RITORNO A CASA – regia Massimo Popolizio

TEATRO ARGENTINA

dal 7 al 25 Maggio 2025

Cos’é una famiglia?

La prima forma di “comunità” che sperimentiamo.

Il primo imprinting per imparare ad entrare in relazione con gli altri: cercando sempre nuovi equilibri tra il mio e il tuo, tra il tutto e il niente. 

Tra “il difendere e l’attaccare”, in cui, ad esempio, si smarrisce Joey.  

Tra “l’essere e il non essere”, su cui si interroga Lenny.

Perché tra l’essere e il non essere c’è ciò di cui parla Ruth, ovvero c’è “ció che accompagna i movimenti”: il desiderare qualcosa che ancora non c’é, che ancora non si possiede e che quindi ci tiene accesi a cercare e ricercare continuamente. E’ l’eros vitale intimamente connesso all’applicazione della Legge delle leggi.

Eros vitale che è proprio di un padre insegnare al figlio, applicando e testimoniando la vitalità seduttiva della legge secondo la quale nessuno può pretendere di godere totalmente, pensando di essere tutto, fino ad avere tutto. Che poi in concreto si traduce nel saper applicare, da parte di un padre, l’arte di apporre “tagli”, ovvero limiti: confini al godimento totalizzante di un figlio. Non a caso il testo e lo spettacolo si aprono con lo smarrimento di un particolare oggetto: le forbici.

Christian La Rosa (Lenny) – Massimo Popolizio (Max) – Alberto Onofrietti (Joey)

Nella famiglia di cui ci parla Harold Pinter in questo testo del 1965 (non poi così diversa dalla famiglia di oggi) e che la regia di Popolizio, con sagacia, stempera dal clima di feroce drammaticità, rendendone più digeribile il messaggio, manca l’idea base che la vita “vive” di tagli: di continui distacchi, di continui svezzamenti. Che aiutano i figli ad orientarsi verso l’arte del desiderare e quindi verso una progressiva interiorizzazione critica della Legge. La quale donerà loro la possibilità di costruirsi un’identità unica, personale, riconoscibile e riconosciuta. Un’identitá non da branco.

Quasi ogni personaggio della famiglia – paradossalmente soprattutto il padre Max – sente il bisogno di auto-elogiarsi (e di sminuire l’altro, quando anche lui lo fa) per “rendersi visibile”, per essere riconosciuto nel proprio valore. Perché non essendo applicata in famiglia la Legge che regge ogni comunità – quella del “non è possibile desiderare tutto ed essere tutto” – in casa tutto si può.  E il risultato è che tutto si mescola, perdendosi in un indifferenziato senza autentiche identità.  E senza autentica soddisfazione.

Massimo Popolizio é Max

Situazione molto pericolosa non solo da un punto di vista esistenziale, familiare e di coppia ma anche politico: non avendo coscienza della propria vulnerabilità – ovvero della mancanza di una personale coscienza critica sul reale – si diviene preda di chi invece una sua identità l’ha formata e approfitta di chi è disposto a perderla, in cambio della promessa di un’ illusione di sicurezza. 

A casa di Max si vive approssimativamente, in un sistema dove i pensieri sono orfani oltre che di un atteggiamento critico, anche degli stessi principi della logica: quello di identità e di non contraddizione e quello di causa-effetto. 

Un sistema dove, di conseguenza, si sta perdendo il valore identitario dei nomi propri, a favore di espressioni generiche quali: “si chiamavano tutti MacGregor tra di loro in famiglia”; “uno dei tanti duchi”, “siccome un oggetto vale l’altro”; “certa gente”; “gli altri”; “certe proposte”.

Eros Pascale (Teddy) – Massimo Popolizio (Max) – Gaja Masciale (Ruth)

Un sistema dove manca un’educazione sentimentale: le richieste si fanno con prepotenza e laddove “il comando imperativo” risulti inascoltato, si passa a “chiedere” e poi a “supplicare”, fino ad arrivare ad umiliarsi in “un’infantile sottomissione inconsapevole” (atteggiamento che poi si rischia di replicare “in automatico” anche nel sociale extra-familiare).

Un impoverimento del nutrimento emotivo che si riflette anche sul nutrimento alimentare: i cibi perdono il loro sapore specifico, divenendo più simili a “pastoni per cani”. Anche con le donne  – la più complessa delle relazioni emotive – non si fa differenza: sono una sorta di “mercato delle carni”, tutte “da festeggiare”, condividendole con gli altri componenti della famiglia (come affetti dallo stesso “virus”) alla stregua di un sigaro o di un pasto . Ma la soddisfazione non è mai abbastanza nel totale godimento: tanto che Lenny pretende di essere reso partecipe a posteriori dei pensieri che hanno accompagnato la sua origine.

Paolo Musio (Sam) – Massimo Popolizio (Max)

La regia di Massimo Popolizio aiuta lo spettatore a prendere confidenza con questo caos esistenziale, “seminandolo” sulla scena, al di qua del sipario, giá al momento di prendere posto in sala.

E poi, all’apertura del sipario, la scena  – curata da Maurizio Baló – diviene eloquentissima: una visualizzazione meravigliosa di uno stanzone, indistinto come un pastone. Dove il frigo e le sedie della cucina hanno invaso il soggiorno; i calzini da basket sono evasi sul corrimano della scala e dove la testa imbalsamata di una mucca fissa provocatoriamente il ritratto della regina, affissa sulla parete di fronte.

Il concetto di “casa” ci parla di un microcosmo di importanza capitale, che poggia sia sul valore di appartenenza che su quello di identitá: una casa riflette plasticamente le dinamiche più intime della famiglia che la abita, modificandosi anch’essa insieme ai cambiamenti d’identità che ivi intervengono.

Qui, dopo la morte di Jessie, la casa viene modificata. E si sceglie di eliminare il muro con porta che separava la zona ingresso dalla zona soggiorno, per sostituirlo con un arco quadrato (che con acutezza Popolizio regista sceglie addirittura di “puntellare”) tale da permettere un totale godimento del soggiorno.

Eros Pascale (teddy) – Alberto Onofrietti (Joey) – Gaja Masciale (Ruth) – Massimo Popolizio (Max) – Christian La Rosa (Lenny)

L’ingresso – che la famiglia ha scelto di eliminare – assolve alla  duplice funzione di accogliere le persone all’interno della casa  e di aiutare a mantenere l’ordine e la funzionalità degli altri ambienti.

Perché l’ingresso è “una zona di confine” che si prende cura di filtrare, e quindi di selezionare, chi far procedere nell’intimità della casa. Metaforicamente é il luogo mentale dell’attesa e della valutazione critica, che porta a sospendere momentaneamente il giudizio su idee che richiedono un piú accurato vaglio critico.

Si potrebbe dire allora che senza ingresso la porta di casa, così come una bocca acefala, crede di “godere” introducendo tutto, in qualsiasi quantità. Ma in realtá la casa/mente si sta rendendo vulnerabile a eventuali pericoli esterni.

Ed é (anche) cosí che un “padre” finisce col perdere il suo valore di figura di riferimento – rispettato per la sua capacitá di apporre limiti, confini, tagli ad un eccessivo desiderio di onnipotenza dei figli – divenendo “un coglione” da ignorare. E i figli, degli individui anagraficamente adulti ma evolutivamente bloccati allo stadio infantile.

Massimo Popolizio (Max) – Christian La Rosa (Lenny)

Meravigliosamente efficace risulta, a questo proposito, il lavoro sui costumi di scena, la cui cura è stata affidata a Gianluca Sbicca e ad Antonio Marras.

Il Max di Massimo Popolizio sublima il suo indesiderato potere di “invisibilità” sui figli e sul fratello Sam, energizzando una mise dai toni senili con una giacca sportiva giallo acido, di un taglio e di un brand decisamente giovanili. Il cui simbolismo cromatico allude ad una sovversiva acidità, consapevolmente scandalistica: come a dire “sono solo anagraficamente vecchio! Non potete non vederlo”. 

L’outfit trova completamento con un occhiale dalle lenti cromaticamente coordinate e con un cappello street style. Ma il vero carisma cult è regalato da un paio di sneakers che sfidano il tempo:  le Converse All Star, ovvero le scarpe più iconiche della storia della moda, rimaste ancora in voga dopo più di 100 anni.

A vestire poi il suo incedere leggermente claudicante, un bastone stilosamente carismatico, dall’allure di scettro.

