao”. 

“Perché un allestimento museale – sostiene la direttrice Mazzantini – funziona se raggiunge il pubblico, mettendolo nelle condizioni migliori per entrare in contatto con l’opera d’arte. Perché l’allestimento museale è esso stesso una messa in scena che può svelare i significati sottesi dell’opera e saper creare emozioni e ricordi”. 

Francesca Benedetti, Mariano Rigillo, Anna Nogara, Barbara Eramo, Stefano Saletti

E cosí é accaduto: la versatilità dello spazio della Sala delle Colonne ha veicolato un fluido coinvolgimento alla fruizione della rappresentazione teatrale, punteggiata dalla metafisica malinconia del canto di Barbara Eramo e dalla musica al bouzuki di Stefano Saletti

Appassionati dallo studio e dalla diffusione della musica e della cultura mediterranea, le proposte musicali dei due artisti trovano la piú efficace espressione di sincretismo linguistico ed etico nella “lingua sabir”: la lingua franca parlata fino all’inizio del secolo scorso dai pescatori, dai marinai e dai commercianti del Mediterraneo. 

Un’acuta scelta registica, quella che ha portato Maccarinelli a impreziosire la messa in scena teatrale con canti propri di questa lingua, che ci ricorda – coerentemente al tema del poemetto di Isgró – l’importanza del dialogo e dell’intessere relazioni civili e culturali. 

La Sicilia cancellata di Emilio Isgrò

Qualcosa di analogo si rintraccia nel fine ultimo dell’arte della “Cancellatura” di Isgró: uno scoprire, coprendo, il valore dei rapporti umani, fondato su una reale possibilità di comunicare e di preservare la parola per quando servirà. Perché “l’arte – sostiene Isgrò – è l’unica forma rimasta di educazione umana”.


Ma anche la vita e l’arte di Ludovico Corrao sono attraversate dalla stessa vocazione a riallacciare un dialogo tra le diverse culture mediterranee. Ne sono splendide testimonianze “Le Orestiadi” di Gibellina e il Museo delle Trame Mediterranee.

Ludovico Corrao



L’interpretazione drammaturgia del testo di Isgró “I funerali di Corrao” viene affidata da Maccarinelli ad attori del calibro di Francesca Benedetti, Anna Nogara, Mariano Rigillo, in passato protagonisti dell’Orestea di Isgrò al Cretto. 

Laddove del testo Rigillo segna il passo solenne del suono, unitamente al ritmo dell’incedere e Anna Logara ne fissa i concetti sinesteticamente con gli occhi, la Benedetti sembra ricamare tra loro punti di legame, dalla freschezza impetuosa di accenti. Ed é canto. Anzi concerto di identitá in dialogo. 

Una serata ricca in meraviglia che si è rivelata un inno a tutto tondo al potere drammaturgico del saper creare connessioni.

Il secondo appuntamento della Rassegna di Drammaturgia Contemporanea “Parole d’autore” – presentato dalla Fondazione Teatro di Roma – si è tenuto al Teatro Argentina ieri 24 Marzo u.s. ed è stato un omaggio ad uno dei più importanti protagonisti del teatro italiano: Massimo De Francovich, con “VISITA AL PADRE”, un inedito di Norm Foster. In scena anche Maximilian Nisi.


Francesca Benedetti, Mariano Rigillo, Anna Nogara, Barbara Eramo, Emilio Isgrò, Piero Maccarinelli, Stefano Saletti



Recensione di Sonia Remoli

Recensione BEHIND THE LIGHT – di e con Cristiana Morganti –

TEATRO VASCELLO

dal 21 al 23 Marzo 2025

Ma sarà proprio vero che “l’energia genera sempre energia” e che “non bisogna fermarsi mai”?


Cosa prende forma ad un certo punto della vita tra un “mi hanno insegnato” e un “mi manca” ?


Che uso si deve, o si può, fare delle proprie origini professionali e personali ? E che cosa significa trasmetterle ?

Insomma, cosa s’insinua “dietro la luce” di una danzatrice e di una donna di successo ?



Cristiana Morganti – performer di fama internazionale diplomata in danza classica e in danza contemporanea e formatasi per oltre un ventennio al Tanztheater Wuppertal Pina Bausch, approfondendo lo studio sulla voce e sulla ricerca teatrale con gli attori dell’Odin Teatret di Eugenio Barba – ci invita con ironica e provocante dissacrazione a “rompere” la quarta parete e a sintonizzarci sulla sua lunghezza d’onda. Concedendo libero corso a tutto ciò che abbiamo sacrificato per un determinato periodo della nostra vita e che ora ci va troppo stretto per riuscire a continuare a farlo.

Ma cosa si può fare – di creativo – di questo invadente disagio? 

(ph. Ilaria Costanzo)


Sorprendendoci continuamente, la Morganti ci tiene alla poltrona di sala tesi a spiccare il volo: ognuno il proprio. Un volo nuovo, un nuovo inizio: come è accaduto a lei, subito dopo che la vita l’ha scaraventata a terra.
Ma “stare a terra” può aprire a nuovi orizzonti, a nuovi desideri, che in parte tradiscono i precedenti e in parte se ne fanno personali – e quindi liberi – legami. 

E così, ad esempio, l’essenza dell’iconica sedia delle origini (vedi il Café Müller di Pina Bausch) resta ma prende le sembianze di una morbida, leggera, coloratissima, rimbalzante o sprofondante poltrona gonfiabile. 

(ph. Ilaria Costanzo)



Rosa fluo: un colore brillante, impossibile, impudente, energico.

Un colore che nel corso della performance la Morganti inizia anche progressivamente ad indossare e a fare suo, come un nuovo temperamento.

E che associa al nero: un colore in perenne espansione, pronto ad inghiottire tutto. Ma sebbene sia la traduzione dell’assenza di luce, nessun nero riesce ad esserne totalmente scevro.

Soprattutto per una donna e una professionista come la Morganti che, interrogandosi, scopre di non essere solo rigorosa ma anche curiosissima e quindi restia a scegliere rigidamente. Insofferente, ora, a fare tagli, sebbene una parte della sua psiche più sabotante la inviti a farlo.

E’ il suo gesto danzante così poetico a parlarcene, nel momento in cui lo vediamo reiteratamente geometrizzarsi in una chiusura, in un perimetro, in un limite che separa e non invita ad un prossimo nuovo incontro. 

Così come si rivela di lacerante ironica bellezza il suo modo di rendere creativo il dissidio tra fragilità e forza. Come quando, ad esempio, entra in relazione con uno dei dictat asfissianti della propria formazione, prima cercando di sublimarlo in un canto dalla luminosa ironia melodrammatica e poi – ancora non paga – rinunciando alle stesse parole per affidare lo scioglimento del disagio al dialogo tra l’espressività corporea e quella musicale.

(ph. Antonella Carrara)

Perché lei si riscopre golosa di vita, laddove la vita e la danza le hanno richiesto l’ascesi della rinuncia. Ma l’esplorazione del limite, non come separazione ma come soglia di dialogo con l’oltre, ora ha la meglio sulla sua mitica compostezza. Messa a dura prova anche da terremoti esistenziali.

Ecco allora che la sua parola diviene “ironica” perché – proprio come sosteneva Kierkegaard  – «L’ironia è la via; non la verità, ma la via». Perché l’ironia è come un mare, in cui ci si può tuffare per avere un «tonico refrigerio» quando l’aria è troppo pesante.

(ph. Ilaria Costanzo)

Concetti fascinosamente visualizzati attraverso gli originali e raffinati video di Connie Prantera e da una drammaturgia luminosa curata da Laurent P. Berger.

Una performance – questa di Cristiana Morganti affiancata alla regia da Gloria Paris – sorprendentemente spiazzante, sapientemente provocatoria, profondamente liberatoria, vibrantemente energizzante.

Anche per lo spettatore.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE – regia Valerio Binasco

TEATRO ARGENTINA

dal 19 al 30 Marzo 2025

“Portateci con voi”.