Il Lenny di Christian La Rosa è selvaticamente fantastico – di giorno – con cresta verde e una seconda pelle da infido rettile dinoccolatissimo. Molto bella la sua plasticità scomposta. Di notte invece è un’altra creatura: più “scricchiolante”.

Il Sam di Paolo Musio e’ inseparabile dalla sua divisa nera da taxista, così necessaria per identificarlo professionalmente, così da celarvi dietro il suo desiderare più autentico: essere condotto, piuttosto che condurre. Di giocosa eleganza, l’interessante coreografia delle sue posture. 

Il Joey di Alberto Onofrietti è un tenerissimo “macho”, efficacissimo nella sua camicetta a quadrettini lisergicamente scolastica, infilata dentro jeans attillatissimi. Anfibi neri bilanciano la sua fragilità, irresistibilmente disarmante.

Il Teddy di Eros Pascale, per sua essenza un orsacchiotto e come tale anche un oggetto transazionale (per Ruth) si veste da professore di filosofia, sovrapponendo alla storica eleganza della giacca pied de poule un cappotto da trincea. Per proteggersi dalla pioggia e dal vento (della vita).

E poi c’è lei: la Ruth di Gaja Masciale, che Sbicca e Marras velano e svelano nella sua dualitá di candida Biancaneve bon ton, dall’anima sorprendente noir. Di stupefacente bellezza il suo riuscire a fare di un “puntello” il punto di appoggio per sollevare (pericolosamente) il mondo.

Eros Pascale (Teddy) – Gaja Masciale (Ruth)

L’ importante lavoro sui costumi – amplificato da un affascinante lavoro sulla vocalità e sulla plasticitá dei corpi – veicola nello spettatore la sensazione di come la regia di Popolizio punti a visualizzare l’essenza di uno dei valori più sentiti dal Pinter uomo politico: la dignità.

Un valore che per sua natura si dà come assioma: come una verità evidente ed implicita, che prescinde da dimostrazioni. Perché il valore della dignità è uno status ontologico: lo meritiamo per l’intima realtà di essere “umani”. E quindi non dipende da nessuna scelta, da nessuna qualità.

Lo sguardo di Popolizio sui personaggi non ha infatti nessuna valenza moralistica. Piuttosto, la sua, è un’attenzione sociale e politica.

Di sagace raffinatezza è la scelta registica di affrontare alcuni temi del nostro stare al mondo – così familiari e insieme così enigmatici – con una postura vitale capace di avvicinarsi al reale, attraverso un umore liquido, divertente, simpatico. Che aiuta paradossalmente lo spettatore a sintonizzarsi empaticamente verso ciò che, negli altri, sembra “contrario alla presunta norma” .

Eros Pascale (Teddy) – Massimo Popolizio (Max)

E allora quello di Teddy è un “ritorno a casa” che si dà come un movimento verso un luogo da cui ci si é momentaneamente allontanati, ma che si dà “come mondo chiuso”:  da cui non si va via davvero. Ciò che a Teddy sta a cuore verificare rientrando in casa è infatti rassicurarsi di essere ancora incluso in quel microcosmo. E così, eccitatissimo, riscopre che la sua chiave è sempre accolta da quella serratura e la sua stanza con il suo letto sono lì, sempre vuoti ad aspettare solo lui.

Sì, le forbici sono andate smarrite.

E, forse, il vero ritorno é quello introdotto da Ruth: il ritorno alla seduzione erotica del non tutto.

“Bisogna prendere in considerazione anche questa possibilità”.

Uno spettacolo affascinante: tremendo e tollerabile. Di una vitalità, capace di far ribollire mente e corpo.

———-

Recensione di Sonia Remoli

LA FIGLIA DI KIOTO ZHANG -scritto e diretto da Massimo Odierna

TEATRO LO SPAZIO

dal 29 Aprile al 4 Maggio 2025

Bianco è il pavimento di nuvole sul quale veniamo gettati alla vita.

Bianco perché risultante di tutti i colori; bianco perché  mescolanza di bene e male.

Non c’è niente di dolcemente ovattato: i colpi arrivano in purezza.

Ma questo bianco pavimento di nuvole resta comunque un eden: un eden di appuntamenti,  e quindi di incontri, che modellano la forma della nostra vita e stimolano il nostro desiderare.

Massimo Odierna

In questo testo ferocemente poetico di Massimo Odierna, che ne cura sinfonicamente anche la regia, si racconta con visionaria ruvidezza di quanto sia complesso –  ma irrinunciabile  –  entrare in relazione con gli altri.

Soprattutto quando l’altro è così “diverso”, così intraducibile; soprattutto quando ci limitiamo a decodificare il suo “fare” anziché  provare a sintonizzarci sul suo ”sentire”.

Un eden terreno, quello di cui ci parla Odierna, alla ricerca di  un quid di  “sacro”: quel sacro che significa tensione verso  la consapevolezza che proprio quella fragilità – che è cifra della nostra umanità –  se condivisa, ci fa  splendere di possibilità vitali .

Federica Quartana, Enoch Marrella, Irene Ciani, Francesco Petruzzelli, Sofia Taglioni, Giovanni Serratone

Tutto sta nel disintossicarsi dall’ossessione a pretendere di vivere, con se stessi e con l’altro,  in  sempre maggiore sicurezza: sempre più confortevolmente protetti nella “bam-bagia”. Sempre più dipendenti da “organizzazioni settimanali”. E riscoprire, invece, la potente magia della parola, del raccontare e del raccontarsi. Dell’immaginare e quindi del prendersi cura dell’altro, ascoltandolo con attenzione.

Siamo affamati di relazioni – di amicizia, d’amore – perché di relazioni ci nutriamo. Ed è per questo che la vita ci chiede di  aprirci alla possibilità di “aggiungere un posto a tavola”. Continuamente.

Massimo Odierna in questo suo testo impreziosisce quella che potrebbe essere definita una black comedy con accattivanti sentori esistenziali propri dell’enigma della tradizione classica. Dove “l’altro” che si è allontanato e che ci si impegna avventurosamente a ricercare, non è solo quello esterno a noi. 

Ed è così che si arriva a scoprire che la vera ricerca che si è affrontata cercando la figlia di Kioto Zhang è quella verso il conoscere se stessi. Per imparare la virtù dell’accoglienza del “diverso”.

Efficacissima l’organizzazione dello spazio teatrale che vuole la scena immersa nel pubblico – e da esso circonda su tutti i lati – creando un’esperienza ancor più intima e coinvolgente. Seducente la scelta di abitare lo spazio attraverso una prossemica decisamente intrigante. Suggestiva la cura dei costumi di scena, che ben riesce a visualizzare il gioco sinergico degli opposti.

Gli attori in scena  –  Irene Ciani, Enoch Marrella, Francesco Petruzzelli, Federica Quartana, Giovanni Serratone, Sofia Taglioni  – brillano in concertazione. E così la loro meravigliosa coralità non manca di  lasciare spazio all’emergere dei fulgenti colori interpretativi di ciascun artista.


Recensione di Sonia Remoli

LA SPARANOIA – regia Niccolò Fettarappa e Lorenzo Guerrieri –

TEATRO BASILICA

dal 23 al 27 Aprile 2025

In uno spazio ontologicamente violento, deprivato e depravato, in cui il tempo è scandito dall’orario della messa in onda dei telegiornali la cui narrazione enfatizza episodi di cronaca domestica e sociale all’insegna della violenza repressiva, va in scena “La sparanoia”: una sparatoria sulla nostra inclinazione esistenziale a privarci della responsabilità di essere liberi. Paranoicamente indotti, da chi di ciò è consapevole, a diffidare degli altri così da restare innocue monadi isolate in casa, anziché una comunità che si ritrova in piazza – o a teatro – per difendere i propri diritti.

“La sparanoia” è uno spettacolo ustionante come uno scroscio di lapilli, rovesciati sul pubblico da due narratori terribilmente capaci a tramutare l’acqua in fuoco.

“La sparanoia” è un inveire aggressivo osmoticamente grottesco.

“La sparanoia” è un consuntivo e un’autoanalisi feroci, di e su gli attuali trentenni, eredi “sociali” di figure di riferimento repressivamente iper protettive.

Niccolò Fettarappa – Lorenzo Guerrieri

ph. Antonio Ficai

Uno spettacolo che fin dall’inizio prende d’assalto lo spettatore facendo emergere un’angoscia che, in un crescendo incalzante, arriva a riaccendere il sapore di un trauma. E lo senti anche in gola: come il nodo di quella cravatta che i due interpreti indossano e che sembra diventare sempre più opprimente. Quasi un cappio.

Si può uscire dallo spettacolo con il sorriso ma anche con un forte peso di compassione, di preoccupazione, di timore: quello conseguente all’aver visto riflesso come in uno specchio, con crudo realismo, cosa siamo disposti a diventare in nome di uno pseudo quieto vivere, fatto di “cancelli” che bandiscono ogni spazio d’aggregazione.  

Accettando di “fare la rivoluzione nel proprio piccolo e con tutto il bene del mondo”.

Lorenzo Guerrieri – Niccolò Fettarappa

ph. Laura Farneti

Attraverso la narrazione che si origina dall’esplosiva sinergia tra Niccolò Fettarappa e Lorenzo Guerrieri e che si avvale del contributo intellettuale di Christian Raimo, si avventa sullo spettatore una tempestosa pioggia di invettive. Potenzialmente assai fertile, perché non scatenata da un capriccio fine a se stesso, quanto piuttosto da un voler “farsi mezzo” per riaprire un possibile varco erotico. E così riuscire a ricontattare quel fuoco del desiderare, capace di “agitare” quell’atarassico stagnare infantile da cui tendono ad essere attanagliati i nuovi trentenni. Tempo in cui sono immersi gli stessi interpreti in scena.

E’ la loro, infatti, una narrazione il cui narrar-si implica un ritorno su se stessi, che fa guardare il sé anche come altro da sé. E comune ad altri.

Questo loro saper disporre di un libero uso del potere della parola, diviene “un dono”, capace di regalare allo spettatore la possibilità di fare luce su mistificazioni, che si tendono a produrre a discapito del soggetto e del cittadino.

La parola infatti può produrre incantesimi, che non hanno niente a che vedere con la magia del colpo di bacchetta o con lo strofinio della lampada. La parola dispone di un potere che la rende un rito magico capace di generare quell’impossibile che passa attraverso l’intonazione della voce, attraverso la scelta dei verbi, attraverso il ritmo del respiro su cui si regge il suono. L’incantesimo della parola è cioè consapevolezza del potere dell’asserzione: quell’affermazione, in sé non dimostrata, con cui si può tessere però una posizione, un’argomentazione, un’identità.

Questo lavoro di Fettarappa e Guerrieri risulta disturbante proprio perché, rivelandoci cosa si cela dietro certi usi della parola, taglia quell’illusione di protezione che alcuni discorsi, ai quali abbiamo offerto il nostro orecchio, pretendono di veicolare. E ci fa sanguinare d’angoscia. Ma ci dobbiamo stare dentro.  Perché solo consapevoli del potere perverso di certe asserzioni, possiamo muoverci fuori da esse: oltre l’asfissia di quei rassicuranti perimetri. Verso un primo avanzare. Fuori.

Co-protagonisti in scena, insieme ai due interpreti, alcuni oggetti che simbolicamente vanno oltre il loro valore di attrezzeria: in primis uno stendino da bucato, oggetto domestico e addomesticante, dove si può credere di aprirsi ai venti della vita restando sempre in casa, ben bloccati ai suoi fili. Al massimo, sventolando da fermi. Un oggetto costruito su una “X” che si richiude su se stessa: cifra caratterizzante la genitorialità e le figure sociali di riferimento degli attuali trentenni.

E poi quel “metro quadrato di casa” simboleggiato da un tappettino che rende benissimo l’idea di come questi giovani restino ancora posturalmente “appesi “ e ”sospesi” alla vita, anche quando sembrano staccarsi dall’appendino per gestire un vivere autonomo in una nuova casa. In realtà un monolocale più simile ad un cestello fermo di una lavatrice dove, credendo di essere al sicuro in un ammollo di delicatezza, scoprono invece di annegare nella depressione. Privati come sono dell’imprinting all’avventura perché “allevati” senza quei necessari “tagli”, propri dei continui svezzamenti vitali.

E poi quell’ anticamera che c’è ma non si trova: simbolo di quel luogo dell’animo dove “saper attendere” può significare non annichilirsi ma riscoprire la possibilità di incendiarsi di desiderio d’azione. Insieme.

Perché è l’unione che fa la forza. E’ la comunità che può rendere liberi e non il singolo individuo che, chiuso nella sua solitudine crede di doverla affrontare individualmente nella segretezza di uno studio psicoterapeutico. Perché il disagio non è di un singolo, come si preferisce far credere, ma di un grande gruppo. E la vera leva è scendere in piazza, in uno slancio politico collettivo.

Perché la piazza – come il teatro – è un luogo di trasformazione, che può opporsi al nichilismo subdolamente insufflato nelle orecchie da chi ci rassicura che andrà tutto bene se si rimarrà isolati narcisisticamente nelle proprie case.

E così lo scroscio di invettive roventi di Fettarappa e Guerrieri può diventare, proprio passando attraverso il trauma dell’angoscia,  “slancio” esistenziale e politico. Finanche dimensione morale, capace di accendere di furore.

Alla ricerca ognuno – al di là di un anonimo e innocuo habitus grigio divisa – del proprio “fattore X”: quel qualcosa di unico, così eccitante da scoprire e da riscoprire continuamente, che riesce a farci “brillare”.

Disposti, allora, a non accettare più di “fare la rivoluzione nel proprio piccolo e con tutto il bene del mondo”.

Ma “fuori” e “insieme”.

Lorenzo Guerrieri – Niccolò Fettarappa


Recensione di Sonia Remoli

MARIO E MARIA – Il turista del sentimento – di Natalia Vallebona e Faustino Blanchut – regia Natalia Vallebona

TEATRO BASILICA

dal 15 al 17 Aprile 2025

Cosa si nasconde sotto il tappeto persiano di un elegante interno borghese?

Cosa celano i garbati punti-luce disseminati in questo habitat così raffinatamente arredato e così ricco in decoro?

Sarà l’entrata in scena della drammaturgia fisica dei corpi dei quattro interpreti – gli stupefacenti Poetic Punkers : Faustino Blanchut, Julia Färber Data, Marianna Moccia, Florian Vuille – a rendere visibile l’invisibile. Incidendo negli occhi e nell’animo dello spettatore i sottotesti di questo habitat così insospettabile.

Saranno i loro corpi a svelare tutti quei disequilibri, portati in superficie da incontri imprevisti che – nonostante tutto il decoro di cui vogliamo ammantarci – riescono a farsi strada e a sovvertire i nostri piani, così gradevoli. 

Sono corpi nudi, anche quando ricoperti da abiti: urlano chi siamo e cosa desideriamo davvero. O cosa invece siamo disposti a “non essere”, in cambio di una pseudo normalità, omologatamente riconosciuta.

Sono corpi che a qualche livello istintivo “scelgono” di rischiare, di esporsi. E di fidarsi: del corpo.

O meglio: della “mente del corpo”.

La loro è una fragorosa perfezione: libera di essere anche imperfetta. E proprio per questa “scelta”, i loro corpi risultano di accecante bellezza plastica. E musicale. Perché corpi colmi di accoglienza. 

Una drammaturgia fisica, la loro, in osmosi con il loro “volere” più istintivo: sono corpi che danno forma a pensieri, a immagini. Autentici: non manipolati, né manipolabili. 

Corpi, dunque, “politici”.

Corpi che hanno voce e sanno prendere la parola, lasciandosi spostare da sempre nuove intuizioni. Corpi come “volontà creativa”.

Corpi  liberi, che denunciano quotidiane ritualità: senza pieghe, ben stirate. Linde, vuote. 

Corpi liberi, che denunciano iper-protezioni materne 

– Ma ‘e sorde p’ è camel/Chi te li dà/La borsetta di mammà – 

dalle quali, se non ci si emancipa, si rischia di restarne inchiodati.

Corpi-voce che invitano all’arte di saper fare un buon uso degli occhi: intuendo quando tenerli ben aperti, quando spingere lo sguardo avanti – come in un “campo lungo” – e quando invece è preferibile chiuderli: per riuscire più potentemente a immaginare e a lasciarsi andare:

Comme te po’ capi’ chi te vo’ ben/
Si tu le parle miezo americano/
Quanno se fa l’ammore sott’ ‘a luna/
Comme te vene ‘ncapa ‘e di’ I love you

Fino a ricontattare quel giorno in cui la nostra vita sarebbe potuta cambiare. Per un amore, ad esempio. Quando lo si vede per la prima volta e per la prima volta “ci si vede”. 