Questo oggi ci chiederebbero – secondo lo sguardo registico di Valerio Binasco – quei sei personaggi in cerca d’autore, che hanno sempre faticato a farsi capire. 

Il loro messaggio è così urgente che ci viene preannunciato già prendendo posto in sala: il sipario non è completamente chiuso ma lascia come una porta aperta sulla scena retrostante.  E al termine della rappresentazione, ugualmente, gli attori ne trattengono la chiusura completa.

E’ un messaggio dalla commovente bellezza. 

Un messaggio puntuale nel parlare di noi sempre, e in particolar modo oggi. Perché urla il nostro bisogno di essere guardati con appassionata curiosità da chi ci è simile, ma ancor di più da chi da noi differisce. Facendoci prossimi tra diversi. 

Perché l’altro che è “fuori di noi” è lo specchio dell’altro che è “dentro di noi”: è quella nostra parte interiore che tendiamo a silenziare perché troppo diversa da un presunto sentire comune e quindi più difficile da essere compresa dagli altri.

Anche le luci di sala stanno lì e non scendono, quando la scena inizia a popolarsi. A ribadire l’esigenza che quei sei personaggi siano bagnati e abitino la luce della realtà e non solo quella della fantasia dell’autore. Loro sono tra noi. Loro sono in noi. Non possiamo non accoglierli, non possiamo non portarli con noi.

In questo senso il luogo della scena in cui avvengono le prove di teatro (la cura delle scene è di Guido Fiorato) può essere letto come metafora del teatro della nostra psiche, dove continuamente vanno in scena le prove del dialogo e della censura tra le nostre aree più logiche e quelle più creativamente libere. Un dialogo che prevede cambi d’ habitus (di modi di essere); pensieri da memorizzare facendoli propri; scenari di possibilità d’azione e di senso a cui dare continuamente accoglienza, ecc.

Una predisposizione di cui i giovani allievi di una possibile scuola di recitazione –  nello specifico qui quella del Teatro Stabile di Torino – sanno farsi vibranti interpreti: nel bene e nel male; con entusiasmo e con impacci di grazia. Come è naturale che sia. 

Lo stesso non si può dire, almeno inizialmente, per il Direttore di scena che – come lascia immaginare la sua malcelata insofferenza verso il modo di fare dell’assistente, così come il suo continuo bisogno di immobilità e di confini (che però luccichino) – si trova a vivere una fase crisi: di irrigidimento, di eccessivo controllo protettivo e quindi di sterile creatività. Una crisi che, come tutte le crisi, è occasione per entrare in ascolto di noi stessi, attraverso nuovi incontri. Provando a farne un uso fertile. 

E l’occasione non manca.

Infatti proprio mentre stanno mettendo in prova “Il giuoco delle parti” appaiono epifanicamente i “Sei personaggi in cerca d’autore”. Quasi come per evocazione di qualcosa che “risuona” e che aspetta solo che si crei un piccolo varco di comunicazione, per manifestarsi. Invadendo il confine di sigillata separazione e di messa in sicurezza. 

In verità, qui in Binasco, inizialmente sono quattro i personaggi in cerca d’autore: è un gesto di cura del regista e un dono d’attenzione per compensare, almeno in parte, quella mancanza d’attenzione verso i due figli piccoli ai quali non è stata precedentemente concessa, tanto da morire per incuria familiare.  Loro entreranno in scena successivamente e prenderanno corpo e anima in due giovani allievi della scuola di teatro.

Inconsapevolmente, accade allora che durante le prove de “Il giuoco delle parti” il Direttore di scena scelga di riapprofondire proprio delle scene le cui tematiche sono decisamente affini all’altra opera di Pirandello: quella dei “Sei personaggi in cerca d’autore”. E sarà proprio l’apertura appassionata verso queste tematiche a lasciare aperto un piccolo varco al loro ingresso. Proprio come la postura del sipario ci ha aiutato a visualizzare, prendendo posto insala.

Ne “Il giuoco delle parti” Silia, moglie di Leone e amante di Guido, si dispera per non sentirsi libera di desiderare e di essere desiderata. Suo marito, infatti, concedendole di essergli infedele – a patto di piccole ritualità quotidiane da ottemperare in ossequio agli occhi della gente – soffoca quella irresistibile esplosione del desiderio che si realizza solo quando si infrange un argine. Qualcosa di molto simile alla storia dell’Amalia dei “Sei personaggi in cerca d’autore”: lasciata totalmente libera dal marito di “intendersela” con il suo aiutante. Anzi, costretta. E: “Io soffoco, mi sento come in carcere” – dice la giovane interprete di Silia, alla prova. 

Il Direttore di scena, per rendere la sua interpretazione più credibile, le suggerisce di pensare a qualcuno che ha odiato pur amandolo.  E lei nel cercare in sé l’assurda mescolanza di questo sentimento, ricorda di provarlo verso suo padre, che l’ha abbandonata. Anche questo tema, così drammaticamente reale, non fa che far “risuonare” la storia del padre dei “Sei personaggi in cerca d’autore”.  

E lo stesso figlio legittimo dirà di “sentirsi in carcere”, tanto “non sa cosa fare di ciò che prova”. E non avendo le parole per dirlo, il suo disagio, rischierà di cadere vittima di questa mancata comunicazione tra le parti della sua personalità.

Rischio che il nostro stare al mondo sempre corre, in particolare in questo frangente storico, in cui si crede di poter risolvere ogni disagio con il denaro. Inseriti come siamo in una morsa capitalistica che ci invita a desiderare continuamente qualcosa di nuovo, realizzabile acquistando l’ultima versione di qualunque prodotto sul mercato.

E invece il desiderio, quello autentico, quello che ci fa vivere vibrantemente e con soddisfazione, non solo non è acquistabile ma richiede un provato equilibrio tra la tentazione ad avere tutto e ad essere tutto e la consapevolezza che il desiderio per potersi esprimere ha bisogno di essere alimentato dal confine al non tutto, segnato dall’interiorizzazione di una legge. 

La regia di Valerio Binasco si rivela di incandescente necessità in questo momento storico, in cui più che in altri periodi siamo disorientati.

La capacità di Binasco di rileggere il passato della tradizione e di darle voce fino a farla parlare laddove ancora non aveva avuto modo di esprimersi – o di esprimersi in una determinata modalità – è un’operazione culturale assai preziosa, che contribuisce a testimoniare la portata fertilmente tellurica di un’opera come i “Sei personaggi in cerca d’autore”.

Gli stessi personaggi, incarnandosi negli attori che Binasco ha selezionato e diretto in questa prospettiva, restituiscono quel qualcosa che ora ha l’opportunità di tornare ad avere la forza di brillare.

Oltre alla già menzionata efficacia della scelta caduta sull’impaziente entusiasmo dei giovani allievi dello Stabile di Torino – vivi in sensibile propositività – e sono Alessandro Ambrosi, Cecilia Bramati, Ilaria Campani, Maria Teresa Castello, Alice Fazzi, Samuele Finocchiaro, Christian Gaglione, Sara Gedeone, Francesco Halupca, Martina Montini, Greta Petronillo, Andrea Tartaglia, Maria Trenta -risulta davvero interessante l’interpretazione del padre del Binasco attore. 

Un padre con un determinato passato, ora fertilmente sedimentato e quindi aperto alla concertazione di possibili equilibri. Un padre che impara a fissare un limite sempre nuovo all’esuberanza vendicativa della figliastra (una tempestosamente magnifica Giordana Faggiano), un uomo che riconosce la sua “evaporazione” come marito (dell’arrendevole moglie di Sara Bertelà, commovente madre dal vigoroso istinto protettivo) e come padre di un figlio alienato, non solo prossemicamente dagli altri, ma intimamente da se stesso. Gli dà nerbo un interessante Giovanni Drago.

Ma il padre di Binasco dimostra di saper tessere relazioni anche con la vivace confusione esistenziale e professionale del Direttore di scena: un regista a cui Jurij Ferrini dona la capacità del saper attendere e del saper cogliere l’opportunità che questa sua fase di crisi gli sta offrendo.

Perché portare con noi “i nostri” personaggi in cerca di un autore – che spesso rivediamo a specchio in quelli degli altri – ci rende solidali.

E quindi più forti, perché creativamente liberi.


Recensione di Sonia Remoli

A COLPI D’ASCIA. UNA IRRITAZIONE – riduzione drammaturgica, regia e interpretazione Marco Sgrosso

TEATRO BASILICA

18 e 19 Marzo 2025

“Ma quanto siamo mostruosi ! “ – sembra volerci confessare, suo malgrado, Thomas Bernhard.

Tutti: è una postura anche dei deboli. La riceviamo a corredo, per natura, non appena gettati al mondo.

Questo testo avviluppante nel suo essere sferzante – e servito allo spettatore con irresistibile gustosità da Marco Sgrosso (attore, regista, pedagogo e co-fondatore assieme ad Elena Bucci della compagnia “Le belle bandiere”) e dal suo complice in musicalità Cristiano Arcelli (affermato sassofonista) – si apre e si chiude con un’innocente debolezza. 

Marco Sgrosso – Cristiano Arcelli

(ph. Luca Bolognese)

Ma così non è. Perché, paradossalmente, anche chi si tiene a distanza, e ben separato (come il protagonista), si scoprirà simile a coloro che depreca. Anche lui “coniuge” – diversamente coniugato – a loro: unito dallo stesso giogo, quello che ci porta ad essere per natura persone mostruose.

Lui però, il protagonista, è  anche “libero” e quindi capace di “mettersi in salvo”. Perché desideroso di trovare respiro a questa “irritante” e soffocante inclinazione, attraverso la scrittura.

“… e intanto correvo, come fuggendo da un incubo, correvo, correvo sempre più velocemente… e pensavo, mentre correvo, che le persone che ho sempre odiato e odio adesso e sempre odierò le maledico ma non posso fare a meno di amarle…e mentre correvo pensavo su questa cena artistica io scriverò, pensavo…non importa che cosa, solo subito, pensavo, subito e immediatamente, prima che sia troppo tardi…”

Eh sì, è davvero difficile entrare autenticamente in relazione con l’altro, investendo la propria libertà e il proprio tempo per sperimentare equilibri sempre nuovi con chi ci è diverso. Non a caso questo è il tema che acutamente il Teatro Basilica ha scelto di coniugare e declinare quest’anno all’interno della programmazione teatrale  2024-2025 intitolata “Persone”, ricordando come il padre della medicina Ippocrate invitasse i suoi pazienti – per conoscere meglio se stessi e quindi per relazionarsi meglio con gli altri – “ad allontanarsi dalla vita quotidiana” prescrivendo loro, oltre al riposo e al digiuno, di vedere almeno tre tragedie e una commedia.

Anche qui in “A colpi d’ascia. Una irritazione” di T. Bernhard, il protagonista da più di venti anni ha provato a “tenersi a distanza” dal mondo dall’ipocrisia di quegli artisti e intellettuali viennesi, soliti riunirsi in un’atroce mondanità. Così come prova, senza riuscirci, a declinare il recente invito dei coniugi Auersberger. E poi, pentitosi ferocemente, prova ancora a tenersi a distanza dal convivio del dopo teatro.

Ma lo fa morbidamente accolto nella sua Bergère, come su un trono. Da dove – apparentemente defilato ma in verità protagonista, com’è la natura stessa della poltrona con la quale entra in simbiosi – non fa che ridursi alla stessa ipocrisia di quegli ipocriti, che critica in quanto tali.

E’ il sax di Cristiano Arcelli ad aiutarci ad entrare ancor più in relazione con il protagonista di questo romanzo. Perché il sax è un’estensione dell’anima ed é sua la capacità di suonare bene sia da solista che in un ensemble. Lo stesso si può dire dell’estensione interpretativa di Marco Sgrosso che pur restituendo la verve egoica del protagonista, ce ne rende insieme la miriade di “variazioni”, proprie del suo (e nostro) condominio psichico.

(ph. Paolo Cortesi)

Sgrosso fa un uso potentemente inquieto degli occhi, a cui lega un efficacissimo e morboso gusto ad assaporare tutti i più reconditi sapori del disgusto, di cui possono essere farcite onomatopeicamente  (e non solo) le parole. Irresistibile, ad esempio, l’insostenibile scioglievolezza del sottotesto insito nel costrutto “bosco d’alto fusto a colpi d’ascia”. 

Ma l’essenza del personaggio di Sgrosso è opportunamente rigida. E solo perifericamente lo abita un brio furiosamente scattante. Tutto in lui recita: finanche i capelli. E’ lui il gallo del pollaio: ce ne parla anche la drammaturgia del disegno luci (curata da Loredana Oddone). E la stessa prossemica.

E ancora il sassofono: strumento meravigliosamente imperfetto. Come la condizione umana, che secondo Bernahard rischia l’autodistruzione se si prefigge un ideale di “perfezione”. “Ogni cosa è ridicola, se paragonata alla morte” – fu il suo commento quando ricevette un premio nazionale nel 1968. Confrontarsi con qualcuno migliore di noi può essere una tragedia: può rendere troppo vulnerabile la nostra intima natura di “soccombenti”.

 “Non necessariamente dobbiamo essere dei geni per poter essere unici al mondo” – fa dire Bernhard al narratore de “Il soccombente”: il primo volume dedicato all’arte della musica della Trilogia delle arti, di cui “A colpi d’ascia. Una irritazione” è il secondo (dedicato all’arte del teatro) e “Antichi maestri” il terzo, dedicato all’arte della pittura. 

Il nostro essere imperfetti è infatti un tema che avviluppa moltissimo Bernhard e che esplora in tutte le sue variazioni, passandole allo spietato vaglio della razionalità.

Quelle persone credono, poiché si sono fatte un nome e hanno ricevuto molti premi e pubblicato molti libri e venduto quadri a molti musei e pubblicato i loro libri presso le migliori case editrici e sistemato i loro quadri nei migliori musei, poiché questo Stato disgustoso ha concesso loro tutti i possibili premi e ha appeso al loro petto ogni possibile medaglia e decorazione, quelle persone credono per questo di essere diventate qualcuno, e invece, pensavo, non sono diventate nessuno”.

O anche:

“…E una simile persona ha il coraggio di sostenere come se niente fosse che lei scrive meglio di quella Virginia Woolf che io, da quando ho cominciato a riflettere sulla letteratura, ammiro e considero la prima di tutte le scrittrici al mondo”.

Il suo feroce odio verso tutti coloro che credono di essere diventati, o di poter diventare, “qualcuno” ci parla di quanto sia importante per Bernhard capire dove trovare comunque una sua personale “identità”.

Una possibile risposta può essere rintracciata nel suo stile di scrittura, che è lo specchio del suo particolare, e quindi unico, modo di stare al mondo: uno stile che si basa sull’ossessione del ritmo quasi maniacale che è la riproposizione del suo ritmo esistenziale. Vitale, anche se è un respirare che si dà in una continua ripetizione di concetti che produce l’effetto di un andamento a spirale, piuttosto che quello di una consequenzialità lineare. Ma la consequenzialità implica “legami”, o almeno “relazioni”, dai quali Bernhard si tiene accuratamente alla larga, traumatizzato com’è dalla sua origine.  Un’origine che vive non tanto nel passato ma nel presente, nell’istante che fugge.

E seppure il mondo risulti così orrendo e le ruminazioni della mente non lascino spazio ad alcun ottimismo, i meccanismi trovati da Bernhard per esprimere il disastro in cui viviamo sono davvero esilaranti.


Uno spettacolo questo di e con Marco Sgrosso che fin da subito, nonostante la complessità dello stile di Bernhard, è riuscito ad avviluppare l’attenzione e il gusto dello spettatore. Che si è poi scatenato avviluppando, a su volta, Marco Sgrosso e Cristiano Arcelli in  un lunghissimo applauso. 