Quando succede a Mario, lui attiva il manuale per i rituali di corteggiamento. E funziona. Ma poi, autenticamente coinvolto, si perde: perde il controllo del manuale. E se ne va.

E’ lutto. Ed è di conturbante bellezza la contorta elaborazione “plastica” del lutto che Mario riesce a fare, metaforicamente, con le altre parti di se stesso. I Poetic Punkers sono sconvolgenti. Faustino ha qualcosa di “divino”.

La Maria di Mario, invece,  è una donna generosa, dal grande fascino, che riesce a scardinare le convenzioni con coraggio, che si fida della mente istintiva del suo corpo. E si lascia cadere in amore, con fiducia. E anche dopo la fine dell’amore, riesce a non rimpiangere nulla delle scelte fatte. Perché riuscire ad amare, vale più dell’essere ricambiata.

La drammaturgia del testo, ricca in meravigliosa suspense, racconta la storia di un Mario, crocefisso dalle scelte dettate dal suo desiderio di sicurezza. Nel quale viene dolorosamente facile ritrovarsi. Un Mario convinto di essere libero dando (e dandosi) ordini, all’insegna di una “neutra” atarassia.

Un testo ed una performance profondamente erotici: potenti come un “romanzo di formazione”, affascinanti come un’educazione sentimentale, vibranti come una testimonianza di consapevolezza politica ed esistenziale. 

L’estetica di Natalia Vallebona stimola  infatti la fiducia in un corpo forte – perché flessibile- che conosce il potere del suo “peso” e il rapporto con la forza di gravità. Un corpo che contiene un’anima fragile, perché predisposta a sfuggire l’errore – in verità indispensabile per poter vivere creativamente con gusto – in nome di un confortevole senso di sicurezza.

Natalia Vallebona

Un’estetica che parla, metaforicamente, di etica: perché il nostro “stato” psico fisico è anche uno “stato” politico. Perché “essere prossimi” gli uni agli altri è qualcosa che ci costituisce come “umani” ma a cui per natura siamo repellenti, ancor più dopo l’esperienza pandemica.

Un invito allora questo di Natalia Vallebona e del collettivo dei Poetic Punkers verso un riscoprire uno stare al mondo insieme, come “turisti del sentimento”: viaggiando nella vita quasi fosse un “Grand Tour”. In continuo movimento, in continua ricerca di noi stessi. Immergendosi totalmente in una bellezza, che incivilisce perché spinge ad avvicinarci con generoso stupore verso l’altro: per capirsi, per perdonarsi, per evolversi. 

Perché “il turista” scorre lieve sulla terra; è fluido nell’organizzazione.

Coglie la vita che gli serve per la vita: quella realtà che pulsa di energia e di vitalità magnetica.


Poetic Punkers è un progetto di ricerca e creazione artistica nato a Bruxelles nel 2013.
Vive tra l’Italia e Parigi dove è sostenuto dall’associazione “Les choses qui font Boom”.
Il progetto è guidato da Natalia Vallebona, coreografa e regista.
Natalia è un’artista indipendente che per dieci anni ha seguito in Europa delle linee di ricerca fra la danza il teatro e la performance come Thierry Verger, Gabriella Maiorino, Les Ballet c de la B, Balletto Civile, collaborazioni che l’hanno portata a costruire una cifra artistica potente e personale, che parte da un uso virtuoso del corpo, che attinge alla “componente intuitiva” che c’è in ognuno di noi.

————-



Recensione di Sonia Remoli

Recensione OLTRE QUELLO CHE C’È – drammaturgia e regia Francesco d’Alfonso

TEATRO PALLADIUM

12 Aprile 2025

Come si può incendiare il mondo dei giovani con quel desiderio che va “oltre quello che c’è” ?

Incontrare giovani senza desiderio e completamente ignari della loro bellezza era inaccettabile per Filippo Neri (Firenze 1515 – Roma 1595). Giovanissimo sceglie di trasferirsi a Roma, proprio perché corrotta e pericolosa, e dedicare la propria missione evangelica ai ragazzi di strada. Per il suo carattere arguto, viene chiamato “il santo della gioia” o “il giullare di Dio”. Colto, creativo, amava accompagnare i propri discorsi al buon umore, perché l’allegria potenzia le energie spirituali e quelle psichiche.

Consapevole della nostra inclinazione a desiderare sempre “oltre quello che c’è” – visto che niente di creato, di fisico, appaga davvero il desiderio di ogni essere umano – Filippo era solito girare per le strade di Roma, incalzando i giovani con una domanda: “e poi?”.  

Ed è per questa sua vocazione ad illuminare la bellezza tempestosa della gioventù, che a lui è stata intitolata l’Associazione – presieduta da Don Gabriele Vecchione – di cui sabato 12 Aprile u.s. si è celebrata l’inaugurazione al Teatro Palladium di Roma: la “Comunità San Filippo Neri – E poi ?”.  Per l’occasione è andata in scena una splendida performance di teatro-musica-danza, la cui drammaturgia e regia sono state affidate alla cura di Francesco d’Alfonso.

Come accadde a Filippo Neri, anche in Don Gabriele Vecchione – presidente dell’Associazione nonché coordinatore dell’Ufficio per la pastorale universitaria della diocesi di Roma – divampa la vocazione a non lasciare indietro i ragazzi che hanno smarrito, o mai conosciuto, l’unicità della loro bellezza. Perché “essere giovani significa soprattutto essere fragili: inclini ad andare in pezzi a causa dei continui confronti con gli altri”.  Confronti che, non includendo il diritto di sbagliare, possono portare i giovani anche a privarsi della propria vita. 

Ma si può sopravvivere a questa tempesta – ci confida Don Gabriele Vecchione, che con le sue vibranti parole ha aperto l’evento della serata. Incontrando un imprevisto. Ad esempio, incontrando qualcuno che ama e che crede nell’altro. Perché – continua – “nessuno diventa grande senza qualcuno che desidera la sua grandezza”.

E questo si propone di fare l’Associazione “Comunità San Filippo Neri – E poi ?”: essere un imprevisto per chi resta indietro. Disponibile al rischio e al fallimento, perché ciò che davvero conta è non essere mediocri nel donarsi. “Questa è la Chiesa che sogno” – è stata la reazione di S.Em. Card. Baldassarre Reina, che ha presenziato all’evento, una volta a conoscenza del progetto.

© photogennari

E quale miglior forma di imprevisto può rendersi congeniale a celebrare l’inizio di quest’ardente realtà se non quella propria della forma artistica, capace com’è di rappresentare l’irrapresentabile di uno svelamento, spingendosi “oltre quello che c’è” ?

Dario Callà (pianoforte) – Mattia Geracitano (violoncello)

© photogennari

E’ così allora che il sipario si è aperto sul “canto” del violoncello di Mattia Geracitano, incalzato dall’insistenza delle note al pianoforte di Dario Callà, quasi un turbamento a voler frenare quel “canto” che sta cercando la sua espressione. Un “canto del desiderio” che nel suo esplorare una forma può incontrare trattenimenti. Come luminosamente visualizzato dall’incanto danzato di Rebecca Bianchi  – Étoile del Teatro dell’Opera di Roma – assieme ad Alessandro Rende. Ma che poi, grazie anche al sostegno dell’altro, riesce ad aprirsi, a fiorire. Sino a  librarsi nell’aria.

Alessandro Rende – Rebecca Bianchi

© photogennari

Nel dialogo tra musica e danza si inserisce, in un magnifico gioco di specchi, il commento di un coro, composto da quattro attori dalla potente intensità interpretativa: Roberta Azzarone, Irene Ciani, Matteo Santinelli, Marco Tè.

A loro è affidata l’appassionata e appassionante drammaturgia di Francesco d’Alfonso, liberamente ispirata agli scritti del filosofo Byung-Chul Han e a quelli del poeta T. S. Eliot. Una drammaturgia potenziata da uno sguardo registico, ancora curato da Francesco d’Alfonso, dall’elegante raffinatezza, anche iconografica, di tableaux vivants.