Recensione di Sonia Remoli

MOBY DICK ALLA PROVA – uno spettacolo di Elio De Capitani

TEATRO VASCELLO

dall’11 al 16 Marzo 2025

Con il suo “Moby Dick alla prova” il regista Elio De Capitani ci dona un’intensa testimonianza di teatro civile. Manda in scena “la prova” di una vocazione alla militanza, che si manifesta nella tensione a concertare non solo il lavoro ma soprattutto lo stare al mondo di una eterogenea comunità. Sul ritmo musicalmente flessibile del respiro di un canto. 

Elio De Capitani

Ne sono una stupefacente dimostrazione di bellezza i canti che abitano appassionatamente la scena – i cui cori sono diretti da Francesca Breschi – e che sono accurate rielaborazioni degli sea shanties: antichi canti marinareschi usati assai efficacemente per accompagnare il lavoro coordinato di gruppo. 

Erano infatti forme musicali dal testo “flessibile” e quindi “disponibile” ad entrare in accordo con le “diverse” mansioni richieste per il funzionamento della nave. Canti che qui, a loro volta, si ritrovano accompagnati, o contrappuntati, da un’orchestra di accenti ritmici, frutto di varie modalità di percussione dei piedi o degli stessi oggetti di lavoro. Ed è pura bellezza.

Angelo Di Genio è Ismaele

Il nostro essere gettati al mondo è fratello a quello di Ismaele (qui un intenso Angelo Di Genio): abbiamo tutti un destino da erranti, da nomadi, sebbene sempre in bilico tra un confortevole desiderio di sicurezza, a terra (che rischia però di deprimerci) e una misteriosa attrazione verso l’apertura avventurosa, in mare (nella quale possiamo perderci). 

Un destino da erranti, specchio del nostro difficile rapporto con la libertà. Che da un lato ci inebria e dall’altro ci angoscia. Che da un lato ci tenta a dominare sugli altri e dall’altro ci fa sentire piccoli e impauriti. Fino a paralizzarci, preferendo consegnare la nostra libertà nelle mani di qualcun altro.

Elio De Capitani qui è il Capitano Achab

Perché come Ismaele sappiamo poco di noi stessi: per un periodo della nostra vita sono stati altri a darci un nome e un’identità, ma nel restante periodo che ci è concesso di restare al mondo, sta a noi voler scoprire chi siamo e fare qualcosa di nostro di quello che altri hanno iniziato a fare di noi.

Il “Moby Dick alla prova” di Elio De Capitani è la testimonianza di un invito “a provare” a vivere, guidati da un sogno da realizzare. Insieme. Nonostante e grazie alle nostre differenze. Grati per la “gioia di prepararlo”. Per la gioia di mettersi “in prova” e “alla prova”. Al di là della sicurezza di riuscire a portarlo in porto, così come inizialmente immaginato. Permettendoci, cioè, di esplorare tutti i cambi di rotta che durante la navigazione si presenteranno, in quanto inaspettate e fertili occasioni a cui prestare ascolto. E cercando di non farci tentare, come è accaduto al Capitano Achab, dall’ossessione a seguire ciecamente solo il nostro egoistico sentire: a volere e ad essere tutto.

La ciurma del Pequod (la cura dei costumi è di Ferdinando Bruni)

La bellezza di questo spettacolo sta proprio nel modo di restituire allo spettatore quei continui e necessari “tagli” propri di un lavoro comune in fieri, in prova. Individuando i momenti in cui saper lasciare spazio all’altro da noi: che sia il sentire di un nostro simile, l’incontro con un’esperienza inaspettata, un momento di riflessione, un cambio di rotta. 

Come esemplificato, ad esempio, da quel fulgente avanzare del capocomico De Capitani che, come coltello, separa le due file di tavoli e rende incandescente la sensazione dell’urgenza di dare vita a una biforcazione del cammino fino ad allora avviato dalla compagnia. Separando (in realtà solo apparentemente) le prove in corso del “Re Lear” di Shakespeare, per passare ad una nuova (e complementare) prova: quella del “Moby Dick alla prova”, appunto.

Una bellezza del “tagliare” che si completa con la capacità a saper “lanciare ponti”. Concetto quest’ultimo efficacemente visualizzato dal regista De Capitani attraverso la scelta di versare nell’orecchio, oltre che nell’occhio, dello spettatore quella “stabilità all’accordatura” offerta dal timbro chiaro e penetrante dell’oboe. Magnificamente suonato dal vivo dall’eclettico musicista, qui anche baleniere, Mario Arcari.

La versatilità e la capacità espressiva dell’oboe nasce infatti da una felice combinazione tra abilità tecnica, resistenza fisica e sensibilità musicale, metafora di un particolare modo di stare al mondo: un modo di appassionarsi a conoscere se stessi (nel bene e nel male) per potersi aprire all’ascolto del diverso da sé. Diventando così anche punto di riferimento per l’altro.

Elio De Capitani (Achab) – Enzo Curcurù (Stupp) – Mario Arcari (baleniere all’oboe) – Cristina Crippa (direttrice di scena/narratore/cambusiere) – Alessandro Lussiana (Elia e Tashtego)

Dall’intrigante bellezza rock sono poi “i ponti” gettati dall’affascinante stare in scena (e al mondo) della direttrice di scena/narratore Cristina (Crippa), storica fondatrice del Teatro Elfo Puccini. La sua capacità di “legare” nasce dal seguire “la prova” stando un passo indietro: seduta al suo tavolino rosso, inscritto in uno spazio dalla “sacralità” circolare. Lei autentica custode dello spettacolo, oltre che della cambusa.

Insomma, un adattamento registico e drammaturgico – la traduzione prevalentemente in versi sciolti dal romanzo di Herman Melville è della poetessa Cristina Viti – davvero interessante. Cifra dell’unione fra il singolo e il mondo e quindi invito alla partecipazione e al coinvolgimento. Senza interesse infatti l’uomo non si avvicina e non si arpiona alla sua realtà, quale nodo solido di una rete. 

Una rete di cui si fanno magnifici testimoni gli interpreti sulla scena: con Elio De Capitani, Cristina Crippa, Angelo Di Genio, Marco Bonadei, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Massimo Somaglino, Michele Costabile, Giulia Viana, Vincenzo Zampa.

Splendida dimostrazione di quel teatro “totalizzante” tanto amato da Gigi Dall’Aglio, al quale lo spettacolo è dedicato. E verso il quale Elio De Capitani non manca di gettare un ponte.

Si può dire che “ponte” sia la parola chiave intorno alla quale, a più livelli, gravita lo spettacolo. Che infatti attesta la sua efficacia, ad esempio, nel rendersi un ponte trans-generazionale capace di attraversare trasversalmente le tre generazioni di interpreti in scena. Ma anche quelle in platea.

Un ponte, ancora, tra la realtà sapientemente scarna della scena shakespeariana e la fantasia dello spettatore. E poi, tra contenente e contenuto: nel momento in cui la scena diviene il più favoloso degli “oggetti” di scena . Una magia anche “umanamente” preziosa, proprio perché fatta “con quello che c’è”. Senza presunzioni.

Decisamente uno spettacolo pieno di fascino, questo “Moby Dick alla prova” di Elio De Capitani: ben edificato e insieme così ricco in spontaneità, da riuscire a trasferire allo spettatore il magnetismo della gioia con cui è stato messo in prova.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione IL GOLEM – di Juan Mayorga – regia Jacopo Gassmann

TEATRO INDIA

dall’11 al 23 Marzo 2025

Cosa ci spaventa di più’ ?

Essere malati e non poter essere curati? – sembra chiederci questo testo dalla bellezza ombrosamente tagliente di Juan Mayorga.

C’è qualcos’altro che deve spaventarci, ci avverte Mayorga. 

Juan Mayorga

Soprattutto perché tendiamo a sottovalutarlo: il pericolo terribile che si insinua in noi quando perdiamo di vista il potere delle parole. 

Perché le parole non servono solo “per intendersi”, come crede Felicia, la donna che nello spettacolo farebbe di tutto (come noi, d’altronde) pur di assicurare un trattamento terapeutico a suo marito, malato. 

Perché in un possibile futuro ci potrebbe “venir detto” – proprio come qui nel testo di Mayorga – che il governo si riserverà di provvedere alla cura solo di certe malattie e non di altre.

Elena Bucci (Salinas) – Monica Piseddu (Felicia)

(ph. Laura Farneti)

E allora, presi in trappola e saccheggiati da sciacalli – che invece ben conoscono il potere delle parole – potremmo credere, colti dalla disperazione, nell’efficacia di trattamenti alternativi. Pagabili non con il denaro ma con qualcosa di molto più prezioso: la disponibilità a perdere il nostro potere sulle parole. E quindi su noi stessi. Perché le nostre parole costituiscono la nostra identità. 

Ritrovandoci, così, senza alcun potere. Deboli e soli. Consegnati alle loro mani, interessate a renderci ciò che desiderano fare di noi: servitori. 

E saremo la nuova versione degli antichi “golem“: creature fatte di materia informe, perfette da plasmare a piacimento altrui. Informi perché senza parole proprie. E quindi senza pensieri e senza opinioni proprie, che sole ci danno una forma e quindi un’identità. E quindi un potere. 

Saremo, così, creature alle quali si potranno mettere in bocca parole specifiche, il cui potere altri sceglieranno, perché capace di renderci fedeli servitori dei loro interessi.

Jacopo Gassmann

La potente bellezza della scenografia – pensata con acuta visionarietà da Jacopo Gassmann, realizzata con maestria da Gregorio Zurla, scolpita con un sapiente uso delle ombre da Gianni Staropoli, moltiplicata e allucinata dalle proiezioni di Lorenzo Letizia e immersa in un’elettrica suspence sonora da Giorgia Mascia – ce ne parla fin da subito: oscure strutture specchianti sono montate creando apparentemente un punto di fuga: una soluzione. Ma non è quello che sembra. E la possibilità di fuga si rivelerà un modo per stringere all’angolo la coppia protagonista della storia. E predarla. 

Magnifica visualizzazione, la scena, di come le parole possono creare realtà che potrebbero nuocerci, sebbene chi ne conosce il potere sceglie di farle passare come parole salvifiche.

Woody Neri (Ismaele) – Monica Piseddu (Felicia) – Elena Bucci (Salinas)

(ph. Laura Farneti)

Il potere comunicativo della parola, quello cioè che attribuisce alla parola un unico significato – fissato per convenzione in base ai principi della logica – é utile per capirsi. Ma solo superficialmente. Per avvicinarsi alla verità occorre conoscere invece il potere plurivalente delle parole. Un potere magico, generativo, che se conosciuto solo dall’altro potrebbe nuocerci, in quanto la nostra ignoranza ci impedirebbe di smascherarlo. E quindi di difenderci.

Monica Piseddu (Felicia) – Woody Neri (Ismaele)

(ph. Laura Farneti)

Perché scegliendo le parole si sceglie, si genera e si dà forma ad una realtà. Per questo motivo la parola e la magia sono da sempre così legate. Un consapevole ed esperto uso della parola ha un impatto formidabile sulla vita umana: migliore è il nostro uso delle parole, migliore sarà il nostro potere sulla realtà.

Solo per fare un esempio: Robert Levy, antropologo statunitense che negli anni ‘50 condusse degli studi sull’alto tasso di suicidi che affliggeva Thaiti, scoprì che nella cultura e nella lingua thaitiana non esisteva la concezione del dolore, fuorché quello fisico. Davanti al dolore interiore allora, per il quale non avevano parole per esprimerlo, i thaitiani si suicidavano. 

Monica Piseddu (Felicia) – Woody Neri (Ismaele)

(ph. Laura Farneti)

Qui nello spettacolo di Jacopo Gassman, Felicia viene avvicinata da Salinas, una donna misteriosa, che fa parte di una strana organizzazione sanitaria. Da giorni sta studiando il modo di predarla spiando i suoi modi di fare, perché i suoi modi sono il risultato delle parole che lei sceglie per definirsi. Da essi, dai suoi gesti, dalle sue scelte – solo apparentemente banalissime come ad esempio quella di scegliere di bere della birra analcolica in un bicchiere di plastica – può risalire alla maniera in cui far presa su di lei, convincendola subdolamente a collaborare. 

Sapientemente, e generosamente, la regia di Jacopo Gassmann permette allo spettatore di cogliere questi piccoli dettagli – fondamentali per poter avvicinarsi al testo di Juan Mayorga e funzionali per cogliere la “sincerità” della comunicazione – attraverso un accurato uso della prossemica. Oltre alla parola, infatti, un altro elemento che parla molto di noi è quello in cui scegliamo di metterci in rapporto con l’altro nello spazio. 

Monica Piseddu (Felicia)Woody Neri (Ismaele)

(ph. Laura Farneti)

Incantevolmente perverso è il modo di porsi della Salinas di Elena Bucci. Lei non si dà quasi mai nella chiarezza della frontalità: si pone sempre “di taglio” rispetto all’interlocutore, perché la sua parola è un taglio. Lei non guarda quasi mai negli occhi: parla come ad occhi chiusi, tutta presa dal piacere cangiante delle parole che sceglie, quasi pregustandone l’effetto sull’altro. 

Di lacerante bellezza la Felicia di Monica Piseddu: il suo generoso modo di darsi nell’ingenuità della non conoscenza delle parole e di lasciarsi quindi attraversare con perversa necessità dal maligno fascino di chi questo potere lo conosce e lo usa per sottomettere l’altro, punge gli occhi e il cuore dello spettatore. Perché è capitato almeno una volta anche a noi di esserci infilati in situazioni simili e inconsapevolmente ci siamo resi “golem” di qualcun altro. Il suo monito a chiusura dello spettacolo si incide nello spettatore con il caritatevole graffio del suo sguardo. E ci accompagna. Anche fuori dal teatro.

Inquietante e commovente poter “leggere” nell’Ismaele di Woody Neri tutto il percorso attraversato dall’umano che – progressivamente svuotato di personalità come uno “zombi” – arriva ad essere riempito dalla volontà dell’altro, proprio come un “golem”. Trasformandosi, così, da inconsapevole vittima a carnefice atarassico.

Questo di Jacopo Gassmann è uno spettacolo che avvince come un thriller esoterico, ricco di quella densa e labirintica suspence, che intriga e fa riflettere.

Questo di Jacopo Gassmann è uno spettacolo necessario.


Recensione di Sonia Remoli

Serata teatrale SHAKESPEARE SUL TITANIC – un libro di Giuseppe Manfridi

TEATRO BASILICA

11 Marzo 2025

“Nulla finisce tutto s’interrompe” : è il pensiero che ispira l’estetica di Giuseppe Manfridi, uno dei massimi drammaturghi italiani, autore di commedie rappresentate in tutto il mondo. 

Con questo stesso pensiero Manfridi “suggella transitoriamente” l’ultima pagina della sua nuova creatura editoriale: il testo in due volumi “Shakespeare sul  Titanic” (Edizioni Efesto), presentato ieri sera al Teatro Basilica di Roma.

E quale luogo poteva meglio incarnare questo pensiero estetico – “nulla finisce tutto s’interrompe” – se non quel centro d’accoglienza culturale, porto d’incontri imprevedibili, qual è il Teatro Basilica, che nasce proprio sulle fondamenta di una basilica “interrotta” ? Difronte all’area in cui sorgeva la più antica basilica romana, oggi occupata dalla basilica manierista di San Giovanni in Laterano. 

Lì, da anni, si era “interrotta” anche la gestione di un teatro. Riavviata e ricostruita poi come Teatro Basilica grazie all’entusiasmo e all’impegno dell’attrice Daniela Giovanetti, del regista Alessandro Di Murro, del collettivo Gruppo della Creta, di un team di artisti e tecnici. E con la collaborazione di Antonio Calenda. 