Roberta Azzarone, Matteo Santinelli, Irene Ciani, Marco Tè – Rebecca Bianchi e Alessandro Rende

© photogennari

Ecco allora che, come dando voce – il coro – alle tensioni tra i diversi paesaggi del nostro animo, lo spettatore si ritrova rapito in un’esplorazione sull’inaspettata bellezza che si cela nel dolore e nella sofferenza. Ingredienti indispensabili per far divampare quell’eroticità del desiderio vitale, la cui saggezza risiede nell’umiltà del mettersi in ascolto: di se stesso e dell’altro da noi. 

Alessandro Rende – Rebecca Bianchi

© photogennari

E nel saper attendere: con speranza e fiducia nella morbida bellezza dell’imprevisto. Che è qualcosa di ben diverso dall’essere ottimisti che, proprio come l’essere pessimisti, implica la durezza della testardaggine. La speranza no: lei è paradossale. E assomiglia ad un movimento di ricerca che ci rende “pronti ad accogliere ciò che ancora non è nato ma che è pronto a venire al mondo”. Significa accendere una fiamma e tenerla viva: “oltre quello che c’è”. 

© photogennari

Una serata speciale, quella che ha celebrato – in fertile connubio con l’Arte – “il canto del desiderio” di una Comunità che, nata da un sogno, ha iniziato a concretizzarsi in realtà.

Alessandro Rende – Rebecca Bianchi

© photogennari

Testimonianza del potere creativo di un fulgido imprevisto, che ha contagiato di desiderio non solo gli oltre 180 ragazzi “under 25” presenti in sala ma tutto il pubblico che – essendosi stretto generosamente intorno a questa comunità – ha avuto l’opportunità di assistere ad un meraviglioso evento.

Dario Callà, Mattia Geracitano, Roberta Lazzarone, Francesco d’Alfonso, Matteo Santinelli, Irene Ciani, Marco Tè, Rebecca Bianchi, Alessandro Rende

© photogennari


Recensione di Sonia Remoli

Recensione FILIPPO TIMI LIVE – Non sarò mai Elvis Presley – di e con Filippo Timi

TEATRO ARGOT STUDIO

dal 10 al 13 Aprile 2025

Il palco del Teatro Argot Studio di Trastevere – a coronamento dei festeggiamenti per i suoi primi 40 anni (1984-2024)  – ieri sera ha ospitato l’incandescente debutto della prima delle 4 serate live del  “Filippo Timi Live Non sarò mai Elvis Presley”, prodotto da Argot produzioni.

A concertarsi con la sinergica performance musical-canoro-teatrale di Timi, il produttore e compositore romano Lorenzo Minozzi.

Il giocoso exploit di Timi – ricco in improvvisazioni dal fascino esistenzialista – trova avvincenti sinapsi artistiche e filosofiche con la sperimentazione sonora di Minozzi, compositore che fa sua la manipolazione armonica e ritmica di campionamenti ambientali.

Quello di Timi è un canto – e quindi un racconto poetico – sulle origini e su quello che ognuno di noi può farne. Un tema che tutti ci riguarda questo sull’eredità familiare, che come un imprinting ci modella e ci guida, fino ad un certo punto del nostro stare al mondo. E che poi va fatta propria, manipolata criticamente e quindi anche fedelmente tradita. 

Il canto di Timi é meraviglia: viscerale e ludico; ironico e sensuale; provocatorio e tenerissimo. Ha qualcosa di indelebile, di sacro. I temi di cui canta – personalissimi – arrivano con tutta la potenza vibrante di modelli archetipali, dove la burla sa di tragedia e la tragedia dell’abbraccio accogliente di un sorriso.

Lorenzo Minozzi – Filippo Timi

Nel live di ieri sera, come un aedo che ama accompagnarsi non con la cetra ma con l’handpan – uno strumento composto da due gusci in metallo che opportunamente sfiorati producono vibrazioni eteree ed ipnotiche – ha intessuto il canto delle gesta della sua vita, lasciandolo contrappuntare dalle creative sonorità, sapientemente artigianali, del compositore Minozzi. 

Il tutto sullo sfondo di “paesaggi”, che contribuiscono a rievocare l’immaginario del progetto. Ad echi distorti di paesaggi televisivi – parco giochi dell’infanzia – si susseguono così visioni di riscritture paradisiache dell’età adulta. 

In scena “il paesaggio dei paesaggi”, dove le coordinate spazio-temporali si fondono e si confondono: dove il sopra si mescola al sotto; il prima al poi; il pieno al vuoto; il sacro al profano. Dove la giocosità di un circense stare al mondo felliniano si sovrappone ad una francescana natività. Dove “a incarnarsi” è un live, sul quale fa eco la cometa di rituali proiezioni.

Timi ricorda “la sua natività” come un luogo dal buio opprimente e dagli echi disorientanti propri della putrefazione. “Cosce dell’assurdo” da cui scappare “fuori dall’incompiuto”. Un paesaggio chiuso e cupo, ritemprato dalla musicalità della sua lingua natia: il perugino di Ponte San Giovanni.

E poi arriva la magia delle vibrazioni dell’handpan per accompagnare la scoperta della sconsiderata generosità dell’amore: quel “per te”, capace di cambiare i connotati alla realtà. “Per te farò sanguinare i fiori del pregiudizio”: una dichiarazione, un racconto di lotta, di speranza, di resistenza. Veicolato dall’espressività dell’armonica a bocca di Lorenzo Minozzi.

E se poi arriva la scoperta che la felicità “dura il tempo di una bancarella a Santa Marinella”, la cenere può comunque diventare “cipria”. Perché il finale sta anche a noi modellarlo: sdrammatizzando il “cemento ruvido” familiare con il politicamente scorretto dei “Griffin”. Perché l’essere nati da “sassi” immobili, sempre fermi nella loro orizzontalità – così suggestivamente visualizzata anche dalla modalità di percussione della chitarra di Lorenzo Minozzi – non esclude la ricerca e il raggiungimento di quella fluidità espressiva libera dal “giudizio universale”, cancro di prevedibilità.

Un “live” questo di Filippo Timi che scuote e che piacevolmente sorprende, fino ad inebriare lo spettatore di possibilità vitali. 

Perché Timi canta dell’importanza di accorgersi del paradiso nascosto nell’imperfezione dell’imprevisto, così diverso dai nostri progetti.  E fiorire: spuntando comunque, nonostante tutto. Prendendoci “cura anche dei simboli che ognuno di noi è”.

E allora poco importa non essere come Elvis Presley. Anzi, è meglio così.

Un teatro, quello di Filippo Timi, che prende e regala attenzione, in un gioco scenico misterioso e complesso fra parola, suono, musica, teatro. 

Un teatro che è prima di tutto coinvolgimento e come tale “fa volare”: un sogno che se non si può realizzare con le ali, si può assaporare però a piccoli sorsi. Un pò come quel cocktail  che Timi “ci offre”, già entrando in sala. 

Lorenzo Minozzi – Filippo Timi


Recensione di Sonia Remoli

Recensione IL BAMBINO DALLE ORECCHIE GRANDI – scritto e diretto da Francesco Lagi

SPAZIO DIAMANTE

dal 3 al 6 Aprile 2025

Come si mantiene la magia di un incontro, con quella grazia del convergere nell’istante?

E’ un mistero.

E’ qualcosa di segreto.

E’ qualcosa che invita a tenere gli occhi chiusi.

Magari, forse, si può provare iniziando a tenersi il più possibile lontani dalla tentazione tutta umana a voler capire e a voler sapere tutto dell’altro.

Perché più si cerca di capire, più ci si allontana, più non si sente nessun solletico. Anzi, l’altro inizia “a pesare troppo” – come rivelano anche i sogni dei due protagonisti in scena – tanto da desiderare “ridurlo in un formato” a noi più congeniale, da portare e da sopportare.

Anna Bellato – Leonardo Maddalena

Le parole rischiano di ammazzare educatamente a colpi d’ascia ogni tensione erotica, soprattutto se guidano un discorso logico-investigativo. Meglio licenziarle affidandosi alla pelle, proprio come canta Franco Califano:

E’ la pelle, è la pelle
Altro che cuore, luna e stelle
Non sognare, non sperare
Non s’inventa l’amore
Noi, eccoci là
Stanchiamo i corpi e non parliamo mai
C’è il silenzio e parla lui
E lo fa come nessuno

Nello specifico, forse sarebbe meglio evitare di usare parole come: “e poi ?”.

L’inganno è quello di credere di avvicinarsi a qualcosa che arde di verità. In verità ci si sta avvicinando al tepore, se non al freddo. Perché sebbene ci sentiamo spinti a rendere tutto chiaro, in realtà la trasparenza non aiuta a toccarsi: ad incontrarsi intrigantemente.