Un perfetto binomio d’intenti, quindi, quello tra l’estetica di Giuseppe Manfridi e la filosofia del Teatro Basilica: un magnifico intreccio di volontà e traiettorie, che amplia una comunità. I responsabili del Teatro Basilica, infatti, si sono fatti compagni di viaggio di questa nuova avventura, che ieri sera è stata festeggiata tra amici e che ora prenderà il largo.

Un viaggio nel viaggio: “Shakespeare sul Titanic” è esso stesso un libro-viaggio, che permette al lettore di navigare lungo rotte inaspettate, che ci parlano di un insolito Shakespeare. Ma è anche un libro che sa far scegliere al lettore quando fermarsi a largo: per lasciarsi andare a meditazioni filosofiche sulla giovinezza, ad esempio. Sul nulla, magari. Oppure lasciandosi trascinare da quello “sporgersi“ proprio della propalazione, che trova  terreno fertile anche in quella “teologica laica” chiamata Letteratura.

Un viaggio, questo “Shakespeare sul Titanic”, che è quindi una somma di imprevedibili viaggi. Anche perché l’orizzonte d’esplorazione è tale da ravvisare in ogni partenza sempre qualcosa che l’ha preceduta; così come in ogni approdo non la fine di un viaggio. Ma ancora uno “sporgersi” oltre.

Concetto-metafora splendidamente visualizzato da quella prua del Titanic e da quel balcone di Verona – installazioni dell’artista Antonella Rebecchini – che ieri sera hanno agito il palco del Teatro Basilica assieme ai tre compagni di viaggio di Manfridi, rappresentanza del Teatro Basilica: Antonio Calenda – tra i più prolifici registi italiani nonché supervisore artistico del Teatro Basilica; Daniela Giovanetti e Alessandro Di Murro co-fondatori del Teatro Basilica oltre che, rispettivamente, attrice e regista.

“Shakespeare sul Titanic” viaggerà nel tempo e nello spazio onorando antiche rotte e sperimentandone di nuove, grazie all’elegantissima versione cartacea alla quale se ne affianca una tecnologica, scaricabile dal sito della casa editrice Edizioni Efesto. Una preziosa occasione di lettura ma anche di scoperte, di curiosità inedite, di legami insospettabili, di approfondimenti, di ricerche. E ancora: i primi 100 acquirenti della versione cartacea riceveranno i due volumi che costituiscono l’opera in un prezioso cofanetto, confezionato artigianalmente da Alessandro Scura.

Il sapiente e accattivante racconto di Manfridi sulla genesi dell’opera – gravitante intorno alle rievocazioni delle forme assunte nel tempo dalla storia di Romeo e Giulietta – è stato gradevolmente intervallato da un’appassionata presentazione del regista Antonio Calenda e da un’intrigante lettura dell’attrice Daniela Giovanetti, che con la sua interpretazione ha cesellato alcuni passi dell’opera di Manfridi.

Una serata piena di gioia, quella di ieri, che forse – come sostiene Giuseppe Manfridi – è iniziata già prima e che proseguirà “sporgendosi” oltre noi.


Recensione di Sonia Remoli

LA LEGGE DEL DESIDERIO di Massimo Recalcati al Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II di Roma

PONTIFICIO ISTITUTO TEOLOGICO GIOVANNI PAOLO II

PER LE SCIENZE DEL MATRIMONIO E DELLA FAMIGLIA

7 Marzo 2025


Attesissimo ospite dell’incontro “Bibbia e Psicoanalisi” di venerdì 7 marzo u.s. – organizzato dalla Cattedra “Gaudium et spes” diretta da Pierangelo Sequeri (teologo, musicologo, compositore) – è stato il celebre  psicoanalista e saggista Massimo Recalcati. 

Occasione dello stimolante dialogo, moderato da Sequeri, con l’apprezzata filosofa e teologa Isabella Guanzini  è stata la discussione  sul recente  lavoro editoriale di Recalcati “La legge del desiderio – Radici bibliche della psicoanalisi” (Einaudi, 2024).   

Questo testo, insieme al precedente “La Legge della parola – Radici bibliche della psicoanalisi” (Einaudi, 2022) – già esplorato in un precedente incontro, sempre organizzato dalla Cattedra Gaudium et spes – costituisce un dittico, frutto di 12 anni di elaborazione, dedicato alla dimostrazione della tesi relativa a una non contrapposizione tra il pensiero biblico e la psicoanalisi. 

Spingendosi al di là della critica freudiana della religione, così come delle fondamenta atee della psicanalisi, Recalcati individua come proprio nell’humus del logos biblico affondino le radici più profonde della psicoanalisi. 

Massimo Recalcati

Non è la sua una tesi teologica, né una dimostrazione filologica. Piuttosto è stato l’esito di un suo personale incontro con le Scritture a consentirgli di identificare in esse l’esistenza di quei grandi temi che saranno ereditati dalla psicoanalisi, con particolare riferimento all’opera di Freud e di Lacan.

Un incontro, quello tra Recalcati e le Scritture, di cui Pierangelo Sequeri coglie tutta la portata straordinaria, essendo cifra del lavoro teologico e filosofico di Sequeri l’esplorazione di quelle fertili zone di confine che contagiano osmoticamente le scienze religiose, la filosofia, la psicologia e l’estetica.

In dialogo con Massimo Recalcati, la stimata  filosofa e teologa Isabella Guanzini  ha restituito una sua personale lettura de “La legge del desiderio” dall’appassionato e appassionante rigore.

Isabella Guanzini

Una lettura e un ascolto, i suoi, all’interno dei quali si è lasciata condurre rintracciando una kierkegaardiana via dell’ironia, sulla base della quale riconosce a Recalcati quella fertile distanza che consente di fare della tradizione “la proprietà di nessuno”. Perché una tradizione resta fertile “se si consegna a chi desidera risignificarla”. E Recalcati l’ha risignificata entrandovi in relazione, senza limitarsi a “prelevarla”. Volgendo lo sguardo – proprio come invitava a fare Jacques Lacan – alla “grazia” che ivi si cela. 

A Recalcati – prosegue la Guanzini – il merito di aver “elevato” il desiderio alla dignità della Legge, senza nulla togliere alla Legge. Facendo cioè finalmente “divampare quel fuoco” che Gesù è venuto a portare. Senza paura. Perché così esortava a fare Gesù: “non abbiate paura!”, invitando a prestare attenzione, e a rimanere fedeli, alla vocazione desiderante a cui ciascuno di noi è chiamato. 

Senza necessità di impaludarsi in inutili ansie da prestazione. Perché l’obiettivo non è tanto “l’oggetto” del desiderio, quanto “la causa che ci chiama”, che ci anima, che ci fa fiorire continuamente. E che, nonostante tutto, ci fa dire “sì”. Ancora.  Rendendoci “promessa” non di stabilità ma di continuità. E di sempre nuovi concatenamenti collettivi , che vivono e si alimentano di “testimonianza”.

Pierangelo Sequeri

Senza perdere di vista che il luogo della “grazia” – e quindi della “causa che ci chiama” – è  sempre il luogo di un “incontro”. 

Proprio come occasione di grazia si è rivelato questo incontro con Massimo Recalcati, organizzato dalla Cattedra Gaudium et spes del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia e magnanimamente condiviso con la comunità.

Testimonianza di come siano possibili esplorazioni sempre nuove tra saperi, se aperte ad un vibrante dialogo e a raffinate avventure dello spirito.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione EDIPO RE di Sofocle – adattamento e regia Andrea De Rosa

TEATRO VASCELLO

dal 4 al 9 Marzo 2025

Non è la città nella sua individualità quella che Andrea De Rosa manda in scena: non allude solo a Tebe o al tempio di Apollo. Ma ad un certo modo di abitare il mondo. Perché, in questo, siamo tutti Edipo.

Andrea De Rosa

Ciascuno di noi viene gettato nella vita in qualità di  “figlio”.

Nessuno di noi può autogenerarsi, né scegliere da chi essere generato. Quindi nessuno di noi è padrone della “propria” origine. 

Nostro destino è non sapere tutto di noi. E quindi dell’altro. 

Nostro destino è essere l’oggetto del desiderio di qualcun altro, che immagina e dà forma alle sue aspirazioni su di noi.

Nostra possibilità è fare sartraniamente qualcosa di proprio, di ciò che prima gli altri hanno fatto di noi. Perché ogni figlio si dà anche come vita distinta, separata, rispetto a chi lo ha generato.

Frédérique Loliée è Giocasta

(ph. Andrea Macchia)

Edipo viene generato per una dimenticanza e, una volta accortisi dell’errore, i genitori l’hanno atteso desiderando la sua morte. In verità Giocasta, qui una fascinosamente materna e conturbante Frédérique Loliée, immagina per lui di affidarlo al sonno e non alla morte, sperando così di consegnarlo nelle braccia di Morfeo da piccolo e di riaverlo da adulto. E così, a qualche livello, avverrà.

Una volta venuto alla luce, Laio lo abbandona per sfuggire al responso dell’oracolo, che gli raccomandò di non avere figli da sua moglie, o il figlio avrebbe ucciso lui possedendo Giocasta.  

Laio si era infatti macchiato in precedenza di una grave colpa: si innamorò di Crisippo e lo rapì durante i giochi di Nemea, portandolo con sé a Tebe.  E mentre gli insegnava a portare il carro, abusò di lui che, per la vergogna, successivamente si uccise. 

Ma una notte, mentre Laio era in preda all’ebbrezza, concepì con Giocasta Edipo che, appena nato, dopo avergli legato le caviglie con una cinghia, espose e abbandonò sul Monte Citerone. Qui fu trovato da un pastore che gli diede il nome di Edipo (che etimologicamente significa “piede gonfio”) e che lo consegnò a Polibo e Peribea, sovrani di Corinto, non potendo avere figli propri.

Marco Foschi è Edipo

Edipo cresce. E arriva il giorno in cui qualcuno lo appella come “bastardo”. Inizia così ad avere dei dubbi sulla propria origine, arrivando a desiderare conoscerla fino in fondo. 

Ma ci sono circostanze, a volte, in cui è preferibile non ostinarsi ad andare a fondo: meglio accettare di “vedere sporco”, in maniera incompleta. Come suggestivamente viene visualizzato dalla scenografia (le scene sono a cura di Daniele Spanò)  dove dei pannelli in plexiglass, riproducenti la retina dell’occhio, vengono lordati e posti davanti al volto degli interpreti, per rendere appunto la vista di certe verità incompleta. Una banda orizzontale poi, cadendo precisamente all’altezza dei loro occhi, li protegge totalmente. 

L’unico a non accettare questo tipo di visibilità è Edipo. Questa è la sua colpa, essendosi spinto troppo oltre le sue capacità di tolleranza. Turbando inoltre quel “bene comune”, di cui avrebbe potuto aver cura.

Marco Foschi è Edipo

Come nel precedente “Baccanti”, anche qui in “Edipo re” Andrea De Rosa é mosso dall’urgenza di far “sentire“ allo spettatore tutto lo straripamento che provoca nell’umano l’incontro con il sacro. 

Ecco allora che convoca una sapiente sinergia di sguardi sensoriali, per dirigere una concertazione drammaturgica nel cui ensemble confluiscano le diverse trame della parola di Fabrizio Sinisi, delle sonorità di G.U.P. Alcaro, delle luci di Pasquale Mari, dei costumi di Graziella Pepe (realizzati presso il Laboratorio di Sartoria Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa). 

Il linguaggio divino è così enigmatico, così indifferenziato e quindi diverso dalla nostra “parola”, che per provare a tradurlo occorre far sentire allo spettatore la sua più tempestosa indeterminazione. Contando sulla complicità della luce delle ombre, dell’ossessività straziante ed eccitante delle sonorità acustiche e dell’ambiguità degli “habiti”, che non sono solo costumi di una scena. Ma di uno stare al mondo.

Roberto Latini è Tiresia e i messaggeri di Apollo

La regia di De Rosa manda in scena così le epifanie di Apollo. Lo fa con cura: attraverso i suoi tramiti, ovvero i messaggeri e l’indovino Tiresia (un tenebrosamente incandescente Roberto Latini, speciale nel rendere la suggestione di un’epifania). Nell’orecchio dello spettatore vengono versate sonorità dal sapore oscuramente seducente. Negli occhi viene colata una luminosità che turba fino a ferire. E’ il manifestarsi del “sacro”.

Lo spettacolo assume i connotati di un grande rito, qual è la vita, che circolarmente si apre e si chiude con alterazioni del respiro, che assumono il suono di grida dalla musicalità straziante e dall’acutezza perforante. Si direbbero inumane. Stupefacentemente rese dalla vocalità di Francesca Cutolo e di  Francesca Della Monica, interpreti del Coro.

Francesca Della Monica (Coro)

Francesca Cutolo (Coro)

“Che cosa volete che io faccia ?” – dice Edipo agli abitanti di Tebe – in bilico tra una tensione di onnipotenza e insieme di de-responsabilizzazione alla Ponzio Pilato. Marco Foschi, che ne interpreta il destino, ne sa restituire le paradossali contraddizioni, provocando nello spettatore una tenerezza dal sapore di compassionevole indignazione.

“Dobbiamo interrogare il dio” – decide Edipo. 

Invocano ed evocano così Apollo: il dio massimamente ambiguo perché il più luminoso degli dei. L’eccessivo, perché tra tutti il più simile alla morte. E lo squartatore con il coltello in mano, arriva. E invade i nostri sensi.

Eraclito diceva che il dio si mescola a tutte le cose assumendo di volta in volta il loro aroma. “L’uomo invece ritiene giusta una cosa e ingiusta un’altra e non si confonde con tutte le cose”. L’indifferenziato è il tratto del divino da cui l’umano ha bisogno di separarsi, instaurando le differenze che consentono un ordinato vivere sociale. Perché quando un Dio arriva nella città – ci racconta Euripide nelle “Baccanti” – tutto l’ordine viene sconvolto e ogni misura oltrepassata.

Roberto Latini

(ph. Andrea Macchia)

Per tramite di un suo messaggero, Apollo comunica ai tebani che la peste terminerà solo quando verrà punito l’uccisore del precedente re Laio, rimasto invendicato. “L’uccisore è a Tebe” – prosegue il messaggero. Ma Edipo è troppo sicuro di potersi incoronare inquisitore, per riuscire a prestare ascolto al dio che continua a ripetergli: “Sei tu”.

Non è un caso che Freud abbia scelto la tragedia dell’ “Edipo re” come descrizione esemplare dell’esistenza umana, mostrandone i desideri più profondi e i relativi tentativi di realizzazione. 

Edipo, infatti, cade nella presunzione di innalzarsi al di sopra di ogni sospetto, laddove il primo insegnamento dell’oracolo è: “Conosci te stesso e agisci con misura”. 

Fabio Pasquini è Creonte – Francesca della Monica (Coro)

Edipo si sopravvaluta, sottovalutando la potenza del mistero che avvolge la nostra identità. E che necessariamente, in parte, rimarrà tale. Accusa Creonte di macchinare per invidia contro di lui – e poeticamente in bocca ad un appassionato Fabio Pasquini (interprete di Creonte) prendono forma struggenti parole che richiamano quelle scritte da Pasolini e cantate da Modugno in “Cosa sono le nuvole” . E si dimostra insensibile al dolore, Edipo: quello di Giocasta, che lo supplica confidandogli “io ti voglio bene, ma il tuo bene mi fa male”. 

Oscuri sono poi, per loro natura, anche i responsi dell’oracolo, per gli uomini. E tali, in parte, rimarranno. Perché la nostra umanità non può tradurre perfettamente l’indeterminatezza del linguaggio divino. Pena la follia: dono degli dei, sia pure a prezzo di terribile dolore. 

Un concetto magnificamente visualizzato dalla scelta di Pasquale Mari di utilizzare riflettori parabolici Par Can che, senza lente, producono un fascio parallelo e ravvicinato, più intenso, quasi violento. Efficacissimo per veicolare quel senso di inadeguatezza nel quale Edipo si trova alla fine intrappolato.