Ne parlano anche gli oggetti di scena (curati da Salgo Ingala): tutti di vetro o di plexiglass trasparente. Belli, sì, ma solo per un pò. Poi diventano insignificanti, anonimi, assai poco interessanti. Troppo chiari. Sterili.

C’è durata, probabilmente, se si riesce a dare vita a continui nuovi inizi: avendo cura dei nostri piccoli misteri che ci rendono interessanti, proprio perchè poco chiari, sfuggenti. Seducentemente imperfetti.

Ma riuscire a dare vita a continui primi incontri, a continui primi inizi, è decisamente un’arte.

Ecco allora che lo spettacolo si dona come un invito ad imparare ad ascoltare suoni più che parole; ad assaporare il buio più che la luce, in quel viaggio in mare aperto – ricco in imprevedibilità e in mistero – che è la quotidianità. Quella quotidianità diurna che siamo portati, a differenza della notte, a regolamentare in ritualità, così rassicuranti ma necessariamente insipide. Soprattutto se si sta inaugurando una relazione a due.

Perché di giorno siamo diversi da come siamo di notte: tutto un verificare se si hanno gli stessi gusti, le stesse abitudini. Per capire se può funzionare, se può durare. Ma non funziona: non c’è gusto. Non scoppiano fuochi d’artificio.

Meglio sarebbe forse allora osare, rischiando di mandare tutto in pezzi, e poi imparare l’arte di rimetterli insieme. Ricominciando ogni volta. E sbagliando sempre meglio. Perché, come scoprono i due protagonisti, spesso ci si sceglie per i propri difetti comuni.

Si percepisce che il Lui di Leonardo Maddalena e la Lei di Anna Bellato sono in grado di fare fuochi d’artificio: ne parlano i loro occhi in quei rari momenti in cui sono in silenzio. Quando parlano, invece, sembrano voler studiare e fissare complicate coreografie di un minuetto, anziché lasciarsi volteggiare in un valzer. Stringendosi l’un l’altra apertamente a sperimentare, a ogni nuovo e vertiginoso giro, una sensazione di libertà assoluta.

Francesco Lagi

Lo specchio che ci pone di fronte questa sapientemente arguta drammaturgia di Francesco Lagi, ci porta ad esplorare lande personali nient’affatto placide: così reali e insieme così assurde che, solo guardandole attraverso il riflesso della coppia in scena, si rivelano in tutta la loro natura godoniana.

Ma la profonda freschezza poetica di Anna Bellato e di Leonardo Maddalena riescono a rendere stimolante – e finanche divertente – accettare l’invito a viaggiare nel nostro quotidiano, proprio come lo spettacolo ci offre di provare a fare.


Recensione di Sonia Remoli

Recensione HO PAURA TORERO – regia Claudio Longhi

TEATRO ARGENTINA

dal 3 al 17 Aprile 2025

Assomiglia a un colpo di Stato l’amore?

La Fata dell’angolo si lascia capovolgere il cuore – e la soffitta – di fronte alla “collana di perle” del sorriso di Carlos. Che, invece, si lascia bruciare dalla passione irresistibile per il suo Cile da liberare.

Lino Guanciale è la Fata dell’Angolo – Francesco Centorame è Carlos

Era l’11 settembre del 1973 quando a Santiago del Cile si verificò un colpo di Stato, che portò al rovesciamento del governo democraticamente eletto e presieduto da Salvador Allende, a favore di una una giunta militare guidata da Augusto Pinochet che prese il potere.

Claudio Longhi

Lo spettacolo di Claudio Longhi – che si avvale della trasposizione teatrale di Alejando Tantanian all’omonimo romanzo di Pedro Lemebel, tradotto da M.L. Cortaldo e da Giuseppe Mainolfi e del cui spettacolo Lino Guanciale è dramaturg oltre che interprete assieme a Daniele Cavone Felicioni, Francesco Centorame, Michele Dell’Utri, Diana Manea, Mario Pirrello, Sara Putignano, Giulia Trivero – si apre diffondendo nell’aria, e “ricamandolo” sulle tende-sipario, l’ultimo discorso del Presidente Salvador Allende durante le ore di resistenza a La Moneda, la residenza ufficiale del Presidente della Repubblica del Cile. “Che lo sappiano, che lo sentano, che se lo mettano in testa: lascerò La Moneda nel momento in cui porterò a termine il mandato che il popolo mi ha dato, difenderò questa rivoluzione cilena e difenderò il Governo perchè è il mandato che il popolo mi ha affidato”.

Nello specifico quella che apre lo spettacolo è l’ultima parte del discorso di Allende: quella pronunciata intorno alle ore 9:30 del mattino dell’11 settembre 1973, quando le forze aeree stanno bombardando anche le antenne di Radio Magallanes, dopo aver bombardato quelle di Radio Corporatiòn. 

Prima di essere messo a tacere Salvador Allende affida allora alla radio il suo ultimo messaggio: quell’appassionata testimonianza di desiderio di giustizia che influenzerà la futura coscienza del Paese.

Anche per Salvador Allende l’amore per il popolo cileno – e per la giustizia del popolo in generale  – assunse le sembianze si un colpo di Stato. “Sicuramente Radio Magallanes sarà zittita e il metallo tranquillo della mia voce non vi giungerà più. Non importa. Continuerete a sentirla. Starò sempre insieme a voi”.

Le forze di Allende resistettero fino alle 13:45, quando le unità speciali alla fine presero d’assalto il palazzo. Alle 14:00 si udì l’ultimo sparo: Allende si era dato la morte col fucile dell’amico cubano Fidel Castro. Vedendo il corpo, il generale Palácios, uno dei leader golpisti, avvertì il quartier generale della Guarnigione di Santiago: “Missione compiuta. Moneda presa. Presidente morto”. Con queste funeste parole iniziarono 17 anni di feroce dittaturaquella di Augusto Pinochet.

La narrazione del romanzo di Pedro Lemebel è ambientata nel Cile del settembre 1986 quando, alla vigilia dell’anniversario del colpo di stato del Generale Pinochet, il Paese è in grande subbuglio. Un Cile fragile, esasperato da più di un decennio di dittatura, che non dimentica l’assassinio di Allende, la morte di Neruda, la repressione di ogni opposizione, i desaparecidos, la continua crisi economica, l’isolamento internazionale. 

Un Paese però “vigile alla mobilitazione”, come lo aveva invitato a rimanere Allende nel suo ultimo discorso. Come lui, “lottatore sociale”.

Perché “il processo sociale non scomparirà se scompare un dirigente. Potrà ritardare, potrà prolungarsi, ma alla fine non potrà fermarsi”. Perché “la storia non si ferma né con la repressione né con il crimine”. Perché “L’umanità avanza verso la conquista di una vita migliore”.

“Queste sono le mie ultime parole e sono certo che il mio sacrificio non sarà invano, sono certo che, almeno, sarà una lezione morale che castigherà la fellonia, la codardia e il tradimento” (Salvador Allende).

In questo stato di alta tensione sociale del 1986, la narrazione della storia personale di Carlos e Fata, viene contrappuntata a quella di un’altra coppia: quella di Pinochet e di sua moglie  Lucía Hiriart. Anche Claudio Longhi, come Pedro Lemebel,  ne restituisce tutta la bellezza di due accattivanti linee narrativo-melodiche simultanee e giustapposte che si estendono, al di là delle diverse dinamiche erotiche, alla complessità del genere umano e dei rapporti interpersonali.

Oppresso da una moglie in preda ad un’eccessiva loquacità e mordace verso le abitudini private del marito, nonché tormentato da traumi infantili, Pinochet era solito in quegli anni andare e venire dal proprio ‘retiro’ di Cajón del Maipo, che domina Santiago dall’alto. Anche qui, sulla scena curata da Guia Buzzi, in sinergia con il disegno luci di Max Mugnai, il visual design di Riccardo Frati e i 
travestimenti musicali di Davide Fasulo

L’incisiva e straniante musicalità vocale – autoritaria e flemmatica – di Mario Pirrello, interprete del dittatore cileno, ben si accorda per opportuna giustapposizione con quella stridulmente rauca della Lucía di Sara Putignano, elegante rapace in chanel.