In realtà l’oracolo pronunciato da Apollo a Laio parla anche del naturale avvicendamento generazionale tra padri e figli: la giovinezza del figlio sopravviverà alla vecchiaia del padre. Ed è per questo che il figlio resterà solo con un genitore, la madre, per gli anni che le saranno ancora concessi dal suo destino. Ma la difficoltà di Laio ci è vicina: ricorda un po’ quella di certi padri contemporanei, che faticano a “saper tramontare” perché vedono nella luce dei figli l’ombra del loro tramonto. Quel senso di tramonto così ben reso dall’utilizzo dei proiettori PAR, che danno corpo a quel minimo indispensabile di luminosità per illuminare il palco.

Una regia, questa di Andrea De Rosa, che sa restare fedele al testo sofocleo ma ancor di più sa tradire la sua eredità. Restituendo al pubblico una sinergia di suggestioni, che fanno di De Rosa un originale “testimone”. In perfetta sintonia con il messaggio che il testo di Sofocle veicola: siamo tutti Edipo (cioè “scritti” da qualcun altro) ma possiamo anche dare vita a qualcosa di nostro e quindi di originale, del destino e della tradizione che necessariamente ognuno di noi eredita.


Recensione di Sonia Remoli

NOVEMBER – con Luca Barbareschi – regia Chiara Noschese

TEATRO ARGENTINA

dal 4 al 16 Marzo 2025

“Duri a morire!” 

E’ il motto non solo del Presidente degli Stati Uniti d’America Charles Smith e del suo staff: è il motto dell’essere umano. 

L’istinto alla sopravvivenza, e quindi alla sopraffazione, ci abita densamente da sempre: non appena gettati al mondo. Sopravvivere – e fare di tutto per “non essere messi in attesa” – è un istinto naturale che vince su emozioni complesse, quali la solidarietà, l’amicizia, l’amore. Con le quali non veniamo corredati per natura ma che richiedono il desiderio e l’impegno di un’educazione sentimentale.

Luca Barbareschi è il Presidente degli Stati Uniti d’America Charles Smith

E poi, diciamolo pure che siamo d’accordo con il Presidente: “siamo un popolo che perdona”. Anzi che dimentica, con grande facilità. E piuttosto che sperimentare un bene nuovo, tendiamo a preferire un male che già conosciamo.

Il testamento di questo stile di vita è racchiuso nel quadro che è alla destra della scrivania del Presidente: “Nighthawks” di Edward Hopper (1942): un ritratto non solo dell’America dei primi anni ’40 ma anche della nostra società, che ci vede tutti fisicamente vicini ma emotivamente assai distanti. Soli. Isolati. Perché, se anche intuiamo la fertilità dell’entrare in relazione con l’altro, una più costitutiva forma di diffidenza ci impedisce di correre il rischio di aprirci e quindi di renderci vulnerabili. 

Simone Colombari (Archer Brown) – Luca Barbareschi (il Presidente Smith)

Anche il verde scelto per le pareti e i divani dell’ufficio del Presidente Smith ricorda moltissimo la luce ombrosa del verde utilizzato da Hopper per avvolgere i suoi luoghi della solitudine (le scene sono curate da Lele Moreschi).

Quella solitudine applicata, dal genio di David Mamet, anche agli stessi tacchini dell’Associazione nazionale produttori tacchino, che sono così speciali proprio perché allevati “in isolamento”. E non appena ne escono per andare a fare anticamera alla Casa Bianca, risentono pesantemente del loro essere entrati in relazione con l’apertura propria del diverso, dello straniero.

E la stessa moglie del Presidente Smith – vivamente interessata a monitorare lo stato delle “sue” richieste personali – sembra essere la persona che gestisce la situazione proprio perché “da remoto”, cioè senza essere presente nella sala dei bottoni.

(ph. F. Di Benedetto)

“Cosa c’è di me che non piace alla gente?” – chiede il Presidente Smith al suo assistente Archer Brown, quasi fosse un’altra regione della sua psiche. Tanto, infatti, il Presidente Smith di Barbareschi è irresistibilmente tentennante, infantile e ridicolmente giocoso (“un sacco vuoto che non sta in piedi”), quanto l’Archer Brown dell’incisivo Simone Colombari è deciso, solido, tagliente e spietato. 

Ecco allora che quella tanto anelata “continuità” che pareva garantire la stabilità dei consensi dell’elettorato, inizia ad essere minata da un’altra donna: colei che scrive i discorsi del Presidente, Clarice Bernstein. Una Chiara Noschese silenziosamente insinuante, come un batterio in un organismo dalle basse difese immunitarie. Organismo affetto da una tendenza autoimmune, che lo porta a strappare la donna-batterio dal suo precauzionale stato di “isolamento”.

Luca Barbareschi (il Presedente Smith) – Chiara Noschese (Clarice Bernstein)

Una donna all’apparenza innocuamente generosa, capace di sedurre l’elettorato con le sue “idee di cambiamento”. Con le quali il Presidente ama farcire i suoi discorsi, un po’ come il tacchino del Giorno del Ringrazimento.

“Cosa ci rende grandi se non la capacità di correggere noi stessi?” è, ad esempio, la frase ad effetto che Clarice escogita per iniziare a far inghiottire all’elettorato l’idea che il Giorno del Ringraziamento è stato sempre festeggiato in una modalità sbagliata. Da “correggere”, appunto, perché “gli esperti” sono in verità “artigiani autodidatti”.

Ma poi si scoprirà che nell’apparente continuum dell’etica del “do ut des” qualcosa è cambiato: a fronte della somministrazione di questa “filosofia della correzione” – propria dell’inesperienza che rende “esperti” – viene chiesto in cambio qualcosa di imprevedibile, di indecente.

E chi prima si mostrava così generosamente manipolabile, poi farà emergere il proprio corredo biologico da sopraffattore. Anche l’insostituibile Clarice Bernstein; anche il pacifico rappresentante dell’Associazione nazionale produttori di tacchino: un Nico Di Crescenzo decisamente credibile. Così come l’apparentemente tollerante indiano Dwight Grackle: un barbaramente persuasivo Brian Boccuni.

Uno spettacolo – questo di Chiara Noschese, regista oltre che interprete – che restituisce l’efferata bellezza dei testi di David Mamet, dove “comunicare” è sinonimo di confliggere, belligerare. 

Luca Barbareschi – Nico Di Crescenzo (rappresentante Ass. naz. produttori tacchino) – Simone Colombari

Bellezza che trova massima espressione nel valore restituito ai dialoghi, intesi come “lotta” per disarmare le misteriose apparenze con cui è plasmata la realtà conflittuale dei rapporti umani. Dialoghi maieutici, rivelatori delle diverse personalità che ci abitano. Perché “il logos è una guerra” – sosteneva Eraclito – in quanto armonia di opposti contrastanti, che si compongono attraverso il dia-logo. Dove gli opposti si fronteggiano, in teoria per conoscersi meglio, in pratica per eliminarsi. Come ci fa vedere Mamet. E come iconicamente visualizzato in un altro quadro – “Gun” di Andy Warhol – appeso di fronte al quadro di Hopper.

Un comunicare luminosamente ferino esaltato anche dalle scelte della prossemica. Ne è un brillante esempio l’avvolgersi e il caricarsi su se stesso – per poi avventarsi con rapacità sugli altri – dello tsunami di ansia galoppante del Presidente  Smith: un Barbareschi davvero trascinante. Che si staglia ancor più efficacemente negli occhi e nelle fibre nervose dello spettatore, anche grazie alla quasi immobilità degli altri personaggi in scena.

Uno spettacolo avvincente e profondissimo, che per due ore contagia il respiro dello spettatore, trascinandolo nel caos tragicomico di quella vita “dura a morire”, così potentemente rappresentata dallo sguardo di Mamet. E che tutti ci accomuna.

David Mamet


Recensione di Sonia Remoli