Sara Putignano è Lucía Hiriart – Mario Pirrello è Augusto Pinochet

Ed è davvero efficace come Gianluca Sbicca, a cui è affidata la cura dei costumi, sottolinei il carattere emergente del personaggio di Lucía – che anche prossemicamente fatica a restare “seduta a fianco” del dittatore – attraverso i suoi abiti: quei tailleur chanel  – simbolo delle donne della borghesia chic, indipendente, moderna – declinati in sempre nuovi colori e nuove trame in tweed. Tessuto fino a quel momento riservato all’abbigliamento maschile. 

E così, proprio grazie a questo sapiente gioco narrativo e musicale delle due coppie, di fronte alla mortificante relazione della coppia costituita da Lucía Hiriart e Augusto Pinochet si staglia la bellezza vaporosa della prossemica dei corteggiamenti tra la maliziosamente garbata Fata e il “suo” Carlos dei “poi ti spiego”. 

(ph. Masiar Pasquali)

La Fata di Lino Guanciale brilla in credibilissima leggiadria, dalle sincere sfumature sensuali.

Lei, travestito passionale e canterino, ricamatrice dei quartieri alti, come farfalla sa svolazzare intorno al fiore del suo amore, dal quale riceve una nuova iniezione di vitalità per le sue membra e per il suo cuore, oramai intorpiditi. Da autentica amante, poi, sa lasciarsi sedurre – più che preoccupare – dall’alone di mistero di cui Carlos ama ammantarsi.

Lei che ha bisogno di chiudere gli occhi per riaversi da tanta inaspettata felicità, sa che nulla nella vita può essere perfetto e quindi a nulla vale farsi preda della rabbia, o del rancore. Ad esempio, per le improvvise fughe del suo amato, del quale sente – fino a rimanerne contagiata – la bruciante passione per la politica. Il Carlos di Francesco Centorame esprime, infatti, tutta l’affascinante e impaziente passionalità di un giovane patriota, che dà forma ad un microcosmo clandestino. Proprio lì, nell’insospettabile soffitta della Fata dell’angolo, per riuscire ad evitare le conseguenze della repressione.

Carlos si rivelerà associato al Fronte Patriottico Manuel Rodríguez:  un’associazione clandestina di stampo rivoluzionario, dall’ideologia marxista-leninista e con lo scopo di ribaltare la dittatura militare di Augusto Pinochet. Questa organizzazione inizialmente costituiva l’apparato militare del Partito Comunista cileno, e con il suo appoggio svolgeva diverse azioni contro la dittatura, talvolta con l’uso delle armi in forma di “guerriglia urbana”. Ma il movimento venne poi considerato a stampo terroristico e questo provocò la separazione dal Partico Comunista. 

«Gli sbirri di qui e i terroristi di là, quel Fronte patriottico non so cosa, e tutte le pene di quella povera gente a cui avevano ammazzato un familiare. Immancabilmente, quell’argomento riusciva a commuoverla, quando ascoltava le testimonianze radiofoniche ricamando lenzuola per la gente ricca, con rose senza spine» (da “Ho paura torero” di Pedro Lemebel).

L’arte del ricamo, alla quale fu avvicinata dalle sue amiche checche del quartiere della Recoleta – la Lupe, la Fabiola e la Rana – non rimase per Fata relegata all’atto pratico dell’ornare tele. Ma si trasformò in un’arte della punteggiatura e quindi di scrittura, capace di infiorettare una storia con dettagli, a volte anche poco veritieri, pur di renderla più interessante ed avvincente. Ne sono una prova le tele ricamate con le quali Fata veste le casse che accetta di ospitare in casa, regalando loro una nuova identità d’arredo.

Perché Fata è un inno al femminile, non tanto e non solo come genere, ma come preziosa componente creativa del nostro stare al mondo. Non a caso anche Salvator Allende nel suo ultimo discorso ringrazia innanzi tutto le donne del suo Cile: “Mi rivolgo a voi, soprattutto alla modesta donna della nostra terra, alla contadina che credette in noi, alla madre che seppe della nostra preoccupazione per i bambini”.

 “Ho paura, torero, ho paura che stasera il tuo sorriso svanisca” – cantavano artiste come Sara Montiel e Lola Flores. E con loro La Fata dell’angolo. Ma “La storia non si ferma né con la repressione né con il crimine…  Il processo sociale non scomparirà se scompare un dirigente. Potrà ritardare, potrà prolungarsi, ma alla fine non potrà fermarsi.  Mi appello a voi per dirvi di avere fede” (Salvator Allende).


Recensione di Sonia Remoli

Recensione LA PULCE NELL’ORECCHIO – regia Carmelo Rifici

TEATRO VASCELLO

dal 28 Marzo al 6 Aprile 2025


Un’idea alla quale non si riesce a smettere di pensare, essendo stato versato nelle nostre orecchie un sospetto per far sì che diventi un assillante dubbio, è quella che si è soliti definire “una pulce nell’orecchio”. Un’idea così disperatamente insinuante, da risultare simile all’effetto provocabile da una pulce che, una volta entrata nell’orecchio e muovendosi per uscirne, non fa altro che ricordare continuamente la propria fastidiosa presenza. 

Drammaturgicamente l’idea rappresenta un’occasione per costruire uno spassosissimo e super adrenalinico meccanismo tragicomico – e Georges Feydeau (1862-1921) ne era un grande maestro essendo, oltre che attore e drammaturgo, anche orologiaio, ingegnere, appassionato di matematica e del gioco degli scacchi. 

Georges Feydeau

Esistenzialmente rappresenta invece una dinamica relazionale, che sottende shakespearianamente alla conoscenza di una certa inclinazione tutta umana: quella alla sopraffazione. Inclinazione con la quale tutti veniamo, fin da subito, gettati al mondo. Per “sopravvivere”. 

Aprirsi a “vivere” – e quindi ad amare – è un passaggio esistenziale successivo, che richiede un desiderio e un impegno educativo verso l’arte di entrare “in relazione” con l’altro. Cercando sempre nuovi equilibri per non sopraffare e per non restare sopraffatti.

Ecco allora che il sospetto – generato dalla pulce nell’orecchio – rappresenta una postura esistenziale che ci parla del nostro istintivo difenderci dall’essere oggetto di “uno scacco” da parte dell’altro. Qui in questo testo, nello specifico, tutti sospettano di aver subito un tradimento. Perché, sebbene l’occasione nasca dal sospetto e dai relativi fraintendimenti riguardanti una singola coppia (Raimonda e Vittorio Emanuele) chi ne viene a conoscenza ne resta come contagiato “a specchio”, cadendo nella trappola del dubbio di esserne a sua volta oggetto.


“Essere traditi” è un trauma-tabù che ci mette decisamente in allarme. Nasce come un sospetto, che poi può gonfiarsi fino ad assumere connotazioni via via sempre più invadenti. 

Ma “tradire” è un impulso naturale ed istintivo.

Carmelo Rifici

Ed è questa la pulce che intende introdurci nell’orecchio il regista Carmelo Rifici, che insieme a Tindaro Granata ha curato la traduzione, l’adattamento e la drammaturgia di questo spettacolo: indirizzare la nostra attenzione sulla potenza difficilmente controllabile della nostra psiche.

Spettacolosa visualizzazione ne è la volutamente disorientante scenografia, solo apparentemente un tradimento allo stile del vaudeville tutto porte, armadi e letti sfatti alla Georges Feydeau. Qui, infatti, il regista Rifici chiede all’acuto estro di Guido Buganza di realizzare una scena aperta, destrutturata, proprio per poter essere disponibile a rendersi continuamente modulabile. Adattabile alle diverse esigenze che le aree della nostra psiche, come turbolenti condòmini di un hotel, reclamano. Divertentissimo, il sapiente gioco registico attraverso cui queste aree di volta in volta, a seconda delle situazioni emotive, vengono “abitate” dagli interpreti in scena. Una coralità attoriale dalla musicalità matematica assai efficace e trascinante. 

12 attori (alcuni chiamati a un doppio ruolo) donano infatti una vitalità folle a 15 personaggi che convivono in uno spazio franco: regno dell’equivoco, del doppio, di una babele di lingue e di difetti. E che non si capiscono quasi mai fra loro, ma proprio per questo si guardano con curiosità, si cercano, s’inseguono. 

Sono: Giusto CucchiariniAlfonso De VreeseGiulia Heathfield Di RenziUgo FioreTindaro GranataChristian La RosaMarta Malvestiti; Marco Mavaracchio; Francesca OssoAlberto PirazziniEmilia TiburziCarlotta Viscovo.

“Sono il primo a divertirmi quando posso sistemare faccia a faccia due personaggi che non dovrebbero mai incontrarsi. La comicità è la riflessione naturale di un dramma” – ci rivela Carmelo Rifici.

Al centro degli elementi modulari della scenografia, resta l’archetipo dell’armadio che – in una concatenazione di dinamiche surreali, che vanno al di là dei principi della logica (ovvero il principio di identità e di non contraddizione e il principio di causa-effetto) – può essere non solo un armadio ma anche una lavagna, una cabina telefonica e molto altro ancora. Insomma un crogiolo di soluzioni creative, proprie del linguaggio creativamente inconscio della nostra psiche. 

Una creatività fuori dall’ordinario che ci permette di non dimenticare come al di là di ogni ipocrisia sociale ed esistenziale (vedi un presunto controllo egoico sulle altre parti della nostra psiche) noi siamo in verità curiosissimi di provare e gustare tutto. Proprio come avviene nel teatro che va in scena ogni notte nei nostri sogni. Potenzialmente liberi da gabbie logiche e moralistiche.

E dalle pareti separatorie di porte, armadi, o compartimenti di altra natura. Come quella rappresentata dal palato, ad esempio: una parete che se forata non permette l’espressione fonetica delle consonanti. E Tindaro Granata nel ruolo di Camillo ci rende tutta la tenera disperazione di chi si sente un diverso e quindi “uno sconosciuto”: non a caso, qui in Rifici, prende sembianze che alludono a quelle di Charlot. Come lui è infatti un pò l’emblema dell’alienazione umana.

Ma è innegabile, anche, come il suo linguaggio “manchevole” sappia risultare – a chi lo ascolta con curiosa attenzione – comprensibile, seppure al di là delle “pareti” della logica. 

Rifici chiede inoltre ai propri attori di essere così accoglienti da offrire ospitalità alla multiforme natura del linguaggio, rendendone i colori più intraducibili verbalmente attraverso la musicalità seducentemente inquietante di strumenti musicali, in osmotico dialogo con la scena.  

Una scena che con sagacia elegantemente giocosa Guido Buganza immagina e realizza ispirandosi argutamente alla concezione scenica di Adolphe Appia (1862 – 1928), che scardinò il senso della messinscena, generando un’attenzione tutta nuova verso la componente emotiva del linguaggio scenico. Dove il regista non è più l’unico artefice della trasmissione del messaggio del testo letterario: anche la scenografia e la drammaturgia luminosa vi concorrono, andando al di là della precedente funzione esclusivamente realistica. 

Nasce così la nuova architettura del “palcoscenico plastico”, in cui i fondali e le quinte dipinte sono sostituite da praticabili posti su piani diversi e da scivoli che permettono all’attore  movimenti che rivelano plasticamente l’apparenza eternamente fluttuante del mondo fenomenico. Un teatro, il suo, non tanto della “rappresentazione” quanto della “relazione tra attore e spettatore”. Uno spazio sempre meno “edificio” ma sempre più “una questione di valori”: necessario strumento linguistico ed espressivo di un ritmo scenico.

Quel ritmo che, qui in Rifici, è immanente e trascendente il contesto teatrale – ricco com’è di riferimenti extratestuali quali “Tanto rumore per nulla” di Shakespeare, “I giganti della montagna” e “Sei personaggi in cerca d’autore” di Pirandello e ancora la Maieutica socratica.  E che diviene una denuncia giocosamente perspicace della nostra ipocrisia esistenziale, nonché del nostro impoverimento esperienziale su “ta erotika”: quelle “cose dell’amore”, di cui Socrate parla nel “Simposio” di Platone.

Affinché il nostro vivere soggettivo e civile sia sempre meno ossessionato da pretese di sicurezza protettiva: imparando a stare al mondo senza “bretelle”, insomma. Progressivamente meno sospettosi nell’investire tempo e risorse per “assicurare” l’altro.

Perché l’altro è uno sconosciuto sì, ma uno straniero che ci assomiglia, più di quanto immaginiamo. Decisamente prezioso per conoscere meglio noi stessi.

Perché “la primavera non è mai troppa”.

Ma soprattutto perché “nessuno muore mai veramente”.


Recensione di Sonia Remoli

VISITA AL PADRE di Norm Foster – Rassegna di drammaturgia contemporanea “Parole d’autore”

TEATRO ARGENTINA

24 Marzo 2025

Secondo irrinunciabile appuntamento della Rassegna di Drammaturgia Contemporanea “Parole d’autore”, quello della serata di ieri 24 Marzo. L’ideatore della Rassegna – il regista e direttore artistico Piero Maccarinelli – e la Fondazione del Teatro di Roma hanno proposto all’attenzione del pubblico del Teatro Argentina un testo inedito, attraverso la voce e il gesto di uno dei più importanti protagonisti del teatro contemporaneo: Massimo De Francovich

L’inedito era “Visita al padre”, un testo del più prolifico e rappresentato drammaturgo canadese contemporaneo: Norm Foster. Testo la cui traduzione e il relativo adattamento sono stati curati da Pino Tierno; la composizione delle musiche da Antonio Di Pofi; la regia da Piero Maccarinelli.

Norm Foster

Il pubblico romano ha risposto con generosità all’invito e, una volta in sala, si è lasciato coinvolgere intensamente dal testo in scena. Merito della raffinatissima e accattivante interpretazione di Massimo De Francovich, nel ruolo del padre. Di Maximilian Nisi, l’acuta efficacia di aver restituito i colori della carezzevole distanza di un figlio nei confronti del padre. 

La brillante ironia del testo riesce a contagiare fin da subito l’attenzione curiosa dello spettatore, nel momento in cui ne rivela, parallelamente, sfumature di cordiale ferocia. 

Sfumature che il padre interpretato da Massimo De Francovich rimanda allo spettatore con grande bellezza, attraverso impercettibili smorfie di vocalità onomatopeica che, ben indirizzate con ironia schietta, diventano strumento di sfida intelligente nei confronti del figlio.

Massimo De Francovich – Maximilian Lisi

I due interpreti, accordatissimi tra loro, hanno commosso il pubblico nel confessare poeticamente come lo scintillio dello loro punzecchiature  ironiche non fosse che uno schermo luminoso sulle celate solitudini di entrambi.

Quella narrata è infatti la storia di un uomo, “Un cuore gentile”, che si lascerà sorprendere da un gesto inaspettato. Un gesto che poi resterà “Inciso nella pietra”: né la moglie, né la figlia riusciranno a perdonarlo, tanto si inciderà nel loro cuore. Un gesto che solo il figlio darà prova di saper metabolizzare, al di là degli “Smarrimenti familiari”. 

Un figlio, quello di Maximilian Nisi, che cerca, e trova, quel desiderio capace di “saper vedere” alcune misteriose scelte del padre: le stesse che hanno fatto naufragare il rapporto con la moglie e con la figlia.

Un “vedere”, il suo, che si dà con l’accoglienza di “offrire uno sguardo”. E che, prescindendo dalla vista, riesce a cogliere quella che è stata “l’intenzione” paterna: custodire, preservare, prendersi cura. 

Massimo De Francovich

Ed è di sublime bellezza vedere questo figlio nutrire un interesse che va al di là dello scandalo: un interesse donato a qualcuno proprio in quanto fragile e imperfetto.

Lunghissimi gli applausi di riconoscente apprezzamento da parte del pubblico al termine della performance: un pubblico che non riusciva a lasciar andar via  Massimo De Francovich  e Maximilian Nisi.


L’evento si è inserito all’interno della Rassegna “Parole d’Autore”, un’iniziativa che prosegue il lavoro de “I Lunedì di Artisti Riuniti” e di “Lingua Madre”, dedicata alla drammaturgia contemporanea. Dopo il successo della scorsa stagione con “Il Premier” di Giuseppe Manfridi, la Rassegna ha proposto quest’anno, oltre a “Visita al padre”, anche l’appuntamento del 20 marzo alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea intitolato “I funerali di Corrao”. Un testo di Emilio Isgrò, artista dell’anno per la Galleria, dedicato alla figura del sindaco di Gibellina, protagonista della ricostruzione post-terremoto e ideatore del Cretto di Burri. Un evento promosso da Piero Maccarinelli con la Compagnia Umberto Orsini, in collaborazione con SIAE.



Recensione di Sonia Remoli